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Autore: Adeia Di Elferas    27/09/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Il nuovo modo di vestirsi adottato dalla Tigre aveva subito fatto chiacchierare, eppure, malgrado l'impatto che una scelta del genere avrebbe potuto avere nel sentir comune, la cittadinanza aveva nel giro di appena un paio di giorni accettato e digerito quella novità, trovandola in fondo una conseguenza naturale di tutto quello che stava accadendo in Italia.

Così, abbastanza tranquillizzata da quel clima più disteso del previsto, la Contessa si aggirava per la rocca e per Forlì con addosso brache da uomo, camicione, giubbetto o, più spesso, una leggera cotta di maglia, e la spada al fianco. L'unico momento in cui tornava a vestire qualche abito da donna era la sera, o quando aveva impegni solo a Ravaldino, ma per il resto cominciava a trovare troppo comodo il suo nuovo guardaroba per privarsene.

Tutto sommato, in quell'ultima settimana la Sforza era riuscita a trovare un sottile equilibrio, dividendosi in modo abbastanza equo tra gli impegni di Stato, i figli – eccezion fatta per Ottaviano, che lei rifuggiva in modo categorico – e Giovanni da Casale. Lei e il suo amante, dopo l'ultima volta alla cittadella, erano riusciti a organizzarsi con una certa facilità, seppur per parentesi abbastanza frettolose, eleggendo come luogo per i loro incontri una locanda poco frequentata, non lontana dal Quartiere Militare.

Anche Pirovano sembrava aver accettato di buongrado il nuovo abbigliamento dell'amante, limitandosi a un'unica battuta di spirito, la prima volta in cui si era trovato intento a spogliarla dai suoi abiti maschili: “Questa è la prima volta che tolgo di dosso i vestiti a un soldati...” aveva scherzato.

Ben decisa a non farsi smontare da quella che sapeva essere una velata critica alla sua libertà d'azione, la donna aveva ribattuto: “Non preoccuparti... Alla fine è una cosa molto facile da fare. Io, per esempio, ho imparato molto in fretta.”

Quell'allusione al fatto che i suoi amanti occasionali fossero per lo più soldati, aveva messo a tacere Giovanni che, ben lungi dal voler di nuovo litigare per colpa della sua gelosia, decise di non sollevare più la questione.

Quella mattina, Caterina stava tornando a passo svelto dal palazzo. Aveva dovuto incontrare di nuovo i rappresentati della città e quella riunione aveva solo avuto il potere di inacidirle il sangue.

A volte aveva il sospetto che tra i Consiglieri cittadini ci fosse qualcuno che remasse volontariamente contro di lei, che quasi sperasse nell'arrivo di un conquistatore esterno che spazzasse via tutto. Altrimenti non poteva spiegare l'ottusa ostilità che certi dimostravano verso i suoi doverosi e indispensabili provvedimenti.

Aggirando una grossa pozzanghera dal bordo fangoso, giusto sotto la statua di Giacomo Feo, la Contessa si trovò a ripensare alle notizie che Marulli le aveva riferito via lettera. La missiva era arrivata giusto quella mattina e ciò che il bizantino aveva scritto era stato sufficiente alla donna per decidere di richiamarlo immediatamente a Forlì. Michele era una pietra d'angolo nel piano che la Tigre aveva elaborato per mettere al sicuro i propri figli, quindi era tempo che si allontanasse dai francesi e tornasse da lei.

Attraversando il ponte levatoio di Ravaldino, la donna riprese a ragionare su ciò che Marulli le aveva scritto, innanzi tutto sulla sorte inclemente che sembrava essere destinata al figlio di Isabella d'Aragona. Secondo Marulli, il bambino era stato fatto partire per la Francia e là sarebbe stato tenuto in prigionia presso un'abazia. Forse si sarebbe trattato di un carcere meno duro di quello che era stato il castello di Pavia, ma non di certo più permissivo.

