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Autore: Quebec    26/09/2019    1 recensioni
Netrom Morten, un Bretone Negromante, scopre il cadavere di una donna dissanguata vicino la città di Skingrad. Conoscendo personalmente il Conte Janus Hassildor, spera di trovare il colpevole, ma dietro quella sua curiosità si cela ben altro...
Genere: Avventura, Fantasy, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Conte Hassildor osservava i corpi pallidi dell'Orco e dell'Imperiale sui tavoli di legno. Erano nudi, le ferite in vista. La camera si trovava vicino alle segrete, solo che era molto più fredda ed esposta alle intemperie. Ogni tanto il vento fischiava tra le fessure aperte nella pietra come lamenti o tormenti di un fantasma. Per il Conte Hassildor quel rumore era piacevole. Zittiva il caos che gli assillava la mente. Sul soffitto, appese tramite catene mezze arrugginite, piccole lanterne nere con all'interno una robusta candela, illuminavano metà volto dei cadaveri, e quasi tutta la stanza. Il Conte Vampiro spostò lo sguardo dall'Orco, all'Imperiale, e così in un continuo ciclo senza fine. "Sono cacciatori di vampiri?" Pensò. "Avevano della armi d'argento. Magari sono gli stessi che erano venuti in città assieme a quell'Elfo Scuro... O forse no... Ora che ci penso sono spariti senza lasciare tracce. Ma se sono loro perché sono morti? Chi li ha uccisi? Perché erano alla porta della città con una carretto di cibo."
D'un tratto la porta di legno rinforzata in ferro si spalancò con un forte cigolio metallico. I cardini della porta erano corrosi dalla ruggine e mancava poco che si staccassero del tutto. Il Conte Hassildor rimase impassibile al suono; una qualunque persona sarebbe saltata dallo spavento.
Il capo della guardia cittadina rimase sulla soglia, la testa bassa.
Il Conte Hassildor si voltò. "Che avete scoperto?"
"In città non c'è traccia di cacciatori di Vampiri." Il capo della guardia cittadina chiuse lentamente la porta, facendo meno rumore possibile. Il cigolio metallico echeggiò sia nel corridoio da cui era venuto, che nella stanza. Gli procurò un gran fastidio ai timpani, mentre Il Conte Hassildor non sembrò poi tanto disturbato.
"Hai controllato ogni angolo della città? Pure i condotti fognari?"
"Ovunque, Conte. Tranne... Nelle fogne... I miei uomini..."
"Si rifiutano?" Lo interruppe il Conte Hassildor. "Di' loro che verranno ricompensati."
"Intendi se trovano qualcosa?"
"Cosa non hai capito della mia frase?" Il Conte Vampiro serrò gli occhi rossi.
Il Capo della guardia cittadina rimase in silenzio. Sapeva che rispondere avrebbe solo irritato o fatto arrabbiare il Conte Vampiro.
Il Conte Hassildor lo fissò negli occhi per un po'. "Porta i tuoi uomini nelle fogne. Saranno ricompensati anche se non troveranno nulla, ma sappi una cosa..." Il Conte Hassildor si avvicinò a lui. "La responsabilità del loro operato cadrà unicamente sulla tua testa."
Il Capo della Guardia Cittadina sbiancò e annuì.


 
*****


"E se ti portassi a visitare High Rock?"
"High Rock?" Mariliel alzò un sopracciglio. "Stai scherzando, spero."
Ramstan sorrise. "Non mi avevi detto che ti sarebbe piaciuto visitare High Rock?"
"Inventi parole che non ho mai detto."
Erano seduti su una roccia. Davanti a loro, la radura si estendeva per una lega di distanza. Il sole splendeva alto nel cielo limpido, e una leggera brezza sfiorava i loro volti, facendo ondeggiare al vento i capelli di Mariliel.
"Ricordo bene quello che mi hai detto."
"Allora ricordi male." Tagliò corto la donna.
Ramstan allungò un braccio attorno alle sue spalle. Mariliel lo guardò negli occhi. Ramstan chiuse gli occhi, si avvicinò per baciarla. La donna lo schiaffeggiò in piena faccia. 
Mariliel si alzò infuriata. "Lo vuoi capire che mi fai schifo!" Urlò la donna. Poi se ne andò a passo veloce.
Ramstan si toccò la guancia rossa e rise, prima piano, poi a crepapelle. Non riusciva più a smettere di ridere. Si accasciò sulla roccia con le lacrime agli occhi. Iniziarono fargli male anche le costole per quanto rideva.


 
*****


L'Elfo Scuro proseguiva al trotto sul cavallo baio. Teneva ben strette le redini e si guardava attentamente attorno. La stradina sterrata, ombrata dalla volta di alcune betulle, non era una delle più sicure. Qui infatti, sul ciglio della strada, era possibile vedere i resti dei carretti, casse, barili o carovane assaltate dai banditi o predoni. Qualche scheletro giaceva silente tra l'erba alta, altri cadaveri in decomposizione oltre i pini. Quelli erano i più fortunati, poiché gli assalitori non uccidevano mai se non erano costretti. I prigionieri valevano più da vivi che da morti. Il Mer lo sapeva, e sapeva anche che fine facevano quei prigionieri; serviti come banchetto sulle tavole dei Vampiri per poche monete. Per un malvivente era sempre meglio di niente. Una vita vissuta in catene, chiuse in una piccola cella di due metri se si era fortunati, o tutti ammucchiati come polli in una gabbia pronti al macello. Le malattie che corrompevano il corpo umano non aveva nessuno effetto sui Vampiri. A loro importava solo del loro sangue. Nient'altro. Quei prigionieri erano divorati da ogni sorta di malattia per via della malnutrizione o della scarsa igiene; celle impregnate di merda e piscio su un terreno roccioso.
L'Elfo Scuro sapeva dove finivano i cadaveri, meglio dire, che fine facevano. I corpi venivano dati in pasto alle fiamme, gettati in mare, nei fiumi, nei laghi e alcuni volte divorati dai maiali, se si aveva l'amicizia di qualche fattore Vampiro. Se qualche maiale moriva, lo si macellava e si vendeva la carne in città, nei quartieri malfamati, dove le persone mangiavano anche i loro stessi bambini pur di non morire di fame. Se qualcuno di loro moriva, la guardia cittadina non apriva nessun indagine. Ma nel caso di personalità di spicco, era tutta un altra questione.
Il Mer tirò le redini, il cavallo baio si fermò. Si guardò attorno. Aveva la sensazione di essere osservato. Folate di vento scuotevano le fronde degli alberi, un piacevole fruscio tra le foglie lo accompagnava nel suo fare sospettoso.
Tutto sembrava così tranquillo, che per un momento pensò di essersi sbagliato. Poi un uomo vestito di nero uscì dietro una betulla come un ombra, seguiti da altri due che sbucarono ai lati della stradina. 
L'Elfo Scuro rimase immobile, li osservò. Il cavallo baio s'imbizzarrì un poco. Il Mer gli accarezzò il muso, calmandolo.
Quelli se ne stavano fermi a 20 piedi da lui, gli occhi neri che balenavano di malignità. Poi entrambi gli voltarono le spalle e s'incamminarono sulla stradina. 
L'Elfo Scuro schioccò le labbra. Il cavallo baio si mosse a passo. Cauto, li seguì a distanza.


