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Autore: Koa__    27/09/2019    4 recensioni
Questa sarà una raccolta di lettere, scritti, pagine di diario e messaggi, scritti dai personaggi che gravitano attorno a la Norbury e a capitan Sherlock Holmes, il ben noto Pirata Bianco. Il contesto è strettamente legato alla serie Let's Pirate! E a ogni storia da Sherlock Holmes e l'isola del tesoro, in avanti.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
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Ambientazione: Sherlock Holmes e l’isola del tesoro
Note: Le lettere sono state scritte tra i capitoli 25 e 26, nel periodo in cui John abita da Mrs Hudson (la prima volta), tuttavia contiene riferimenti un po’ a tutta Sherlock Holmes e l’isola del tesoro. In particolare ai capitoli 2 e 3, ai capitoli 19, 21 e 25. E soprattutto al secondo capitolo di questa raccolta, quello dedicato a Victor Trevor.

 
 
 
 
 
 
3. Sherlock Holmes
 
 
 
 
Giornale di bordo,
Diario del capitano



 
 
 
10 maggio 1655
 
 
 
John è vivo. Mi aggrappo a questa certezza perché ora come ora è la sola che possiedo assieme a questo grande dolore che mi attanaglia il petto e che si agita al ritmo del mio respiro. Lo abbiamo ritrovato a riva che aveva già albeggiato, non lontano da quello che presumibilmente è stato il luogo dell’impatto. In qualche maniera, non so come, è riuscito a rimanere a galla e a trascinarsi sino alla spiaggia. Che John Watson fosse una creatura meravigliosa, questo già lo sapevo. Ma che lo fosse sino a questo punto, lo rende ancor più stupefacente. Egoisticamente sono costretto ad ammettere che il lieto finale di questa triste storia lenisce il mio senso di colpa. Zittisce con prepotenza quella stessa voce che, dentro la mia testa, m’accusa d’essere il solo responsabile di una mancata tragedia. È colpa mia se tutto questo è successo, e ciò è un dato di fatto. Non doveva andare così, loro non avrebbero dovuto trovarsi con me e Moriarty. Nessuno di loro. E pensare che mi ero così tanto raccomandato con Victor… Anzi, gliel’avevo ordinato imponendo a me stesso di restar severo, di non cedere per alcuna ragione alle sue insistenze. Io a ignorare le sue lacrime, le parole cariche di preoccupazione. Quel sensibile animo ferito che fuoriusciva copioso dal suo sguardo e che è solito riservare soltanto per me, quasi a ricordarmi che devo portarmi addosso il peso del suo dolore allo stesso modo di quanto lui porta il mio. Lo sapevo che non era d’accordo col piano che avevo ideato, con altrettanta sicurezza avrei dovuto rendermi conto del fatto che non mi avrebbe obbedito. Né lui né tanto meno John Watson, che è così carico di passione oltre che del desiderio di difendermi da tutto e da tutti, persino da me stesso, da non potersi esimere dal correre in mio soccorso. La verità è che sarebbero venuti comunque, se li avessi legati al pennone più alto della nave avrebbero trovato il modo di raggiungermi. Insieme, poi, sono una forza inarrestabile che neppure io posso contrastare. Ed è stato proprio con quell’oppressione al petto che mi sono allontanato da loro, quel giorno, sull’isola del tesoro. L’ho fatto avendo in me la certezza che mi avrebbero seguito, in un modo o nell’altro lo avrebbero fatto ma d’altronde, se li amo è anche per questo. Per il loro esser testardi e ribelli, passionali. Per quel loro animo selvaggio tanto quanto il mio, oltre che per il cuore indomito grande tanto quanto la capacità d’amare. E se per Victor mai ne ho avuto il dubbio, è bastato fare l’amore con John una volta per rendermi conto che lui era altrettanto come me. Siamo così simili pur restando tremendamente noi stessi, da farmi tremare il pensiero e stordire la scrittura svelta e distratta che dedico al mio giornale di bordo.
 