Michele aveva poi riferito in modo abbastanza minuzioso tutti i giochi di potere che si stavano consumando nelle stanze del palazzo di Porta Giovia, sottolineando soprattutto la precarietà della posizione dei Bentivoglio e, secondo il suo giudizio, anche degli Este e del Gonzaga. A suo parere il re si stava prendendo gioco di tutti loro, tenendoli calmi al solo fine di poter attraversare le loro terre indisturbato e cavalcare verso Napoli.

Ciò che il bizantino aveva scritto riguardo Cesare Borja, poi, per la Leonessa era stata una stilettata nel petto. Aveva sperato con tutta se stessa che Marulli trovasse nel Duca di Valentinois un inetto, un semplice raccomandato incapace di far valere il suo cognome. E invece il suo inviato le riferiva come, malgrado la sua superba arroganza e i suoi tremendi vizi, Cesare fosse stato capace di ritagliarsi un posto realmente di spicco nella compagine francese e che ai quindicimila uomini accordatigli all'inizio era probabile che Luigi ne volesse aggiungere altri. Quali che fossero, comunque, le ragioni che spingevano il re di Francia ad appoggiare con tanto entusiasmo la campagna del Borja, era chiaro che la conquista della Romagna non era più solo un obiettivo secondario.

Sentendo la spada che portava al fianco batterle ritmicamente contro la coscia mentre saliva al primo piano della rocca, Caterina si trovò all'improvviso a considerare come quel giorno fosse il 21 ottobre, il compleanno del suo terzo marito, Giovanni.

Colpita da quella consapevolezza improvvisa, la donna si fermò a metà scala, immobile. Era stata tanto presa da tutto il resto, da scordarsi di quella ricorrenza. Ricordare come due anni addietro il Medici avesse voluto festeggiare quello che si era poi rivelato il suo ultimo compleanno, la portò ad appoggiarsi un attimo con la mano alla parete.

“Madre, state bene?” Bianca, con in braccio Giovannino, stava arrivando dal piano di sopra e, trovandosi davanti la Tigre ferma come una statua e con lo sguardo vitreo, non aveva potuto evitare quella domanda.

“Oggi Giovanni avrebbe compiuto trentadue anni.” disse atona la Contessa, per poi accigliarsi e, accarezzando distrattamente Giovannino, chiedere: “Dove state andando?”

“Eravamo alla finestra – spiegò la Riario, dando un leggero bacio in testa al fratellino – e lui continuava a indicare i soldati che si allenano, così ho pensato di portarlo più vicino.”

“Va bene.” concesse la madre: “Ma se ricomincia a piovere, riportalo dentro. Ci mancherebbe solo che si ammalasse adesso che...”

La voce della Sforza era andata spegnendosi e così fu la figlia a cercare di completare ciò che stava dicendo la donna: “Adesso che state per farci andare via?”

“Sì.” confermò la Leonessa, una mano sull'elsa della spada e l'altra inerme lungo il fianco: “Non vi farò restare a lungo. Ma dobbiamo aspettare il momento giusto. Se vi sapessero già partiti, sarebbe troppo facile usarvi contro di me.”

Bianca aveva rinunciato da un po' a capire quella sottigliezza. Aveva sentito anche Luffo Numai concordare con la linea della Sforza e quindi si fidava ciecamente. Tuttavia non riusciva a pensare a come il figlio del papa avrebbe potuto usare lei e i suoi fratelli contro la loro madre, se fossero scappati in anticipo.

“E prendi la pozione che ti ho dato, mi raccomando. Almeno adesso che puoi. Quando ti farò partire, non so se riuscirai a portarne un po' con te.” soggiunse in fretta la Contessa: “Anche se cercherò di farti viaggiare al sicuro, con tutti quei soldati francesi in giro per le nostre campagne, nessuna donna potrà dirsi al sicuro.”

“Lo so.” annuì la ragazza, stringendo un po' di più Giovannino, come a farsi forza.

“Avanti... Porta tuo fratello a vedere gli addestramenti.” concluse la Leonessa, con un'altra carezza all'ultimogenito che, un po' impensierito dal tono mesto delle due donne, si era fatto serio: “Ma ricordati quel che ti ho detto: se inizia a piovere, tornate dentro.”