 
*****


La giovane moglie del Conte Clavis piangeva sul suo letto matrimoniale dalle lenzuola blu riccamente elaborate. Era lì da giorni, da quando il marito l'aveva rinchiusa. Aveva cercato di scappare, di abbattere la porta, di urlare a squarciagola fino a perdere la voce, ma non era servito a niente. Ora se ne restava lì, tutta sola, a contemplare la sua vendetta, perdendosi sempre in giustificazioni inutili. Lo amava e lo voleva uccidere nello stesso tempo.
Si alzò in preda alla rabbia, gli occhi rossi dal pianto, il viso una maschera di disperazione. Afferrò un portafiori e lo lanciò contro la parete. Pezzi di ceramiche volarono ovunque. Poi prese tutto quello che gli poteva capitare sottomano e lo lanciò contro i muri e la porta; piatti, calamo, libri, gioielli e persino le tre sedie nella stanza. Poi si accasciò a terra. Pianse. Tirò pugni sul pavimento, sradicò il tappetto viola con impresse delle rose nere. La rabbia la lacerava, ma non poteva fare altro che piangere, lanciare oggetti e piangere di nuovo. La stanza da letto era sotto sopra, fatta eccezioni per il letto matrimoniale. Corse e si buttò sul letto. Pianse a lungo, finché non venne sopraffatta dal sonno.

Verso le due del mattino, la giovane moglie si svegliò. Aveva sentito un rumore. La stanza era immersa nell'oscurità e solo una debole luce lunare filtrava attraverso le vetrate. 
"Chi c'è?" Disse con una flebile voce.
Nessuno risposte. Il silenzio regnava sovrano nella camera da letto.
La giovane moglie si alzò lentamente, sussultò quando i piedi si posarono sul freddo pavimento. Cercò una candela, e in quell'istante si ricordò di aver lanciato anche quelli contro le pareti. Ritornò sul letto, si mise sotto le coperte, si avvolse completamente. Aveva paura. Avvertiva qualcosa celata nell'oscurità, ma non era sicura. "E' solo la mia immaginazione..." Pensò. "Ho sempre avuto paura del buio... Sono stupida come una bambina... Ecco perché mio marito mi rinchiude..."
Poi di nuovo quel rumore, ma questa volta capì cos'era; era l'imposta aperta della finestra che sbatteva contro il muro esterno per via del vento. Tirò un sospiro di sollievo, ma fu lì che le lenzuola gli vennero strappati di mano. Qualcosa di freddo gli afferrò le gambe, qualcosa che al tatto ricordava una mano. Tentò di urlare, ma un altra mano gli tappò la bocca. Il gridò gli morì in gola. Cercò di scappare alla presa, agitò le gambe, tirò pugni all'aria. Altre mani fredde gli bloccarono i polsi. Non vedeva nessuno. Tutto era buio. Poi, illuminata brevemente dalla luce lunare, vide un ombra vagamente umanoide strisciare veloce sul pavimento. Pianse, cercò di gridare inutilmente. D'un tratto, percepì qualcosa nelle pelle della gamba. Poi nelle braccia, nelle cosce, nel collo. Si sentì debole. Venne girata di pancia in giù. Non aveva più forze per gridare, emanava solo rantoli. Sentì qualcosa nei glutei, nel fondo schiena, dietro le cosce, nei polpacci. Erano morsi. Denti umani. Non riusciva più a tenere gli occhi aperti. Si sentiva stanca, prosciugata. Poi gli occhi si chiusero.


 
*****


Hal-Liurz sedeva sulla sua solita panca nello studio del Conte Hassildor. Questa volta leggeva; Il disastro di Ionith. Era immersa totalmente nella sua lettura serale, anche se erano le due mezza del mattino. Ma lei dormiva poco e male. Preferiva stare sveglia e dormire qualora la vista si annebbiava o gli mancavano le forze. Era già a metà libro quando alzò da sopra le pagine i suoi occhi da rettile. L'uomo in armatura aveva appena aperto la porta. Non era una guardia, né qualcuno che lei conosceva. Hal-Liurz scattò subito in piedi, il libro gli cadde di mano e si schiantò sul pavimento. Il suono secco emesso dal tomo, riecheggiò per un istante da una parete all'altra della camera. 
"Non puoi stare qui!" Gridò Hal-Liurz avvicinandosi minacciosa all'uomo.
L'uomo non rispose. Rimase fermo sulla soglia della porta, la mano sul pomo della maniglia. Indossava un armatura strana, che l'Argoniana non seppe riconoscere sul momento. Poi d'un tratto, davanti ai suoi occhi s'impresse un immagine; un armatura Daedrica. Hal-Liurz si fermò di colpo. L'uomo vestiva in egual modo, un armatura completa, fatta eccezione per l'elmo Daedrico che portava sotto braccio. Aveva un viso ovale, una barba di qualche giorno, un sopracciglio spaccato, corti capelli marroni tendenti al grigio e l'iride blu a sinistra e verde a destra. Era piuttosto muscoloso con ampie spalle. Un grossa cicatrice gli partiva dalla guancia sinistra fino al labbro inferiore destro come se un animale l'avesse azzannato in faccia. Inoltre, portava una spadone Daedrico legato dietro la schiena. L'uomo in armatura Daedrica chiuse la porta.
"Non fare un altro passo!" Tuonò l'Argoniana serrando gli occhi, anche se la sua voce non era per niente intimidatoria.
L'uomo in armatura Daedrica andò da lei. I suoi passi era silenzio, nemmeno l'armatura tintinnava quando si muoveva. 
Hal-Liurz rimase immobile. Era intimidita dal passo sicuro dell'uomo che le veniva incontro.
L'uomo in armatura Daedrica si fermò a tre passi da lei. La guardò dritta negli occhi. "Dov'è il Conte Hassildor?" Disse con voce dura, profonda.
"Come hai fatto a superare le guardie con quella armatura?" Gli domandò Hal-Liurz come se la domanda gli fosse uscita di bocca da sola.
L'uomo in armatura Daedrica la guardò severo, senza espressioni. Non rispose. Attese.
L'Argoniana si sentì schiacciare sotto quello sguardo."Ora chiamo le guardie!" Andò a passò svelto verso la porta, lanciando una fugace occhiate dietro di lei. Aprì la porta e chiamò le guardie nel corridoio, che accorsero in un secondo. Quando si voltò per indicare l'uomo con l'armatura Daedrica, vide che era sparito. Non c'era più. Le due guardie si lanciarono delle occhiate perplesse. Hal-Liurz era più confusa di loro.
"Era... Era qui." Disse tra sé Hal-Liurz.
Una guardia capì quello che aveva detto. "Sicura? Io non vedo nessuno. Forse dormite troppo poco e la mente..."
"No!" Rispose l'Argoniana. "Sono lucida. L'ho visto. Era esattamente lì." Indicò un punto con il lungo dito da rettile. "Non me lo sono immaginata."
Le guardie si guardarono nuovamente tra loro.


