Videogiochi > The Elder Scroll Series
Segui la storia  |       
Autore: Quebec    15/09/2019    1 recensioni
Netrom Morten, un Bretone Negromante, scopre il cadavere di una donna dissanguata vicino la città di Skingrad. Conoscendo personalmente il Conte Janus Hassildor, spera di trovare il colpevole, ma dietro quella sua curiosità si cela ben altro...
Genere: Avventura, Fantasy, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Tre uomini in nero sedevano su un tronco cavo a ridosso di un focolare. Era una notte oscura, senza nuvole, sebbene il cielo fosse tempestato di stelle. Nella boscaglia, si udiva il frinire di alcune cicale. Lo scoppiettio del fuoco smorzava di tanto in tanto quel canto monotono. I tre uomini in nero fissavano il ratto arrostire sul treppiede di legno già da una decina di minuti. L'aria era pregna dell'odore di carne bruciacchiata. 
D'un tratto udirono qualcosa dietro le fronde dei pini. Nessuno si voltò. Rimasero tutti a guardare il ratto. Poi lentamente, un uomo con la faccia sporca di terra si fece largo tra i rami. Era piuttosto grasso per essere un contadino o un avventuriero. Sembrava più qualcuno abituato a pedinare la gente.
Sbucò al loro lato e allargò le braccia con un sorriso. "Scusate buon signori. I due che cercavate stanno per arrivare a Skingrad. Ho dovuto abbandonare la mia copertura con i carovanieri diretti..." un coltello gli si piantò in gola. Cadde in ginocchio, soffocando, le mani che cercavano di tirar fuori il coltello dalla gola. Il sangue schizzò sul terreno. Cadde dapprima sul fianco, poi si distese sulla schiena, il sangue usciva a fiotti. Quando l'uomo smise di contorcersi, un uomo si alzò e lo raggiunse. Lo guardò per un attimo, poi si chinò, estrasse il coltello dalla gola con un suono secco e lo leccò. Gli altri due uomini lo raggiunsero, trascinando l'uomo vicino al bivacco. Tolsero il ratto arrostito dal treppiede di legno e lo gettarono oltre l'erba alta come fosse spazzatura. Il primo uomo prese l'ascia adagiata dentro il tronco cavo, mentre il secondo uomo legò ben stretto con una corda la gamba della spia, sopra il ginocchio. L'ascia colpì la gamba sotto la corda. Si aprì uno squarcio sulla pelle e sui pantaloni di velluto, il sangue riempì lentamente l'indumento. Un altro colpo. CRACK! Il secondo uomo strappò via la gamba dal resto del corpo. Tolse la scarpa e il pezzo di pantalone inzuppato di sangue, gettandoli oltre l'erba alta. Poi diede al terzo uomo la gamba, mentre ritornò a ridosso del cadavere. Il terzo uomo sfoderò un coltello d'acciaio e iniziò ad affettare la carne della grassoccia gamba, buttandola in una specie di pentolina. 


 
*****


La cantina del Conte Hassildor era provvista di un centinaio di botti di vino in fila lungo il muro. Dietro di essi, in una zona ombrata e celata alla vista, c'era un enorme botte. Un tempo, all'interno, c'era del sangue umano, ma ora quei giorni sembravano così lontani per il Conte Vampiro.
Per molti e molti anni aveva sopportato la sete ma ora, ora cominciava a vacillare. Sperava che quella botte fosse piena fino a implodere. Voleva nuotare nel sangue, berlo fino a morire, sebbene un Vampiro non potesse affogare nel sangue. 
Sedeva su uno sgabello il Conte Hassildor, gli occhi rossi fissi sul rubinetto della botte corroso in parte dalla ruggine. 
Hal-Liurz sbucò da un angolo, dietro un apertura arcuata. "Conte Hassildor."
Il Conte Vampiro fu come destato da un sogno. "Sì?"
"E' arrivato il tempo di riempirlo di..." Hal-Liurz indicò la botte vuota.
"No!" Si alzò in piedi in una posa autoritaria. "Non sono qui per questo. E poi, se non erro..."
"In quella botte non c'è più sangue umano da 8 anni."
Il Conte Hassildor si avvicinò al suo muso da rettile. "Non interrompermi mai più quanto ti parlo, intesi?" Gli occhi minacciosi del Conte balenarono di luce propria.
Hal-Liurz ci vide l'Oblivion in quell'iride e arretrò un poco spaventata.
Il Conte Vampiro gli diede le spalle. "Perdona i miei modi scortesi." Fece qualche passo in avanti. "Questi giorni sono stati... Ardui."
Hal-Liurz non rispose e abbassò lo sguardo sul pavimento.
Il Conte Hassildor si voltò. La scrutò un poco. "Forse sono stato troppo duro con lei." Pensò.
L'Argoniana continuava a tenere bassa la testa.
"Distruggi quella botte. Dagli fuoco. Voglio vedere il fumo levarsi in cielo dalla mia camera da letto." Il Conte Hassildor sparì nelle ombre del corridoio da dove era giunta l'Argoniana.
Tesa, Hal-Liurz si lasciò scappare un sospiro. Le gambe cedettero e si ritrovò a terra. "Non ho mai avuto paura del Conte Hassildor, perché... Perché ora lo temo... Forse è giunto il tempo che beva..." Pensò.


 
*****


Il capo della guardia cittadina salì le scale del secondo piano della Gilda dei maghi, la mano serrata sull'avambraccio di Adrienne Berene. Di sotto gli apprendisti e i maghi mormoravano tra loro, mentre alcune guardie cittadine, a venti piedi di distanza, li tenevano sott'occhio, le spade e le mazze ferrate ben in vista. Solo due guardie cittadine seguirono il capo della guardia cittadina come da prassi in queste situazioni tese. S'incamminarono in quella che sembrava una biblioteca e una sala ristoratrice, finché salirono per un altro piano. Raggiunsero le stanze dei maghi; un lungo corridoio con varie porte su ogni lato. Una guarda cittadina si staccò da loro, bussò con un pugno sulla porta di legno rinforzata in ferro. 
"Sparite o vi friggo tutti!" Urlò qualcuno dietro la porta. Era una voce anziana, dura e sofferente. Poi tossì fino a quasi soffocare.
"In nome di Conte Hassildor, protettore e governatore della contea di Skingrad, vi ordinò di aprire la porta!" Urlò il capo della guardia cittadina, senza levare la mano dall'avambraccio di Adrienne Berene. La guardia cittadina accanto alla porta lo guardò in attesa di nuovi ordini.
"Governatore un corno..." La voce dietro la porta tossì. "Un mostro come Conte..." Tossì di nuovo fino a soffocarsi per davvero. Non si udì più nulla per una dozzina di secondi. La guardia cittadina accanto alla porta non distolse gli occhi dal capo della guardia cittadina.
Il capo della guardia cittadina strattonò per l'avambraccio Adrienne Berene che urtò col fianco alla porta. "Aprila!" Si portò le dita sull'elsa della spada, pronto a sguainarla al minimo segnale di pericolo.
Adrienne Berene, lo sguardo basso, mise le mani accanto al pomo della maniglia. Dilatò e ritrasse le dita per qualche istante, finché la serratura con un rumore secco si staccò e cadde sul pavimento. 
La guardia cittadina spintonò col gomito Adrienne Barene che stava quasi per cadere, quando il capo della guardia cittadina l'afferrò in tempo.
Quando la guardia cittadina entrò nella stanza, vide la faccia bluastra del Guaritore, gli occhi gonfi e rossi quasi fuori dalle orbite, la lingua fuori dalla bocca spalancata. Sedeva su una sedia in una posa quasi innaturale; la schiena inclinata indietro sullo schienale, poco sul lato.
"Il Conte Hassildor non né sarà contento." Pensò il capo della guardia cittadina una volta entrato nella camera.

