Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: ONLYKORINE    29/09/2019    4 recensioni
Cosa succede quando si dice 'Basta'? Succede che ti rendi conto di come vuoi o non vuoi vivere.
Luca scappa una sera e incontra una ragazza che gli servirà un orribile cappuccino. E dovrà scegliere come vuole o non vuole essere.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


-
-
UN ORRIBILE CAPPUCCINO
-


Uno

“Quello scatolone non va bene lì. Mettilo là.”

Due

“Svuota la lavastoviglie, visto che non stai facendo niente.”

Tre

“Non così. Te l’ho fatto vedere tantissime volte! Quando imparerai?”

Quattro

“Spostati…”

Cinque

“Ma cosa fai?”

Sei, sette e otto

“Bla, bla, bla.”

Nove e dieci

Avevo smesso di ascoltare da un po’. Avevo sentito dire che se conti fino a dieci, ti passa l’arrabbiatura. Chi aveva detto questa stronzata? Non funzionava, non funzionava per niente.

“Vaffanculo!” urlai slacciandomi il grembiule e gettandolo sulla macchina del caffè, sopra a tutte le tazzine bianche, girate a testa in giù e con il manico rivolto verso sinistra, così che fosse più veloce prenderle mentre si montava la manopola con il caffè macinato.

Avevo imparato quelle istruzioni prima ancora di imparare a parlare. I miei genitori avevano un bar, il famosissimo ‘L’angolo bar’ e io avevo iniziato a passare lì i miei pomeriggi da quando avevo tre mesi.

Cose tipo il funzionamento della macchina del caffè o come disporre i cilindri di caramelle erano il pane con cui ero cresciuto. Il vecchio ubriacone del tardo pomeriggio che sedeva nell’angolo, la mamma con la figlia bionda che va a ginnastica il giovedì, l’impiegato che faceva colazione tutte le mattine alla stessa ora ma il sabato più tardi, tutti loro erano i miei amici.

Passare da un lato all’altro del bancone non mi era mai pesato, e quando ero più piccolo mi piaceva aiutare, ma poi… Poi, il diploma mai utilizzato, il ‘aiutaci intanto che cerchi qualcos’altro’, e l’altro ‘bhe, sei fortunato ad avere comunque un posto, oggi non si trova lavoro da nessuna parte’, avevano ucciso la mia voglia di cercare qualcosa altrove e mi ero accoccolato nel lavoro più sicuro, invece che cercare la mia strada.

Così mi ritrovavo a ventotto anni a lavorare a stretto contatto con i miei e mio fratello Gabriele, io, il piccolo della famiglia, quello che veniva sempre per ultimo e a cui si poteva criticare tutto senza problemi perché ero quello che non sapeva fare niente. Secondo loro.

Lavorare con i proprio familiari provoca più stress che un lavoro con estranei.

Le parole della psicologa mi tornarono in mente. Oh. Grazie al cazzo. Davvero avevo bisogno di pagare settantacinque euro all’ora per sentirmi dire cose che sapevo già?

Affondai le mani nelle tasche della felpa appena passai la porta d’ingresso del bar. Di solito non bisticciavamo davanti alla clientela, ma quella volta non ci avevo visto più. Dopo una giornata uguale alle altre, ma diversa nel mio animo, mi precipitai nel crepuscolo della sera lungo la strada.

Camminai per quella che mi sembrò un’eternità, l’umidità mi si era appiccicata addosso e iniziavo a essere stanco, così mi incamminai verso casa, ossia verso L’angolo bar, visto che il nostro appartamento era nello stesso stabile. Pensarci in quel momento, sembrava una cosa triste. No, cavolo, non sembrava, lo era. Era una cosa triste. Quando pioveva e d’inverno, quando c’era molto freddo, passavo dalle cantine andando al lavoro per non dover neanche uscire all’aperto. Era triste davvero.

