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Autore: Adeia Di Elferas    27/09/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La serva amica di Bianca non smetteva di darle colpetti con il gomito e sogghignare in silenzio, e per quanto la Riario gesticolasse per farle capire di smetterla, che non c'era assolutamente alcun bisogno che le facesse notare ancora l'ultimo arrivato, la ragazza non smetteva.

Come loro consuetudine, si erano infilate nel loro nascondiglio segreto per spiare i soldati che quel pomeriggio dovevano dedicarsi al bagno che la Leonessa aveva reso obbligatorio a tutti gli uomini d'armi di stanza a Ravaldino.

Ormai ne erano rimasti pochi, perché stava venendo sera e cominciava quasi a far buio. Anche se non si poteva dire che facesse molto freddo, la pioggia di quei giorni aveva reso tutti un po' restii a lavarsi a tarda ora, preferendo invece le ore più tiepide della giornata.

Quello che era appena entrato era il giovane soldato con cui Bianca continuava a incontrarsi la notte, vicino alle cucine. Non facevano nulla che la figlia della Contessa ritenesse troppo sconveniente. Si baciavano, stavano stretti l'uno all'altra, a volte si spingevano un po' oltre nel cercarsi a vicenda, ma il più delle volte, semplicemente, passavano quasi tutto il tempo a parlare.

Non era la prima volta che Bianca e la sua amica vedevano anche lui, alle tinozze per il bagno, ma, come sempre, la Riario si trovava a osservarlo come fosse una novità assoluta. L'altra le aveva già espresso più volte la sua approvazione, sottolineando come, a suo parere, quel giovane fosse tra i migliori presenti alla rocca. Questa dichiarazione aveva dato alla figlia della Tigre qualche certezza in più, tuttavia l'attrazione che provava per il soldato – benché molto forte – non l'aveva ancora portata a vederlo per più di quello che secondo lei era e sarebbe sempre stato, ovvero solo un passatempo.

All'improvviso dalla porta entrarono altre quattro uomini che, iniziando a spogliarsi, parlavano del Consiglio di Guerra appena finito. Mentre la serva ancora si perdeva via dietro il soldato giovane che sguazzava nella grossa tinozza che stava appena sotto il punto di osservazione, Bianca rivolse la sua attenzione a quelli appena arrivati. Li conosceva abbastanza bene tutti e quattro: il Capitano Bezzi, il Capitano Rossetti, Baccino e Bernardino da Cremona.

“Se il figlio del papa ha davvero quindicimila uomini al suo seguito...” stava dicendo Bezzi.

“Se è partito con quindicimila uomini – lo corresse all'istante Bernardino da Cremona – è molto probabile che sia solo un'avanguardia e che Luigi lo segua a breve con altrettanti soldati.”

“Avete sentito che ha detto la Contessa...” Rossetti, la voce un po' soffocata dal camicione che si stava sfilando, sembrava quello meno atterrito di tutti: “A Luigi la Romagna non interessa. Se ha dato al Valentino quindicimila uomini è perché non ne vuole sprecare più di quindicimila. A lui interessa andare a Napoli. Noi siamo solo nel mezzo. Una tappa necessaria.”

“Forse, ma al papa di Napoli non importa nulla.” fece Baccino, slacciandosi lentamente i nodi del giubbone: “E questo Duca Valentino è suo figlio. Quindicimila uomini francesi non sono uno scherzo...”

“Voi siete tra quelli che si sono offerti spontaneamente alla Sforza, no?” lo prese di petto Bezzi, già quasi del tutto svestito: “Non mi direte che ora che si avvicina davvero la guerra avete paura? Che razza di uomo siete?”

A quel punto il cremonese, scorgendo gli sguardi indagatori degli altri, scoppiò in una sonora risata e commentò: “Malgrado le apparenze, sono un uomo di parola. Se sono qui è perché sono pronto a combattere fino alla morte per lei. Anche se, lo ammetto, non mi dispiacerebbe prima offrirmi a lei anche in un altro senso...”