Dopo una decina di minuti, si spostarono nella sala ristoro che fungeva anche da biblioteca. Il capo della guardia cittadina e Adriene Berene erano seduti attorno a un tavolo rotondo. Poco distanti da loro, cinque guardie cittadine formavano quasi un cerchio attorno loro. La luce del sole filtrava attraverso la vetrata colorata ed elaborata da varie figure, illuminando le spalle del capo della guardia cittadina.
Adrienne Berene era nervosa, le dita che battevano sul tavolo. Il rumore era sommerso solo dal vociferare continuo di apprendisti e maghi al piano terra.
"Parlate o sarà peggio per voi." Disse lentamente il capo della guardia cittadina.
Adrienne Berene alzò lo sguardo, ma non riuscì a guardarlo negli occhi. "Era un bravo mago..."
"...Un brav'uomo e stronzate varie." La canzonò il capo della guardia cittadina. "Nella stanza non abbiamo trovato niente. Sapeva del nostro arrivo. Forse glielo hai detto tu? Oppure sei stata tu a ripulire la stanza?"
"Io sono all'oscuro di questa faccenda."
"Quale faccenda?" Chiese l'uomo un poco sorpreso.
"Quello che voi insinuate."
"Io non sto insinuando nulla."
"Sì, invece. M'incolpate di qualcosa che non ho mai fatto e..."
"Allora sapete. Eri in combutta con quel Guaritore."
"No, no." Adrienne Berene trovò il coraggio di guardarlo negli occhi. "Io non so nulla, lo giurò. Che i nove mi maledicano se sto mentendo."
"Ah certo, certo." L'uomo fece segno con una mano a una guardia cittadina di avvicinarsi. Quando giunse al fianco della maga, posò la mano sull'elsa della spada.
Adrienne Berene spalancò gli occhi spaventata e lentamente congiunse le mani. Cercava di nascondere la paura dietro una maschera altezzosa e di pura arroganza.
"Se fossi in voi non lo farei." Disse il capo della guardia cittadina. "In questi casi la spada è più veloce di una formula magica."
Il capo dei maghi separò le mani, lanciando un occhiata fugace alla mano della guardia cittadina adagiata sull'elsa della spada.
"Avete detto che sapete." Riprese il capo della guardia cittadina dopo un po' di teso silenzio.
"Non l'ho detto."
"Hai detto: Sono all'oscuro di questa faccenda. Mi sembra chiaro che voi sapete. Dunque, parlate."
"Sono una donna rispettabile." Disse la maga cercando di darsi un aria superba. "Non c'entro nulla con quel guaritore e i suoi dannati esperimenti sui Goblin!" Tuonò quasi isterica Adrienne Berene balzando dalla sedia, le mani sprizzanti di piccole e quasi invisibile saette.
La guardia cittadina, la mano rivestita da un guanto d'arme, gli assestò un pugno dietro la testa. La maga cadde violentemente sul tavolo, col busto. Poi scivolò a terra, sul fianco, priva di sensi. L'aveva colpita in quel punto per non deturpare il viso di Adrienne Berene, molto nota in città per la cura quasi maniacale del suo aspetto.
Il capo della guardia cittadina annuì al proprio soldato per aver fatto la cosa giusta, oltre ad averla colpita nel giusto modo.


 
*****


Seduto nel portico della sua lussuosa villa, il Conte Clavis era intento a degustare un bicchiere di vino Surille. L'Elfo Scuro era in piedi, di fronte a lui, appoggiato su un'asse di legno bianco del portico. Era una giornata grigia, con qualche chiazza azzurra in cielo. Il giorno prima, erano giunti tre giardinieri dalla Città Imperiale che già potavano le betulle e si prendevano cura del lussureggiante giardino che il Conte Clavis tanto amava contemplare, ma non osava camminarci all'interno. Non gli piaceva il contatto diretto con la terra, perché lo faceva sentire zotico, sopratutto nei giardini dove gli insetti erano ovunque.
"C'è un vero caos al porto della Città Imperiale" Disse il Conte Clavis. "I marinai che dovevano prendersi cura del mio carico di vino sono spariti."
"Non sono obbligato ad ascoltarti." Rispose l'Elfo Scuro seccato.
"Come osi? Io ti pago per fare quello che più desidero. E se voglio essere ascoltato..."
"Tu mi paghi per tagliare teste ai Vampiri." L'Elfo Scuro si avvicinò al Conte. "E non mi pare che io sia operativo. Preferisco tagliare 1000 teste di succhia-sangue che sentirti lagnare da mattina a sera."
Il Conte Clavis fece un espressione oltraggiosa. "Ringrazia i Divini che tu mi sia amico. In altre circostanze ti avrei fatto impiccare."
"Amico?" Sottolineò l'Elfo Scuro. "Siamo legati da una borsa di danari. Non c'è alcuna amicizia tra noi."
"La tua maleducazione e arroganza non ha limiti. Sei tale e quale agli altri Elfi Scuri di Morrowind." Il Conte bevve un sorso di vino, nascondendo il suo nervosismo.
"Certo, come dici tu." Rispose l'Elfo Scuro dirigendosi verso l'uscita del portico. "Ho degli affari da sistemare."
"Quali affari?" Il Conte Clavis si alzò dalla sedia, il vino ondeggiò all'interno del bicchiere d'argento. "Esigo una risposta."
L'Elfo Scuro si fermò. "Poi mi toccherà tagliarti la gola." Disse con tono freddo.
Il Conte Clavis impallidì. Non rispose. L'Elfo Scuro s'incammino verso il cancello.


 
*****


Il Conte Hassildor osservava il viso dormiente di Adriene Berene, evitando di guardargli il lungo e delicato collo. Essendo un Vampiro, il Conte Hassildor doveva prima o poi bere del sangue umano, ma solo quando non riusciva più a controllarsi, quando il mondo attorno a lui diventava un campo di caccia, quando persino le guardie o Hal-Liurz diventavano un pasto troppo succulento da poter rifiutare. Solo allora cedeva. Beveva un bicchiere di sangue umano. Solo uno. Poi più nulla per molti e molti anni. E in quell'istante il suo enorme potere veniva meno. Perdeva la maggior parte delle forze, le doti di un Vampiro. Le guardie non era più intimorite dal suo aspetto, ma lo guardavano quasi a volerlo sfidare. Ed erano in quei momenti che poteva nuovamente sentire e provare le emozioni umane assopite dal Vampirismo. Ma era tutto passeggero. Passato un mese tornava più o meno come prima. Ogni qual volta che riusciva a resistere, si allungava la sua soglia di sopportazione. Ora riusciva a non bere sangue per almeno 8 anni, dopodiché il mostro che si annidava dentro di lui strisciava fuori con prepotenza, lo assillava, gli faceva venire le allucinazioni e cercava di governarlo.
Ricordava ancora il dolce viso di sua moglie in agonia nel letto. Lei si rifiutava di bere sangue umano, ed era caduto in un lungo sonno senza sogni. Non si svegliava mai. Dormiva. Ed era l'unica cosa che poteva fare per non cedere davanti al mostro dormiente dentro se stessa. Era più forte di suo marito, lei sapeva resistere alla mostruosa creatura, ma non c'è la faceva più. Il Conte Vampiro aveva provato di tutto per salvarla, ma nulla era servito. Solo nei sogni sua moglie, la contessa, poteva essere libera e felice da quel mostro che la torturava. Poi arrivò quel fatidico giorno. Il Conte Hassildor si era sentito impotente nel guardare per l'ultima volta il viso sorridente di sua moglie che lo ringraziava per averla lasciata andare. In quell'ultimo respiro, c'era tutto il suo mondo.
"Dove sono..." Disse Adrienne Berene svegliandosi su di un letto. Si trovava nell'ala servitù del Castello, poco distante da dove giaceva dormiente Netrom Morten.
Il Conte Hassildor sedeva accanto a lei. "Sono il Conte Janus Hassildor. Vi chiedo venia per rozzi modi delle mie guardie."
Adrienne Berene si stropicciò gli occhi frastornata. La testa gli doleva da ogni parte. "Non vi ho mai tradito, Conte." Disse con un filo di voce.
Il Conte Vampiro serrò gli occhi. Non rispose. Si alzò dalla sedia e quando raggiunse la porta, si voltò verso la maga. "Riposate. Ne discuteremo in serata."

