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Autore: Duvrangrgata    14/09/2019    1 recensioni
Enea lavora come tatuatore a Milano, ma il suo cuore apparterrà sempre a Firenze, la città dove è nato e cresciuto e da cui è scappato a soli diciotto anni, lasciandosi alle spalle l’unica famiglia che conoscesse.
Una telefonata inaspettata lo metterà davanti a una scelta: restare a Milano a vivere la nuova vita che si è faticosamente costruito oppure tornare a casa, dove i fantasmi del suo passato non hanno mai smesso di aspettare il suo ritorno.
VERSIONE REVISIONATA E ALLUNGATA DI "CERTI TATUAGGI FANNO MALE ANNI DOPO CHE LI HAI FATTI, MA PER QUELLO CHE RICORDANO", pubblicata su EFP nel 2013.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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VIII

 

 

I tried to heal your broken heart with all that I could

Will you stay?

Will you stay away forever?

How do I live without the ones I love?

Time still turns the pages of the book its burned

Place and time always on my mind

I have so much to say but you’re so far away

 

So far away – Avenged Sevenfold

 

 

«Fantastico come sempre, Enea.»

Il cliente, un ragazzo sulla ventina, gli rivolse un sorriso accattivante, osservando soddisfatto il tatuaggio di un Auryn – due serpenti, uno chiaro e uno scuro, che s’intrecciavano, mordendosi la coda a vicenda e formando un cerchio – che Enea aveva appena finito di tatuargli sulla spalla destra.

Enea fece un cenno disinteressato, iniziando a riordinare la sua postazione senza degnarlo di uno sguardo, nemmeno quando l'altro si appoggiò al bancone, schiarendosi la gola. «Per il prezzo?»

«Sono centocinquanta euro», rispose Enea, atono.

«Oh, andiamo! Nemmeno uno sconticino per inaugurare il tuo ritorno da Firenze?», domandò l'altro, avvicinandosi ancora di più, gli occhi che continuavano a cercare i suoi.

«Scordatelo», ribatté, stringendo i denti per cercare di ricacciare indietro i ricordi che il nome della sua città natale non falliva mai di riportargli alla mente.

«Nemmeno in onore di ieri notte?» ribatté l’altro languidamente, continuando a fissarlo finché non sbuffò, mettendo giù la macchinetta per fare i tatuaggi e guardandolo senza cercare neanche di nascondere il suo fastidio. «Senti, non so con chi tu creda di avere a che fare, ma il fatto che ti abbia scopato un paio di volte mentre ero ubriaco non ti autorizza ad avanzare pretese del genere. Hai avuto il tuo tatuaggio, ora paga e levati dai coglioni.»

Il ragazzo lo afferrò per il colletto della maglia, strattonandolo. «Come ti permetti, brutto...»

«Levami le mani di dosso, ora

La voce di Enea assomigliava sempre di più al sibilo di un serpente pronto ad attaccare, e sicuramente la questione – a giudicare dall'espressione di entrambi – sarebbe sfociata in una rissa, se improvvisamente una voce infuriata non li avesse interrotti.

«Cosa cazzo sta succedendo qui, eh?», urlò il nuovo arrivato, Arkadij, un metro e novanta di muscoli e tatuaggi con un leggero accento russo, scrutando con faccia truce i due ragazzi.

«Niente», sbottò Enea, liberandosi dalla presa dell'altro con uno strattone, «semplice divergenza di opinioni.»

«Sì, infatti», concordò il cliente a denti stretti, lanciando i soldi sul bancone e uscendo dalla stanza come una furia, imitato poco dopo dallo stesso Enea, che si diresse a passo di marcia verso l'uscita sul retro, sbattendosi la porta di metallo alle spalle con tanta forza da far tremare le pareti.

«Ascoltami bene, ragazzino», ringhiò Arkadij, raggiungendolo all'esterno quasi immediatamente, «non me ne frega un cazzo se ti sei alzato dal lato sbagliato del letto, non voglio vedere scene del genere nel mio negozio.»