Bezzi fece un cenno d'assenso, benché fosse chiaro a tutti quanto quell'ultimo inciso gli fosse piaciuto poco, mentre sia Rossetti, sia un paio di soldati già a mollo nelle tinozze, accolsero quell'affermazione con una sorta di comprensiva ilarità.

“Devi metterti in coda, allora...” aveva commentato proprio il Capitano Rossetti, dando una pacca sulla spalla a Baccino.

“E devi sperare che si stanchi presto di Giovanni da Casale.” si aggiunse uno dei soldati intenti a lavarsi.

“Se è per quello, dubito che la nostra signora si accontenti di averlo una tantum.” fece secco Bezzi, che avrebbe voluto smorzare il discorso, ma che, come tutti alla rocca, non trovava nulla di più interessante della vita privata della Contessa: “Adesso che Pirovano è alla cittadella si vedono di rado, a parer mio... Ci gioco un occhio della testa che presto torneremo a vedere la fila di uomini davanti alla porta della sua tana.”

Bianca, nel sentire quella stoccata rivolta alla madre, arrossì violentemente e, ignorando del tutto la sua amica che, accanto a lei, le stava indicando un soldato particolarmente prestante che stava uscendo in quel momento dall'acqua, abbassò lo sguardo e si mise a penare.

Non solo al fatto che tutti o quasi i soldati di Ravaldino paressero concentrati pressoché esclusivamente sulle avventure della Tigre, ma soprattutto sulla preoccupazione iniziale espressa dai Capitani. Sapeva che quel pomeriggio si era tenuto un Consiglio di Guerra e appena dopo cena era intenzionata a interpellare Galeazzo per sapere che cosa si fosse detto e, soprattutto, che cosa si fosse deciso.

Come evocato dal suo pensiero, suo fratello entrò in quel momento nella sala assieme a un paio di altri giovani.

L'attenzione della serva amica della Riario si spostò a quel punto da Baccino, ormai del tutto spogliato e intento a scegliere in che tinozza calarsi, al figlio della Sforza, che ormai era, notoriamente, il suo preferito.

Bianca, evitando di guardare il fratello, si concentrò un momento sul cremonese. Baccino era molto giovane, ma aveva un fisico decisamente virile. Più lo osservava, più la ragazza si chiedeva come mai sua madre non l'avesse ancora preso come amante. Anche i suoi modi, a tratti un po' arroganti e invadenti, erano, agli occhi della Riario, un punto a suo favore. Non tanto perché a lei piacessero gli uomini di quel tipo, quanto perché le ricordavano un po' il tratto di Manfredi. E forse, pensava, anche per sua madre quello poteva essere un motivo maggiore di attrazione.

Siccome ormai i discorsi dei soldati esulavano completamente dalle questioni di Stato, Bianca si disse che era il momento di andarsene. Stava già facendo capire alla sua amica che preferiva levare le tende dal loro nascondiglio, quando questa le fece segno di restare ancora un minuto. La ragazza ci mise qualche secondo prima di capire il motivo di quella richiesta.

Il soldato con cui lei a volte si incontrava stava uscendo dalla tinozza. In quel momento dava loro la schiena e la Riario, che pur era distratta da tutto quello che le si agitava nella mente, si prese il tempo necessario per passarlo al setaccio. Le piaceva, non poteva negare che fosse così, e riteneva il poterlo guardare senza l'imbarazzo di essere vista a sua volta un grandissimo vantaggio nel rapporto che si stava instaurando tra loro.

Quando il giovane si voltò per recuperare un telo per asciugarsi, poi, Bianca arrivò per un attimo a dimenticarsi della sua volontà di andarsene. Tuttavia, non appena il soldato afferrò le brache e se le infilò, l'interesse per lui si ridusse e la figlia della Tigre preferì lasciare davvero il nascondiglio.