Fuori nel corridoio, a qualche passo di distanza dalla camera della maga, lo attendeva Hal-Liurz.
"Se vuole muoversi nel Castello, può farlo. Ma non oltre le mura esterne."
Hal-Liurz annuì. 
Una guardia sbucò dietro un angolo, s'incammino verso la stanza della maga, chinò la testa per salutare il Conte e si piazzò davanti alla porta. 
"E se cerca di fuggire?" Chiese d'un tratto Hal-Liurz.
Il Conte stava per andare, quindi si fermò. "Vorrà dire che è colpevole." Si diresse alla stanza di Netrom Morten.

Erina sedeva con la testa appoggiata alla parete. Si era addormentata da poco, ma in realtà era crollata per la stanchezza. Gli occhi del Conte si posarono sul suo collo. "...Nessuno lo saprà mai..." Tuonò come un eco la voce maligna nella sua testa. Distolse lo sguardo e lo rivolse a Netrom Morten, che per una strana ragione, non gli aveva mai fatto effetto. Lui era l'unica persona cui l'istinto di Vampiro non si destava.
Si chinò verso di lui. Osservò il suo volto sudato, gli occhi muoversi freneticamente sotto le palpebre. "Finché si muovono, lui combatte." Pensò. Poi si rizzò in piedi, guardò Erina che proprio in quel momento aprì gli occhi. Sussultò e smorzò un grido nel vedere la figura rigida del Conte fissarla in modo inquietante.
"Mi scusi. Non volevo svegliarla." Disse il Conte Hassildor. "Sono venuto a fargli una visita." Indicò con la testa Netrom Morten
Erina non rispose, il cuore che gli esplodeva quasi dal petto.
"Perché non riposate nella vostra camera? Posso accompagnarla, se non ricordate la strada?" 
Erina spalancò gli occhi terrorizzata. "Vuole uccidermi. Bere il mio sangue." Pensò.
Il Conte Hassildor capì che era spaventata. "Se cambiate idea, la guardia qui fuori vi condurrà alla vostra camera. Ora con il vostro permesso, mi congedo."
Erina non rispose, anche se voleva farlo. Era troppo spaventata per riuscire ad aprir bocca. Il Conte Vampiro attese per un po' una risposta, poi chinando il capo in segno di saluto, lasciò la stanza.
Nella mente di Erina balenò la figura rigida del Conte che la osservava. Era un immagine che ormai si era impressa come inchiostro su una pergamena nel suoi pensieri. 

Ore dopo, verso le otto di sera, il Conte Hassildor fece capolinea davanti alla porta della camera di Adrienne Berene. La maga non si era mossa da lì, poiché era intimorita dal Conte e dalle sue guardie che la guardavano in malo modo. Quindi non aveva nemmeno osato di pensare di girovagare nel Castello.
La donna udì bussare. Andò ad aprire. Il mal di testa non gli era passato. "Conte Hassildor. Prego, entrate."
Il Conte Hassildor entrò, e solo allora la maga si rese conto che gli occhi del Conte Hassildor avevano un aspetto inquietante e non-umano. Sul momento non seppe darsi una risposta, finché non associò gli occhi del Conte a un immagine di un Vampiro stampata su uno dei suoi tanti libri alla Gilda dei Maghi. Trasalì e indietreggiò un poco.
Il Conte Vampiro capì quello che stava pensando. "Sì. Sono un Vampiro."
Adrienne Berene continuò a indietreggiare finché non sbatté il sedere su una cassettiera.
"Voglio delle risposte." Disse il Conte Hassildor. "Il capo della guardia cittadina mi ha riferito tutto. Eri a conoscenza degli esperimenti del Guaritore sui Goblin, dico bene?"
La maga annuì, le dita serrata sul piano del cassetto.
"Praticava la negromanzia?" Il Conte Vampiro serrò gli occhi.
"N-non lo so, Conte."
Il Conte Hassildor rimase un po' in silenzio, guardandola dritta negli occhi. "Fareste bene a parlare."
"Non so nulla su suoi esperimenti, Conte. Ma..." Adrienne Berene smise di parlare.
"Ma?" 
"Quando è venuto al Castello, io mi sono messa a curiosare nella sua stanza. Gli apprendisti erano spaventati da lui e i maghi si lamentavano delle continue grida che provenivano di notte dalla sua camera. Così quando lui è venuto al vostro Castello, ho colto l'occasione di curiosare nella sua stanza." Adrienne Berene si zittì per un po'. "Ho trovato una gemma dell'anima nera."
"Una gemma dell'anima nera?" Il Conte Hassildor gli si avvicinò lentamente. "Ho l'impressione che tu non abbia trovato solo questo." Ora era di fronte alla maga.
Adrienne Berene abbassò lo sguardo. "Ho trovato anche un diario sotto il letto."
"Parla."
"Uccideva i Goblin e li rianimava." Disse Adrienne Berene quasi in un sibilo come se avesse paura che da un momento all'altro il Conte Hassildor l'avrebbe uccisa, solo perché era a conoscenza di qualcuno che praticava la negromanzia dentro le mura di Skingrad.
"Non è stata colpa tua se quel infido verme era un Negromante." Il Conte Hassildor gli voltò le spalle. "Ma essendo il capo della gilda dei maghi di Skingrad, era tuo dovere accertarti che non ci fossero soggetti pericolosi che praticavano la negromanzia. Inoltre, una gemma dell'anima nera vuole dire solo una cosa; che ha intrappolato un anima di una persona o di un essere potente. Ma voglio vegliare anche l'ipotesi che la gemma non sia sua, che l'abbia acquistata o rubata da qualcuno. Non voglio lasciare nulla al caso."
"Chiedo perdono, Conte. Non succederà mai più. Lo giuro sui nove divini!" Adrienne Berene era visibilmente spaventata e la sua voce tremava ad ogni frase.
"E' quello che dicono tutti." Il Conte Vampiro andò verso la finestra. Guardò fuori, verso l'oscurità che inghiottiva la volta del bosco. "Il consiglio dei maghi è a conoscenza di questi fatti?"
"No, non sa nulla."
"Come immaginavo." Disse il Conte Hassildor con tono freddo.
"Se lo vengono a sapere indagheranno su di me. Faranno un processo." 
"Come giusto che sia. Leggi e regole esistono per un motivo." Il Conte Hassildor si voltò verso di lei. "E sai perché esistono?"
Adrienne Berene non rispose.
Il Conte Vampiro la guardò con fare grave. "Per evitare che l'oscurità dilaghi e corroda quel poco di bene che c'è nel mondo."
La maga rimase in silenzio.
"Molta gente non sa vivere senza regole, ed altri, la feccia di Tamriel, chiede apertamente di essere uccisa. Applica le proprie leggi a discapito di chi non sa o non può difendersi. Il male non aspetta altro che questa opportunità. E tu hai permesso al male di entrare a Skingrad!" La voce del Conte tuonò minacciosa e demoniaca nella camera. D'un tratto le luci delle candele si spensero.
Adrienne Berene sussultò.