Lasciatasi alle spalle Bianca e Giovannino, la Contessa andò con decisione verso lo studiolo del castellano. Doveva discutere con lui di alcune cose e rivedere dei dettagli che, alla luce dell'ultimo incontro coi Consiglieri Cittadini, andavano modificati.

Tuttavia, appena appoggiò una mano alla porta, per aprirla, sentì proprio la voce di Cesare Feo richiamarla dal corridoio. Trafelato e un po' in affanno, l'uomo la raggiunse e le disse che c'erano novità.

“Ovvero?” chiese la donna, accigliandosi.

“Vostro fratello Alessandro ha mandato un suo legato – spiegò il castellano – per dire che lui e gli altri vostri fratelli, Galeazzo di Melzo e Francesco, arriveranno qui domani, probabilmente verso sera.”

Caterina deglutì e poi, non trattenendo un sorriso, disse: “Allora questo pomeriggio andrò nei boschi. Voglio che per domani i miei fratelli abbiano della selvaggina di prim'ordine per cena.”

 

“Non mi hai ancora detto che intenzioni hai...” disse piano Lucrezia Feo, accarezzando stancamente la nuca del marito, che restava aggrappato a lei nella luce dell'aurora.

Aveva piovuto tutta notte, ma da almeno mezz'ora sembrava tornato il sereno. Dalla finestra lasciata appena schiusa passava l'odore inebriante del terreno bagnato e dell'autunno che cavalcava a grandi giornate.

Simone non disse nulla per un po', limitandosi a godere del calore del corpo della moglie e del suo tocco, che era al contempo così ruvido, eppure così dolce e familiare.

Da quando era stato cacciato da Forlì, si era subito ritirato da lei. Lucrezia era rimasta attonita, nel vederselo arrivare all'improvviso in casa, ma, per quanto volesse fare la sostenuta, in ricordo dei loro ultimi scontri, non appena se l'era trovato davanti aveva dimenticato tutti gli screzi e le recriminazioni. Lo aveva abbracciato con forza a sé e poi aveva voluto sapere come mai fosse lì.

Da quel giorno aveva ricominciato a conoscersi, con cautela, come se entrambi avessero paura di vedere l'altro scappare. Si erano riavvicinati, trovando, come all'inizio del loro matrimonio, molto più facile incontrarsi sotto le lenzuola che non davanti a un camino per parlarsi.

“Vuoi restare qui a Imola?” chiese la Feo, cercando di smuovere il mutismo del marito.

“Non lo so.” rispose lui, irrigidendosi appena.

“Io ho tutti i miei terreni, qui.” fece notare lei, ottenendo, come unico risultato, uno sbuffo da parte di Simone che, spostandosi un po', sottraendosi alle sue carezze, la guardò di traverso e si fece serio.

“Hai tutti i tuoi amanti, qui.” la corresse: “Il che, per me, è un po' diverso.”

“Non è mai stato un problema per nessuno di noi due, sapere che l'altro era libero, no?” ribatté Lucrezia, che pure, da quando Ridolfi era tornato da lei, non aveva più incontrato altri uomini, arrivando perfino a disdire un incontro già fissato.

“Se stai meglio senza di me, posso anche tornarmene a Firenze.” mise in chiaro l'uomo, saltando su a sedere, quasi che volesse partire per Firenze all'istante.

“Non essere sciocco.” lo zittì lei: “Non sto meglio, senza di te. E comunque dovremo pensare a qualcosa, se dici che presto i francesi arriveranno qui e...”

“Credo che in buona parte dipenderà da cosa deciderà di fare la città.” soppesò Simone, dopo qualche istante di silenzio.

“Che intendi?” il tono della Feo si era fatto pratico, esattamente come quando trattava di affari.

Messasi a sua volta seduta, alle spalle del marito, aveva aggrottato la fronte, interessata alle strade che la costatazione del suo uomo aveva appena aperto. Donna dalle ampie vedute e dalle grandi risorse, Lucrezia aveva la straordinaria capacità di intravedere una buona possibilità laddove la maggior parte della gente scorgeva solo un problema.