Così è, dunque. Quel che ho fedelmente già riportato nelle precedenti pagine è accaduto e qui lo ribadisco: John Watson si è lanciato dalla rupe più alta dell’isola del tesoro, trascinando James Moriarty con sé. Ore più tardi lo abbiamo trovato ferito, ma vivo e lo abbiamo trasportato su la Norbury che nel frattempo aveva ingaggiato una battaglia con Sebastian Moran, corsaro e braccio destro di capitan Moriarty. Questo è quanto successo, dei dettagli in questo scritto non ho intenzione di occuparmene. Tutto quel che mi sento di dire è che ho guardato l’intera scena coi miei occhi e che la rivivo con orrore ogni singola volta che li richiudo. Io impotente, disarmato davanti alla decisione di un uomo meraviglioso che a tutto era disposto pur di salvarmi la vita. Io che dentro di me e in una piccola parte, avevo sperato che lui e Victor mi raggiungessero. Mi sono augurato che venissero da me così che li potessi salutare un’ultima volta, di modo d’incrociare i loro sguardi e cogliere l’amarezza nascosta dietro ai sorrisi. Per poter dedurre ogni cosa di loro per un’ultima volta. Non l’ho fatto, lo desideravo ma in quei frangenti tutto sono riuscito a cogliere fuorché le intenzioni di John Watson che, imprevedibile, per me lo è sempre stato e sin da quel primo giorno, quando m’inseguì per potermi mostrare la mappa di un tesoro tatuata sul petto. Lui che mi stupisce ancora adesso e che mi auguro non smetterà mai di farlo. No, non doveva andare a finire in questo modo perché se è vero che non desideravo morire (e che il cielo mi fulmini se dico il falso!) allora è altrettanto reale il pensiero che potessi morire cadendo da quella rupe. Mi sono imposto di non darmi la colpa ed è ciò che sto facendo, a fatica e sforzandomi. Giorno dopo giorno tento disperatamente di non abbandonarmi ai miei fumi e alla mia tanto cara quiete dei sensi. [1] Se mi lasciassi andare a certi ragionamenti sono convinto che cadrei in una tempesta di pensieri, ai quali senz’altro soccomberei. Soccomberei a loro e al fumo, all’oblio più nero che esista e là vi morirei. Perché la verità è che è proprio mia, la colpa. Io sono il capitano, mio era il piano e mia era la fine di Moriarty. Mia è la responsabilità delle vite dell’equipaggio e di questa nave, una croce che porto non soltanto per dovere ma anche perché giusto. E pertanto mie sono le vite di John e Victor, di nessun altro è la responsabilità della loro esistenza e perciò soltanto mio avrebbe dovuto essere il rischio. Io sarei dovuto cadere. Volare tenendomi stretto Moriarty e impattare contro il pelo dell’acqua duro come pietra. Certo, John è vivo mentre il mio nemico è perito sotto agl’inconsapevoli giochi delle onde, in quell’oceano che tanto mi è caro è che l’ha salvato. Ma a quale prezzo questo è successo? Ora ho un pegno da pagare, ne sono ben coscio. Un debito che onorerò quando giungerà il momento, perché sono un pirata, sono un capitano e la mia parola è legge.
 
Questo scritto sta diventando melenso e ciò che dovrebbe essere nient’altro se non un giornale, si sta trasformando nel diario di una fanciulla innamorata. Invero devo ammettere, e con discreta riluttanza, che è ciò che in questi frangenti mi sento d’essere. E non tanto una delicata fanciulla, quanto un qualcuno d’innamorato. Non lo sono mai stato di nessuno, fuorché di Victor. Ma amare Victor è facile, è naturale. Amare Victor è ovvio com’è ovvio veder splendere il sole a mezzogiorno. La sua presenza, il suo amore, le nostre liti sono un qualcosa a cui sono abituato e che fa parte di me. Ma amare John, oh, è del tutto differente. È ciò che qui e adesso mi rende melenso, fastidiosamente dolciastro. Ed è per questo che ritornerò a una cronaca più rigorosa, a una che si addice maggiormente a un giornale di bordo. Mastro Stamford ha fatto il possibile per John, a lui in fondo non chiedevo nulla se non ciò che è nelle sue capacità. A bordo era l’unico a conoscere le arti mediche, il solo a poter curare simili ferite. E c’è riuscito, dedicandosi per ore al proprio dovere. Dormendo al capezzale di John, assicurandosi che avesse sempre il necessario. Che le ferite fossero ben medicate e gli arti spezzati, sufficientemente assicurati. Se John è vivo lo dobbiamo anche a lui, oltre che al mare. E John ce l’ha fatta, ha saputo superare i primi momenti di crisi e ora respira, pur con fatica. Vive, anche se con dolore. Ciononostante, sia io che Mastro Stamford sappiamo che niente è risolto. Le fratture che si è procurato cadendo sono importanti e gl’impediranno di camminare almeno per un certo periodo. Periodo che non potrà trascorrere qui, ma d’altronde di questo poco m’importa. Soffrirò l’assenza del mio amato dottore, ma il percorso che ora lui dovrà intraprendere è vitale per il nostro futuro. Abbiamo già mandato un messaggio alla signora Hudson. Al momento lei è la sola a poterlo aiutare.
 