 
*****


Il Capo della guardia cittadina radunò cinque uomini vicino l'entrata delle fogne. Erano le tre e venti di mattina, e le strade erano completamente deserte, a parte i soldati di ronda. Le luci delle due lune si riflettevano sugli elmi senza celata d'acciaio delle guardie.
Il Capo della guardia cittadina aveva scelto l'entrata più nascosta, meno in vista, poiché quando ore dopo sarebbe usciti dalle fogne, nessuno li avrebbe visti. E nessuno degli uomini che aveva radunato voleva essere visto sporco di merda o di qualsiasi altra cosa c'era nel fondo delle fogne. Il quartiere residenziale era ottimo, perché la mattina tutti andavano al distretto del mercato, e in quelle strade rimanevano solo guardie. In più, la torre di guardia più vicina distava 60 piedi.
"Ascoltate." Il capo della guardia cittadina sfoderò la spada d'acciaio. "Come sapete il Conte Hassildor vuole che perlustriamo i condotti fognari per trovare i cacciatori di vampiri. Quindi fate..."
"E' una cosa che proprio non capisco." Disse la guardia dai capelli neri. "Perché dobbiamo dare la caccia a chi caccia i Vampiri? Loro cacciano i Vampiri, no? Perché noi dobbiamo cacciare loro? Non ha senso. Quelli tengono lontani quei succhiasangue. Dobbiamo lasciarli fare, secondo me."
"Hai ripetuto quattro volte la parola cacciare." Rispose un uomo calvo. "Il tuo cervello si è inceppato come il tuo cazzo quando eri a letto con Lysma?" Tutti le guardie risero, eccetto il capo della guardia cittadina.
La guardia dai capelli neri si irritò.
"Silenzio!" Gridò il capo della guardia cittadina, facendo attenzione a non alzare troppo la voce per non svegliare il vicinato. "Siete pagati per fare quello che vi dice il Conte, non per pensare."
Le due guardie si guardarono tra loro, gli occhi che sprizzavano fiamme. Volevano azzuffarsi l'un l'altro ma non lo fecero.
"Volete finire come quegli idioti che non hanno rispetto gli ordini del Conte?" Domandò il capo della guardia cittadina.
"Quelli sono sempre stati dei coglioni!" Rise la guardia calva, assieme alle altre quattro guardie. La guardia dai capelli neri smorzò una risata. Non voleva che l'uomo calvo lo vedesse ridere a una delle sue battute.
"Se non la smetti faccio ti rapporto per insubordinazione!" Il capo della guardia cittadina si mise a un palmo dalla faccia della guardia calva.
Intimorito, la guardia calva abbassò gli occhi.
"Entra tu per primo." Disse poco dopo il capo della guardia cittadina all'uomo calvo. "Facci l'onore di sguazzare nella merda per primo."

La rete di canali in mattoni dove erano entrati, emanavano un puzzo di escrementi pazzesco. Quando gli stivali sguazzarono nella melma, tutti loro vennero percossi da conati di vomito. Il rumore che sentivano, le cose che schiacciavano, il tanfo insopportabile, li faceva venir voglia di vomitare pure l'anima. Le cinque guardie si coprirono il viso con il bracciale dell'armatura d'acciaio. L'odore penetrava ugualmente, ma era meno intenso rispetto al dover respirare a pieni polmoni.
L'uomo calvo seguiva in testa, la torcia nella mano sinistra, una spada d'acciaio nella destra. L'uomo dai capelli neri chiudeva la fila, sempre con una torcia e una spada. Il capo della guardia cittadina si muoveva quasi affianco all'uomo calvo, ma leggermente più indietro, senza torcia.
L'oscurità avvolgeva ogni cunicolo delle fogne. Per loro fortuna non erano immensi come quelli della Città Imperiale, dove si annidavano Negromanti, Banditi, Ratti e ogni genere di feccia sulla terra.
"Ma chi cazzo vorrebbe vivere qui sotto?" Disse l'uomo calvo.
"Mica ci vivono." Rispose l'uomo dai capelli neri. "Si stanno rifugiando."
"Non mi rivolgere la parola, coglione!"
"Ehi!"
"Basta!" Tuonò il Capo della guardia cittadina. "Se vi sento ancora litigare giuro sui Nove Divini che vi lasciò morire quaggiù!"
I due si ammutolirono.
"Fate silenzio! Nessuno di voi deve parlare se non lo dico io!" Continuò il capo della guardia cittadina.
Proseguirono per 80 piedi e svoltarono a destra. I condotti sembravano tutti uguali. Ogni tanto saltava fuori qualche Ratto che, davanti alla luce della torcia, fuggiva via rintanandosi nei piccoli buchi scavati nelle mura.
"I ratti non sono poi così grandi, qua sotto." Disse l'uomo Calvo.
"Che ti ho detto prima?" Lo intimorì il capo della guardia cittadina.
Camminarono a lungo. Alla fine alcuni di loro vomitarono bile, altri la cena. Dei cacciatori di Vampiri non c'era nessuna traccia. A un certo punto girarono per tre volte lo stesso condotto. Poi s'inoltrarono in altri canali, ma ovunque andassero, sembrava di girare a zonzo. 

"Non ne posso più. Da quanto siamo qua sotto? Tre ore? Tre giorni? Tre anni? Una vita?" Si lamentò l'uomo calvo.
"Silenzio!" Rispose il capo della guardia cittadina.
"Camminiamo nella melma da così tanto tempo che ho l'armatura tutta imbrattata di merda, cazzo!" Disse la guardia dai capelli rasati.
"Basta!" Gridò il capo della guardia cittadina.
"A me viene di vomitare pure le interiora!" Aggiunse l'uomo dai capelli neri.
"Che lo faccia un altro questo lavoro di merda!" Imprecò la guardia dalla barba nera.
Il capo della guardia cittadina non sapeva più che fare. Tutti e cinque gli uomini si lamentavano e non eseguivano più gli ordini. Cercò di minacciarli, ma non servì a niente. Tutti loro fecero gruppo contro di lui. 
"Perlustralo tu questa fogna del cazzo!" Urlò l'uomo calvo.
Tutti e cinque si misero a urlare contro il capo della guardia cittadina. Un caos di parole tutte accavallate.
"Sì, fallo da solo!"
"Io me ne vado!"
"Noi siamo pagati per sguazzare nella merda!"
"Non me ne frega un cazzo. Io non faccio un altro passo!"
Il Capo della guardia cittadina puntò la lama contro di loro. "Voi non andrete da nessuna parte! Volete essere impiccati per diserzione? Volete disonorare il corpo della guardia cittadina?"
"Non mi frega un cazzo della guardia cittadina!" Gridò l'uomo calvo puntando la lama contro il suo superiore. Tutti seguirono il suo esempio.
Il Capo della guardia cittadina indietreggiò. "Abbassa l'arma, soldato!" Guardò tutti loro negli occhi. Non sapeva chi si sarebbe scagliato per primo.
Poi qualcosa di molto freddo affondò nel dorso, quasi sotto l'ascella. Il sangue schizzò nella melma. La punta della lama uscì dall'altra parte, imperlata di sangue. La sua spada gli cadde dalle mani, nel pattume.
L'uomo dai capelli neri ritirò indietro la spada insanguinata. "Questa è la fine che meriti! Sguazza nella merda, coglione!" 
Il Capo della guardia cittadina cadde sulle ginocchia, le mani sulla ferita che pulsava sangue. Con lo stivale sporco, la guardia dai capelli neri lo spinse per la schiena nel pattume. Si mise a ridere, seguito da tutti loro.
"Andiamocene via." Disse l'uomo calvo.
"Non è meglio ucciderlo?" Domandò la guardia dai capelli rasati. "Potrebbe sopravvivere. Dire al Conte..."
"Morirà, starne certo. Se non lo divoreranno i Ratti da vivo, ci penserà qualche malattia a farlo fuori." Rise l'uomo calvo. "Ormai è ricoperto di merda. Sai quante malattie ci sono là dentro? Me l'ha detto un Guaritore."
"Capisco." Rispose incerto la guardia dai capelli rasati.
I cinque uomini andarono via. Man mano che le luci delle torce si facevano sempre più flebile e lontane, l'oscurità inghiottì lentamente il Capo della guardia cittadina.
Tossì più volte. Poi l'oscurità l'avvolse completamente. Rimase per qualche minuto nel silenzio, interrotto dal lontano gocciolio dell'acqua.