“La Sforza ha mandato qui a Imola Naldi – spiegò Ridolfi, guardandola da sopra la spalla – e questo significa che ha deciso di far difendere la città il più a lungo possibile nella speranza di rallentare i francesi. Tuttavia dubito che imporrà la difesa anche alla popolazione.”

La donna sembrava perplessa. Conosceva molto poco, in realtà, la cognata. Sapeva solo che era stata colpa sua se Tommaso si era trasformato nello spettro di quello che era stato da ragazzo, finendo poi per partire per il Bosco e far perdere ogni sua traccia, ed era anche convinta che la Tigre avesse avuto un grande peso nella miserrima fine fatta da Giacomo. Malgrado ciò, però, non poteva dire di sapere come la Contessa ragionasse o che principi morali avesse, se pure ne avesse qualcuno.

“La Sforza – continuò l'ex Governatore, che, invece, nel corso della sua permanenza a Forlì aveva imparato a conoscere anche troppo bene la mentalità della loro signora – chiederà sicuramente ai rappresentanti del popolo di votare. E solo Dio sa cosa decideranno di fare.”

Nel sentire ciò, la Feo sospirò a fondo. Si strinse le ginocchia al petto e puntò lo sguardo verso la finestra. La luce del giorno si stava facendo più incerta, come se, dopo un'alba abbastanza serena, stessero tornando nuvole spesse e scure a promettere un altro giorno di pioggia.

“Devo cercare di capire cosa voteranno...” fece la donna, dopo aver ragionato sopra: “Se lo sapremo con un minimo di anticipo, sapremo anche come muoverci.”

A Ridolfi pareva un buon piano, anche se lui non avrebbe saputo da dove cominciare, per sondare le intenzioni dei membri del Consiglio Cittadino.

“Tanto per iniziare – fece Lucrezia, gli occhi scuri ancora spersi a osservare oltre il vetro da cui filtrava ancora qualche timidissimo raggio di sole – oggi pomeriggio incontrerò un paio di miei conoscenti. A loro potrò chiedere in modo chiaro cosa intendono fare. E poi penserò a chi altro contattare.”

Simone sentì lo stomaco stringersi, nell'udire la voce della sua donna fare quel progetto. Non c'era stata malizia, nel suo modo di esprimersi, ma la gelosia lo stava corrodendo.

Quasi potesse sentire il disagio del marito, Lucrezia gli si fece più vicina. Gli massaggiò un momento la schiena tesa, poi il collo e, dopo un breve bacio tra le scapole, lo strinse a sé.

Quell'abbraccio, nella testa di Ridolfi, era come una moneta di scambio. Non riusciva a vederlo come un gesto d'affetto gratuito. Era come una ricompensa per la sua pazienza.

“Sei con me?” chiese la moglie, in un sussurro, le labbra ancora appoggiate alla pelle di lui.

Simone fece un cenno secco con il capo e rispose, arrendevole: “Sì.”

“Non ci saranno più Contessa da cui correre, lasciandomi qui sola?” proseguì lei, tra il serio e il faceto, le mani che scivolavano sul petto del marito, arruffandone un po' i peli scuri.

“No, non ci saranno.” confermò lui, voltando appena il capo per cercare di scorgere il viso della Feo, come se bastasse per capirne le reali intenzioni.

“Ma...” la voce di lei si era fatta incerta, in un modo che a Ridolfi parve estremamente sincero, come se davvero quella domanda le stesse pesando moltissimo: “Ecco... Non è che sei stato anche tu uno dei suoi amanti..?”

La sola idea parve così ridicola a Simone, che l'uomo diede in una breve e bassa risata, prima di rispondere, molto più composto: “No. Era la donna di Giovanni. È vero che di solito non mi faccio tanti problemi a prendere la moglie degli altri, ma a lui ci tenevo. Non avrei mai potuto fargli una cosa del genere. Nemmeno dopo che è morto.” precisò.

“Però non ti sarebbe dispiaciuto.” lo punzecchiò Lucrezia, inducendolo a voltarsi del tutto verso di lei: “La Sforza è una bella donna, disponibile...”

“Per me la Sforza è solo un'assassina.” decretò lapidario Ridolfi.

