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Autore: CyanideLovers    02/10/2019    5 recensioni
Dopo aver tentato un compositore alla fama e al successo, Crowley è maledetto dalla moglie e tormentato dal suo fantasma fino alla fine dei suoi giorni. Aziraphale farebbe di tutto pur di salvarlo, l'unico problema è che non sa cosa sta succedendo e, in ogni caso, il problema potrebbe essere molto più complicato di quel che sembra.
Ispirata dalla sonata "Il trillo del Diavolo" di Giuseppe Tartini.
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ATTENZIONE: Nella storia ci saranno riferimenti a diversi temi delicati, nasce come una storia horror, leggete con cautela.
Genere: Angst, Dark, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Anatema Device, Aziraphale/Azraphel, Crowley, Madame Tracy, Shadwell
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Oneirataxia'
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Ci sono tante vecchie tradizioni in Italia. 
Si possono trovare nei piccoli paesini del sud, fomentate dai vecchi che educano i figli a rispettare la morte in modo particolare. 
La veglia funebre in casa sottostà a certe usanze: si coprono tutti gli specchi della casa con dei lenzuoli, così che l’anima del defunto non vi rimanga intrappolata. Si fermano gli orologi. Le donne rimangono intorno al defunto per tutto il tempo e gli uomini generalmente vanno in un’altra stanza. La preghiera, il silenzio e il lamento ne dettano i tempi. 

Anche il pianto segue precise regole: si crede che le lacrime disturbino il cammino dei morti, che ne appesantisca i vestiti, per non tormentare i morti, il pianto è assolutamente vietato dopo il tramonto. 

Quando in questi paesini vi è un lutto, il carro funebre viene guidato lentamente per le strade, dalla casa alla chiesa al cimitero. Ogni volta che passa davanti un’abitazione o un negozio, finestre e porte vengono chiuse in segno di rispetto e per non far entrare il lutto in casa. 
Quando il corpo viene portato via, la casa deve rimanere deserta, una sola lampada a illuminare l’abitazione, una bacinella con dell’acqua e un asciugamano candido perché lo spirito del defunto potrebbe decidere di tornare dopo ventiquattro ore e aver bisogno di lavarsi dopo aver vagato nelle tenebre. 

Morte è sempre stata affascinata da questo tipo di tradizioni. 
Ovviamente, non hanno nessuna importanza per lei, non è certo una finestra o uno specchio a fermarla. 
Ma Morte ama e rispetta questo genere di usanze, questo rispetto ossequioso nei suoi confronti, questi gesti creati per poter dare un senso a quel nuovo vuoto dentro il cuore delle persone. 

Morte conosce tutte le tradizioni per onorarla e le rispetta tutte, indistintamente. 
Morte non è gentile e non è crudele. 

Morte è nata dal primo morso della mela perché è l’ombra della creazione, nata dagli uomini e vive negli uomini. 
A differenza delle credenze popolari, non è lei che uccide. 
Morte in realtà non è molto più che un valletto: accoglie l’anima, l’accompagna davanti al giudizio di Dio, torna indietro e ricomincia tutto da capo. Sono gli uomini che si uccidono tra di loro. È Guerra che uccide. Sono Carestia, Pestilenza e Inquinamento che sfiniscono il corpo e lo fanno ammalare. Soprattutto, è Tempo che uccide. Ma tutti insieme si inchinano davanti alla Morte. 

Morte non è mai crudele o gentile; 
Morte è solo inevitabile. 

 

 

 

 

Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, Padova, Italia, 509 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata. 

 

Non sapeva per quanto avesse pianto. 
Non sapeva per quanto tempo fosse rimasto lì a singhiozzare e a pregare che tutto questo finisse. Il vuoto dentro di lui era un’enorme voragine e il suo corpo stava come implodendo: era scosso da violente convulsioni tanto i suoi singhiozzi erano forti, non c’era più aria nei polmoni da chissà quanto tempo, le labbra erano viola e gli occhi rossi per il pianto e la fatica. 
Nonostante questo, quando la donna ordinò di alzarsi, lui ubbidì. 
Prese il violino e si girò verso la porta. 