D'un tratto, udì le zampe dei Ratti strisciargli attorno. Erano due o tre, ma nessuno di loro si avvicinava. Squittivano rumorosamente. Poi gli squittì diventarono intensi, vicini e molto numerosi. I loro passi sguazzavano nella melma facendo un gran chiasso. "Devono essere una dozzina di Ratti." Pensò. "Forse qualche dozzina, dannazione."
Poi, quasi come un miraggio, vide una piccola luce infondo al canale. Non proveniva dalla direzione da dove i cinque uomini erano andati via. E in quell'istante le sue supposizioni diventarono reali. Una quarantina di Ratti erano tutt'attorno, i loro musi fiutavano l'aria. "Fiutano la morte. La mia morte." Pensò. "Vogliono mangiarmi da morto o hanno paura... Almeno mi danno il tempo di crepare, forse." Tossì sangue. Un ratto si ritrasse spaventato.
La luce infondo al canale diventava sempre più vicina. I Ratti infondo al cerchio si voltarono, guardarono, annusarono l'aria e fuggirono via nelle fessure scavate nelle mura. 
I ratti nella prima fila di sinistra, cercarono di azzannargli frettolosamente una gamba. I loro denti cozzarono contro i gambali dell'armatura. Il capo della guardia cittadina sussultò spaventato. Con un mano, cercò la spada nel fondo della melma, ma i ratti di destra addentarono le dita protette da un guanto d'acciaio. L'uomo ritrasse istintivamente la mano. "Lasciatemi crepare prima di mangiarmi." Urlò a loro. I ratti annusarono l'aria, squittivano.
La luce si faceva via via più intensa, più vicina.
Altri ratti infondo alla fila del cerchio fuggirono via tra le pareti del canale. Erano rimasti solo 2 dozzine di Ratti. Quelli si strinsero attorno al Capo della guardia cittadina. Erano assai irrequieti. Squittivano ancor più rumorosamente. Poi quando l'uomo tossì sangue, tutti loro si scagliarono contro di lui. Azzannarono ogni parte del corpo. Cercarono di spaccare con i denti l'armatura d'acciaio, di levarla. Alcuni Ratti con le zampe e i loro musi, riuscirono a togliergli l'elmo senza celata. Gli strapparono in tutta fretta brandelli di pelle dalla faccia. L'uomo gridava aiuto ai Divini, si dimenò per toglierseli di dosso. Gli divorarono il naso, gli staccarono l'occhio sinistro che penzolò fuori dall'orbita. Mentre l'uomo urlava, un ratto gli infilò il muso nella bocca, gli lacerò la lingua. Della guancia sinistra s'intravedono i denti sotto i tessuti squarciati. 
Poi d'un tratto, tutti i Ratti fuggirono via con pezzi di carne in bocca. La luce gli arrivò violento nell'unico occhio rimasto. Il Capo della guardia cittadina si coprì istintivamente la vista con un mano. La sua faccia era una maschera di orrore, irriconoscibile, la carne esposta. In alcuni punti s'intravedeva l'osso della mascella e dello zigomo.
"Aiutami..." Disse quasi senza voce il capo della guardia cittadina alla fonte di luce. Era debole, molto debole.
Lentamente riuscì a mettere a fuoco la sagoma umanoide di fronte.
"Sono il capo della guardia cittadina..." L'uomo tossì sangue. "Il Conte Hassildor..." Si zittì di colpo, spalancò gli occhi dal terrore. "Goblin!" sibilò l'uomo ad alta voce.
Al suono della sua voce, la creatura inclinò la testa incuriosito. Poi gli conficcò l'accetta rudimentale nel cranio. Il sangue gli schizzò in faccia.