Arrivato davanti alla vetrina del bar, notai subito la saracinesca giù e le luci spente. Un’occhiata all’orologio mi disse che erano le dieci passate. Guardai in alto, verso le finestre di casa mia. In cucina le luci erano accese e dei movimenti si percepivano oltre le tende. Quando vidi un’ombra avvicinarsi ai vetri, mi nascosi contro il muro. Non volevo che mi vedessero. Non volevo ancora tornare in casa. Non mi sentivo pronto.

Il trillo di una notifica sul cellulare, mi fece tirar fuori il telefono dalla tasca e lo osservai: era un messaggio di mia madre, in cui mi chiedeva dove fossi finito. Sbuffai. Se non ero pronto a entrare in casa, non lo ero neanche per parlar con loro. Mi sentivo esausto. Non per la camminata e non era stanchezza fisica, ero stanco dentro. Mi sentivo stanco e vuoto, come se vivessi con un grosso peso opprimente sulle spalle. Chissà, forse era proprio così.

Mi frugai in tasca e trovai le chiavi dell’auto. Le rigirai fra le mani un po’ di volte, prima di prendere la decisione, poi non mi guardai più indietro. Spensi il telefono prima di entrare in macchina e accesi il motore, pompando il riscaldamento al massimo. Rimasi qualche minuto a godermi quel tepore e poi lo spensi. Era primavera inoltrata alla fin fine, non ce n’era bisogno, era solo l’umidità che mi si era impressa addosso che mi faceva sentire freddo. Lì in macchina non c’era bisogno di altro. Solo un po’ di riparo.

Cercai di distrarmi guardando quello che avevo in giro: sotto il tappetino c’erano un volantino pubblicitario e tre scontrini, sul sedile dietro, una vecchia giacca invernale, con cui mi coprii nonostante il clima mite e svariate carte, un libro e un pacchetto di fazzoletti nel cruscotto.

Guardai ancora verso la finestra: la luce in cucina era ancora accesa. Decisi di aspettare che andassero tutti a letto e poi sarei salito in casa. Passò mezz’ora e neanche mi accorsi quando mi si chiusero gli occhi e mi addormentai.

Fui svegliato dal camion della raccolta dei rifiuti che mi passò accanto e fece dondolare l’auto da tanto andava forte. Mi guardai intorno ancora un po’ imbambolato: c’era poca luce, quindi immaginai che fossero le cinque, massimo cinque e mezzo del mattino. Girai la chiave e illuminai il quadro. L’orologio digitale segnava le 05.17. Guardai verso il bar, che era ancora chiuso visto che aprivamo alle cinque e mezzo. Mi sporsi per guardare verso l’appartamento dei miei e vidi ancora la luce in cucina. Qualcuno si stava preparando per venire ad aprire il bar. Non so chi fosse, visto che quel giorno avrei dovuto aprire io.

Misi in moto e feci partire l’auto lungo la strada. Non volevo incontrare nessuno. Nessuno dei miei. Girovagai un po’ in cerca di, ironia della sorte, un bar aperto a quell’ora, ma non ne incontrai finché non finii dall’altra parte della città.

Il Piccolo bar sembrava un miraggio e io avevo urgenza di andare in bagno e anche lavarmi la faccia non mi sarebbe dispiaciuto troppo, così non ci pensai su due volte e parcheggiai. Chiusi la macchina e poi, a grandi falcate, attraversai la strada per raggiungere l’ingresso.

Quando entrai, fui stupito subito dalla musica: la radio in sottofondo era accesa, ma non proprio in sottofondo, anzi, il volume era piuttosto alto. Mia madre avrebbe avuto da ridire se io avessi alzato la radio così tanto. Scrollai le spalle e mi avvicinai al bancone.

Una ragazza mora stava trafficando con la macchina del caffè. Borbottava qualcosa mentre, concentrata, cercava di incastrare nel modo giusto la manopola con il caffè macinato. Non mi aveva visto, era chinata e io riuscivo a vederle appena le spalle e il collo, su cui si notava il disegno di un tatuaggio, lasciato scoperto dai capelli. Sentii nella mia mente mio padre dichiarare che la porta andava sempre tenuta d’occhio.