Crowley la guardò, gli occhi persi e vuoti, l’anima lontana dal corpo, lì e non lì, essere o non essere, la sensazione era quella di essere perso in una foresta oscura, tra il sonno e la veglia, insicuro se il suo corpo stesse seguendo le sue indicazioni o se si muovesse solo per puro istinto. Non riusciva a percepire bene cosa stesse accadendo in quel momento. Due mani scheletriche lo toccarono, lo presero per le spalle e lui riuscì a malapena a comandare al suo corpo di guardarla. 

Lei, che in vita sua non aveva mai fatto nulla di male, una donnetta e niente di più, era riuscita a dannare un demone. Che strano, pensò Crowley, che strano si disse. Come ci era riuscita? Come aveva fatto questo mostro, quest’entità malvagia a dannare qualcosa in modo peggiore di quanto non avesse già fatto Dio. Lei lo guardò, sorridente, e lui si sarebbe voluto sciogliere in un corpo di spire, tornare a terra e strisciare ai suoi piedi finché lei non avesse posto il suo piede sulla sua testa e non lo avesse schiacciato. Si ritrovò a pensare, in quella nebbia che non era altro che la sua anima offuscata dallo strazio e dalla disperazione, quanto amasse quella donna perché ormai era l’unica cosa che si frapponeva fra lui e Crawly. 
Lei, l’unica che potesse capire questo inesorabile dolore che bruciava più delle fiamme dell’inferno, più dell’acqua santa e del terreno sacro su cui stava camminando. 

Lei dice: Oggi è il giorno in cui saremo liberi. 

Lui sorride e pensa: Ti amo. 
Pensa: Ti amo, mia salvatrice, mia regina, mia signora.
Pensa: Ti amo perché tu, a differenza di Dio, hai almeno la decenza di darmi una via d’uscita da questa caduta. 

Quindi dice: Sono tuo. 
Dice: Ora portami dove dovrò essere seppellito.
Dice: Lava il mio corpo con acqua e olio santo con la stessa dolcezza che usava lui, fai quello che vuoi, sono tuo, tuo, tuo. 

 Il tragitto non era stato lungo ma per Crowley durò un anno o forse cento. Si ritrovò davanti ad una lapide con una pala in mano, senza essere davvero sicuro da dove fosse arrivata. Lui guardò la lapide e, nonostante la gola rovinata disse: 
“Questa è la tomba del compositore” 
Lei si mise dietro la pietra e l’accarezzò dolcemente. 
“Guarda meglio,” disse. 
La lapide che fino a un momento prima portava il nome del compositore adesso recitava con lettere incavate di un rosso brillante: 

Qui giace 
Anthony J. Crowley 
La sua più dolce bugia lo portò alla tomba 

 

In un altro momento il demone avrebbe riso ma il suo cuore non riusciva più a sopportare un altro secondo di quel vuoto che si allargava dentro di lui. 
La donna recita: Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita 
.” 
“Scava.” Ordinò lei. 

Crowley la guardò, questa piccola donna che era sfuggita alle grinfie di Morte solo per portarlo tormentare. Tanto crudele quanto meravigliosa quando gli chiedeva di scavare la propria tomba. C’è un gusto delicato in quel comando, un’ironia infernale nel gesto. Infondo, lui aveva metaforicamente costretto il compositore a scavare la sua stessa tomba facendolo impazzire con il suo violino. 
Così Crowley prese la pala e fece come lei le aveva detto. 

C’era una ragione se la terra di cimitero veniva usata per proteggersi dai demoni: non era impossibile da attraversare, lui ne era la prova schiacciante, forse un demone più connesso all’inferno avrebbe preso fuoco al semplice tocco, ma per Crowley era come acido che bruciava tutte le volte che sfiora la sua pelle. Più andava in fondo, più lui si riempiva di tagli e abrasioni, di bruciature e la pelle non faceva altro che friggere al contatto con il terreno sacro. Quando ormai aveva scavato per più di tre metri non fece altro che fermarsi sul posto. 

Lei dice: Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. 

Lui non fece altro che annuire. 
Si inchinò per terra e prese una manciata di terreno umido e lo ingoiò. 
Bruciava ma non si fermò. 
Sentì con feroce soddisfazione, il serpente dentro di lui contorcersi e urlare.  

Lei alzò la ciotola e la portò sulla sua testa, pronta versare su di lui la benedizione finale. 
Lei dice: Questo è il giorno in cui saremo liberi. 
Dice: Adesso prendi in mano il tuo violino, serpente. 