 
*****


Il Conte Clavis si svegliò e si stropicciò gli occhi. Si mise seduto, facendo uno sbadiglio. Poi si alzò, dirigendosi alla finestra. Erano le otto e quaranta del mattino. "Ho dormito troppo." Pensò. Era nuovamente una giornata ventosa e serena da quelle parti. Poi lasciò la stanza per dirigersi verso la sala da pranzo con la vesta da notte.  Dopo la colazione, si faceva sempre un bagno; ed era così da almeno 17 anni. Quando chiuse la porta della camera da letto, si voltò. Vide del sangue sul pavimento. Meglio dire, una scia di sangue come se qualcuno fosse stato trascinato dietro l'angolo del corridoio.
Il Conte Clavis trasalì, gli venne un conato di vomito. "Guardie!" Chiamò. Attese. Ma nessuno venne alla chiamata. Grido ancora, e ancora, e ancora, ma nulla. La sua voce rimbombava nel corridoio, perdendosi in echi spettrali e lontani. Si voltò a sinistra; un altra chiazza di sangue. "Le mie due guardie..." Pensò. "Sono morte..? Oh per i divini!" Dei loro corpi non c'era traccia.
Si decise a camminare. Andò verso la sua sinistra, diretto alla sala principale. La fame gli era passata. Quando svoltò l'angolo, vide la guardia con la gola dilaniata. Era uno dei due uomini di guardia alla sua camera da letto. Il Conte Clavis si chinò, osservò il corpo, coprendosi la bocca e il naso con una mano. Notò dei morsi sul collo, quattro per l'esattezza, oltre la gola tagliata con una lama. Si alzò, si guardò attorno. Era paranoico, molto paranoico. Si aspettava che da un momento all'altro sbucassero dalle mura degli assassini o qualunque cosa avesse ridotto la guardia in quelle condizioni. Le sue gambe iniziarono a tremare, quasi cedevano sotto il suo peso. Mise una mano sul muro per sostenersi.
"Guardie!" Urlò con un timbro di voce simile a quello di un bambino spaventato. Nessuna risposta.
Poi continuò lungo il corridoio. In alcuni punti le pareti erano macchiati di sangue. "Perché non ho sentito nulla?" Pensò. "Perché sono ancora vivo?" Si toccò il collo, rabbrividì.
Strisciò con la schiena lungo la parete, facendo attenzione a non mettere i piedi nel sangue. Sorpassò l'arco del corridoio ed entrò nella sala principale.
"E'... Un vero massacro..." Disse fra i denti. Ribaltati al centro della sala, tre divani beige ricamati con vari simboli. Tavoli, sedie, scaffali e tavolini erano distrutti o capovolti. Sangue ovunque; sulle pareti, sulle vetrate, sul pavimento. Nove corpi senza vita giacevano sparsi nella sala.
Il Conte Clavis vomitò bile. Poi guardò di nuovo quel tetro panorama. Il suo stomaco si contrasse più volte. Distolse lo sguardo, si piegò in avanti, la mano appoggiata sull'arco dell'entrata.
Sei guardie erano tra i cadaveri. Alcuni di loro avevano impugno delle spade, ed altri avevano le lame nel fodero. Gli altri tre corpi erano suoi servitori, la pelle bianca come la neve. 
"Come ho fatto a non sentire niente?" Pensò. "E' impossibile..."
D'un tratto udì chiudere una porta. Guardò a destra, verso l'entrata comunicante con l'altra sala. Da lì entrò un uomo pallido, capelli bianchi tirati indietro, gli occhi dall'iride rosso sangue. Era vestito con abiti ricchi ed elaborati; una giacca di seta color borgogna, un foulard nero al collo, un pantalone nero con ai piedi scarpe nere con finiture in oro. Sembrava un uomo molto ricco, ma dall'aspetto inquietante.
Il Conte Clavis rimase fermò, lo guardò. 
L'uomo pallido camminava lento, calmo, i suoi passi riecheggiavano nella stanza. Si voltò verso il Conte Clavis che sussultò. "Conte Clavis." Disse. "Il buongiorno si vede dal mattino."
Il Conte Clavis non rispose.
"Non ti ricordi di me?" L'uomo pallido sorrise. "Sono colui che vuoi eliminare. Com'è che hai detto; 'Quell'essere schifoso e ripugnate è in vita solo perché nessuno ha il coraggio di ucciderlo. Farò vedere a tutti quanto è facile uccidere un succhiasangue.' Ti ricordi di queste parole Conte Clavis?" L'uomo pallido gli diede le spalle, guardando fuori dalla vetrata insanguinata.
Il Conte Clavis ricordava e come. Per lui era diventata una priorità ammazzare tutti i Vampiri di Cyrodiil. Aveva perso sua figlia di 4 anni per mano di un servitore che in realtà era un Vampiro. L'aveva dissanguata per giorni, finché il corpo della bambina non cedette. Fu ritrovata solo per caso, nella cantina abbandonata della villa. Un passaggio nascosto che conosceva solo il Conte Clavis. Erano passate tre settimane dalla sua scomparsa. Per tutto quel tempo, il servitore Vampiro aveva lavorato accanto al Conte Clavis offrendogli parole di conforto, dandosi da fare per trovarla, ma in realtà lui si divertiva solo a vederlo soffrire. Ogni notte scendeva giù nella cantina e beveva il sangue della bambina che piangeva e gridava aiuto a suo papà, ma lì sotto nessuno poteva udirla. Prima si era accontento di poco, qualche goccia. Poi ha preteso di più, poiché il sangue di un bambino crea dipendenza al Vampiro. Così la bambina cadde in un lungo sogno senza sogni e morì. Due giorni dopo, per puro caso, il Conte Clavis trovò il cadavere di sua figlia. La bambina non aveva più una goccia di sangue in corpo. Il servitore Vampiro l'aveva prosciugata fino all'ultima goccia. E fu quel giorno che si promise di ammazzare tutti i Vampiri di Cyrodiil, ma aveva un difetto; la codardia. Quel sentimento ostacolava la sua vendetta. Così aveva usato il suo enorme patrimonio per ingaggiare gruppi di cacciatori di Vampiri per stanare e uccidere i succhiasangue. Non seppe mai che era stato il servitore Vampiro a uccidere sua figlia, ma sospettò di lui quando si dileguò nel nulla. E da allora aveva speso molti danari per cercarlo, e promesso vendetta contro qualsiasi vampiro.
"Conte Clavis." Disse l'uomo pallido. "Mi sono permesso di invitare un tuo vecchio amico." Si voltò verso il Conte. "Non è un mio consanguineo, anche perché scelgo bene i miei figli. Ma credo che lo riconoscerai." L'uomo pallido roteò il viso verso la sala comunicante.
L'uomo dai lunghi capelli neri, pelle pallida, occhi rossi e senza sopracciglia venne portato di forza da due uomini sottobraccio. Più che portato, venne trascinato con la forza. I due uomini erano un Argoniano e un Altmer, vestiti con tuniche nere. Sul petto, la stemma di un ramo rosso avvolte nelle fiamme. Si fermarono di fronte all'uomo pallido, gettando sul pavimento l'uomo dai lunghi capelli.
Il Conte Clavis spalancò gli occhi. "E' il servo. Lui..." Fece per andare verso di lui, ma di colpo si fermò. Ebbe paura, tremò. La codardia lo stava assalendo.
L'uomo pallido gli sorrise, sfoderò un piccolo pugnale d'argento col manico in acciaio dorato. "Lui mi ha parlato del tuo difetto."
"Lui? Chi?" Pensò il Conte Clavis. 
"Mi deludi." Disse l'uomo pallido. "Credevo che rivendendo il tuo vecchio amico..."
"...Ha ucciso mia figlia..." Sibilò il Conte Clavis. 
L'uomo pallido fece un sorriso inquietante.
Il Conte Clavis camminò lentamente verso il Vampiro, cercando di non calpestare le pozze di sangue. Tremava. Tutto il corpo tremava. Ma qualcosa lo spinse a muoversi verso l'uomo pallido. La sua codardia si stava pian piano assopendo, e né era felice, oltre che spaventato. Poi d'un tratto, come una saetta, davanti ai suoi occhi gli comparve il viso sorridente di sua figlia. Quel viso che negli anni aveva quasi scordato, così come la sua voce. Ora vedeva ogni angolatura del suo viso. Riusciva finalmente a ricordarla. Erano passati 14 anni da quando era morta, ma per lui era come se tutto fosse successo ieri. Si fermò.
L'uomo pallido gli allungò il pugnale dalla parte del manico. 
Il Conte Clavis guardò dapprima il pugnale, poi gli occhi rossi sangue dell'uomo pallido. Quello gli sorrise, per meglio dire, alzò vagamente una parte delle labbra bluastre. Il Conte Clavis distolse lo sguardo. Provava una strana sensazione di impotenza davanti a quell'uomo. Poi i suoi occhi si posarono sui lunghi capelli neri dell'uomo in ginocchio, le catene arrugginite ai polsi. Vide ogni parte del suo corpo, la pelle bianca e i piedi sporchi di fango, gli stracci usati come vestiti. Puzzava di sterco animale. Aveva lo sguardo fisso sul pavimento, i capelli davanti agli occhi.
L'uomo pallido mosse il manico del pugnale per incitare il Conte Clavis ad afferrarlo.
Il Conte guardò nuovamente il pugnale, lo prese.
"Sai, noi Vampiri non siamo tutti uguali." Disse l'uomo pallido incrociando le mani dietro la schiena. 
Alla parola 'Vampiro', il Conte Clavis sentì un forte formicolio in testa.
"Ti ho portato la tua nemesi." Continuò l'uomo pallido. "L'assassino di tua figlia."
Il Conte Clavis serrò con forza le dita attorno al manico del coltello, quasi a volerlo frantumare. "Come fa a sapere di mia figlia?" Pensò. "Come sa tutte queste cose su di me?"
"Avanti." Lo incitò l'uomo pallido. "Uccidilo. Aspettavi questo momento da 14 anni. Ora è davanti a te."
Il Conte Clavis si voltò verso l'uomo pallido. "...Come sai tutte queste cose su di me..?"
"La vera domanda è; perché sto facendo tutto questo per te." 