 
*****


Alle prime luci dell'alba, Brangor era andato via senza salutare Fredor. La donna lo aveva aspettato appoggiata con la schiena contro il muro esterno del fienile, e non gli aveva rivolto nemmeno un occhiata. Ormai era da un ora che vagava nella prateria, l'ascia da battaglia legata dietro la schiena, l'addome un poco dolorante, ma era sopportabile. Camminò a lungo, mentre tutt'attorno iniziarono a comparire sempre più spesso grosse rocce. Non c'era stata traccia di alberi da quando aveva lasciato il fienile. Aveva camminata in un campo vuoto, disseminato di erba alta e sporadici sassi. Poi, quasi dal nulla, cominciarono a spuntar fuori ceppi da ogni dove. Poco distante, vide un accampamento di boscaioli sopra una verdeggiante altura frastagliata. Dietro le tende, s'innalzavano lunghi pini vicini l'un l'altro, quasi volessero impedire a chiunque di entrarci.
C'erano Orchi, Imperiali, Bretoni e Nord a lavoro, le loro asce che battevano sui tronchi. Un Elfo Alto sedeva su uno sgabello intento riordinare alcune fogli sparsi sul piccolo tavolo di legno. Indossava una camicia blu di lino con colletto e ricami neri che cadevano dalle spalle fino ai fianchi, oltre a delle scarpe nere. Aveva un viso delicato, nobile, quasi fuori luogo nel posto in cui si trovava. La sua tenda era la più grande ed aveva un Nord come guardaspalle. Un uomo calvo, dall'aspetto burbero, gli occhi infossati e una mascella imponente. Indossava un armatura di pelle e uno spadone lungo d'acciaio dietro la schiena.
L'Elfo Alto alzò gli occhi dall'iride verde scuro all'arrivo di Brangor, mentre i boscaioli rallentarono l'andatura del lavoro per osservarlo di sottecchi.
Il Nord si fece avanti, gli bloccò la strada. Paragonato al possente Nord, Brangor sembrava un nano.
"Tranquillo, Volk." Disse l'Elfo Alto alzandosi dalla sedia. Volk grugnì, tornando alle spalle dell'Altmer.
"Sono Ermil Voltum." L'Elfo Alto gli porse la mano. Brangor la strinse poco sorpreso. "Siete qui per controllare la produzione di legname? O venite qui per conto di qualcuno?"
Brangor non sapeva cosa rispondere. "In realtà mi sono perso. Non conosco bene questi luoghi."
Ermil Voltum tornò a sedersi dietro quella che sembrava la sua scrivania. "Prego." Indicò con la mano lo sgabello davanti al tavolo.
Brangor si sedette lentamente.
"Da dove venite?" Chiese l'Altmer.
"Non posso parlargli di Fredor e di sua figlia." Pensò Brangor, mentre udiva il martellare delle asce sui tronchi.
"Dall'aspetto sembrate un Nord." Continuò Ermil Voltum senza dar tempo a Brangor di rispondere. "Sono una persona che s'intende di razze. Modestamente, sono un ottimo osservatore. E tu hai tutto l'aspetto di un Nord." Poi spostò la testa di lato, lanciando un occhiata all'ascia di battaglia di Brangor. "E come un Nord ti piacciono le asce e le armi ingombranti." Si girò verso il suo guardaspalle. "Senza offesa, Volk." Sorrise. Il Nord grugnì.
"Beh sì, ma..." Disse Brangor.
"Le mie attenti analisi non sbagliano mai." Lo interruppe Ermil Voltum con aria vanitosa. "Sono qui grazie alle mie doti. Sapete, questo è un lavoro che la maggior parte delle gente non è in grado di fare. Io supervisiono i miei lavoratori, mi preoccupo che ricevano la giusta paga e che lavorino senza interferenza da minacce esterne..."
"Minacce esterne?" Sottolineò Brangor.
"Sono un Elfo Alto dotato." Ermil Voltum ignorò del tutto la domanda, come se Brangor non l'avesse nemmeno posta. Era così tanto preso dal vantarsi che sembrava parlasse da solo. "Le mie qualità sono uniche. Eccello in ogni campo. Non voglio essere arrogante, ma credo di essere il migliore. Voi direste; migliori in cosa? E io vi rispondo; in ogni cosa!" Ermil Voltum sghignazzò mettendosi una mano sulla bocca. "Oh perdonatemi. Sono stato molto scortese e maleducato. Voi come vi chiamate?"
"Il mio nome è..."
"Che poi a pensarci bene..." Ermil Voltum si alzò dalla sedia, ignorando quello che stava dicendo Brangor. Il suo guardaspalle guardava i boscaioli lavorare. Era chiaro che quando l'Elfo Alto parlava lui emigrava altrove con la testa. "Mi hanno detto; Abbiamo una licenzia per abbattere alberi nella Contea di Skingrad. Voglio che sia tu, Ermil Voltum, soltanto tu a supervisionare l'operazione. Sei il migliore in queste faccende." L'Elfo Alto sogghignò compiaciuto. "E avevano ragione. Sono il migliore, come puoi ben notare." Allargò le braccia in un gesto vanitoso e arrogante. "Tutto questo è opera mia. Nessuno arriva al mio livello. 237 Pini tagliati in due mesi. Nessuno avrebbe fatto di meglio."
Brangor sorrise confuso. "Che io sia dannato!" Pensò. "Perché non ho proseguito per conto mio? Questo non la smette più di parlare."


 
*****


Avevano saccheggiato quel che avevano potuto dai tre carri di Va'rlen. L'imperiale aveva subito cercato l'oro, mentre l'Orco aveva sperato di trovare un martello da guerra migliore del suo, ma non trovò nulla. I carri erano pieno di cibo; mele, pere, pomodori, porri, patate, uva e aglio. L'Imperiale, seguendo il consiglio datogli dal Khajiit, aveva messo alcune casse sul proprio carretto in modo tale da nascondere meglio il Vampiro. Poi trasportarono il resto della merce sotto un grande masso roccioso, nascosti tra arbusti e l'erba alta. L'Imperiale sapeva che la merce non sarebbe durato a lungo, perciò si era ripromesso di tornare lì entro tre giorni. Per l'Orco invece, tutto quello che aveva fatto l'Imperiale, era solo una perdita di tempo, ma non aveva obiettato, il ché stranì non poco l'Imperiale.

Due giorno dopo l'uccisione di Va'rlen, in una fredda e ventosa giornata dal cielo limpido, avvistarono in lontananza le imponenti cinta murarie di Skingrad. Il palafreno proseguiva lento nella sua andatura, mentre i due traballavano sul carretto. Lungo la strada accidentata che si allargava sempre più verso la porta maestra di Skingrad, c'erano carri di poveri contadini che facevano capolinea davanti al cancello. Tra loro, c'erano anche carri di agiati mercanti carichi di ricche mercanzie esotiche protetti da guardie private, per lo più mercenari e criminali sottopagati. I mercanti viaggiavano in carovane numerose partite da tutte le regioni di Tamriel. Solitamente la carovana che faceva spesso tappa a Skingrad, era quella partita da Elsweyr. I Khajiit facevano ottimo affari vendendo le proprie merci nella città più sicura di tutta Cyrodiil, barattandoli con carichi del famoso vino Surille o ricevendo oro. Ovviamente ai confini tra Elsweyr e Cyrodiil c'erano bande di predoni che si aggiravano furtivi in attesa di qualche carovana mal protetta. Infatti non era difficile vedere due bande di predoni scontrarsi a morte per avere più territorio da coprire, aumentando così la probabilità di rapinare una carovana. In quelle pianure secche, le bande di predoni nascevano e morivano quasi nello stesso istante. Ed era difficile per i carovanieri essere rapinati due volte dagli stessi predoni, mentre era più facile imbattersi nelle loro teste impalate dagli avversari. I Khajiit erano a conoscenza di questa guerra, e la usavano a loro vantaggio elargendo a due o più informatori di bande diverse il percorso che doveva fare la carovana per raggiungere Cyrodill. Così quando la carovana raggiungeva il punto stabilito, magari ritardando sulla marcia, trovavano spesso i cadaveri dei predoni sugli aspri calanchi. I più furbi non cadevano nel tranello, ed erano questi a dare seri grattacapi ai Khajiit.

"Ci impiegheremo una giornata, dannazione!" Imprecò l'Orco, indicando la fila di carri davanti a loro.
"Va'rlen ci aveva avvisati." L'Imperiale tirò le redini. Il cavallo si fermò dietro un carro di una famiglia di contadini. Due bambini vestiti di stracci, duellavano stringendo nelle piccole mani dei rami. Fingevano di essere due cavalieri. La loro madre li supervisionava con molta attenzione. "Se tu non l'avessi ucciso, forse avremmo superato la fila."
"Che la sua anima sia maledetta!" Grugnì l'Orco. "Quel schifoso Khajiit ci avrebbe venduti alla guardia cittadina. Sai bene come quelli della sua razza siano fedeli soltanto all'oro. Ho fatto un favore a questo mondo del cazzo frantumandogli il suo fottuto cranio! E poi mi doveva del danaro quel fottuto gatto!"
"Non ci avrebbe venduti."
"Sì, invece."
"No!"
"Sei un figlio di puttana ottuso!" L'Orco serrò la mano a mo' di pugno che sembrava la testa di un martello da fabbro.
"Non è il momento di perdersi in litigi." Rispose l'Imperiale con un strana calma. "Non fare niente di avventato o ci ritroveremo la guardia cittadina addosso ancor prima di estrarre le armi. Non fare niente. Stai calmo."
L'orco grugnì, scese dal carretto e s'inoltrò nella boscaglia.
"Dove cazzo vai?" Chiese l'Imperiale, ma non ebbe nessuna risposta. L'orco sparì tra gli alberi nodosi.