“Resta pure a vedere mio fratello, se vuoi.” disse alla sua amica, in un sussurro talmente sottile, che l'altra capì a stento le sue parole.

Con lentezza e cautela, la Riario lasciò quel punto d'osservazione privilegiato e raggiunse in breve il corridoio. Prima che potesse chiedersi se la serva l'avesse seguita o meno, se la trovò accanto, ancora euforica per ciò che aveva visto.

“Il tuo soldatuccio non è niente male...” le disse, con un sorriso ammiccante, mentre camminavano svelte verso la cucina.

Bianca non commentò. Si trovava d'accordo con l'amica, ma non voleva darle troppa corda. Era distratta dai suoi pensieri e sperava che la cuoca avesse da darle qualche lavoretto manuale da fare, in modo da poter perdersi un po' nella propria mente, lasciando i pettegolezzi frivoli a un altro momento.

“Dai... So che fai così solo perché non abbiamo visto nulla che tu già non conosca...” continuò l'altra, sempre più insinuante.

“Ti ho già detto che tra me e lui non c'è stato nulla di che.” rimarcò la Riario, mentre imboccavano l'ingresso delle cucine: “E, se anche ci fosse stato, non verrei certo a raccontartelo.”

“Come preferisci.” sospirò la serva, scuotendo la testa: “Comunque mi spiace che messer Pirovano adesso sia alla cittadella... Ma con tua madre come..?”

La curiosità a tratti indiscreta era la caratteristica che Bianca meno apprezzava nella sua amica. La trovava una ragazza dal carattere molto alla mano, gentile e sinceramente leale, tuttavia quando la vedeva incaponirsi a quel modo su certi argomenti davvero avrebbe tanto voluto poterla zittire malamente e lasciarla al suo destino.

“Immagino abbiano un modo per incontrarsi anche ora che lui non è più alla rocca.” tagliò corto la Riario: “Non sono affari miei, comunque.”

“Oh! Eccovi, finalmente!” la cuoca, nel vedere le due giovani arrivare vicino al fuoco le indicò con il mestolo che gocciolava di brodo: “Si può sapere dove vi eravate cacciate? Avanti, c'è molto da fare... Il cinghiale non si prepara da solo.”

“C'è qualche ospite, stasera?” chiese Bianca, per nulla infastidita dal tono della corpulenta e anziana donna che aveva davanti.

“Sembra che arriveranno un paio dei vostri zii.” fece la cuoca, annuendo: “La Contessa è stata qui poco fa per ordinarci di preparare il cinghiale come Dio comanda in modo che sia pronto almeno per le dieci...”

La Riario si accigliò. Sapeva che sua madre era in attesa dell'arrivo di alcuni suoi fratelli e pure lei era desiderosa di conoscerli. In fondo, pensava, erano anche loro suoi consanguinei. Aveva sempre potuto conoscere pochi parenti, e le avrebbe fatto davvero piacere potersi confrontare con qualcuno di loro, anche solo per vedere quanto si somigliassero o quanto, invece, fossero diversi.

“Arriveranno così tardi?” chiese, sedendosi al tavolone e cominciando a tagliare le verdure assieme a una delle sguattere.

“Vallo a sapere..!” ribatté la cuoca: “Io ho ricevuto gli ordini, non mi sono certo messa a fare domande..!”

E così, seguendo il pragmatico insegnamento della serva, Bianca si mise all'opera con maggior lena, ripromettendosi di cambiarsi d'abito e di andare a cena abbastanza sul tardi, nel tentativo, così, di vedere i suoi zii sconosciuti prima dei suoi fratelli.

 

C'era già buio, e si era rimesso a piovere intensamente. Caterina era seduta alla scrivania, nella sua stanza, e stava finendo di scrivere una lettera alle Murate di Firenze.