«Credevo fosse il nostro negozio», rispose atono Enea, osservando con sguardo assente il fumo che gli usciva dalla bocca. Non fumava mai, a meno che non fosse incazzato, depresso o nervoso – o tutte e tre le cose insieme – e la quasi rissa con quel coglione aveva destabilizzato il suo già precario umore, rendendogli assolutamente necessaria una pausa sigaretta.

«Questo è tutto da vedere, ragazzino», lo minacciò il suo socio, «quindi smettila di fare cazzone, scolla tuo culo da questo fottutissimo muro e torna di là a fare quello che sai fare meglio e per cui ti pago.»

Quando si arrabbiava, Arkadij non solo dimenticava gli articoli, ma quello che era un leggero accento russo si faceva ancora più marcato.

Soddisfatto della sua ramanzina, l'uomo si voltò e rientrò, lasciandolo solo con i suoi pensieri. Enea si prese qualche altro minuto per calmarsi e finire la sua sigaretta, il fumo che gli invadeva i polmoni, rilassandolo come poche altre cose – o persone – al mondo erano in grado di fare. Quando ebbe finito buttò la cicca, pestandola con un piede e rientrando poi nello studio. Il russo gli dava le spalle, impegnato a pulire la sua macchinetta, e non diede alcun segno di averlo sentito rientrare.

«Arkadij...», borbottò, passandosi una mano tra i capelli e cercando le parole per scusarsi, ma l'altro lo fermò, interrompendo quello che stava facendo e girandosi verso di lui. «Non me ne faccio un cazzo delle tue scuse, ragazzino. Non so cosa sia successo a Firenze e non voglio neanche saperlo, ma non deve interferire con lavoro, perché se dovesse succedere sarei costretto a licenziarti e non ho di certo tempo da perdere per trovare qualcuno che ti rimpiazzi.»

«Non è successo niente a Fir...», tentò di negare, inutilmente, Enea.

«Ho detto che non voglio saperlo, non che puoi raccontarmi cazzate. Se non riesci a gestire la situazione, ti consiglio di andare a parlare con Arturo, prima che ti sfugga di mano e finisci per tornare in cella», senza neanche dargli il tempo di ribattere l'uomo lo sorpassò, andando incontro al cliente che era appena entrato.

Arkadij Nikolaevic Petrov, detto il Lupo, cinquantaquattro anni, non era sicuramente il tipo da dilungarsi troppo – come Enea aveva avuto modo di notare da due anni a quella parte – e nemmeno si faceva i fatti altrui o chiedeva cosa ci fosse che non andasse. Lui osservava e notava tutto, ma non chiedeva mai. Aspettava che fossero gli altri a confidarsi, con una pazienza che raramente dimostrava di avere in altre attività.

In realtà, Enea voleva confidarsi con Arkadij, ma si sentiva come se le parole gli si fossero impigliate in gola. Più di una volta era stato sul punto di parlargli, ma non ce l'aveva mai fatta. E poi, cosa avrebbe potuto dirgli? “Ho fatto un'enorme cazzata: sono andato a letto con mio fratello e la mattina dopo sono scappato come un codardo mentre ancora dormiva”?

«Arkadij, ti dispiace se oggi inizio la pausa pranzo un po' prima?», chiese titubante, sospirando sollevato al cenno sbrigativo che l'altro gli rivolse e dirigendosi poi a passo svelto fuori dallo studio e quindi in strada.

Iniziò a vagare per Milano, le mani infilate nelle tasche. Dopo qualche minuto, con uno sbuffo irritato tirò fuori il cellulare e compose velocemente un numero che ormai conosceva a memoria per quante volte l'aveva digitato da un mese a quella parte, senza mai avere il coraggio di chiamarlo. E quella volta, ovviamente, non fece eccezione. Rimase a fissare lo schermo del telefono per quella che gli parve un'eternità, prima di cancellare e digitare un altro numero, sfiorando poi il tasto di chiamata. Dopo aver rifiutato le chiamate di Yelena per più di due settimane, alla fine si era arreso al bisogno di parlare con qualcuno — perché sapeva che Elia le aveva detto tutto — e avevano avuto una lunga conversazione un paio di giorni prima. A livello decisionale non avevano fatto progressi, ma non importava quanto Enea le dicesse che non aveva alcuna intenzione di parlare con Elia, Yelena non sembrava intenzionata ad arrendersi.