Tossii per annunciare la mia presenza e lei si tirò su di colpo, spaventata. “Oh, ciao” disse, mentre i capelli le svolazzavano intorno al viso. Velocemente la inquadrai e feci scorrere lo sguardo fino al limite che mi consentiva il bancone: indossava una canottiera nera con una scollatura profonda e un golfino con delle frange sui lati, lasciato aperto. Al collo aveva un laccio da cui pendeva un ciondolo grosso quando un’arancia che le si era posato fra i seni. Sorrise un po’ imbarazzata e, con ancora la manopola del caffè in mano, mi chiese cosa volessi ordinare.

Sentii di nuovo i pensieri dei miei suggerirmi che quello non era l’abbigliamento adatto per stare dietro al bancone e che una ragazza non dovrebbe stare sola a quell’ora nel locale. Il mio basso ventre, invece, mi fece immaginare mio fratello Gabriele che faceva apprezzamenti, da me condivisi, sulla ragazza.

No, non dovevo pensarci. Mica ero come lui. Però lei era veramente carina. La vidi mordersi il labbro inferiore e, per un attimo, ebbi la visione di un me stesso molto più audace, che saltava al di là del bancone e la stringeva fra le braccia.

Oddio. Non ero mio fratello. E non mi comportavo come lui. “Un cappuccino, per favore. Il bagno?” chiesi quindi. Lei mi indicò una porta e tornò a guardare la macchina del caffè. Di sicuro non correvo il rischio di tornare dal bagno e di dovermi bere un cappuccino freddo, di quel passo.

Quando tornai dal bagno, infatti, lei non era ancora riuscita a fare il caffè. Sbuffai mentalmente. Ma cosa ci faceva lì se non era neanche capace di fare il caffè? ‘Mettono spesso delle ragazze molto carine ma incapaci per accalappiare più clienti. Ma noi preferiamo un altro tipo di clientela, no?’ Le parole di mia madre riecheggiano nella mia mente. Per fortuna il bagno era pulito e tutto ciò che doveva essere al suo posto, lo era, così, almeno su quello, non mi venne in mente nessun altro dei rimproveri dei miei genitori.

Quando lei mi sorrise passandomi la tazza, neanche notai il liquido al suo interno, da tanto la stavo osservando. Cavolo, dovevo darmi una regolata. Non volevo essere un cliente di quelli che intendeva mia madre. Così mi allungai a prendere una bustina di zucchero e la versai direttamente nel mio cappuccino. Quando lo mescolai, lo osservai meglio: era poco più di un caffellatte. Dov’era la schiuma? Mmm non andava molto bene. Io adoravo la schiuma e il cappuccino doveva essere bollente. Me lo preparavo da solo e ci riuscivo alla perfezione, pensai, bevendo quella brodaglia tiepida.

“Mi dai anche un cornetto con la marmellata per cortesia?” chiesi ancora. Sicuramente avrebbe alzato il voto di quella mia colazione infelice.

La ragazza, scrutò all’interno dell’espositore delle brioches e si morse di nuovo il labbro. Oddio, qual era il problema? Prese un tovagliolo e con la mano prese un cornetto. Sapevo che non era alla marmellata. Erano le stesse brioches che avevamo noi al bar. Quelle con sopra lo zucchero a velo erano con la crema, quelle con il cacao in polvere alla crema di cioccolato e quelle con la granella di zucchero con la marmellata.