 
 
*
 
 
 
12 maggio 1655
 
 
 
Victor ha ricominciato a pregare, da giorni. In effetti dall’attimo stesso in cui abbiamo ritrovato John mezzo morto sulla spiaggia. Da allora non fa che leggere la sua bibbia. Quella che solitamente usa al pari dell’oggetto di scena di un teatrante, ma che adesso sembra divenuta la sua compagnia più fedele. E quindi legge, e mormora tiritere in latino. Talvolta in greco. Spesso lo si sente invece imprecare in francese, ma il più delle volte borbotta fra sé. Lo fa evitando di guardarti negli occhi e rifuggendo lo sguardo di chiunque, persino il mio. Ciò è dolorosamente affascinate. Doloroso perché la sua ritrovata fede non è un qualcosa di spontaneo, ma nato dalla sciagura che ci è capitata. Interessante perché, beh, non lo vedevo spontaneamente con un crocefisso in mano da almeno dieci anni. E mi sono ritrovato a sorridere, anche se di amarezza, salvo poi commuovermi per via di quella sua maniera buffa di dimostrare affetto. Victor prega perché è l’unica maniera che conosce di tenere in vita John. Sebbene non creda a Dio, non davvero. Non fino in fondo almeno. Victor è troppo razionale per essere credente, e ciò nonostante sia un monaco. Ed è questa la sua contraddizione costante. Ha dedicato la vita alla preghiera, ha vissuto tra le mura di un convento. Ha pregato e poi ha giurato davanti a Dio e alla chiesa di essere un fido discepolo di Dio. Tuttavia bestemmia e preferisce andare a donne. Un monaco che va con le puttane non penso si sia mai visto nella storia della chiesa. Eppure è lui, è Victor ed è fatto così. Lui non prega mai e quando lo fa prega a un Dio che sa non esistere. Perché Victor è fatto anche di questi controsensi. Victor è consciamente incongruente. Ed è… Dio, così affascinante! Oh, mi è sempre piaciuta la sua mente, ma da quando siamo fuggiti insieme dandoci all’avventura, mi sono ritrovato un po’ più innamorato di lui. Il nostro è un rapporto poco convenzionale, lo so bene. Ma per me è speciale, oltre che difficilmente spiegabile. So che ha fatto una fatica inumana a far capire a John cos’è che ci lega e di cosa è fatta la nostra relazione, e a oggi temo che al dottore non sia ancora del tutto chiaro. Forse dovrei semplicemente dirgli che Victor è una parte di me, che mi appartiene così come io appartengo a lui. Un legame che non c’entra niente con la carnalità. È più un fratello, ma un fratello vero e non come Mycroft. Ed è proprio per questo che parliamo poco dei nostri sentimenti, perché non è mai necessario farlo. Anche ora non mi ha detto nulla sulla sua ritrovata fede, ma perché non ce n’è stato bisogno. È bastato che i nostri sguardi s’incrociassero per farmi comprendere ogni cosa. E giunto a questa età, conoscendolo da ormai tutta quanta la vita, so quali pensieri gli passano per la mente. La verità è che ognuno affronta il dolore a modo proprio, questo l’ho imparato sulla mia pelle ormai molti anni fa. Quando ci separammo, lenire il dolore per la perdita fu devastante. Victor lo fece scrivendomi decine di lettere. Io lo feci col silenzio, sforzandomi di rimanere freddo e distante. Mostrando quel contegno che tanto caro è ai miei fratelli e che io ho utilizzato come contenimento per trattenere il mostro che ho dentro. [2]
 
Oggi che tanti anni sono passati, per noi due è la stessa cosa. Victor parla e recita le sue preghiere mentre io taccio e faccio il capitano. Io che ho smesso di dormire giorni fa oltre che di mangiare, se non a forza e soltanto sotto le vibranti minacce di Angelo, l’unico a non temermi tra l’equipaggio (e il solo a occuparsi di me in questo momento). Io che tengo saldamente il punto della situazione e che con la risolutezza per cui sono famoso faccio il Pirata Bianco, mi rendo conto che non so nemmeno più quanto tempo è passato dall’ultima volta che la mia testa ha toccato un giaciglio.
 