 
*****


Brangor osservava i boscaioli tagliare gli alberi di pino, le loro asce che battevano senza sosta sul legno. Inoltre, in mattinata, erano arrivati altri taglialegna su carretti trainati da robusti cavalli. Alcuni di loro lavoravano sui tronchi abbattuti, altri caricavano il legname sui carri che partivano subito dopo. Qualche uomo fischiettava una melodia che Brangor non conosceva. C'era un grande vociferare nel campo, superato solo dal chiasso delle scure contro le cortecce.
"Dormito bene?" Disse Ermil Voltum arrivando alle sue spalle. Stava mangiando una fetta di formaggio. Folk gli era dietro come un ombra con la faccia frastornata dalla sbornia.
"Abbastanza."
"Conosci il Conte di Skingrad?"
Brangor corrugò le sopracciglia. "Perché?"
"Non vuole che tocchi i suoi alberi. Che insolente." Diede un morso alla fetta di formaggio. "Rifiutare me? La mia proposta? Io che sono il numero uno in questo settore?" Sbuffò.
"E' pur sempre un Conte."
"Come se essere Conte vuole dire..."
"Ascolta." Disse Brangor. Non voleva che l'Altmer ricominciasse il logorroico discorso di come lui era superiore agli altri. "Ti ringrazio per la tua ospitalità, davvero. Ma ora devo mettermi in viaggio."
Ermil Voltum serrò gli occhi sospettoso, mutò completamente faccia, diventò quasi un altro. "Per dove?"
"Ho degli affari da sbrigare oltre alla Contea di Skingrad."
"Un po' vaga come risposta. Sicuro di non essere venuto qui a controllare la produzione?" L'espressione goliardica che l'Altmer aveva avuto fin da ieri era sparita, lasciando spazio a un viso grave, rigido.
"No, mi ero solo perso."
Folk si fece avanti. "Se ti sei perso, come farai a metterti in viaggio? Come sai quale direzione prendere?"
"Si, ottima domanda, Folk." Disse Ermil Voltum ancora più sospettoso di prima. "Come farai?"
Brangor non rispose subito. Non sapeva cosa dire. "Ho continuato sempre dritto, verso Nord." Indicò con il dito la montagna all'orizzonte. "E credo che quello sia il Nord."
"Quello è l'Ovest." Disse Folk con voce rauca. "Mentre quello è il Nord." Indicò con il dito tozzo e grosso l'orizzonte pieno di quercie.
"Sei venuto a spiarmi?" Disse Ermil Voltum.


 
*****


Fredor vagava nel bosco confuso, disorientato, la zappa tra le mani e lo sguardo perso. Si guardava attorno. Cercava sua figlia. Vedeva solo innumerevoli betulle, arbusti e rocce. Inciampò su un ramo e cadde carponi. Si sbucciò un ginocchio, si ferì una mano, ma non lasciò la presa dalla zappa.
"Meriliel!" Urlò il vecchio spaventato. "Meriliel!" 
Nessuna risposta.
Le cicale frinivano, gli uccelli cinguettavano. Sporadiche nuvoloni si ammassava in cielo.
"Meriliel! Meriliel! Meriliel!" La sua voce venne inghiottita dal caos della fauna. 
Camminò per un po', mentre il sole venne lentamente oscurato dalle nuvole. Guardò il cielo coperto dal folto fogliame dei rami. Poi aumentò il passo. Sentiva la ferita bruciare sul ginocchio, qualche goccia di sangue macchiava i suoi pantaloni logori. Inoltre, aveva un piccolo taglio nella mano sinistra. 
Iniziò a correre, a zoppicare. La pelle del ginocchio ferito sfregava contro il tessuto logoro del pantalone, facendogli un poco male. Il fiato gli venne meno dopo qualche minuto, rallentò l'andatura. Dal cielo plumbeo rimbombò un tuono. Fredor sussultò spaventato. Allora si decise a correre di nuovo. Non andò molto lontano. Il cuore palpitava senza sosta, non riusciva più a respirare. Cadde a carponi. Sentì un fortissimo dolore sul ginocchio sinistro. Alzò la testa, cercò di respirare, di gonfiare i polmoni d'aria. Poi la vista si annebbiò, il verdeggiante paesaggio sembrò ondeggiare, sdoppiarsi. Stramazzò a terra, sul fianco. "...Meriliel..."