Quando me la passò in mano, sospirai lentamente. Non si faceva così. Oddio quella ragazza aveva mai lavorato in un bar? Per un attimo pensai di contestare ad alta voce il fatto che non l’avesse appoggiato su un piattino e che fosse un cornetto con la crema pasticcera invece che quella che avevo chiesto io, ma mi trattenni. Non volevo discutere e non avevo ancora un altro posto dove andare. Guardai distrattamente l’orologio mentre sbocconcellavo la mia colazione. Erano le sei e un quarto. Avrei dovuto aspettare almeno le sette prima di tornare verso casa. Sarei riuscito a sgattaiolare in casa senza farmi vedere. Cosa avrei fatto dopo, ancora non lo sapevo.

Decisi di sedermi e aspettare, così cercai il giornale per ammazzare il tempo. Dov’era il quotidiano locale? Non riuscivo a vederlo. “Scusa, dov’è la gazzetta?” Lei strabuzzò gli occhi e mormorò un’imprecazione: se l’era scordato. La cosa non mi stupì più di tanto. Sbuffai ancora. Ma dove ero capitato? Questa ragazza, per quanto carina, non era assolutamente in grado di gestire un bar! Non mi resi conto di avere tutti quegli atteggiamenti che criticavo ai miei familiari. Guardai di nuovo l’orologio. Pagai e decisi di andare ad aspettare da un’altra parte.

Mentre uscivo entrò un ragazzo che salutò ad alta voce. Lo osservai con la coda dell’occhio, doveva essere uno di quei clienti a giudicare dal tono della sua voce. Ma poco prima di varcare l’uscio lo sentii dire: “Oh, scusami, pensavo di trovare Giorgio” Come? Mi girai con la mano sulla maniglia della porta e rimasi fermo ad ascoltare.

“Giorgio ha avuto un’emergenza. Oggi lo sostituisco io. Mi scuso già perché è la prima volta che vengo dietro al bancone” la ragazza sorrise al tipo che era entrato esattamente come aveva sorriso a me poco prima. Ehi, ma non poteva sorridere così a tutti! E invece sì, idiota, è così che funziona! Cercai di non sentirmi ferito, ma ero così nervoso che non uscii e ascoltai tutto il discorso dei due.

La sera prima c’era stato un incidente per cui Giorgio e Ivan, i gestori del bar, ora si trovavano in ospedale. Il tale Giorgio si scoprì essere il fratello della ragazza che mi aveva fatto quell’orribile cappuccino. Ecco perché era così incapace: semplicemente non l’aveva mai fatto.

Sorrisi senza un vero perché. Ero soltanto contento che lei non fosse stata messa lì come attrazione, come diceva mia madre.

Quando il ragazzo al bancone provò a dirle qualcuna di quelle frasi che usava anche mio fratello con le clienti non ci vidi più e uscii in strada. Mi avviai nervoso verso l’auto e l’aprii, ma prima di aprire la portiera vidi sull’altro marciapiede un’edicola. Rimasi fermo con la mano sulla maniglia, indeciso su cosa fare. Mi voltai verso il bar e vidi, attraverso la vetrata, il ragazzo di prima appoggiato al bancone che chiacchierava con la ragazza. Cavolo non sapevo neanche come si chiamasse lei, ma sicuramente lui era riuscito a scoprirlo. Doveva essere uno di quei clienti.

Decisi lì per lì. Volevo smetterla di pensare come i miei familiari. Non mi piaceva come si comportavano con me, quindi non dovevo assolutamente comportarmi così io con gli altri. Un altro sguardo all’edicola e poi al bar e richiusi la macchina.

Quando riattraversai la strada per tornare dalla ragazza con sottobraccio la gazzetta dello sport e quella locale, vidi entrare un gruppetto di cinque persone nel bar. Cavolo! Lei sarebbe riuscita a fare il caffè e riconoscere le brioches? Allungai il passo ed entrai anch’io subito dopo di loro.

Il ragazzo era ancora al bancone, quando si avvicinò il gruppetto. Vidi l’ansia sul viso della ragazza quando ordinarono cinque cose diverse, ma lei fu molto brava a non darlo a vedere. Appoggiai i giornali su uno dei tavolini, mi sfilai la felpa per posarla su una delle sedie e mi avviai dietro al bancone.