Non sapeva dire se quello che stava facendo fosse giusto o meno, ma aveva deciso che non poteva starsene a guardare mentre suo figlio lasciava passare i giorni senza far nulla per mettere al sicuro Cornelia. Che l'idea le piacesse o meno, quella bambina, più o meno coetanea di Giovannino, era sua nipote, aveva in parte anche il suo sangue, e, proprio per questo, andava difesa.

Ci aveva ragionato su un po' e alla fine aveva optato per una scelta abbastanza comoda. Si trattava di una bambina piccola, facile da nascondere e trasportare. In un convento pieno di donne sarebbe stata accudita e coccolata, e, in più, vedere come le suore avrebbero accolto e custodito sua nipote sarebbe stato un banco di prova per capire come avrebbero aiutato anche i suoi figli, al momento opportuno.

Così aveva preso contatti già il giorno prima con la madre della piccola, spiegandole che stava comprando a entrambe un posto alle Murate, la ragazza, però, le aveva mandato una rapidissima risposta dicendole che Cornelia poteva partire per Firenze quando la Contessa voleva, ma che lei non si sarebbe mossa da Imola.

In circostanze diverse, la Sforza forse non avrebbe approvato quel distacco tra madre e figlia, ma sapeva come Ottaviano avesse imposto quella maternità alla giovane e conosceva anche troppo bene i sentimenti di odio e dolore che doveva provare ogni volta in cui vedeva la bambina. Perciò aveva subito accettato le condizioni della ragazza e aveva iniziato a organizzare il tutto.

Con un sospiro, firmò in calce e poi rilesse la missiva destinata alla madre superiora. Le sembrava concisa e comprensibile, per quanto scritta in modo non troppo aperto. Confidava nell'intercessione di Fortunati, che si era volontariamente offerto come suo portavoce presso le suore, affinché la sua richiesta venisse capita e accolta.

Mentre aspettava che l'inchiostro asciugasse per bene, la donna lasciò libera la mente. L'andamento ondivago dei suoi pensieri la portò a ragionare su Bernardi. Era da troppo tempo che non andava nella sua barberia per avere notizie fresche della città. E se non lo faceva, in realtà, un motivo c'era.

Ultimamente il loro rapporto si era deteriorato a tal punto che la Sforza si sarebbe sentita in difficoltà, nel trovarsi da sola con lui. Sapeva di aver sbagliato, di essere stata spesso ingiusta nei suoi confronti e superficiale, nel darlo troppo per scontato, ma non aveva idea di come recuperare.

Fece un profondo sospiro, scacciando dalla propria mente l'immagine del Novacula. Non aveva tempo, in quei giorni, per spaccarsi la testa su problemi a cui non sapeva dare una risposta rapida e semplice.

Forse proprio per via di questa consapevolezza, la sua mente le ripropose un'altra questione a cui, però, la Leonessa sapeva ormai come reagire.

Cesare Feo le aveva domandato in modo ufficiale di essere sostituito. Era stato un momento brutto, che lei non avrebbe voluto vivere in prima persona. Anche se con pacatezza e con un lieve sorriso sulle labbra, quando l'uomo, alla fine del Consiglio di Guerra di quel pomeriggio, le aveva annunciato la sua decisione definitiva, Caterina si era sentita un po' morire.

Cambiando castellano, sarebbe finita un po' un'epoca. Cesare era quello che accoglieva Giacomo nel suo studiolo, quando scappava dai suoi obblighi. Era quello che la sosteneva e le permetteva di mettersi in poltrona davanti a lui a ragionare nei pomeriggi d'inverno quando lei cercava di capire che cosa provasse davvero per Giovanni Medici. Era quello che tentava sempre di recuperare Bernardino e dargli un punto fermo cui aggrapparsi. Era quello che non l'avrebbe mai tradita, anche a costo di farsi uccidere.

Non l'avrebbe lasciata, aveva assicurato, ma non riusciva più a servirla come avrebbe voluto, in veste di castellano.

La Tigre stava giusto pensando di chiedere a Bernardino da Cremona un incontro, per chiedergli se si ritenesse in grado di prendere il posto del Feo, quando sentì bussare alla porta.