 
 
*
 
 
 
13 maggio 1655
 
 
 
Inizio a sentire la mancanza di Lestrade. La sua presenza, ormai scontata, era per me divenuta una certezza. Una delle poche fonti di sicurezza. So che la missione che gli ho affidato è altrettanto importante e che era fondamentale per lui rimanere sull’isola del tesoro, a radunare, catalogare e suddividere in parti rispettosamente uguali le importanti ricchezze di cui siamo venuti in possesso. So che è qualcosa a cui l’equipaggio tiene e che sarà fonte di ulteriore stima nei miei confronti, ma al momento di quel tesoro nulla me ne importa. Anche se è quanto abbiamo cercato per settimane, andando alla battaglia contro Moriarty e Moran, non è là che vanno i miei pensieri. Non all’oro, non alle pietre preziose. Non alla nave né a nessuno. Soltanto a John. Perciò vorrei che Lestrade fosse qui, sono certo che svolgerebbe il mio lavoro con precisione permettendomi di trascorrere più tempo col mio amato dottore, accanto del quale rimango soltanto la notte. Chino al suo fianco, a guardarlo dormire. Seduto a terra, tenendogli la mano nella speranza di non fargli troppo male. Io che mi maledico per non poter essere con lui anche nei momenti in cui è sveglio, quei pochi durante i quali soffre le pene dell’inferno. Ma se Lestrade fosse qui, oh, ci penserebbe lui alla nave e all’equipaggio. No, non è la Norbury ciò che mi preoccupa e neppure la navigazione che scorre liscia tra le mani di Mike Stamford, quanto la ciurma. So bene che nonostante abbiano eletto Stamford come quartiermastro, in molti considerano Lestrade come l’unico in grado di sostituirmi al comando della nave. [3] Fu arduo infatti lo scontro tra le due fazioni, durante le votazioni. Dura la dialettica tra coloro che ritenevano di dover eleggere un saggio, seppur pacifico, uomo al pari di Mike Stamford, che già tanto sapeva di navigazione, e coloro che invece vedevano in Lestrade un’ottima guida. Non ho mai fatto preferenze, tra i miei uomini non ne faccio mai poiché ognuno di loro per me è importante. Ma sono ben conscio del fatto che su l’equipaggio, Lestrade ha una certa presa. Una ben diversa da quella che riesco ad avere io. Gli uomini si fidano del suo giudizio, delle sue impressioni e tengono alla loro parola tanto quanto tengono alla mia. Lo ritengono un punto di riferimento importante per sapere se devono o meno fidarsi di me. Se mi devono temere e rispettare o se invece è più saggio fuggire dal feroce Pirata Bianco e dalle sue stramberie.
 