“Cosa fai?” sussurrò la ragazza un po’ spaventata. “Ti aiuto. I miei hanno un bar” dissi mentre mi lavavo le mani e le asciugavo come se fossi stato lì tutti i giorni della mia vita. “Non c’è biso…” provò a ribattere lei, ma poi entrarono altre tre persone e non mi ostacolò più.

“Faccio io i caffè. Prepara un vassoio e tira fuori il succo e le brioches che hanno chiesto” dettai gli ordini, spiegandole come riconoscere le brioches. Lei rimase per un attimo interdetta, ma subito dopo si riprese e iniziò a fare quello che le avevo detto. Venti minuti dopo il bar si svuotò. Se n’era andato anche il ragazzo di prima. Eravamo soli.

Lei mi sorrise e mi disse: “Grazie, Luca” Mi bloccai a sentire il mio nome. Non glielo avevo detto. “Come fai a sapere il mio nome?” Ma il suo telefono vibrò e lei rispose quando lesse sul dispay il nome del fratello.

“Ciao Giorgio” disse, guardandomi e allontanandosi un po’ da me. Rise. “No, non ho ancora dato fuoco al bar. Ma se me lo chiedi ancora una volta inizio a farci un pensierino. Come stai? Che hanno detto? Oh, ancora niente? E Ivan?” Quando si allontanò ancora di più, non riuscii più a sentire.

Guardai il bancone e mi sentii un po’ fuori posto, così tornai dall’altra parte e armeggiai con il giornale, ma senza mai perderla d’occhio. Non volevo andarmene, dovevo assolutamente scoprire come faceva a sapere il mio nome.

“Grazie, dicevo” disse quando terminò la chiamata. Non sapevo come chiederle del nome, così dissi la prima cosa che mi passò per la testa: “Tuo fratello sta bene?” Lei sorrise ancora e scosse la testa “Non gli hanno detto ancora niente, ma ieri quando l’ho visto, non stava molto bene, né lui né Ivan” Oh, cavolo. Annuii senza saper cosa da dire.

“Come sai il mio nome?” le chiesi dopo svariati minuti di silenzio in cui lei era tornata dietro al bancone. Lei fece una smorfia “Non ti ricordi di me, vero?” Come? Ci conoscevamo? Cavolo, no, non mi ricordavo di lei. Possibile che non mi ricordassi? Mmm dubito che mi sarei scordato una ragazza così, magari mi aveva confuso con un altro. Però lei effettivamente conosceva il mio nome.

Non risposi e lei abbassò lo sguardo. Capii che era in imbarazzo quando mi avvicinai perché aveva le guance rosse. “Prendevamo l’autobus insieme quando andavamo a scuola” mi spiegò. Davvero? La mia faccia doveva essere incredula, perché lei continuò: “Io frequentavo l’Istituto d’Arte vicino alla tua scuola. Ero due anni dietro di te, abbiamo preso lo stesso autobus per due anni…” Merda. L’istituto d’arte era effettivamente vicino alla scuola che frequentavo io, ma di lei… niente. Cercai di ricordarmi l’autobus, ma a quei tempi ero sempre con Tiziano, il mio miglior amico e non è che ci guardassimo tanto intorno. Cavolo, avremmo dovuto, pensai guardandola.

“Mi dispiace” dissi. Ed era la verità. Mi dispiaceva davvero non averla notata. Lei scosse le spalle e sorrise ancora. Oddio. E ora?

“Non preoccuparti” Alzò una spalla come se fosse abituata a cose del genere e io fui ancora più dispiaciuto. “Potrei farmi perdonare” Lei alzò un sopracciglio e io mi chiesi ancora come avevo potuto essere così cieco “E come?”

Sorrisi. “Ti insegno a fare il caffè!”

Lei rise, non come prima al telefono, rise quasi di gusto, dicendo: “Ho appena imparato a fare il caffè. Mostrami le altre cose, tipo come montare il latte. Ho visto come hai guardato il cappuccino, prima…” E arricciò il naso, in un modo molto grazioso.