Quando l'Imperiale giunse finalmente davanti alla porta maestra di Skingrad, il cielo notturno era chiazzato da qualche nuvola nera dai bordi illuminati dalle due lune. Erano le otto di sera e il suo carro era l'ultimo nella strada deserta. 
Una guardia cittadina con la barba incolta si accostò al carro, Alzò una mano per intimargli di fermarsi. Altre due guardie cittadine, dagli occhi stanchi, quasi assonnati, girarono attorno al carro, scrutandone ogni dettaglio. Non sembravano molto attenti a quel che vedevano.
"Identificatevi." Disse la guardia cittadina con la barba incolta.
D'un tratto l'Orco sbucò dalla penombra della vegetazione, dirigendosi con passo goffo verso il carro.
Una guardia cittadina gli sbarrò la strada. "Alt!"
L'Orco grugnì. Si fermò. "Sto con lui."
La guardia cittadina guardò l'Imperiale che annuì. Si fece da parte.
"Dove cazzo sei stato?" Sussurrò l'Imperiale all'Orco.
"Identificatevi." Disse nuovamente la guardia cittadina con la barba incolta.
E furono di nuovo interrotti. Delle frecce con punta d'acciaio sibilarono nell'aria. La guardia con la barba incolta venne colpito alla gola, la seconda guardia in un occhio, la terza dietro la nuca. Sui parapetti sopra il cancello non c'era nessuno, come sempre. Sui camminamenti raramente le guardie ci rimanevano per più di dieci minuti, se non per ubriacarsi nel momento in cui non avevano niente da fare. Quando la città si riempiva di forestieri, mercanti e contadini in attesa di vendere le proprie merci, le guardie cittadine invadevano le strade, pattugliando e pedinando i soggetti più sospetti. Quest'ultimo su ordine del Conte Hassildor che voleva essere sicuro della loro vera identità. Spesso tra le carovane si celavano agenti con l'ordine di spiare le mosse del Conte, spargere calunnie, creare disturbi in città o sabotare edifici. E quando venivano individuati, il Conte Hassildor risolveva il problema facendoli sparire per sempre. Tanto nessun Conte avrebbe reclamato gli agenti dispersi in talune missioni.
Chi aveva scoccato le frecce lo sapeva o lo aveva saputo, che sui camminamenti non c'era anima viva.
L'Imperiale saltò giù dal carro, sfoderano la spada. L'orco fece altrettanto con il suo martello da guerra.
D'un tratto tre uomini in nero uscirono dalla vegetazione, gli occhi dall'iride completamente nera, la bocca coperta da una specie di fazzoletto rosso. Buttarono a terra gli archi, impugnando coltelli e stiletti. Si misero di fronte a loro. Poi uno di loro si fece avanti, guardò sia l'Orco che l'Imperiale. Rimase immobile, come se stesse aspettando che uno dei due facesse la prima mossa. Da un momento all'altro, potevano affacciarsi delle guardie sopra le mura di Skingrad. 

"Chi siete?" Disse l'Imperiale, il petto che faceva su e giù, le labbra improvvisamente secche.
"Tre bastardi a cui farò esplodere quelle teste di cazzo!" Grugnì l'Orco rispondendo all'Imperiale.
L'uomo in nero fece cinque passi avanti, silenzioso come un gatto.
L'Orco partì alla carica. 
"Fermo!" Urlò l'Imperiale, ma non servì a niente.
L'Orco cercò di colpire la testa dell'uomo in nero, ma quello semplicemente si spostò di lato, leggero come una foglia. L'Orco continuò a sferrare colpi alla cieca, finché sferrò un colpo dall'alto con tutta la sua forza. Il martello colpì la strada, facendo un bucò nel terreno, la polvere si levò in aria. L'uomo in nero gli ronzava intorno come una mosca, ma senza mai colpirlo o toccarlo. 
"E' più veloce di te!" Urlò l'Imperiale. "Non lo colpirai mai usando la forza bruta!"
L'Orco cercò di afferrarlo, ma l'uomo in nero si muoveva troppo rapidamente.
Poi uno dei due uomini in nero, rimasti fermi a guardare il combattimento, alzò una mano.
L'uomo in nero, che ronzava a passo felpato attorno all'Orco, balzò improvvisamente alle sue spalle. Lo stiletto si conficcò dietro la costola sinistra. L'Orco urlò dal dolore, si girò di scatto e cercò di colpirlo, invano. Poi la lama lo trafisse velocemente dietro la coscia e subito dopo gli squarcio un tendine. L'orco cadde con un ginocchio a terra, sostenendosi con un mano sul manico del martello di guerra. Il sangue riempiva la terra.
L'Imperiale avanzò per dargli man forte, ma l'uomo in nero, che aveva trafitto l'orco, gli lanciò uno degli stiletti a un passo dai suoi piedi. Si fermò. Guardò il volto irato dell'Orco. All'improvviso nell'aria si espanse una sottile nebbiolina rosa, la gola dell'Orco squarciata da un orecchio all'altro. L'Orco razzolò a terra, strisciò verso i piedi dell'uomo in nero che rimase immobile. Le grassocce dita si allungarono verso la sua caviglia, ma non ci arrivarono mai. L'Orco morì con l'espressione irata nel volto.

L'Imperiale si mise in posizione di combattimento. "Sono il prossimo!" Pensò "Arkay! Sostieni la mia mano!"
L'uomo in nero, che aveva ucciso l'Orco, ritornò accanto ai suoi compagni. Quando li raggiunse, un altro si staccò da loro, dirigendosi a passo deciso verso l'Imperiale, gli occhi freddi, privi di qualsiasi umanità. In mano un pugnale, molto più piccolo dello stiletto. Sembrava più una lama per scuoiare le pelle di animali.
L'imperiale abbassò leggermente la posizione della spada, preferendo affrontarlo in difesa. 
L'uomo in nero aumentò il passo, quasi correndo, si fece sempre più vicino, l'Imperiale era pronto a deviare o parare il colpo per poi infliggergli un contraccolpo. L'uomo in nero svanì. D'un tratto, in basso, sentì qualcosa dietro la schiena, come una specie di puntura. Il dolore si espanse in verticale fino alla nuca. Cadde di faccia a terra, la schiena squarciata, la colonna vertebrale in vista, il sangue sgorgava come una fontana. Gli occhi dell'Imperiale erano spalancati, increduli, come se non avesse realizzato che era morto.
L'uomo in nero, che si era reso invisibile grazie a un incantesimo, ritornò visibile e andò dietro il carro. Gli altri due lo raggiunsero. Buttarono a terra le casse che fecero un gran rumore, le mele rotolarono nel sangue. Sollevarono il lenzuolo di lana. Videro il viso pallido del Vampiro morto, le due lune riflesse nei suoi occhi vitrei. Uno di loro lo prese sulle spalle, e andarono via. La porta maestra di Skingrad rimase in un bagno di sangue per altri venti minuti, finché una guardia, con espressione annoiata, si affacciò dal parapetto. Come aveva sempre fatto negli anni, diede solo un fugace occhiata alla strada e andò via. Poi d'un tratto, realizzò meglio quello che aveva visto. Guardò nuovamente. Il volto diventò paonazzo, deglutì. La pacchia era finita.


 
*****


Il Conte Hassildor sedeva nella penombra della camera da letto, avvolto in un tetro silenzio. Sembrava che fuori dalle mura non ci fosse nessuno. Tutto taceva. Poi udì qualcuno bussare alla porta.
"Conte Hassildor." Sussurrò Hal-Liurz con voce rauca dietro la porta.
Il Conte Vampiro scattò piedi, andò ad aprire.
Hal-Liurz vide il viso grave del Conte emergere dietro la porta. "E' successo qualcosa di orribile davanti porta maestra della città."
Il Conte Hassildor serrò gli occhi.