Non do loro alcuna colpa, siamo tutti pirati in fondo e dal mare ognuno di noi ha imparato che è meglio non fidarsi di nessuno. Nemmeno del proprio capitano, non sino in fondo comunque. Mi amano e mi rispettano, ma di tanto in tanto succede che contestino le mie decisioni o che non comprendano appieno quelle che sono le mie intenzioni. È questo ciò di cui è impregnata la pirateria, è questo quello di cui viviamo e respiriamo io e i pirati de la Norbury. È questo che il Pirata Bianco ha costruito nel corso degli anni. Un rapporto complesso basato sul rispetto e la stima reciproca, ma fatto anche di molte incognite. So che il problema principale è Moriarty; lo è stato almeno. E so anche che parte della ciurma, fomentata sicuramente da Anderson, non credeva che andargli contro fosse una scelta saggia. Alcuni hanno riportato malumori riguardo la fattibilità dei miei piani, che si sono accentuati dopo che John è salito a bordo. Lo ritenevano una spia di Moriarty, un qualcuno di cui non fidarsi. E confesso miseramente di esser stato incapace di far capir loro quella che era la verità, di far valere il mio pensiero. Ho lasciato che ci pensassero altri, da Angelo a Victor, e non ho fatto nulla. Perché io stesso non sapevo come fare per descrivere chi era John Watson. Invero a me era bastato un attimo, quel giorno ad Antigua, per rendermi conto che non c’era traccia alcuna di menzogna in John Watson e che non avrebbe mai potuto lavorare per un qualcuno al pari di Moriarty. Di questa faccenda però ne ho già riferito a lungo in queste pagine del mio giornale. La mia intenzione qui e ora è soprattutto quella di raccontare degli umori della ciurma. Ciò che adesso mi ritrovo a dover comandare, e proteggere, è un pugno di uomini che in buona parte non si fida più di me e in questo riconosco che Anderson ha svolto un ruolo fondamentale. Tanto importante quanto lo è oggi Lestrade. Perché se fosse qui io non sarei costretto sul ponte, come invece devo fare. Tranquillizzerebbe gli uomini e mi permetterebbe maggiore libertà. E invece è lontano, sull’isola del tesoro mentre io, obbligatoriamente, ogni mattino mi dirigo sul cassero a svolgere i miei doveri. Ad aiutare Mike Stamford che ancora e dopo giorni fa la spola dal ponte alla cabina di John. Io che rimango spesso là a prua senza nessuno attorno e che mi sento dannatamente solo. Io senza più John né Victor mi sento un pover’uomo, un miserabile che non ha nulla da offrire e che nonostante ciò è costretto a svolgere i propri doveri. Non mi sento un capitano, non mi sento degno della mia nomea o della fama, di cui mai m’è importato qualcosa. Dicerie, chiacchiere da taverna. Sospiri agli orecchi di una qualche ragazza disponibile, riferiti da chissà chi e che riguardano me e i miei sentimenti. Nessuno sa chi sono, nessuno tranne Victor e John. Che ora non sono qui e che mi rendono orfano di una parte di me stesso. Non sono io quello impartisce ordini al timoniere o urla a gran voce su alle vedette. Non sono io a parlare ai marinai e a chiedere loro solerzia. Io mi sto perdendo. Io perfetto all’apparenza, con lo sguardo che scruta l’orizzonte terso del Mar dei Caraibi e la voce impartisce severi ordini dettati dalla logica. Le intenzioni serie, i modi freddi e implacabili. Il cuore altrove.
 
 
 
*
 
 
 
15 maggio 1655
 
 
 