Nelle ore successive insegnai a Carlotta, così si chiamava, tutto quello che avevo imparato nella mia infanzia. Lei si rivelò una brava allieva tanto da riuscire a passare indenne al pranzo, dove il bar si riempì di impiegati e lavoratori. Verso le tre, con il bar vuoto, lei si sedette a uno dei tavolini e sospirò, stanca.

“Sei stata brava” dissi, posandole davanti un piattino con un toast.

“Oh, grazie. Non so cosa avrei fatto senza di te!” disse prima di dare un morso al panino. Risi. Da quanto tempo non mi divertivo così in un bar? Le avevo spiegato come regolare la rotella del vapore dell’acqua e come pulire facilmente la manopola del caffè, insieme a tantissime altre cose che neanche mi accorgevo di fare.

“Cosa fai domani?” mi chiese. Oddio, domani? Il suo telefono vibrò ancora e lei rispose ancora. Quando capii che parlava con il fratello e che aveva abbassato la voce, mi alzai e andai verso il tavolo su cui avevo lasciato la felpa. Feci finta di frugare nelle tasche e cercai di lasciarle un po’ di spazio.

Quando la chiamata finì, il suo viso era terreo. “Che è successo?” chiedo, tornando vicino.

“Si è fratturato la clavicola. E Ivan si è rotto un braccio e una gamba” i suoi occhi erano spalancati. “Ma… stanno bene?” Lei annuì, ancora un po’ spaesata.

“Sì, ma sembra che ne abbia per almeno due mesi… E Ivan fa fatica a muoversi…” si guardò intorno. Lo feci anch’io. Chi si sarebbe occupato del bar? Se fosse rimasto chiuso anche solo per due mesi, avrebbero perso gran parte della clientela.

Mi sedetti di fronte a lei e la guardai. Non le chiesi niente, ma lei mi rispose lo stesso, continuando a guardare il bancone: “Mi ha chiesto di occuparmi del bar finché non trovano qualcun altro. Io potrei anche farlo, ma mi hai visto: non sono capace…”

Le girai il viso verso di me e dissi: “I prossimi due mesi sono libero”.

Lei sorrise, un sorriso solo per me, stavolta.

***

 

Due mesi dopo ero pronto a conoscere Giorgio. Avevo scoperto qualcosa da quello che mi avevano raccontato alcuni clienti fissi e Ivan, che all’inizio veniva a vedere come ce la cavavamo e ora era tornato quasi a tempo pieno, ma ero ancora curioso. Avevo accettato il lavoro al Piccolo bar, che, anche se non famoso o grande come quello dei miei, era veramente carino e ci stavo bene.

I miei non l’avevano presa benissimo, all’inizio, ma poi avevano capito. Non avevo intenzione di stare lì per sempre, ma l’idea di aiutare veramente qualcuno che avesse bisogno, mi piaceva. E mi piaceva Carlotta. Le ore che passavo insieme a lei volavano e neanche mi accorgevo dello scorrere del tempo. Non mi sembrava neanche di lavorare.

Quando sentii la porta aprirsi alzai lo sguardo e andai incontro a Carlotta e a suo fratello. “Ciao, sei il tipo che ha insegnato a mia sorella a fare il caffè?” Giorgio mi porse la mano sorridendomi. Gliela strinsi e annuii, girandomi poi verso Carlotta. Lei mi sorrise. Il mio sorriso, quello per me.

“Ti ha detto così?” gli chiesi.

“No, lei mi ha detto ‘Il tipo strafigo che prendeva l’autobus con me’, e ha anche aggiunto che sei ancora uno strafigo” rispose lui, strizzando un occhio e ridendo.

“Giorgio!” Il viso rosso e scandalizzato di Carlotta mi scaldarono il cuore e sorrisi anch’io.

-
-

   
 
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: ONLYKORINE