Quando il Conte Hassildor arrivò sul luogo del massacro, seguito da Hal-Liurz, scrutò ogni particolare della scena. Il sangue si era ormai coagulato, e nessuno delle guardie cittadine aveva spostato una singola cosa da lì. Le guardie erano allineate, le teste chine.
Il Conte Vampiro si diresse verso la prima guardia cittadina, morta vicino l'arco del cancello. Le sue narici furono pervasi un dolce odore di sangue umano. "Una goccia..." La voce metallica e maligna ritornò a martellare la sua mente. La ignorò e cercò di concentrarsi sulla freccia che la guardia aveva conficcata in gola. Poi si alzò, camminò tra l'Orco e l'Imperiale. Notò subito il martello da guerra d'argento e la spada d'argento. Si voltò verso Hal-Liurz.
"Prendete quelle due armi." Disse l'Argoniana indicandole alle due guardie cittadine. "Portateli al castello come prova." Quelli fecero come ordinato, tenendo la testa bassa. Poi sparirono tra i camminamenti, poiché le strade si erano riempite via via di curiosi fermati prontamente dalle guardie cittadine. Erano lì per vedere il Conte Hassildor, non tanto il massacro. Il Conte Vampiro non scendeva mai in città, e molta gente non sapeva nemmeno com'era fatto dal vivo. Volevano dare un volto a quel Conte che se ne stava arroccato in cima al suo Castello.
Il Conte Hassildor si chinò sull'Orco. Vide le ferite da taglio, gli occhi vitrei in un espressione furiosa. "Forse è opera sua..." Pensò. "...No, impossibile... E' sicuramente opera di qualcun'altro..."
Poi spostò lo sguardo in direzione dell'Imperiale. Notò la colonna vertebrale esposta. "E' tutto così strano..." Pensò. "Le guardie sono morte per via delle frecce, mentre questi due sono stati uccisi da una piccola lama... Che abbiano affrontato gli assassini con le spade? Forse sono arrivati dopo? No, qualcosa non torna..."
Il Conte Hassildor si alzò, dirigendosi verso Hal-Liurz. "Ordina di portare l'Orco e quelli lì," Indicò l'Imperiale morto. "alle segrete del mio castello. Assicurati che le guardie li trasportino fuori dalle mura cittadine. Non voglio che qualcuno li veda. Poi chiama il sacerdote per quelle tre guardie. Un'ultima cosa; inventa una storia credibile per questo massacro. Fai in modo che le guardie morte risultino degli eroi e che la questione è risolta. La gente vuole subito risposte. Accontentali."
Hal-Liurz annuì. 
Il Conte Vampiro fece per andare, poi si fermò. "Licenzia le guardie che erano di turno sulle mura."
"Perché?"
Il Conte Hassildor si voltò, accigliato. "Incompetenza o corruzione."
"Non abbiamo prove."
"Fai come ho detto. Quello che è successo è colpa loro. Se fossero stati di guardia al loro posto, le cose sarebbero andate diversamente. Forse questa spiacevole situazione non sarebbe accaduta." Il Conte Hassildor salì i gradini che portavano sulle mura e proseguì lungo i camminamenti, lontano dallo sguardo della gente.
Hal-Liurz guardò il cibo riverso per terra. "Spero che il licenziamento non consiste nel tagliar loro le teste."


 
*****


Era mattina. Il sole splendeva tra le nuvole. La donna appoggiò i gomiti sulla staccionata. Fredor lavorava la terra. Non rivolgeva più la parola a sua figlia da quando Brangor era partito.
"Padre!" Disse la donna.
Fredor non rispose.
"Quel tipo non era qui per farti da scudiero. Te l'ho ripetuto almeno dieci volte."
"Tu menti, dico... Sì, sì." Smise di lavorare e si diresse al barilotto d'acqua, sotto una tettoia di paglia.
La donna lo segui. "Quell'uomo non era una brava persona."
"Sì invece, dico... Sì, sì." Fredor prese una tazza di pietra da sopra una cassa e si versò da bere.
"Perché non mi credi?"
"Perché io ero un grande guerriero, dico... Sì, sì. E' un grande guerriero ha sempre un fidato scudiero, dico... Sì, sì." Bevve l'acqua quasi tutta d'un sorso.
La donna rimase in silenzio.
Fredor appoggiò la tazza sulla cassa e ritornò al lavoro.
"Perlomeno il suo pezzo di terra lo tiene impegnato." Pensò la donna. "Quando lavora sembra una persona normale. Quel padre che tanto mi manca."

Verso mezzogiorno, quando il sole caldo batteva senza pietà, Fredor smise di lavorare. Si diresse al fienile, posò la zappa contro la parete di legno ed entrò. Nel fienile, nascosta dietro a delle casse, si trovava una grande stanza dove Fredor e la donna dormivano e mangiavano. Fredor corse felice come un bambino quando sentì nell'aria un buon odore. 
"Stufato di cervo, dico... Sì, sì." Disse Fredor ad alta voce mentre sbucò dietro l'uscio della stanza.
La donna si voltò e sorrise, mentre lui si sedette sullo sgabello attorno a un tavolino rotondo, il viso in trepida attesa. La figlia prese il mestolo di legno e due ciotole da una credenza mezza distrutta vicino al focolare. Su un treppiede era appesa una pentola nera cui bolliva lo stufato di cervo. Con il mestolo di legno, mise la pietanza in entrambi i piatti, posò il mestolo sulla credenza e si diresse alla tavola.
Fredor divorò letteralmente lo stufato di cervo in pochi secondi, mentre la donna mangiò con più calma, ma non lo finì tutto. Fuori dal fienile qualcuno urlava. 

La donna si alzò dalla sedie e corse fuori dal fienile, seguito da un Fredor zoppicante.
C'era un uomo dalla carnagione mulatta con addosso una armatura di pelle, i capelli neri intrecciati e una barba rada. Aveva lo sguardo profondo, sicuro, dall'iride azzurro chiaro. Una sciabola attaccata al fianco destro. Dietro di lui c'erano altri due uomini, un Bretone e un Imperiale, in armatura di pelle, armati di spada e ascia. Tenevano per le redini un cavallo ciascuno. Sopra di essi, c'erano due uomini legati e imbavagliati. 
La donna riconobbe sia i cavalli che gli uomini legati. Erano i farabutti cui aveva venduto i cavalli. L'uomo con la carnagione mulatta era un Redguard, il capo di una sorta di banda di predoni che compiva razzie e rapine ai confini di Elsweyr.
"Mariliel" Disse il Redgurad facendo cinque passi davanti a sé. Attorno si udiva il frenetico frinire di cicale e il canto di qualche uccello. "Sei una benedizione per i miei occhi."
"Finiscila di adularmi, Ramstan." Disse la donna, il cui nome era Mariliel. "Perché quei due sono legati?"
"Sono qui per essere giudicati." Sorrise Ramstan con un inchino.
"Perché ti ostini a inchinarti ogni volta che mi vedi? Non sono una principessa e nemmeno una regina" Mariliel incrociò le braccia.
"Per me lo sei. La mia regina." Disse il Redguard con voce suadente.
"Perché devono essere giudicati da te? Dice... Sì, sì?" Chiese Fredor a sua figlia.
Ramstan aveva sentito il vecchio. "Questi due vi hanno mancato di rispetto, giusto?"
"Tu come fai a saperlo?" Domandò Mariliel. 
"Semplice. Hanno detto che se volevo continuare a fare affari con te, dovevo venire di persone. E quindi, ho subito pensato che questi due bastardi..."
Mariliel corrugò la fronte. "Volevano uccidere mio padre."
"Nessuno può uccidermi. Sono un guerriero, dico... Sì, sì." Rispose Fredor realizzando in quel momento che non aveva la zappa tra le mani, così andò a prenderla.
Ramstan sorrise. "Ammetto di non aver pensato a questa motivazione."
"Perché sei anche in grado di pensare?" Lo canzonò Mariliel.
"Adoro la tua lingua tagliente." Ramstan cercò di avvicinarsi, ma Mariliel lo intimò di fermarsi con lo sguardo.
"Sono un guerriero, dico... Sì, sì." Fredor tornò di gran carriera con la zappa in mano. "Ho la mia spada. Sono un guerriero, dico... Sì, sì." Mostrò a tutti la sua zappa con fierezza.