«Spero ci sia una buona ragione per questa tua chiamata di prima mattina, Enea!», borbottò la ragazza appena rispose alla chiamata, facendolo ridere.

«Prima mattina? Sono le undici passate!»

«Appunto, è praticamente l'alba!», sbottò la ragazza, mentre in sottofondo si sentiva un rumore di passi seguito da un tramestio di tazze e posate.

«A che ora sei tornata ieri sera, Yelena?», chiese Enea, spegnendo la cicca sotto la scarpa.

«Tornata? Chi ti dice che fossi uscita?», borbottò nuovamente la ragazza, evasiva.

Enea alzò un sopracciglio, dubbioso. «Non c'è bisogno che qualcuno me lo dica, Yele, ti conosco.»

«Anche io conosco te, se per questo. Come mai mi hai chiamato a quest'ora?»

«Cos'è questo, un tentativo di eludere il discorso?»

«Ma guarda, stavo proprio per farti la stessa domanda», ribatté la ragazza in tono serio, aggiungendo poco dopo, «hai intenzione di dirmi cos’è successo? Dovresti ancora essere al lavoro, a quest'ora.»

Enea si leccò le labbra, indeciso, poi sussurrò, talmente piano che si sentì a stento, «ho quasi fatto a botte con un tipo e Arkadij mi ha concesso di iniziare prima la pausa pranzo per schiarirmi le idee.»

«Che cosa?! Perché?!»

«Ha tentato di far leva sul fatto che fossi andato a letto con lui per avere uno sconto sul suo nuovo tatuaggio.»

«Tutto qui? Non hai bisogno che ti ricordi cosa rischi se finisci con una denuncia per rissa, vero?»

Enea poteva quasi vederla, seduta in cucina a sorseggiare una tazza di caffè, le sopracciglia aggrottate per la perplessità e la preoccupazione.

«Già», sussurrò, lasciando vagare lo sguardo sulla città senza realmente vederla.

«No che non è tutto qui, invece», aggiunse lei qualche secondo dopo, la voce seria come poche volte il ragazzo l'aveva sentita, «nessuno meglio di te sa che rischi si corrono a perdere il controllo in questo modo, non cadresti mai nello stesso errore, non così facilmente almeno. Cosa non mi stai dicendo?»

«Niente, è solo che...», tentennò passandosi la lingua sulle labbra, «ha detto “Nemmeno uno sconticino per inaugurare il tuo ritorno da Firenze?”»

Yelena rimase in silenzio per qualche secondo, la linea disturbata solo dal suono del respiro della ragazza. «Cosa pensi di fare?», chiese alla fine.

«In merito a cosa?», ribatté, fingendo di non capire.

«Enea...», Yelena sbuffò, esasperata, «non puoi scattare e picchiare la gente ogni volta che qualcuno nomina la parola “Firenze” o “fratello”, lo sai. Potresti finire di nuovo in prigione!»

«Non ho così poco autocontrollo, Yele.»

«Ti sei irrigidito appena le ho dette e non negare!», il ragazzo sospirò, passandosi una mano fra i capelli. «Non so cosa fare.»

«Sì che lo sai. Lo sappiamo entrambi», mormorò dolcemente la ragazza.

«Non posso», sussurrò lui chiudendo gli occhi, «non posso.»

«Come diceva il grande Rafiki: “Il passato può fare male. Ma a mio modo di vedere dal passato puoi scappare... oppure imparare qualcosa.”», ribatté la ragazza con finto tono saggio, facendolo sbuffare.

«Scherzi a parte», continuò Yelena, «dovresti chiamarlo, dico sul serio. Farebbe bene ad entrambi.»

 

***

 

Will you stand when it all burns down?

Will you love when it all burns down?

Will it end when it all burns down?

Will you just let it all burn down?