Chiese chi fosse e quando sentì la voce del Capitano Golfarelli dire: “I vostri fratelli sono alle porte della città e tra poco saranno alla rocca.” si alzò di scatto, chiudendo in fretta la lettera destinata alle Murate.

Aperta la porta, diede i messaggio al Capitano: “Consegnatelo al castellano, lui sa a chi farla recapitare.” ordinò e poi, veloce come un fulmine, raggiunse i camminamenti.

Nell'aria scura della sera forlivese, non badando né al fatto che si stesse infradiciando di pioggia, né al fatto che fosse ancora vestita da uomo, pur essendosi ripromessa di accogliere i suoi fratelli con abiti più consoni, la Sforza si mise a occhieggiare verso la porta cittadina, in modo da poter scorgere per prima il sangue del proprio sangue che andava a offrire a lei a alla sua causa la vita.

 

Lorenzo guardava i fuochi che riempivano il cielo, escludendo dalla vista qualsiasi altra cosa, ma, pur capendo il senso di gioia – per molti del tutto immotivato – che inebriava la città, ne restava completamente insensibile.

Al suo fianco Semiramide teneva come lui lo sguardo alto, ma, parimenti, assomigliava più a un pezzo di vetro che una donna fiera dell'operato del proprio uomo.

La Lega sarebbe stata bandita solo il giorno dopo, ma quella notte la Signoria aveva comunque decretato che si facesse festa in tutta la città. Erano anni che Firenze non si lasciava andare a quel modo. Era da prima che Savonarola incenerisse lo spirito goliardico dei fiorentini che per strada non si vedevano tanti banchetti improvvisati e esternazioni di allegria. I giochi pirotecnici e il cibo offerto dai più abbienti, poi, erano un vero e proprio tuffo nel passato.

L'Appiani avrebbe voluto sottrarsi a quel carosello. Aveva anche provato a dire che forse avrebbe fatto meglio a stare a casa coi figli più piccoli, ma il Medici non aveva sentito ragioni.

“Sei mia moglie – le aveva detto, con un tono autoritario che la donna non ricordava di avergli mai sentito usare in casa – e come tale devi stare al mio fianco. Nessuno deve pensare che mi odi. La nostra famiglia deve essere un esempio. Deve dare l'idea dell'unione che deve permeare tutta Firenze.”

Tuttavia, pensava Semiramide, chi li avesse guardati in quel momento non avrebbe mai più potuto pensare a due figure più disunite. In piedi l'uno accanto all'altra, ciascuno immerso nella propria coscienza, avulso da ciò che stava tutt'attorno e sordo ai botti dei fuochi, marito e moglie sembravano solo due sconosciuti.

“Dov'è Pierfrancesco?” chiese a un certo punto Lorenzo.

Era stato lui a insistere che il suo primogenito li seguisse in piazza per i festeggiamenti principali, ma di fatto del ragazzino – che avrebbe compito quattordici anni a breve – aveva perso ogni traccia già prima di arrivare in vista del Palazzo Vecchio.

“Non lo so.” fece distaccata la donna, con voce metallica, stringendo appena le labbra tra una parola e l'altra: “Immagino con qualcuno dei suoi amici.”

Era stata lei, in realtà a dare qualche moneta al figlio e invitarlo ad andare a divertirsi. Lorenzo non se n'era nemmeno accorto, tanto era preso dai propri interessi. Poco dopo essere usciti di casa, l'appiani aveva aspettato un momento in cui il marito era particolarmente distratto e aveva fatto un cenno a Pierfrancesco.

Questi, che in realtà aveva coltivato poche amicizie, fino a quel momento, era comunque subito sgusciato via dall'aura opprimente del padre, in cerca di uno svago che, sua madre sperava, non avesse a che fare in modo troppo diretto con bordelli e osterie di dubbia fama.