Dice: Suona un’ultima volta. 

 

 

 

 

Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, Padova, Italia, 509 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata.  

 

Aziraphale e Anathema apparirono in un fascio di luce nel piccolo giardino davanti alla chiesa. 
Era una giornata tranquilla ma le nuvole ammassate a est presagivano che presto ci sarebbe stata una tempesta e sarebbe stata terribile. L’angelo deglutì perché l’ultima volta che aveva visto delle nuvole simili era stata la prima volta che aveva conosciuto Crowley, vederle di nuovo gli lasciò una stana sensazione di inquietudine. 
Il cielo tuonò come ad annunciare un cattivo presagio, come a dire: durante la prima pioggia hai conosciuto il demone, mi chiedo se pioverà anche l’ultima volta che lo vedrai. 
Scosse la testa per scacciare quegli oscuri pensieri, non sarebbe finita così. Qualsiasi cosa minacciasse Crowley l’avrebbe fermata. 

Si voltò verso Anathema e capì immediatamente che anche lei stava provando la sua stessa inquietudine guardando l’edificio. La chiesa, dall’esterno, aveva mura bianche, era piccola e sembrava un tranquillo luogo di fede. Ma c’era qualcosa di incredibilmente sinistro come un’atmosfera maligna che permeava l’aria, un’aura di pura disperazione. Il luogo assomigliava più a una casa stregata che ad un luogo di culto. 

Non era l’edificio in sé ma la sensazione che dava. Sia Aziraphale che Anathema erano incredibilmente percettivi ed empatici verso queste emozioni — ovviamente, l’angelo più della ragazza, ma conoscendosi si erano ritrovati a notare le stesse sensazioni quasi simultaneamente — amore, gioia, passione, dolore, malinconia; leggevano queste emozioni con facilità a meno che qualcuno non cercasse di nasconderle a tutti i costi. La chiesa sembrava aver assistito a dolore e disperazione e adesso le pareti ne erano macchiate. Ma soprattutto, era la figura ammantata di nero sulla soglia che fece rabbrividire i due. 

Aziraphale fece un passo indietro, mettendo una mano davanti al corpo di Anathema. Un chiaro messaggio di indietreggiare e di nascondersi dietro di lui. Guardò la figura e in un momento sostituì le proprie paure con tutto il coraggio che fosse riuscito ad amministrare. 

Aziraphale guardò Morte e le disse: Non spiegherai le tue ali sul demone Crowley. 
E Morte rispose: NON PUOI DARMI ORDINI, SCIOCCO PRINCIPATO. 

Adesso è importante fermarci e capire una cosa: il decreto “Che l’uomo non osi dividere ciò che Dio ha unito” non è una scelta casuale di parole. L’unione di cui si parla non riguarda solo una coppia di persone o di entità ma ha una visione molto più ampia. Aziraphale, quando gli uomini erano stati scacciati dal paradiso terrestre, aveva donato la sua spada a Adamo per protezione e amore per le creature tanto care a Dio. Lei — che sapeva sempre ogni cosa —aveva guardato il guardiano e aveva chiesto dove fosse la spada e aveva subito perdonato quella piccola bugia che l’angelo aveva balbettato più per imbarazzo che per cattiveria. Lei aveva osservato il suo figlio più umile custodire gli umani non solo perché era quello il suo ruolo — ovvero il custode della porta orientale dell’Eden e dunque, per estensione, degli umani — ma perché lui li amava profondamente e con ceca devozione. 

Aziraphale era un custode. 
E come tutti i custodi aveva bisogno di un’arma per difendere e proteggere. 

Aziraphale aveva dato via la sua spada e nello stesso momento Guerra era nata per brandire la prima arma donata agli uomini. Ma nessuno avrebbe mai potuto dividerlo dalla spada fiammeggiante per il semplice motivo che Dio aveva benedetto l’unione. Con questo voglio dire che, non importa quanto lontano fosse Aziraphale dalla sua spada: lui era nato per combattere, per proteggere, e custodire, la sua arma sarebbe sempre apparsa nel momento della battaglia. 
Con un movimento della mano una spada ricoperta di fiamme sacre apparve nella mano destra dell’angelo e Anathema fece un salto all’indietro, sorpresa. 