 

Let it burn - Red

 

 

«Un altro giro, Enea? Offro io!», chiese Andrea, urlando per farsi sentire al di sopra della musica assordante che riempiva il locale. Enea distolse lo sguardo dalla folla che si muoveva a tempo in mezzo alla pista, facendo un cenno di assenso all'indirizzo dell'amico, che sparì in fretta in direzione del bar. Quando Andrea l'aveva chiamato, chiedendogli se gli andasse di fare un salto all'inaugurazione di una nuova discoteca, Enea non ci aveva pensato due volte e aveva subito accettato, consapevole che il mattino dopo se ne sarebbe pentito, causa mal di testa insopportabile per il troppo consumo di alcool.

Annoiato e consapevole delle ore che ci avrebbe messo Andrea per tornare a causa della folla, lasciò vagare pigramente lo sguardo per la sala alla ricerca di Davide, il quale era sparito pochi minuti dopo che erano arrivati, deciso a trovare una ragazza con la quale intrattenersi piacevolmente tra un drink e l'altro. Un'accurata ispezione rivelò però che il suo amico era stato inghiottito dalla folla – oppure aveva trascinato la sua conquista di quella sera nei bagni della discoteca e in quel momento se la stava spassando molto più di lui.

Andrea ricomparve quasi venti minuti dopo, lasciandosi cadere al suo fianco e allungandogli il suo drink. «Davide è sparito come sempre, vero?», chiese poi, sorseggiando il suo Mojito e scrutando fra la folla.

«Ovviamente», sbuffò Enea, girando il ghiaccio nel bicchiere con la cannuccia.

«Merda, abbiamo un problema», disse improvvisamente Andrea, indicando tra la folla con un cenno della testa. Enea seguì il suo sguardo e vide Davide sospeso a qualche centimetro da terra, tenuto per il colletto della camicia da un energumeno muscoloso di almeno due metri che sembrava intenzionato a spaccargli la faccia.

«Maledizione, un'altra volta!», sbottò Enea alzandosi e dirigendosi verso i due, subito seguito da Andrea, le cui imprecazioni vennero inghiottite dalla musica alta man mano che si facevano largo a gomitate tra la folla. Enea sapeva quanto fosse rischioso per uno con i suoi precedenti intervenire in una situazione del genere, ma non era il tipo da lasciare gli amici in difficoltà.

«Ehi amico, calmati, volevo solo divertirmi un po'!», stava biascicando Davide, completamente ubriaco, cercando debolmente di liberarsi dalla presa dell'altro uomo, il quale sembrava del tutto intenzionato ad ucciderlo, nonostante una bionda con un enorme davanzale e in precario equilibrio su un paio di tacchi altissimi gli si fosse aggrappata addosso per tentare di fermarlo.

«Divertirti?! Con la mia ragazza?!», ringhiò l'energumeno, preparandosi a sferrare quello che sarebbe stato certamente un pugno molto doloroso, se solo Enea non fosse intervenuto, bloccandolo. «Ehi, Fermo! Sono sicuro che ci sia un modo migliore per risolvere la questione, magari senza ricorrere alle mani!», disse velocemente, trattenendo l'uomo per un braccio mentre Andrea afferrava Davide e lo sottraeva alla sua presa.

«Ah, ma davvero? E se invece io volessi spaccare la faccia al tuo amico? Come pensi di impedirmelo?», ringhiò l'uomo, cercando di divincolarsi dalla presa di Enea per avventarsi nuovamente su Davide.

«Sono sicuro che il mio amico non avesse idea che quella fosse la tua ragazza! Insomma, guardalo, è ubriaco fradicio!», disse Enea a denti stretti, cercando di usare il tono più conciliante presente nel suo repertorio. Sentiva la rabbia ribollirgli nelle vene e la voglia di colpire il tipo con tutta la sua forza, ma riuscì a trattenersi. Aveva troppo da perdere per rischiare di finire di nuovo in prigione — o di uccidere qualcuno, visto che era troppo emotivamente instabile per riuscire a mantenere qualsiasi controllo, dopo il primo colpo.

«Non... non è vero...», stava biascicando Davide intanto, le parole che si udivano a stento al di sopra della musica, «non... non sono... ubriaco... sono... sono solo brillo. E poi è stata lei a saltarmi addosso, con quelle enormi tett...»