Mariliel e Ramstan rimasero da soli sotto la volta del bosco, poco distanti dal fienile. Fredor era ritornato a lavorare la sua terra, non prima di essersi messo a parlare della sua Brema con gli uomini di Ramstan che l'avevano ascoltato annoiati sotto ordine del Redguard.
Tra la folta vegetazione di pini e arbusti, le cicale continuava a frinire rumorosamente, mentre di tanto in tanto, da lontano, si udiva qualche uccello cantare. La luce del sole filtrava attraverso i folti rami, creando chiazze illuminate sul terreno. 
"Come vuoi che li uccida?" Disse Ramstan in piedi a due passi dalla donna.
"Non devi." Rispose Mariliel. "Sono solo due idioti. Non meritano la morte."
"Hai detto che volevano uccidere tuo padre."
"Sì. Ma posso occuparmene da sola, se ci proveranno di nuovo."
"Non credo che lo faranno. Quando sono arrivati al campo erano piuttosto spaventati." Sorrise Ramstan.
"Campo?" Sottolineò Mariliel. "Ti sei accampato a Cyrodiil? Perché?"
"Le carovane in arrivo da Elsweyr scarseggiano. E' inutile rimanere lì se non posso concludere affari."
"Rapinare carovane lo chiami affare?" Mariliel alzò un sopracciglio.
"Mi frutta soldi. Quindi è un affare." Sorrise Ramstan.
"Quanto odio quel sorriso." Pensò Mariliel.
Ramstan si avvicinò a lei. Allungo una mano verso le sue braccia, ma lei gli tirò uno schiaffo. "Azzardati a toccarmi e ti stacco quella testa sorridente dal tuo corpo!" 
"Non posso farci niente se mi piaci." Si mosse dolcemente verso di lei.
"A me non piaci."
"Certo, certo." Ramstan si ritrovò la lama dello stiletto sui genitali. La donna era stata veloce e furtiva a sfoderarla.
"Fai un altro passo. Che aspetti?" Lo incitò Mariliel.
Il Redguard fece per avvicinarsi, pensando a una farsa, ma sentì la lama premere più in profondità. "Va bene, mi arrendo. Sarà per la prossima volta." Indietreggiò con un sorriso malizioso.
"Puoi essere anche un principe ripudiato, ma questo non mi fermerà nell'ucciderti se ti azzardi a toccarmi di nuovo." Era molto seria la donna.
"A mio padre non interessa se io viva o muoia." Disse Ramstan, voltandosi. "Come a me non interessa di lui e della sua stupida terra." Posò una mano sull'elsa della sciabola. "Se solo volessi potrei prendere ciò che è suo. Nessuno direbbe niente. Penseranno che sia solo una delle tante scaramucce per il possesso di un pezzo di deserto, che non vale un cazzo per giunta." La sua voce era calata drasticamente. Non sembrava più il Redguard tutto sorrisi.
Mariliel non aveva mai visto Ramstan parlare in quel modo, quasi come se si stesse confidando. Rimase in silenzio. Non gli sembrava il caso di fare domande, né di dire qualcosa.
Il Redguard si voltò verso di lei. Sorrise nuovamente. "Ma parliamo del nostro avvenire."
"Non esiste nessun noi." Mariliel andò via, lasciandolo sul posto con un sorriso sulle labbra.


 
*****


Netrom Morten fluttuava in alto nella prigione. Vedeva sé stesso da giovane e l'uomo dai capelli arruffati rannicchiati in un angolo. Dietro le mura esterne di quel tugurio, c'era solo oscurità. Il vuoto circondava la stanza dall'esterno come se da un momento all'altro la dovesse inghiottire. Oltre la porta con le sbarre di ferro, il nulla. Il corridoio sembrava essersi dissolto, sparito. 
Poi Netrom Morten da giovane si alzò. Cominciò a fare avanti e indietro, guardando di tanto in tanto in alto la finestrella con le sbarre di ferro che dava all'esterno. Lui ci vedeva qualcosa, ma Netrom Morten che fluttuava in aria no. Solo oscurità. 
D'un tratto, oltre la porta con le sbarre di ferro, si materializzò il corridoio. Una debole luce di una candela illuminò lentamente l'ombra di una sagoma che si avvicinava senza far rumore alla cella. 
Netrom Morten da giovane si fermò. Guardò l'ombra farsi sembra più distorta, quasi enorme. L'uomo dai capelli arruffati si mise contro la parete, premette la schiena sulla fredda roccia, come se volesse trapassarla e nascondervisi dietro. Cominciò a singhiozzare, a borbottare, le mani sulla testa, le ginocchia scheletriche piene di morsi quasi a toccare la faccia sporca.
Netrom Morten da giovane attese.
Un uomo con la tunica si fermò davanti alla porta della cella, il viso ombrato dal cappuccio. Rimase anche lui fermo. D' un tratto la porta si spalancò da sola. 
"No! No! No!" Sibilò in un pianto smorzato l'uomo dai capelli arruffati.
L'uomo con la tunica puntò il dito contro Netrom Morten da giovane, che sussultò al gesto. Poi gli fece segnò di venire di farsi avanti. Il giovane Bretone si avvicinò lentamente, soppesando quasi ogni passo. L'uomo con la tunica gli voltò le spalle, uscì nel corridoio e si voltò di nuovo, rimanendo fermò, le mani chiuse nelle larghe maniche.
Netrom Morten da giovane si fermò sotto l'asse della porta. Aveva la sensazione che da un momento all'altro sarebbe stato aggredito dall'uomo con la tunica o da qualcun'altro.
L'uomo con la tunica fece un ampio gesto con la mano, indicando la direzione in cui il Bretone da giovane doveva dirigersi. L'uomo con la tunica rimase fermo come una statua, finché Netrom Morten da giovane non si decise a uscire dalla cella e incamminarsi nel corridoio. Si accorse che la sua celle era l'ultima nel fondo del corridoio.
Mentre il Bretone da giovane camminava, dietro di lui percepiva la presenza dell'uomo con la tunica, ma non udiva nessuno dei suoi passi, come se in realtà non ci fosse nessuno alle sue spalle.
Su tavoli dal legno marcio e privi di oggetti, sporadiche candele erano adagiate su piattini di legno, illuminando lievemente il corridoio. Sembrava che i tavoli fossero lì solo per sostenere le candele. Ai lati delle mura, percorse da molteplici crepe di diverse profondità, c'erano varie alcove usate come celle. La luce delle candele non arrivava a squarciare l'oscurità che vi si annidava, perciò Netrom Morten da giovane non seppe dirsi con certezza se ci fossero altri prigionieri. Il muschio proliferava nelle fessura dei pavimenti e mura.
Netrom Morten da giovane arrivò alla fine del corridoio. Vide una scala dai gradini mezzi distrutti salire verso l'oscurità. Si guardò alle spalle. L'uomo con la tunica rimase fermo a due passi da lui, le mani sempre nelle grandi maniche.
Incerto, posò un piede sullo scalino. Rimase così per un istante. Poi lentamente salì le scale mentre l'oscurità l'avvolgeva totalmente. Inciampò. Cadde. Si rialzò. Continuò a salire alla cieca. Non vedeva niente davanti a sé. 