 
*****


"Perché..?" Domandò Conte Clavis, il pugnale stretto in mano.
"Sono i gesti a rendere grande un uomo." L'uomo pallido sorrise.
"Tu non sei un uomo." Pensò il Conte. "Sei un lurido Vampiro."
"Io faccio un favore a te, e tu lo fai a me." L'uomo pallido afferrò per una ciocca di capelli il servitore Vampiro. "Che aspetti?"
"Quale favore..?" Il Conte Clavis serrò gli occhi. Sentiva il cuore in gola, ma si costrinse a non far vedere che il Vampiro che aveva di fronte lo intimoriva. Pensava a sua figlia. Era il suo ricordo a dargli forza.
"Tu ne fai tanti di favori." Disse l'uomo pallido, tirando per i capelli il servitore Vampiro. Quello mostrò il suo volto malaticcio.
"Favori?" Pensò il Conte. "Dove vuole arrivare? Cosa vuole da me? E' troppo vago." Poi i suoi occhi incrociarono quelli rossi del servitore Vampiro. Venne travolto da un in impetuosa ondata di rabbia. Vide il viso di sua figlia, il suo cadavere sul tavolo. La mano partì da sola. La lama si conficcò nella tiroide con un suono secco. 
Il servitore Vampiro cercò di portarsi le mani sulla gola, ma i due uomini glielo impedirono. 
Il Conte Clavis, la mano sul manico del pugnale, lo guardò negli occhi. Quello rantolava, lo fissava. 
Poi il Servitore Vampiro mutò espressione in un sorriso divertito. "...La tua..." sibilò quasi senza voce, mentre affogava nel suo stesso sangue. "Dolce bambina... Gridava aiuto... Il suo sangue era... Irresistibile..."
Il Conte Clavis staccò la lama dalla sua gola, il sangue schizzò a terra, sui suoi vestiti. Lo pugnalò al petto, ancora, ancora e ancora. Il servitore Vampiro morì con il sorriso sulle labbra, mentre fumi biancastri si levavano in aria dalla sua pelle. Il Conte pianse dalla rabbia, gli occhi arrossati. Per la prima volta in vita sua sentiva il pieno controllo delle sue emozioni, delle sue paure, di tutto. Una sensazione piacevole, mistica, che non sapeva spiegarsi.
L'uomo pallido fece un sorriso inquietante. "Ora farai un favore a me."
Il Conte Clavis smise di pugnalare il Servitore Vampiro, la mano e il pugnale inzuppati di sangue. Si alzò lentamente, la lama scivolò dalla mano, cadde sul pavimento.
L'uomo pallido guardò il cadavere a terra.
"Io non sono come te!" Ruggì il Conte Clavis, gli occhi arsi da un fuoco primitivo, arcaico. 
L'uomo pallido incrociò le mani dietro la schiena. "E' straordinario come un evento nefasto può cambiare una persona. Guardati: eri una persona intimorita, vigliacca..."
Il Conte Clavis ribollì dalla rabbia, strinse i pugni.
"...Una persona che si nascondeva dietro i suoi danari, ed ora, sei un uomo nuovo. Anzi, che dico: tu sei sempre stato così. Avevi solo bisogno di un aiuto. Ora sei completo. Non sei felice?"
Il Conte Clavis serrò gli occhi. "Sarò felice quando ti ammazzerò!"
"Questo non è il modo giusto di trattare chi ti aiuta." Sorrise l'uomo pallido.
Il Conte prese rapidamente il pugnale da terra e si lanciò contro di lui. L'uomo pallido si sposto di lato, con leggerezza. Il Conte Clavis scivolò sul sangue, razzolò sul pavimento e batté la testa. Perse i sensi. I due uomini si mossero verso il Conte con gli stiletti in mano.
"No!" Tuonò l'uomo pallido. I due uomini rinfoderarono le armi. "Ho dimenticato quanto siano intense le emozioni umane in certe contesti. Troppi secoli da Vampiro mi hanno del tutto estirpato l'umanità." Si avvicinò al Conte, gli osservò il viso. "Dolore e sofferenza, queste è la vita, queste sono le emozioni umane. Avvolte provo pena per loro, e i loro stupidi istinti primitivi. Lasciatelo dov'è. Quando si sveglierà, vedrà il mondo con un altra tonalità di colore. La mia." L'uomo pallido andò via, seguito dai due uomini.


 
*****


Quella notte Adrienne Berene non aveva chiuso occhio. Tutto il castello era in subbuglio. Inoltre, la maga temeva che il Conte Hassildor poteva cambiare idea sul fatto di lasciarla in vita. "Mi avrebbe uccisa, lo so." Pensò. "Perché mi ha lasciato vivere?" Camminò lungo la strada lastricata in mattoni di pietra del distretto del mercato.  Le vie di Skingrad erano affollate di gente. Il massacro alla porta maestra aveva scosso gli animi del popolino. Alcuni vociferavano che era la punizione dei Divini, altri che le porte dell'Oblivion si stavano riaprendo di nuovo, altri ancora che era opera di una setta di Vampiri che dimorava nelle fogne della città. Un caos che la guardia cittadina faceva fatica a domare.
Erano aumentati i crimini; omicidi, rapine, furti, incendi e risse. Nei quartieri più poveri, i malviventi si univano in bande cercando di prendere il controllo della situazione e di guadagnarci su. Alcune casupole vennero date alle fiamme, chi doveva molte monete agli usurai venne trovato morto, i ricchi rapinati in pieno giorno, altri picchiati in casa mentre i ladri gli derubavano oro e gioielli. La città più sicura di Cyrodiil, era diventata la peggiore. Un solo massacro aveva distrutto tutti gli anni di ordine e quiete in città. L'illusione di vivere a Skingrad, dove la violenza era qualcosa di molto lontano, aveva crogiolato parecchia gente. Ed ora, quasi tutti erano nel panico.
Adrienne Berene raggiunse l'entrata della Gilda dei Maghi. Gli apprendisti e i maghi la salutarono; chiesero se stesse bene, cosa gli era capitato con il Conte, ma la donna non rispose e andò direttamente nella sua stanza. Fece scivolare una grande baule da sotto il letto e lo aprì. Si guardò attorno per un momento. Poi cominciò a mettere dentro freneticamente tutto quello che gli poteva servire; Pozioni, pergamene, libri, vestiti, profumi. Il Baule era per metà pieno solo di abiti e fialette di profumo. Chiuse il baule con un forte rumore sordo, lo trascinò alla porta e mentre mise la mano sulla maniglia, qualcuno bussò. La maga si fermò, lasciò la presa dal baule. "Chi è?"
Nessuna risposta. Dall'altra parte, qualcuno forzò la maniglia.
"Chi sei? Cosa vuoi?" Disse Adrienne Berene in falso tono autoritario. "Fa che non sia la guardia cittadina." Pensò. "Proteggimi, Julianos. Ti supplico."
La maga sentì qualcosa muoversi nella serratura. Spalancò gli occhi spaventata. Indietreggiò un poco. Alzò le mani, pronta a scagliare saette di fulmini contro chiunque sarebbe entrato. "Il Conte Hassildor ha cambiato idea." Pensò impaurita. "No, no, maledizione. Io non c'entro nulla. Non mi farò prendere senza combattere." 
La porta si spalancò. Dalle mani della donna partirono delle saette che illuminarono la camera di un blu chiaro. Colpirono l'armatura Daedrica dell'uomo sulla soglia. Quello non si mosse come se non avesse nemmeno sentito il colpo. Adrienne Berene sentì il cuore quasi implodergli. Fece per lanciare le saette nuovamente, quando l'uomo alzò una mano, serrando le dita in un pugno. La sua armatura venne pervasa da una luce bianca, quasi invisibile.
"Oh no. L'incantesimo protezione."" Pensò Adrienne Berene. "Se scaglio un altra volta le saette mi torneranno indietro. Accuserò il colpo per lui."
L'uomo in armatura Daedrica si avvicinò a lei. La donna indietreggiò fino a urtare la base della finestra. Guardò dietro di sé, oltre la vetrata aperta. Vide un pozzo in lontananza. Quando voltò di nuovo la testa, l'uomo in armatura Daedrica gli era di fronte. La donna sobbalzò.
Quello si tolse l'elmo, lo mise sotto un braccio. "Il Conte Hassildor..." Disse con voce grave, profonda.
Adrienne Berene chiuse gli occhi. "E' arrivata la mia ora." Pensò. "Julianos, accoglimi nelle tue calde braccia." Fece per lasciarsi cadere di spalle giù dalla finestra, ma l'uomo in armatura Deadrica l'afferrò per il bavero. La spinse verso di sé, facendola cadere carponi sul pavimento.
La donna lo guardò, si sentiva impotente. "Lasciami morire come voglio!" Urlò. 
"Non sono qui per ucciderti." Disse l'uomo in armatura Daedrica. "Il Conte Hassildor... Dov'è?"
Adrienne Berene sospirò. Non capiva, ma era felice; felice di non dover morire. "Io... Non lo so."
"Ti ho vista uscire dal suo castello."
"Ero sua prigioniera." La maga si alzò in piedi, lanciò uno sguardo alla porta dietro di sé. 
"Un prigioniero non fugge tranquillo dalle segrete." L'uomo in armatura Daedrica andò verso di lei. "Non con quei vestiti addosso."
Ad ogni suo passo, Adrienne Berene indietreggiava.
"Smettila di muoverti! Voglio sapere dov'è il Conte Hassildor."
"Io non lo so, te l'ho detto."
"Dov'è?" Tuonò lui.
"Non lo so!" Urlò la maga.
L'uomo in armatura Daedrica la fissò per un momento. Poi svanì davanti ai suoi occhi.