Prima che Enea potesse anche solo pensare di fare qualcosa – come uccidere Davide e la sua linguaccia o afferrare lui e Andrea e darsela a gambe – l'energumeno gli rifilò un pugno e saltò addosso a Davide. Enea crollò a terra, il sangue che gli imbrattava il viso e tanti puntini colorati che gli danzavano davanti agli occhi, mentre il naso gli pulsava dolorosamente.

«Ehi, basta! Smettetela!» Un paio di braccia lo sollevarono di peso e lo trascinarono via attraverso la folla, mentre un paio di buttafuori staccavano l'uomo da Davide e Andrea, che si era messo in mezzo per impedire che il primo si facesse troppo male a causa della sua stupidità. Quando si fu ripreso abbastanza, Enea si accorse di essere disteso su un divano, mentre diverse voci, tra cui quella preoccupata di Andrea, schiamazzavano sopra di lui. Nel suo campo visivo improvvisamente entrò un ragazzo sui venticinque anni, che lo aiutò a mettersi seduto, porgendogli un fazzoletto affinché si tamponasse il naso. «Tieni, dovrebbe fermare l'emorragia.»

Con un gemito, Enea si premette il tessuto sul viso impiastricciato di sangue, cercando di contenere i danni.

«Come ti senti?», gli chiese lo sconosciuto, buttando in un cestino i resti del fazzoletto una volta che il flusso di sangue si fu arrestato.

«Dolorante, ma vivo. Credo che quello stronzo mi abbia rotto il naso», gemette Enea, facendo sorridere l'altro.

«Fammi controllare», disse il ragazzo, avvicinandoglisi.

«Sei sicuro di sapere cosa stai facendo?» chiese Enea preoccupato, «ci tengo al mio naso.»

«Studio medicina», spiegò il ragazzo, «quindi stai tranquillo, avrai ancora il tuo naso quando avrò finito.»

Enea suo malgrado si ritrovò a sorridere, mentre il ragazzo sconosciuto gli tastava delicatamente il volto.

«Allora, dottore, qual è la diagnosi?»

L’altro sorrise. «A mio parere il suo naso non è rotto, ma le consiglio di metterci su qualcosa al più presto e, in caso di peggioramento, recarsi in ospedale, signor...»

«Enea Liberti.»

«Io sono Stefano», si presentò l'altro, «ti stringerei la mano, ma temo che ti imbratterei di sangue ancora di più!» scherzò, sciacquandosi le mani in una bacinella d'acqua che qualcuno aveva portato. Prima che Enea potesse aggiungere qualcosa la voce di Andrea, tornato nella stanza, lo distrasse. «Ehi, amico. Come va?»

«Sto bene», lo rassicurò, «Davide?»

Andrea alzò gli occhi al cielo. «Uno dei buttafuori l'ha accompagnato all'esterno. Pensa che un po' di aria fresca gli farà passare la sbronza.»

«La sbronza è l'ultimo dei suoi problemi. Il mal di testa che avrà domani mattina sarà niente in confronto a quello che gli farò», ribatté Enea, scatenando le risate degli altri due.

«Forza, tigre, è ora di andare a casa.»

Enea si alzò con un gemito e salutò Stefano, ringraziandolo.

«Sai cosa potresti fare per ringraziarmi a dovere?»

Enea alzò un sopracciglio, scrutandolo perplesso.

«Potresti offrirmi da bere prima di andare via!»

Enea trattenne una smorfia infastidita e acconsentì, nonostante la stanchezza e l'impellente bisogno di seppellirsi sotto dieci strati di coperte e dormire per una settimana di fila.

Dopo essersi infilato una maglietta finita non si sapeva come tra gli oggetti smarriti, disse ad Andrea di non aspettarlo e seguì Stefano fino al bar, dove presero un paio di drink e parlarono del più e del meno. O meglio, Stefano parlava, Enea si limitava a grugnire e cercare di arginare il mal di testa che la musica a palla non stava affatto contribuendo a far scomparire.

Il suo salvatore era in realtà un tipo simpatico, e in un altro momento – in un'altra vita – forse Enea avrebbe flirtato con lui e ci sarebbe finito a letto, magari anche più di una volta, e forse avrebbe anche iniziato una relazione stabile.