Il Medici sporse in fuori le labbra, in segno di disapprovazione, gli occhi tondi e imbronciati che non si staccavano dai fuochi che illuminavano a giorno il cielo nero di Firenze: “Quel ragazzo va tenuto più in riga.” decretò: “Se lo si vuol far diventare il mio successore...”

“Il tuo successore... Parli come un Duca.” lo mise a tacere l'Appiani, già stanca di sentirlo: “Io sono stanca, Lorenzo. Torno a casa.”

L'uomo boccheggiò un momento, ma, quando si voltò verso la moglie per trattenerla, già non la trovò più. Si guardò in giro, tra la folla accalcata in piazza, ma non la trovò. Deglutì a fatica, più scottato dal tono freddo della sua donna che non dal fatto che se ne fosse davvero andata. Era solo in mezzo alla ressa, ma la solitudine che provava aveva radici molto più profonde.

Divincolandosi quasi a fatica tra i suoi concittadini, incrociando anche un paio di volti a lui molto sgraditi – Niccolò Machiavelli in primis – riuscì a farsi largo fino a una strada secondaria e abbastanza tranquilla.

Non prese una via diretta verso casa, perché non voleva tornare e trovare Semiramide ancora in giro per il palazzo. Sarebbe andato a bere un calice di vino, ma non aveva voglia di incontrare nessuno. Prima che potesse comandare ai suoi piedi una direzione precisa, si trovò dietro San Lorenzo.

Era troppo vicino a casa, ma non aveva intenzione di rimescolarsi alla folla. Perciò, colto da un bisogno improvviso e che quasi lo sorprese, entrò in chiesa. Il silenzio e la semioscurità che l'accolsero gli fecero mancare il fiato.

Andò alla tomba di suo fratello e cominciò a pregare. O, almeno, ci provò. Più guardava la lapide, più sentiva crescere dentro di sé una rabbia incontenibile. Giovanni era stato ciò che aveva amato di più al mondo, e ciò che, allo stesso tempo, aveva odiato di più. Era suo fratello, nelle sue vene scorreva lo stesso sangue, l'aveva accudito e protetto quasi come un padre avrebbe fatto con il figlio. Aveva rinunciato alla sua giovinezza per restargli accanto e anche da sposato l'aveva preso con sé, senza mai abbandonarlo, a rischio di compromettere la delicata convivenza con sua moglie, che all'inizio era stata tutt'altro che lineare. Ma Giovanni che aveva fatto per lui? Quando era nato, gli aveva ucciso la madre. Da bambino era sfuggente, istintivo, scappava di continuo nei campi e nei boschi, dandogli continui grattacapi. Da ragazzo si era fatto più calmo, ma sempre impalpabile, difficile da capire. E poi, da adulto, aveva sposato una donna che l'aveva circuito, spillandogli buona parte dei suoi soldi. L'aveva abbandonato per un capriccio. L'aveva lasciato solo, senza nemmeno chiedersi se fosse la cosa giusta da fare.

Asciugandosi una lacrima di rabbia, Lorenzo dedicò uno sguardo di sdegno alla tomba del fratello e poi deglutendo un paio di volte nel tentativo di sciogliere il nodo che gli stringeva la gola, si fece in fretta il segno della croce, rivolto all'altare, e uscì a passo svelto dalla chiesa.

 

Nel momento stesso in cui aveva rivisto suo fratello Alessandro, Caterina aveva sentito un calore nel petto diverso da qualsiasi altra cosa. Anche se pure gli altri due giovani che lo scortavano, ovvero Galeazzo e Francesco, avevano il sangue degli Sforza, per la Tigre la sensazione di legame con il più vecchio era qualcosa di molto più intenso.

Era dalla partenza di sua sorella Chiara che non sentiva vicino qualcuno che condividesse con lei entrambi i genitori. Anche se con Piero Landriani aveva stretto una profonda amicizia, basata su un'innata comprensione, trovarsi davanti Alessandro – per lei ormai quasi uno sconosciuto – era comunque qualcosa di più viscerale.