“Non spiegherai le tue ali sul demone Crowley.” Ripetè Aziraphale, alzando l’arma e manifestando nuovamente le sue ali, con uno sguardo che suggeriva che fosse un angelo che non se ne andava spesso in giro uccidendo demoni e entità soprannaturali, ma che certamente era come guidare una bicicletta e una volta imparato non era qualcosa che si dimenticava facilmente. 
Morte lo guardò con quella che avrebbe potuto essere un’espressione divertita anche se era impoossibile da dire visto che la sua testa era un teschio. 
ABBASSA LA TUA SPADA, PRINCIPATO. Disse Morte, SONO QUI PERCHÈ LE CANDELE SONO STATE ACCESE, L’OLIO PREPARATO E CI SONO I TELI BIANCHI GIÀ SPIEGATI. 

Anathema si avvicinò piano ad Aziraphale e gli mise una mano sulla spalla “Cosa vuol dire?” Domandò guardando l’entità e stringendo all’interno della sua borsa un coltellaccio da cucina che si portava sempre dietro, in caso di necessità. 
(Non che si illudesse che avrebbe avuto un qualche effetto sulla Morte, ovvio, ma il gesto la faceva sentire un po’ più sicura di sé e comunque, se la Morte avesse deciso di mietere la sua anima non se ne sarebbe andata senza fare un po’ di baccano). 

“Qualcuno ha preparato tutto il necessario per un’estrema unzione… vuol dire che qualcuno sta per morire” spiegò velocemente l’angelo. 
ESATTO, aggiunse la figura avvolta dal sudario nero, PER ORA SONO QUI AD ASPETTARE. È IL MIO LAVORO. 
IO RACCOLGO ANIME. UNA PER UNA, SENZA NESSUNA ECCEZIONE. 
“Dunque fatti da parte. Ho fretta e non ho tempo da perdere per parlare con te.” 

Morte si spostò di lato e Anathema seguì l’angelo pronto a aprire la porta. Si fermò. 
“Quando entrerò nella chiesa, LEI mi vedrà.” Sussurrò così piano quelle parole che Anathema non era sicura se fossero dirette a lei o fosse solo un pensiero detto ad alta voce. 
LEI VEDE SEMPRE TUTTO. Commentò Morte con nonchalance. 
“LEI vede sempre tutto.” Ripetè l’angelo tra sé e sé mentre le sue mani tremavano contro il legno scuro. 

La verità era che da quando avevano fermato l’apocalisse, Aziraphale aveva evitato in ogni modo qualsiasi chiesa. Questo perché quei luoghi sacri erano come un faro nella notte. LEI vedeva sempre tutto e tutti, passato, presente e futuro. Tutte le possibilità dell’universo. Ma Aziraphale aveva paura che, una volta sotto l’occhio attento di Dio, nella sua casa, lui sarebbe stato giudicato per aver mentito, aver stracciato il copione del Grande Piano e per aver amato l’avversario. 
Sapeva che il giudizio sarebbe arrivato prima o poi come sapeva di non provare il minimo rimorso. 
L’unica cosa che gli diede la forza di spingere le porte della chiesa fu l’istinto primordiale di proteggere e custodire ciò che più amava: Crowley. 

Lo spettacolo che li aspettava era orrido. Il pavimento era come coperto da un orribile tappeto di sangue e piume nere. I banchetti della chiesa distrutti, colonne spezzate e tutte le statue piangevano sangue. Anathema si portò una mano alla bocca, disgustata. Aziraphale tremò perché la forza del dolore che permeava quel luogo lo colpì come una stilettata, d’istinto fece un passo indietro e si mise davanti alla ragazza, come a volerla proteggere da qualcosa che lei probabilmente non poteva avvertire. 
“Mio D —” sussurrò lei ma si fermò a metà esclamazione quando si ricordò quello che aveva appena detto l’angelo. Meglio non indisporre la grande signora dei piani alti. 

“A — Aziraphale… questo è proprio quello che ho visto nel mio sogno…” mugolò lei, spaventata. 
“Crowley…” sussurrò disperato l’angelo vedendo che, nonostante il disastro, non c’era traccia del demone. Ma allo stesso tempo una scintilla di speranza si accese nel suo cuore. Si portò una mano tremante al viso e pensò: Se è uscito da qui, forse è ancora vivo.  