D'un tratto senti una mano sulla spalla. Si pietrificò. Un leggera ventata lo colpì al viso. Poi l'oscurità fu lacerato da una forte luce. Istintivamente si coprì gli occhi con le mani. Non riusciva ad aprire gli occhi per quanto si era abituato all'essenza di luce giù nella cella. 
Quando iniziò a dare forma a ciò che vedeva; vide di fronte a sé l'uomo con la tunica. Era sempre nella sua solita posizione. 
Netrom Morten da giovane si guardò attorno, serrando ogni tanto gli occhi per proteggersi dalla forte luce. Si trovava in un ampio corridoio arcuato. Alla sua destra, c'erano delle piccole e snelle colonne che correvano su muretti, limitando il corridoio da un piccolo giardino. In realtà, si rese conto poco dopo, si trovava in un ampio porticato con al centro un giardino, da cui vedeva solo un accenno di siepi appena sopra il muretto.
Il pavimento di marmo era immacolato, e nell'aria c'era un forte odore di fiori che Netrom Morten da giovane non seppe distinguere. Il suo udito fu allietato dal canto degli fringuelli. Quel canto lo fece sentire di nuovo vivo, felice. Ma la felicità durò poco.
L'uomo con la tunica gli fece segnò con la mano di proseguire. Il Bretone da giovane s'incamminò. Anche sul pavimento di marmo non riusciva a sentire i passi dell'uomo alle sue spalle.
Proseguì lungo l'ampio porticato, osservando il giardino ben curato nel mezzo. Vide piante di belladonna, lavanda ed altre nascoste tra i rametti di piccoli alberelli.
D'un tratto la mano si posò nuovamente dietro la sua spalla. Si voltò.
L'uomo con la tunica aprì un portone di legno riccamente elaborato da strani segni. Si fermò sulla soglia e fece segnò a Netrom Morten da giovane di entrare.
In quella enorme sala illuminato da grandi candelieri attaccati al soffitto, si trovava una lunga tavola imbandita da piccole botti e bicchieri di pietra. Le pareti erano arricchite con strani dipinti e vari arazzi di colore rosso sangue. Una dozzina di persone con raffinati vestiti, dall'aspetto nobile e affascinante, sedevano in silenzio, le loro teste che si muovevano come se stessero parlando tra loro. 
D'un tratto qualcuno batté due volte le mani. Tutti si ammutolirono, voltandosi verso di lui.
L'uomo dai corti capelli bianchi tirati indietro, la pelle smorta, invecchiata e un aspetto lugubre, si alzò dalla sedia dal lungo schienale. Gli occhi rossi passarono su ogni commensale, finendo infine su Netrom Morten da giovane. 
L'uomo con la tunica uscì dalla sala, chiudendo rumorosamente la porta alle spalle del Bretone da giovane.
"Carissimi consanguinei." Disse l'uomo dai capelli bianchi alzando le sopracciglia e socchiudendo leggermente gli occhi. "In questo lasso di tempo infinitamente lungo e arcaico, abbiamo cercato un nuovo figlio, un nuovo nipote. Secoli sono passati dall'ultima unione. Ed oggi, carissimi consanguinei. Ho il privilegio di presentarvi il nostro nuovo figlio-nipote."
Tutti si voltarono verso Netrom Morten da giovane, gli sguardi che andavano al di là di una semplice occhiata. Lo analizzavano. Cercavano di capire se fosse meritevole dell'unione.
"Vieni avanti." Disse l'uomo dai capelli bianchi.
Netrom Morten da giovane, non capendo cosa diavolo stava succedendo, avanzò con cautela, fermandosi vicino alla tavola. Alla sua sinistra, c'era un Altmer dal viso scavato, mentre alla sua destra; un Imperiale dal viso cagionevole, maligno. Lo guardarono fisso negli occhi. Tutti loro lo guardarono in quel modo.
"Netrom Morten." Disse l'uomo dai capelli bianchi dal fondo della tavola.
Il Bretone da giovane sussultò alla sua parola, chiedendosi come mai sapeva il suo nome.
"Sei rimasto fedele alla tua linea di principio, ma sappiamo entrambi che una parte di te vorrebbe far parte della nostra progenie, della nostra famiglia."
Netrom Morten da giovane non capiva.
"Sai perché sei qui?"
Il Bretone da giovane non rispose.
"Devi rispondere quando il Patriarca ti pone una domanda!" Tuonò l'Altmer al suo fianco, serrando gli occhi rossi.
"No." Rispose quasi in un sussurro Netrom Morten da giovane.
"Hai praticato la negromanzia. Ti abbiamo tenuto d'occhio per anni, e abbiamo veduto in te, un potere che sembrava essere svanito da Tamriel. All'inizio eravamo scettici. Pensavamo che fossi come tutti gli altri Negromanti, ma invece ci hai sorpreso."
Netrom Morten da giovane continuava a non capire.
"Quanti cadaveri hai rianimato?"
"Più di duecento."
Nella sala si udì un vociferare sommesso.
"Quanti Dremora, Deadroth, Clannfear, Wraith, Atronach, Daedra Ragno, Lord Dremora hai evocato? Ovviamente è solo una ristretta lista delle creature da te evocate."
I Commensali borbottavano sorpresi.
"Non ricordo." Rispose Netrom Morten da giovane.
L'imperiale dall'aspetto cagionevole si alzò in piedi. "Chiedo perdono, patriarca. Ma ho una domanda da porvi, con vostro permesso."
L'uomo dai capelli bianchi, il Patriarca, annuì.
"Se questo 'nuovo figlio' è un potente negromante, perché è rimasto rinchiuso nelle nostre segrete per cinque mesi? Perché non ha usato i suoi poteri per fuggire o ucciderci? Perché non ha evocato nulla di tutto ciò che avete detto?" 
Tutti gli invitati sembravano interessati alla replica del Patriarca.
Il Patriarca fece un sorriso lugubre. "Anche se è un potente Negromante, egli ha un punto debole. La sua umanità. Come già sapete, condivideva la cella con un uomo. Era l'uomo a tenere a bada i suoi poteri. Ma voi direste; come? Semplice. Egli non si è mai esposto perché sapeva che le sue azioni avrebbero portato alla morte dell'uomo. Un uomo che è lì solo grazie alla sua ingenuità e stupidità. E' rimasto nelle segrete perché non ero sicuro che lui fosse il Negromante che cammina tra la vita e la morte. Un uomo in grado di provare sensibilità, compassione, empatia e nel contempo stesso odio, rabbia e disprezzo. Una dote rara in grado di spazzare via con un solo soffio l'intera Tamriel. Egli ha sopportato i soprusi che abbiamo inferto al suo compagno di cella. Ha governato e canalizzato la sua rabbia. Non si è fatto prendere dall'ira quando veniva colpito dal carceriere. Solo un uomo che cammina tra la vita e la morte è in grado di fare ciò."
L'Imperiale si accigliò. "Un negromante venera solo la morte, e disprezza la vita. Non prova né pietà, né compassione. Non prova nulla verso gli essere viventi."
"Ottima deduzione elementare. E a voi tutti dico, consanguinei, che Netrom Morten è speciale. Riesce a trovare l'equilibro anche nel caos. Egli cammina tra la vita e la morte. Acquisisce forza, alimenta il suo potere, ma senza soccombere come gli altri Negromanti. Quanti ne abbiamo visti morire divorati internamente dai loro oscuri poteri? Quanti?"
Tutti si guardarono tra loro.
"Centinaia. Migliaia. Sono innumerevoli i Negromanti che perdono la ragione, soccombono ai loro istinti, inghiottiti per sempre dall'oscurità. Ma egli." Indicò Netrom Morten con un dito "Egli non è come gli altri. Il suo è un dono. E' nato per essere un potente Negromante. Egli sarà il nostro nuovo figlio. L'unione tra la luce e l'oscurità."
"Non capisco." Rispose l'Imperiale.
"La tua mente è lungi dal conoscere l'inesplicabile. Solo chi osserva il mondo così com'è, è in grado di comprendere le arcane sfumature di ogni essere vivente. Le molteplici maschere che noi tutti indossiamo per ogni evenienza. Captare le azioni di una persona, anticiparle, sfogliarle la mente come un libro aperto. E lì che risiede l'uomo che cammina tra la vita e la morte. Colui che silente risiede in disparte, conoscendo il mondo per quello che è; una bolgia di essere viventi che cerca di colmare un vuoto esistenziale. Un vuoto che non sarà mai riempito, poiché essi divorano tutto quello che afferrano senza dargli un valore. Non sono mai sazi. E quel vuoto si espanderà, arriverà al limite, finché un giorno si ripiegherà verso l'interno, divorando pezzo per pezzo chi l'ha mal nutrito. Ora capite il potere del nostro nuovo figlio-nipote, Consanguinei?"
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > The Elder Scroll Series / Vai alla pagina dell'autore: Quebec