 
*****


Netrom Morten fluttuava sul tetto di quell'immensa sala da pranzo dalle pareti inghiottite dall'oscurità. Vedeva il banchetto, i commensali, il Vampiro Patriarca, e infine lui stesso, Netrom Morten da giovane.
"Hai due scelte." Disse l'uomo pallido, il Vampiro Patriarca. "Essere un nostro consanguineo, figlio-nipote, o morire."
Netrom Morten da giovane non rispose.
L'Altmer dagli occhi rossi lo guardò grave. "Rispondi al Patriarca!"
Proprio in quell'istante, con un forte rumore metallico, la grande porta si spalancò. Due uomini con le tuniche nere reggevano sotto le braccia l'uomo dai capelli arruffati. Lo trascinarono dinanzi a Netrom Morten da giovane che serrò gli occhi. 
Il Vampiro Patriarca sfoderò il pugnale d'argento, il manico dorato in acciaio. Si diresse lentamente verso Netrom Morten da giovane, mentre i suoi commensali lo seguirono con lo sguardo. Raggiunse la fine della tavola. Guardò negli occhi Netrom Morten da giovane. I due uomini con la tunica gettarono sul pavimento di marmo l'uomo dai capelli arruffati. Quello piangeva e singhiozzava, rannicchiato su sé stesso. Lungo tutto il corpo si vedevano tracce di morsi.
Il Vampiro Patriarca gli allungò il pugnale dalla parte del manico. "E' ora di scegliere." Fece un sorriso inquietante.
Netrom Morten da giovane fissò l'uomo dai capelli arruffati, poi guardò l'uomo pallido. Corrugò la fronte.
Tutti gli occhi dei commensali erano posati sul Bretone da giovane.
Prese il pugnale d'argento, guardò il suo riflesso sulla lama, il suo viso. L'uomo dai capelli arruffati se ne stava sul pavimento a singhiozzare. Non osava alzare lo sguardo per vedere cosa stava succedendo.
L'uomo pallido indietreggiò di tre passi, sorrise, le labbra bluastre.
Netrom Morten da giovane si avvicinò all'uomo gettato sul pavimento. Lo osservò per un po'. Nella sala il silenzio era totale. Il Bretone da giovane poteva udire il battito del suo cuore. Fece un lungo respiro. Si voltò.
Lanciò la lama contro il Vampiro Patriarca. Quello lo deviò, spostandosi di lato, gli occhi rosso sangue ribollivano d'ira. Il pugnale sbatté contro un muro, la lama scintillò e cadde a terra. Tutti i commensali si alzarono di scatto dalle sedie, sfoderano stiletti, coltelli e spade corte nascoste bene sotto gli indumenti. I due uomini con la tunica nera fecero per andare contro Netrom Morten da giovane, ma quello evocò tre Dremora, che si lanciarono subito sui commensali con voci diaboliche e metalliche. Tutti loro rimasero sorpresi dalla velocità con cui li aveva evocati, tranne l'uomo pallido.
Il Vampiro Patriarca andò verso l'uomo dai capelli arruffati, ma Netrom Morten si mise in mezzo. I tre Dremora ingaggiarono il combattimento contro i commensali. Il cozzare delle lame echeggiava tutt'attorno. I due uomini con la tunica, mazze ferrate in mano, attaccarono alle spalle Netrom Morten da giovane, ma costui scomparve. Quelli si guardarono attorno confusi. Il Vampiro Patriarca colse l'occasione per rendersi invisibile anche lui. Netrom Morten da giovane prese per un braccio l'uomo dai capelli arruffati, ma lui si dimenò con tutte le sue forza. Il pover'uomo non sapeva chi voleva trascinarlo, e il Bretone da giovane lo capì troppo tardi. Il Vampiro Patriarca affondò il pugnale invisibile nella costola dell'uomo dai capelli arruffati che urlò a squarciagola dal dolore. Netrom Morten da giovane si buttò addosso senza pensarci due volte, e fu il suo più grande sbaglio.
La lotta nella sala era quasi cessata. I Dremora erano stato uccisi. I Commensali si erano rivelati molto più letali dei Dremora.
Netrom Morten da giovane cadde a terra, paralizzato. L'uomo pallido l'aveva immobilizzato con un incantesimo. Nessuna parte del corpo rispondeva ai suoi comandi, e in più, era tornato visibile. Tutti i commensali lo accerchiarono. Attesero silenti. 
Il vampiro Patriarca si fece largo tra loro e si chinò verso Netrom Morten da giovane. Fece un sorriso inquietante come al solito. "Potevi diventare un Negromante molto potente, un consanguineo figlio-nipote." si sedette sui talloni. "Ma ahimè, la tua umanità... E' sempre stato quello il tuo problema. L'ho intuito da quando ti ho messo gli occhi addosso per la prima volta." Si alzò e guardò i commensali. "Servitevi!"
Tutti si lanciarono assetati contro Netrom Morten da giovane, strappandogli la logora tunica che portava da settimane. Affondarono i denti nella sua carne, gustarono ogni sorsata del suo sangue. Netrom Morten da giovane non riusciva a muoversi. Sentiva soltanto un intenso dolore lungo tutto il corpo. Non aveva mai provato un dolore così forte. Dalla sua bocca uscivano solo rantoli, anche se voleva urlare a squarciagola. La vista si stava offuscando, quando i commensali si ritirarono e tornarono ad accerchiarlo silenziosi, le labbra sporche di sangue. Il Vampiro Patriarca gli si avvicinò, guardò il collo del Bretone da giovane. Vide la sua pelle diventare bianca come la neve. Aprì la bocca e affondò i denti nel suo collo.
   
 
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