Poi, improvvisamente, un raggio di sole colpì nel giusto angolo il piccolo rosone sul muro frontale della chiesa e diverse cose accaddero: Anathema guardò verso l’altare illuminato e la fuliggine e la polvere che dondolava nell’aria sembrarono improvvisamente tante pagliuzze dorate. L’interno della chiesa che un istante prima era sembrato il set di un film horror tornò a essere un luogo pulito, luminoso, i banchetti di nuovo al loro posto, le statue pulite, l’altare di nuovo candido. 

Anathema ebbe, vagamente, la sensazione di una voce dolce e rassicurante che sussurrava Non Temere.  
Alla ragazza vennero di nuovo in mente quei dolci momenti quando era bambina mentre la madre le pettinava i capelli o quando le rimboccava le coperte, quando le diceva che tutto sarebbe andato bene, quando le faceva il solletico e ridevano insieme di gusto o quando le cantava una dolce ninna nanna. Lei riuscì vagamente a pensare che quello fosse uno strano momento per ricordare qualcosa di così dolce e nostalgico, eppure quei pensieri erano così rassicuranti che rimase per un momento con gli occhi chiusi a gustarsi quelle immagini delicate. 
Aziraphale girò leggermente la testa verso di lei e quando la vide, con gli occhi chiusi e calde lacrime di gioia che scivolavano lungo le guance, le mise una mano intorno al braccio e la fece sedere sul banchetto più vicino, assicurandosi che stesse bene. 

Poi un’altra sensazione; nessuna voce aveva ancora parlato ma lei immaginò che una voce autorevole e calda dire: Aziraphale, Principato, angelo del cancello orientale, avvicinati. 
Lo immaginò solo perchè, l’angelo in questione, si era raddrizzato come uno spillo e si incamminò lentamente verso l’altare con la spada stretta in mano e un’espressione decisa in viso. Si fermò alla fine dell’ultimo gradino, inginocchiandosi davanti all’altare dopo aver baciato il lenzuolo bianco e rimase lì, immobile. 

Dominae” sussurrò Aziraphale con reverenza. 

Anathema lo guardò e per un momento l’angelo non era più il soffice proprietario di una libreria polverosa ma sembrò l’antico cavaliere di un libro medievale: poteva immaginarlo indossare un’armatura dorata con una spada stretta in pugno, l’espressione decisa di chi non permetterà mai che alcuna ingiustizia rimanga impunita davanti ai suoi occhi. L’angelo davanti a lei sembrava la più divina delle creature, in ginocchio con la testa poggiata delicatamente contro il bordo dell’altare, i capelli come fili d’oro che brillavano alla luce, gli occhi chiusi e le ali spiegate all’indietro. 

“Madre, sono il tuo umile e devotissimo servo. Ti prego, prestami orecchio.” Fece una piccola pausa e poi tornò a parlare “So che ti ho deluso oltre ogni misura e so che tu vedi ogni cosa del mondo e dell’universo e sono qui per ricevere il tuo giudizio.” Sussurrò e Anathema si sentì come un’intrusa a ascoltare mentre l’angelo si confessava. 
“Ma prima, Madre, Tu che mi hai affidato la spada fiammeggiante per difendere e proteggere, Tu che mi hai insegnato che bisogna amare il prossimo come noi stessi, che mi hai insegnato che non c’è peccato più grande che credere che neanche la più malvagia delle creature non meriti il tuo amore e perdono… permettimi di proteggere e difendere uno dei miei fratelli caduti.” 
“Lasciami cadere, se è questo che vuoi.” Sussurrò senza nascondere la sua tristezza, “Perchè io amo l’avversario, lo venero più di te.” Le parole risuonavano fra le colonne doriche e fra le navate, fra i granelli di polvere che dondolavano nell’aria e fra i testi sacri, “Il tuo giudizio è ineffabile e indiscutibile, mi inchino al tuo volere. Ti chiedo solo un’unica grazia, fa’ che questo sia un dono d’addio: lasciami vedere cosa tormenta il mio più caro amico.” 