Aveva accolto tutti e tre gli Sforza appena arrivati, compiacendosi del fatto che portassero con loro qualche arma e un manipolo di uomini. Aveva mostrato loro la rocca, con orgoglio, scortandoli a vedere anche le stanze che aveva predisposto per loro, e poi aveva deciso di far conoscere loro i suoi figli.

Quel progetto, però, si dimostrò abbastanza zoppicante, infatti quella sera riuscì a presentare loro solamente Galeazzo, Sforzino, Bianca e Giovannino. Di Ottaviano e Bernardino non c'era traccia.

Aveva rimediato facendo incontrare loro Giorgio Attendolo da Cotignola, loro parente un po' più alla lunga, e questi, amante delle chiacchiere oltre che delle armi, aveva subito colto l'occasione per fare un po' di conversazione, e così la serata si era aggiustata abbastanza in fretta.

“Mi spiace che non abbiate potuto vedere Bernardino...” disse Caterina, non appena lei e i fratelli furono soli nella Sala della Guerra, dopo cena.

“Non importa.” disse Alessandro, che, tra i tre fratelli, era quello che aveva preso in mano la conversazione più o meno per tutto il tempo, come se si fosse eletto da solo portavoce degli altri due: “Alla sua età, siamo stati tutti un po'... Agitati.” sorrise: “E di Ottaviano, invece, che ci dici?”

La Contessa gli dedicò uno sguardo molto veloce, registrando per l'ennesima volta, quella sera, la somiglianza notevole con il loro padre. Non erano simili tanto nei colori o nei tratti – dato che Alessandro aveva i capelli molto più chiari del padre, così come gli occhi, e un naso decisamente meno importante – quanto nelle espressioni. Il ricordo mai sbiadito di Galeazzo Maria Sforza, quella sera, stava riprendendo il suo posto nella mente della Leonessa come non mai, e la donna non sapeva se esserne felice o meno.

“Lascia stare Ottaviano...” borbottò la Tigre, andando verso il tavolo su cui era stesa la mappa d'Italia: “Facciamo meglio a parlare di guerra.”

“Solo una cosa, se posso...” si intromise Francesco, l'unico, tra loro, a non poter vantare il cognome Sforza, ma a poter invece mostrare il profilo deciso e inconfondibile che aveva caratterizzato molti membri della loro famiglia: “Il cinghiale era ottimo.”

“L'ho cacciato io.” rivelò Caterina, arrossendo appena nel sentire qualche motto d'approvazione da parte dei fratelli.

Galeazzo, il più giovane, che aveva ventitré anni, sembrava sempre un po' in difficoltà nell'inserirsi nella conversazione. In parte, forse, era perché da quando era nato si era sentito come escluso dalla grande famiglia del padre, fomentato, in questa idea, anche dalla madre, Lucia Marliani, che gli aveva sempre passato un'idea molto ostile di ciò che era per loro la corte milanese. Tuttavia, quando aveva trovato il coraggio di entrare in contatto con i suoi fratellastri, aveva da subito avvertito una sensazione di calore che non aveva mai provato in nessun altro momento della sua vita. Era stata proprio quella fiammella a convincerlo che mettere in palio la propria vita, pur di correre in soccorso di una delle sue sorelle, fosse una scelta giusta.

Mettendo da parte la sua timidezza, il giovane si schiarì la voce e commentò: “Davvero l'avete cacciato voi?”

La Sforza, che aveva già notato come egli usasse il voi quando le si rivolgeva, fece schioccare le labbra e disse: “Sì, l'ho cacciato io. Ma siamo fratelli, dammi del tu. Sei venuto qui a morire al mio fianco, non mi sembra giusto che tu ti rivolga a me come se fossimo due estranei.”