Per un momento si concesse di immaginare una vita del genere: uscire insieme, ridere, scherzare, innamorarsi... Sembrava bello, in un certo senso. L'unico problema era che, quando immaginava tutto quello, non era Stefano il ragazzo accanto a cui si svegliava ogni mattina, le cui labbra baciava ogni sera prima di andare a dormire o la cui pelle tatuava come se fosse una tela da dipingere.

«Forse è meglio che vada», biascicò interrompendo il ragazzo a metà frase, «domani devo lavorare.»

«Certo», acconsentì Stefano, rivolgendogli un sorriso deluso e alzandosi dallo sgabello per accompagnarlo all'esterno. Enea si fece largo tra la folla, il bisogno di uscire e prendere una boccata d'aria che si faceva sempre più impellente. Quando giunsero finalmente nel parcheggio si fermò e fece un respiro profondo, girandosi poi per salutare l'altro.

«Grazie ancora per l'aiuto», disse tendendogli una mano che l'altro strinse con vigore.

«Figurati!»

«Allora... ci vediamo.» Enea si voltò per andarsene, quando improvvisamente si sentì afferrare per un braccio.

«Enea?»

Perplesso si voltò verso l'altro ragazzo, facendo per chiedergli cosa volesse, ma quello lo afferro per la maglietta e lo baciò. Enea sgranò gli occhi e si immobilizzò, gli occhi sbarrati. Stefano, cogliendo l'antifona, si staccò e fece un passo indietro, imbarazzato.

«Scusami, io... ecco...»

Ma Enea non lo stava guardando né ascoltando. Aveva lo sguardo fisso su qualcosa – qualcuno – fermo alle sue spalle.

«Elia...», sussurrò scansando un confuso Stefano e facendo un passo esitante verso il fratello. Elia lo fissò per qualche altro secondo, gli occhi azzurri svuotati da qualsiasi emozione, e poi si girò, correndo via. Prima anche solo di potersene rendere conto i piedi di Enea si mossero, correndogli dietro, incurante di qualsiasi cosa che non fosse il gemello.

«Elia!»

Accelerando il passo, riuscì a raggiungere il gemello e ad afferrarlo per un braccio, costringendolo a fermarsi.

«Elia...», sussurrò Enea, le parole che gli si incastravano in gola, ma suo fratello continuò a dargli le spalle, teso come una corda di violino.

«Lasciami andare», mormorò atono dopo qualche secondo, strattonandolo il braccio, ma Enea serrò ancora di più la presa, costringendolo a girarsi.

«Lasciami, Enea», sibilò Elia guardandolo finalmente negli occhi, la rabbia evidente anche alla luce fioca dei lampioni.

«Mi dispiace, Elia, io...», tentò di spiegarsi, ma il gemello lo interruppe.

«Ti dispiace?», ringhiò, divincolandosi dalla sua presa e fissandolo furioso come Enea non l'aveva mai visto, i suoi occhi azzurri che sembravano bruciare, «ti dispiace di cosa? Di essere venuto a letto con me o di essertene andato la mattina dopo lasciandomi da solo come fossi una puttana?»

Enea sussultò come se il fratello l'avesse schiaffeggiato e spalancò la bocca. «Non volevo trattarti come una puttana, Elia, come diavolo ti viene in mente? Sei impazzito?»

Sospirò, passandosi una mano tra i capelli e cercando le parole per spiegare il groviglio di emozioni che gli si agitavano dentro da un mese a quella parte, «è solo che...»

«É solo che, cosa? Solo che è stato un errore? Solo che non avevi le palle di guardarmi in faccia dopo quello che avevamo fatto, e così hai deciso di fingere che non fosse mai avvenuto, come fai sempre?»

Enea non aveva mai visto il fratello così infuriato. Solitamente era lui quello impulsivo, quello che perdeva le staffe, Elia invece era il tipo che manteneva la calma in qualsiasi situazione, ma in quel momento i ruoli erano invertiti, e lui non sapeva come comportarsi. Sapeva solo che gli sarebbero servite tutte le tecniche di controllo della rabbia che Arturo gli aveva insegnato negli ultimi due anni per non far degenerare la situazione.