“Lasciami salvare uno dei tuoi figli caduti, il demone che ha pianto per i bambini dell’arca e che ha donato agli uomini consapevolezza e conoscenza, il demone che protegge e salva e che mai una volta ha mosso la sua mano per portare morte e distruzione.” 
La luce si fece allora più intensa, ed entrambi furono investiti da immagini che, essere onesta, Anathema non riuscì a capire: c’era un giardino, un cimitero e due donne che parlano entrambe vestite di nero. Una di loro ha le labbra dipinte di rosso e Anathema ha la vaga sensazione che sia qualcosa di assolutamente indecente, la donna irradia frivola malizia ma sembra essere solo una maschera che nasconde dolcezza e amore. L’altra donna è giovane e bella ma il viso è stanco e malato. Poi vede la chiesa bianca e la sensazione che prova è di assoluta tristezza. Non sono davvero immagini, realizza la ragazza, sono tutte sensazioni. 

Sensazioni come quelle che provi quando guardi un film horror, quando il protagonista sta per aprire una porta e tu sei lì che vorresti urlare: Non farlo! 
Poi vede rosso, bianco, una mano su un’altra mano. Prova paura e una grande soddisfazione di una bugia detta per le ragioni più sbagliate, la convinzione di aver fatto un ottimo lavoro che non ti porterà altro che guai. 
Uno sparo, una risata, e sangue, sangue, sangue. 

“Oh!” Sussurrò una voce lontana. 

“OH!” Esclamò ancora più forte e Anathema sussultò riprendendosi dalla sua visione. Si sentiva vagamente confusa e debole ma la luce era ancora così intensa e una strana calma lavò via tutte le sue paure. Si chiese, vagamente, se ogni angelo del paradiso si sentisse sempre in quel modo… ma forse, pensò lei, forse quella era una miracolosa eccezione perché, se ogni angelo si sentisse ogni giorno in quel modo, non avrebbe mai sentito la necessità di iniziare una guerra. 
“Adesso capisco!” 

“Grazie, Oh grazie Madre.” Sussurrò delicatamente l’angelo mentre baciava l’anello d’oro che portava al dito con grande devozione — la stessa che useresti per baciare i piedi di un santo — si rimise in piedi e si inchinò leggermente: 
“Grazie per non averci abbandonato.” 

Aziraphale si voltò e iniziò a camminare velocemente di nuovo verso Anathema e la porta, mise via la spada. Non gli sarebbe servita. Aveva un’espressione decisa di chi sapeva cosa doveva fare, non sarebbe stato facile, ma non si sarebbe fermato finché non avesse portato a termine la sua missione. Intanto, la luce si affievoliva gradualmente e una voce gentile sussurrò alle loro orecchie: L’amore non è mai peccato. 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

Vi prego, non odiatemi.
la verità è che ci sono due versioni di questo capitolo: nella prima versione Aziraphale era veramente morto.
Però voi non potete immaginare il terrore che ho provato quando mio fratello e la mia ragazza hanno letto il capitolo precedente visto che sono entrambi grandi fan di Good Omens: si sono coalizzati contro di me e mi hanno fatto passare una settimana terribile fatta di minacce, occhiatacce, silenzi, nessuno dei due ha cucinato (e non potete capire quanto sono scarso in cucina, una volta mi sono tagliato cercando di aprire una scatoletta di tonno, davvero una roba imbarazzante) e non mi hanno neanche lasciato il caffe nella macchinetta al mattino. Selvaggi.
In più sono un romanticone ma io questo non l’ho mai detto.

 E quindi perché no, godetevi questo bel momento perché siamo a tre capitoli dalla fine e io ho ancora tantissime possibilità di far soffrire la nostra coppia preferita. 

*Per chi non si squacchera ogni volta che legge in una storia anche solo una parola in latino: Dominae vuol dire Signora. Visto che per tantissimo tempo le messe si sono sempre svolte in latino e che il latino per Dio/Signore è Domine ho usato la declinazione al femminile (visto che Dio è donna il che è puro oro per me) immaginando che gli angeli parlino in Latino. (Si, lo so che tecnicamente parlano in Enochiano ma chi ha il tempo di fare delle ricerche decenti? Yolo, buttiamoci sul latino)

Adesso vi auguro una buona serata, sappiate che ogni commento come sempre è un piacere per gli occhi.
Adesso vado a cercare su google: Come dire con il linguaggio dei fiori “Scusami cara se ho ucciso il tuo personaggio preferito, come vedi l’ho miracolosamente resuscitato, ti prego almeno rispondi ai miei messaggi.”
Si accettano consigli su come riconquistare la propria dolce metà ahah

 

   
 
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