Victor mi preoccupa. Victor mi preoccupa sempre in effetti, ma in questo periodo più di quanto non faccia di solito. Da quando abbiamo lasciato l’isola del tesoro non mi ha più rivolto la parola, l’ho visto poco e stando a quanto mormorano gli uomini, trascorre giornate intere nella propria cabina. Da un paio di mattine alle sue costole ho messo Archie, il quale era ben fiero d’avere una missione segreta da svolgere. È lui a riferirmi dei piatti vuoti che lascia fuori dalla porta sino al fatto che non esce mai se non di tanto in tanto e sempre verso sera. A fare cosa sta tutto il giorno lì dentro, io non lo so davvero. Probabilmente prega o dorme, magari legge. Non so se veda John, Archie non è stato in grado di dirmelo. Però so che non parla mai con nessuno e so anche cosa lo affligge, so qual è il suo problema e saprei anche come risolverlo. Ha bisogno di poco, Victor. Non è emotivamente esigente, a lui basta un abbraccio per sentirsi capito e accettato. A lui basterebbe che lo raggiungessi di notte e lo stringessi a me durante il sonno. Eppure non l’ho fatto. Dentro di me sento di non avere il coraggio di affrontarlo, farlo significherebbe dover fronteggiare quella parte di me stesso che ho rifiutato d’ascoltare per giorni. Perché John è vivo sì, ma grazie a chi? Non a me e nemmeno a Victor che se l’è lasciato scappare e che di certo voleva gettarsi al mio posto e anche a quello di John. Eravamo pronti a morire pur di salvarci a vicenda ed è questo a preoccuparmi maggiormente, il loro spirito di sacrificio fin dove si spingerà? Non credo che si rendano conto di quant’è calcolato ogni mio gesto e che mai mi ucciderei di proposito, ma che al contrario tenterei l’impossibile pur di salvare me stesso e tutti loro. Ma i loro gesti sono ciechi, inconsapevoli. Si gettano nel fuoco senza sapere ciò che stanno facendo, senza rendersi conto che la morte è lì ad aspettarli. E che io cerco di tenerli al sicuro e che altro non farò finché avrò vita, mi sento impotente davanti a questa folle maniera d’amare. Se mi hanno disobbedito ora, come si comporteranno in futuro? Non posso pensare di perderli o di vederli morire per una mia mancanza, quindi come posso fare? Riuscirò a tener fede ai miei intenti? Saprò essere abbastanza forte, sufficientemente intelligente? Abbastanza rapido, svelto, sveglio? Domande, domande… a nessuna di queste ho una reale risposta. Conosco solo la paura. Che John non si riprenda, che Victor soccomba ai suoi demoni, o io ai miei. Ho paura per la nave e la ciurma e per questo futuro incerto che scorgo all’orizzonte. La fine di James Moriarty non segna la fine della nostra avventura, non mette il punto a un capitolo. Il gioco è ancora lo stesso. Una morte come la sua e in circostanze misteriose allerterà sicuramente qualcuno, non ho speranza che potrà passare inosservata. E a quel punto, quale sciagura si abbatterà su di noi? Chi cercherà vendetta? Perché succederà, questa è una delle poche certezze che possiedo in proposito. So che prima o poi qualcuno tra i suoi alleati se la darà a gambe mentre altri pretenderanno la mia testa o la mia nave, il mio cuore. James d’altronde aveva molti seguaci, la sua era una vera e propria rete che si estendeva dalle Indie all’Inghilterra, e che traeva radici in tutta Europa sino in oriente. Quale tra i suoi fidati alleati dovrò temere maggiormente? Moran? Dato per morto dal suo equipaggio? Oh, morto, Moran non lo è davvero e di questo ne sono più che certo, sono sicuro sia fuggito durante la battaglia consumata contro la Norbury e che andrà a nascondersi almeno per un po’ di tempo. Ma sarà lui il mio nemico? Oppure sarà la perla di Nassau, le cui grinfie si estendono fin qui? È lei che dovrò temere? O invece sarà la spada di Lord Cromwell e dei suoi lord inglesi a vibrare contro il mio petto? E cosa farà Mycroft adesso? Lui che sta ancora a servizio della sua amata Regina e che se ne starà rintanato da qualche parte in Francia, come si comporterà ora? A nessuna di queste domande ho una risposta e non intendo cercarla adesso. Ho molte teorie, ma una più improbabile dell’altra. Una sola è la mia certezza in questi frangenti. Quella alla quale mi aggrappo disperatamente. Di nessuno potrò fidarmi se non dei miei uomini. Di Angelo e Fortebraccio. Di Lestrade e del mio quartiermastro, sempre pronto a prodigarsi in mille e più misteri. Mi fiderò della signora Hudson e del buon Baskerville, che presto o tardi arriverà per pagare il proprio debito nei miei confronti. E so di potermi fidare di Victor, il mio braccio sinistro armato di preghiere e bestemmie. Che benedice il morto che ha appena ammazzato, augurandogli un buon viaggio verso il paradiso. Di lui mi fido ciecamente, oltre che di John. Già perché da adesso c’è un altro uomo su cui posso fare affidamento. Un giocatore che James Moriarty in tutta la sua immensa genialità non aveva previsto e che cambierà il percorso della nostra storia. Perché proprio John quando guarirà, e lo farà, sarà per me il più prezioso degli alleati.
 
 
 
 
 
 
[1]Si riferisce alla droga, ovviamente.
[2]Ricordo a tutti che Eurus è presente in questo universo, sebbene venga soltanto nominata.
[3]Per questo ho preso ispirazione da Black Sails. Non avendo trovato riferimenti storici prendo direttamente da lì. Nella serie i ruoli come nostromo e quartiermastro (ovvero i più importanti dopo il capitano) venivano votati dall’equipaggio. Io qui ho voluto la stessa identica cosa.
 
 
Annotazioni: Ho iniziato queste pagine di diario mesi fa, durante l’estate. Ma all’epoca non avevo intenzione di portare avanti subito la raccolta e quindi le ho messe da parte. Ricordo, per chi se lo fosse dimenticato, che questa raccolta resterà aperta fino alla fine della serie. Man a mano che andrò avanti inserirò altri appunti, lettere e pezzi di diario. Alcune di queste le ho scritte due anni fa e non aspettano altro che il momento giusto per essere pubblicate. Altre invece le ho ancora in testa.
Ringrazio tutti coloro che sono rimasti, chi mi sta seguendo in questa follia vera e propria. Portate pazienza, la mia isola del tesoro finirà. Un giorno succederà anche quello. Intanto grazie d’essere qui.

Un’ultima nota, tenete ben presente questo capitolo perché è importantissimo. Chi ha letto i primi capitoli de Il problema finale, qualcosa deve averlo intuito. Per tutti gli altri invece, sappiate che questo capitolo dice più di quanto non sembri.
Koa
 
   
 
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