«Tu non capisci...»

«No, Enea», lo interruppe Elia, il viso a pochi centimetri di distanza dal suo, «sei tu che non capisci. Non hai mai capito. Non avevi capito allora e non hai capito adesso.»

«Che cos'è che non capisco? Illuminami, avanti!»

«Che scappare non serve a niente. I problemi non scompaiono se volti loro le spalle e te ne vai.»

«Questa volta è diverso, e tu lo sai! Per l'amor del cielo, Elia, siamo andati a letto insieme!»

Dirlo ad alta voce sembrò renderlo ancora più reale per entrambi, gelandoli.

«Credi che non lo sappia?! Riesco a malapena a guardarmi allo specchio, Enea, ma credi davvero che fuggire sia la soluzione? Credevo che ormai ti fosse chiaro che scappare non serve ad un cazzo. »

«Che altra scelta avevo? Ero confuso e spaventato, non sapevo come avresti reagito o cosa fare, così sono scappato. Non sarà stato giusto, ma puoi davvero biasimarmi? Lo sai anche tu che quello che abbiamo fatto non è normale!»

«E come credi che mi sentissi io, eh? Mi hai lasciato da solo, Enea, di nuovo, e proprio quando credevo che fossimo sulla buona strada per tornare ad essere una famiglia.»

«Ho pensato che sarebbe stato più facile così, okay? Un taglio netto e indolore.»

Elia rise, amaro. «Sei un bugiardo.»

La rabbia esplose dentro Enea, spingendolo ad afferrare il fratello per il colletto, come aveva fatto un mese prima. «Che cosa hai detto?»

«Ho detto che sei un bugiardo», ripeté Elia, «non sei scappato perché era meglio così, ma perché era più facile. La verità, fratellino, è che sei un codardo, un maledettissimo codardo che non sa fare niente di meglio che scappare, non importa le conseguenze!»

Enea ringhiò, strattonandolo. «Pensi di essere tanto migliore di me? Scappare davanti ai problemi sarà anche sbagliato, ma restarci dentro anche quando non c'è speranza credi sia tanto meglio?»

«Ma che cazzo vorrebbe dire?!»

«Sei incapace di perdere la fede nelle persone, anche quando ti rovinano la vita, ancora e ancora! Avresti potuto lasciare la mamma al suo destino, invece sei rimasto, non importa quanto male ti stesse facendo, tutto nella speranza che rinsavisse. Io sarò anche un codardo, fratellino, ma tu sei un povero illuso.»

Enea poté quasi sentire il cuore di suo fratello che si spezzava.

«Forse hai ragione», sussurrò Elia atono, «dopotutto, solo un illuso sarebbe in grado di non perdere la speranza con te, giusto?»

Enea sussultò, aprendo la bocca per dire qualcosa, ma l'altro continuò. «Insomma, non è come se non sapessi che razza di egoista tu sia, no? Quanto ti importi solo della tua sopravvivenza, anche a discapito degli altri, continuando a scappare ed evitare i problemi finché qualcuno non prende una decisione per te o non sei costretto a scegliere. Dimmi una cosa, se non ti avessi chiamato, saresti mai tornato a Firenze, o anche solo preso l'iniziativa per recuperare i rapporti?»

Il silenzio di Enea fu una risposta più che sufficiente, ed Elia scosse la testa, amareggiato e deluso.

«Sono stanco di passare la vita a rincorrerti, sempre un passo dietro di te, senza mai essere in grado di raggiungerti. Non posso continuare così, mi dispiace.»

«Elia...»

«Addio, Enea.»

 

 

Note dell'autrice

Allora, siete ancora vivi? Questo credo sia uno dei capitoli più lunghi che abbia mai scritto, ma non mi sembrava il caso di tagliarlo. Sembra che la situazione sia giunta ad una svolta, e che abbia preso quella sbagliata. Come sempre, solo il futuro ci dirà se queste due testacce faranno pace o no.

Fatemi sapere che ne pensate, pls!

Cheers,

Dru

   
 
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