Come se quell'ultimo inciso andasse a spegnere ogni ulteriore perplessità, la Feo abbozzò un sorriso e lo baciò. Intanto, fuori, in barba al pallido sole che sembrava intenzionato a splendere su Imola, era ripreso a piovere.

“Stamattina hai tempo per aiutarmi con l'inventario delle messi?” chiese Lucrezia, tra un bacio e l'altro.

Il fiorentino, che da quando era tornato dalla moglie non aveva un ruolo preciso, tanto meno un impiego fisso, annuì subito e commentò: “Sarò lietissimo di mettermi a tua completa disposizione.”

 

Caterina era rientrata a Ravaldino poco dopo l'alba. Era riuscita a evitare quasi del tutto la pioggia, attraversando il ponte levatoio quando iniziavano a cadere le prime gocce.

Aveva portato nella stalla il suo purosangue nero e aveva consegnato alle cucine il cinghiale cacciato la sera prima. Non pensava di poter catturare una preda così eccellente, a maggior ragione visto il tempo inclemente. E invece, proprio quando stava per tornare sui suoi passi e rinunciare, mentre già scendeva il buio, aveva sentito dei rumori che conosceva bene. Aveva messo al riparo il cavallo, aveva imbracciato la sua lancia da cinghiale, regalo del suo ultimo marito, e aveva messo a segno un colpo perfetto.

A quel punto, però, con il terreno fangoso e i primi tuoni che scuotevano di nuovo il cielo, aveva deciso di non azzardare un ritorno alla rocca in notturna, preferendo fermarsi per qualche ora alla Casina. Aveva mangiato una lepre catturata poco prima e poi aveva passato buona parte della notte a rimuginare e solo un paio d'ore a dormire.

Quel piccolo ambiente, come sempre, le aveva dato l'impressione di avere ancora il caldo abbraccio di Giovanni, eppure, forse complice il temporale o l'ansia continua che l'opprimeva all'idea del prossimo arrivo dei francesi, quella volta restare lì aveva avuto un sapore agrodolce. Che lo volesse o meno, sapeva che quella poteva essere la sua ultima notte alla Casina e quella consapevolezza aveva avuto il potere di avvelenarle il riposo e renderle un po' indigesta la cena.

Così quella mattina, appena aveva intravisto un filo di luce, aveva recuperato il suo stallone, aveva sistemato la carcassa del cinghiale ed era tornata a casa.

Stava rimettendo a posto la lancia da cinghiali quando sentì la voce di Cesare Feo chiamarla. Se lo trovò alle spalle, con una lettera in mano e un'espressione un po' preoccupata.

“Che c'è?” chiese la donna, prendendo subito la missiva, ma guardando il castellano di sottinsu.

Benché l'uomo l'avesse vista tornare con un cinghiale da fare arrosto, il fatto che fosse rimasta fuori tutta notte, in un primo momento, l'aveva messo in allarme. Le voci che giravano sulla sua signora erano tante e sempre più incontrollate e il problema era che non erano del tutto infondate. Ci sarebbe mancato solo di saperla intenta a dare spettacolo in una locanda, concedendosi in modo plateale a qualche soldato di vent'anni...

“Niente, mia signora.” fece il Feo, abbassando gli occhi: “Mi chiedevo solo se... Se aveste fatto buona caccia.”

La Sforza stava aprendo il messaggio e non aveva voglia di seguire i discorsi di Cesare, tuttavia aveva intuito, anche se molto vagamente, le preoccupazioni dello zio di Giacomo, perciò smorzò ogni suo dubbio dicendo, secca: “Sono stata nei boschi, ho preso il cinghiale che avete visto, mi sono fermata alla Casina a mangiare e dormire e sono tornata qui. E basta. Da sola.” soggiunse, per essere il più chiara possibile.

Il castellano schiuse le labbra, come per scusarsi della sua curiosità, ma la Contessa lo stava zittendo. Stava leggendo velocemente la missiva – che arrivava da Milano, scritta per mano di Marulli – e a ogni riga le sua labbra si stringevano sempre di più.