Il Contino di Melzo sbatté un paio di volte le palpebre, sorpreso, malgrado tutto quello che aveva già visto e sentito quella sera, della franchezza della sorella. Annuì, non troppo convinto, e intanto si disse che quei modi, quasi bruschi, ben si sposavano con una donna che aveva accolto lui, Francesco e Alessandro in piedi sotto la pioggia, sulle merlature di una rocca, vestita da uomo e con i lunghi capelli bianchi sciolti al vento.

Dopo qualche scambio di battuta tra Caterina e Alessandro riguardo la passione condivisa per la caccia, la Contessa passò a parlare davvero di guerra, catturando l'attenzione degli altri tre in un lampo.

Si erano fatti portare del vino e del prugnolo, ma di fatto la conversazione si era fatta così animata e partecipata che, a notte ormai fatta, le due caraffe erano ancora quasi piene.

“Sei sicura che la peste sia stata arginata?” chiese Francesco, seduto su uno degli sgabelli, giusto sotto un tris di candele: “Perché se non è così, possiamo fare tutte le congetture che vogliamo, ma sarà la morte nera a ucciderci tutti ben prima che lo facciano i francesi.”

“L'ultimo caso è uscito oggi dall'ospedale che ho allestito fuori dalla città.” confermò Caterina: “Ci sono stati alcuni contagi, di recente, ma ho saputo isolarli per tempo.”

I tre uomini che aveva davanti sembravano sinceramente colpiti dalla sua abilità nel gestire un'epidemia del genere, e quando parlò, Alessandro lo fece con tutta la stima possibile: “In tal caso, abbiamo qualche possibilità di poter resistere a lungo.”

“Non chiedo di meglio.” convenne la donna, una mano a pugno sul fianco e l'altra stesa sulla mappa.

In lontananza si sentirono le campane battere lei due di notte. Galeazzo, tra gli Sforza presenti decisamente il più provato da quella lunga giornata, si lasciò sfuggire uno sbadiglio. Aveva in mano il calice quasi intonso e, appoggiandolo con discrezione al mobile, cercò di far intendere agli altri quanto fosse stremato.

“Forse faremmo meglio a ritirarci e continuare il discorso domani.” propose la Leonessa, riconoscendo la silenziosa richiesta di aiuto del fratellastro.

“Sono d'accordo.” convenne Francesco, alzandosi: “Anche se non credo che andrò a dormire subito...”

Dallo sguardo d'intesa che scoccò agli altri due uomini presenti, la Contessa comprese bene che cosa intendesse e così, al solo scopo di spiazzarlo e fargli capire ancor meglio con chi aveva a che fare, gli disse: “I bordelli migliori sono quelli vicino al centro, dietro la Torre Pubblica. Evita le topaie dei bassifondi o come minimo ti prenderai le pulci.”

L'altro rimase un momento allibito da quel consiglio, non perché non gli fosse utile, ma perché mai si sarebbe atteso che una donna potesse parlargli tanto liberamente di certe cose.

“Fai come dice nostra sorella...” ridacchiò Alessandro, dandogli un colpo sulla spalla: “E tu, Galeazzo, meglio che corri a dormire. Non ti reggi più in piedi...”

In effetti il Contino di Melzo si era appoggiato con disinvoltura alla parete, ma dava l'idea di non essere in grado di reggere ancora a lungo.

“Tu non vai a riposare?” chiese Caterina, vedendo come il trentaquattrenne stesse tacitamente invitando gli altri due ad andarsene.

“Vorrei parlare un momento da solo con te.” rispose subito Alessandro.

“Va bene.” convenne lei e, come aveva fatto il fratello poco prima, dedicò un cenno del capo agli altri due, per invogliarli ad andarsene.

“I bordelli dietro la Torre Pubblica, allora!” fece Francesco, ormai alla porta, a mo' di saluto: “Dirò che mi ci hai mandato tu, così magari mi faranno lo sconto...”

Galeazzo, invece, sollevò la mano e disse solo: “Auguro a tutti un buon riposo...”

 
 
   
 
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