“Scrivete a Michele.” concluse, ridando la lettera a Cesare: “Ditegli di tornare subito a Forlì, di lasciare Milano il prima possibile. Lo voglio qui. E poi ordinate un Consiglio di Guerra per questo pomeriggio: abbiamo nuovi elementi da valutare.”

Il Feo annuì e poi, mentre la sua signora lasciava la sala delle armi a passo svelto, le brache da uomo che attiravano ancora qualche sguardo incuriosito dei soldati di stanza a Ravaldino, lesse anche lui ciò che Marulli aveva scritto.

Era un resoconto estremamente preciso, benché espresso tramite giochi di parole concordati, delle forze che i francesi stavano mettendo in campo e dei piani del giovane Borja. Arrivato in fondo, il castellano non trattenne una piccola bestemmia a voce bassa.

Si allargò il colletto del giubbone e, il cuore che batteva veloce, capì che quello sarebbe stato il punto di non ritorno. Anche se quella decisione lo addolorava, si disse che quel giorno, appena prima del Consiglio di Guerra, avrebbe confermato alla Tigre la sua intenzione di lasciare il suo posto. Sarebbe stato egoista e ingiusto a restare castellano di quella rocca in un momento simile, perché non si sentiva in grado di far fronte ai momenti che si accingevano a vivere. Come amico, come parente, perfino come soldato – con tutti i limiti del suo fisico e della sua età – sì, ma non come castellano. Era troppo per lui.

“Tutto bene, castellano?” chiese il maestro d'armi, arrivandogli accanto e fissandolo preoccupato.

Cesare, pallido come un cencio e sudato, annuì poco convinto e, stirando un sorriso, ribatté: “Tutto come sempre...”

 

Jacopo non aveva ancora aperto bocca da che si era seduto a tavola. Lucrezia, che non si era aspettata di vederlo rientrare per pranzo, lo guardava di continuo di sottecchi senza dire nulla.

Nella sala, in quel momento, c'erano solo loro. I figli avevano già mangiato tutti, Maria, la più piccola, era con la balia, e in quel momento nemmeno la servitù sembrava intenzionata a disturbare i silenziosi ragionamenti del padrone di casa.

Con un sospiro pesante, il Salviati prese un momento il calice e, dopo aver sorbito un sorso appena, posò gli occhi preoccupati sulla moglie. La Medici, che fino a quel momento non aveva osato andare oltre a qualche domanda di prammatica riguardo a come stesse il marito o a che ora pensasse di rincasare quella sera – sentendosi rispondere solo 'bene' e 'non lo so' – ricambiò lo sguardo e rimase in attesa.

“Hai sentito di Ranuccio?” chiese l'uomo incrociando le braccia sul petto.

“No.” fece subito Lucrezia, accigliandosi e posando il pezzo di pane nero che aveva appena portato alla bocca.

Dalla strada arrivava lo scrosciare incessante della pioggia che fin dal mattino presto aveva squassato Firenze come se volesse lavar via qualche macchia orribile. Per un istante appena, la donna si chiese se quell'impressione non fosse corretta e se, per caso, la sorte del Marciano – a lei ancora ignota – fosse il motivo della rabbia del cielo.

“Adesso che è stato nominato Governatore Generale delle truppe fiorentine ha ben pensato di lasciare Cascina. A quanto pare la sua malattia, quale che sia, lo sta debilitando troppo. Sta arrivando qui a Firenze per curarsi.” disse piano Jacopo, con un sospiro.

La moglie annuì in silenzio. Quella era una notizia importante, ma dubitava che fosse il motivo della cupezza del Salviati. Già il fatto che non le avesse ancora parlato di quanto accaduto quella mattina al palazzo della Signoria la metteva in agitazione. Vedere come la reticenza perdurava, poi, era un vero supplizio.

“Vuoi dirmi che cosa c'è?” chiese alla fine Lucrezia, non resistendo più.

Come se fosse stato colpito da un improvviso attacco di nausea, l'uomo scansò da sé il piatto che aveva davanti e strinse le labbra, prima di dire: “C'è che domani verrà bandita la Lega. Si stanno facendo oggi i Capitoli. Firenze, il re di Francia, Venezia, il papa e Siena.”

La Medici, nel sentire ciò, parve pietrificarsi. Anche se era chiaro che Lorenzo stesse brigando in ogni modo per legare saldamente la Repubblica a re Luigi, la donna non si era aspettata di vederlo agire in modo tanto deciso e repentino.

“Per stanotte, appena la delibera del Consiglio sarà chiara e pubblica, verranno indetti banchetti, feste e si saranno i fuochi.” concluse il Salviati, con un respiro tremante: “Come vedi, la morte di Vitelli non era la cosa peggiore che potesse fare tuo cugino.”

“La Signoria non può lasciargliela passare!” inveì a quel punto la moglie, alzandosi di scatto e avvicinandosi al marito, quasi che minacciando lui potesse cambiare le sorti di Firenze: “Ci sta vendendo tutti quanti ai francesi solo per distruggere la Sforza di Forlì!”

“Lo dici come se io potessi far qualcosa per evitarlo.” fece infatti notare Jacopo, allargando le braccia impotente: “Lo sai che non spetta a me, prendere queste decisioni. E ormai questa è una decisione presa.”

La Medici, le guance arrossate e le mani che si stringevano l'una nell'altra nel tentativo di ritrovare una certa organizzazione mentale, chiese: “Cosa dicono i Capitoli?”

“Che Firenze riavrà dal re di Francia le terre perse nelle ultime guerre, senza dover pagare nemmeno un fiorino di indennizzo.” spiegò il Salviati, cercando di essere chiaro e preciso: “E in cambio Firenze fornirà ai francesi uomini e armi, aiutandoli a conquistare Napoli.”

“È come ti dico io. Sta facendo tutto questo solo per distruggere sua cognata.” fece la donna scuotendo il capo e stringendosi nelle spalle: “Ma facendo così distruggerà Firenze... Ci metterà in mano agli stranieri e...”

Restando sempre seduto al suo posto, l'uomo allungò una mano verso la moglie, nel tentativo di calmarla: “Avanti... Adesso non si è ancora sicuri di come andrà. Magari...”

“Magari niente, Jacopo.” lo zittì lei, scuotendo la testa e allontanandosi appena: “Mi pare evidente quale sia la linea scelta da Lorenzo e sappiamo che ha i mezzi per sostenerla fino alla fine. Si deve far qualcosa per aiutare la Sforza.”

“E cosa?” fece lui, lasciandosi di nuovo andare contro lo schienale della sedia, mentre la Medici tornava a farsi meditabonda: “Non abbiamo né eserciti da prestarle, né conoscenze tali da avvantaggiarla.”

“Ma possiamo appoggiarla. Suo figlio aspetta ancora il rinnovo della condotta, no?” fece Lucrezia, ben sapendo, però, di aver toccato una corda sbagliata.

“E non l'avrà mai.” precisò il Salviati, che aveva capito benissimo quale fosse la decisione finale della Repubblica, benché la diretta interessata non fosse ancora stata avvisata in modo ufficiale.

“Ebbene...” la moglie, di norma così piena di risorse, pareva in seria difficoltà, a quel punto, tuttavia, come rinfrancata da chissà quale certezza interiore, alla fine decretò: “Un modo lo troveremo. Lorenzo non può averla vinta. Ci sono cose più importanti della sua guerra personale: il bene di Firenze e quello dei Medici.”

Jacopo, bevuto ancora un sorso di vino, si asciugò gli angoli della bocca con il dorso della mano e concluse: “Hai ragione. Adesso devo tornare al palazzo... La riunione inizia presto.”

L'uomo avrebbe voluto lasciare la sala da pranzo con un bacio alla moglie, ma, pur essendosi proteso verso di lei per farle capire quell'intenzione, si rese conto che la sua donna era troppo, veramente troppo impegnata a destreggiarsi tra i suoi pensieri per accorgersi della sua silenziosa richiesta. Così, non dando nemmeno peso al fatto che Lucrezia gli stesse addirittura dando le spalle, le dedicò un semplice saluto a voce e pregò che quando fosse tornato, quella sera, la Medici avesse finalmente trovato il bandolo della matassa.

 
 
   
 
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