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Autore: steffirah    07/10/2019    1 recensioni
Un'altra possibilità? O l'eterno ripetersi della stessa storia...?
Una maledizione? Una colpa da scontare? Una speranza? Un futuro in cui vivere, in cui sopravvivere?
"Da quel momento in poi, cantammo del nostro immenso ed eterno amore."
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Raccolta di one-shot dedicate alla "2B9S week" indetta su tumblr dal primo al sette dicembre 2017.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
Capitoli:
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5. [M]odern (Human) AU [pt. 2]




 
■■■□■ 2B's Story



Quel ragazzo dai tratti gentili e puerili, lo avevo trovato.
Quel ragazzo che avevo sempre amato, da così tanto tempo, da anni di cui avevo perso il conto, era lì, davanti ai miei occhi. Era lì, a portata di mano. E sentivo che se ne avessi allungata una non sarei stata più in grado di ritrarla.


Dopo essermi ravveduta da quella mia azione molto istintiva, mi resi conto di averlo lasciato piuttosto costernato. Mi sentivo imbarazzata, certo, ma avevo atteso così a lungo quel momento che non ero riuscita a trattenermi. E poi, si trattava di un tacito messaggio: “Ora che ti ho ritrovato, non ti lascerò andare più.”
Superando almeno in parte l'impaccio lui sembrò prenderla sul ridere; si grattò una guancia e sviò il viso in fiamme, chiedendomi se in America si usasse salutare così.
Negai tranquilla, ma poi con un tonfo al cuore mi accorsi che non aveva idea di chi io fossi. Non aveva idea di quello che era il nostro rapporto. Un mio timore s'era avverato, ed ero certa che fosse una conseguenza dell'incidente di 10 anni fa. Ma era anche una consolazione: lo preferivo vivo e smemorato, piuttosto che morto. Non potevo essere certa di riuscire a ridestare i ricordi sopiti in lui, se ancora ve n'era traccia, ma potevo almeno fare un tentativo e, nel caso in cui si fosse rivelato fallimentare, costruire nuovi ricordi da quel momento in poi. Non tutto era perduto, c'era ancora speranza per noi.
Ad ogni modo, non mi scusai per le mie azioni, anzi gli rivelai che lo avessi fatto con intenzione e piacere - imbarazzandolo ulteriormente. Non mi sembrava fosse stato così timido da bambino, al contrario, era sempre stato piuttosto vivace e spigliato; ma anche quel nuovo lui era bellissimo.
Osservandolo quotidianamente, rimasi dell’opinione che ogni singola cosa di lui fosse interessante. Sia il suo carattere bonario che la sua vasta mente erano attraenti, ed evidentemente non ero l’unica a pensarlo, visto che era quasi sempre circondato da gente: mi accorsi, infatti, che gran parte degli studenti lo salutavano e si rivolgevano a lui, per una questione o per un'altra. Sembrava sempre stra-impegnato, eppure riusciva quotidianamente a ritagliarsi del tempo per me e a starmi vicino, anche non fisicamente scrivendomi per chiedermi come stessi, come fossero le lezioni, se stessi trovando difficoltà o avessi qualche dubbio. In caso affermativo lui era subito pronto ad aiutarmi e, per questo, spesso ci attardavamo insieme oltre le lezioni per fare qualche ripasso o farmi dare qualche lezioncina sulla lingua, nonostante la maggior parte delle mie classi fosse in inglese.
Ogni giorno lo guardavo con attenzione, in maniera anche piuttosto palese visto che tutti se ne accorsero, compresa Sybil che cominciò a pressarmi per ricevere informazioni su di lui. Una sera, prima che rincasassimo, ebbe modo di conoscerlo e subito parve prenderlo in simpatia. Non che fosse difficile con Ninez, lui era… amabile. Bastava guardarlo in viso per pensare: “Quella persona, non potrei mai essere in grado di odiarla.” Oppure, per farlo, bisognava possedere radici cattive nel profondo del cuore, perché era inammissibile.
Dopo averci parlato, quando restammo sole in camera la mia migliore amica ne volle sapere di più su di noi, conscia che ci fosse dell'altro. Esordì con: “Siete troppo in sintonia, sembrate fatti l'uno per l'altra! Scommetto che già vi conoscevate, quindi sputa il rospo!”
Mi stupii ancora di quella sua acutezza, ma decisi comunque di raccontarle della nostra infanzia insieme. Lei nel sentirlo si mostrò iper-entusiasta. Come sempre fece il tifo per me, in questo caso per noi, e mi disse che se avessi avuto bisogno di consigli per conquistarlo o di occasioni per stare da soli, avrebbe saputo ricavarmene. La ringraziai per il pensiero, ma declinai. Potevo, anzi, dovevo riuscire a fare tutto da sola.
Per i mesi a venire continuai a studiare i suoi comportamenti e atteggiamenti, cercando altre differenze col Ninez del mio passato.
Quando cominciava a parlare era difficile farlo finire e quasi sempre si mostrava totalmente coinvolto in una conversazione, a meno che non si trattasse di un argomento frivolo o di una qualche richiesta che non suscitava il suo interesse, e allora sapeva anche essere petulante e lagnoso. Quel suo modo di fare capriccioso e bambinesco mi faceva ridere, ma tentavo sempre di non rivelarmi. Non ancora, almeno.
Il suo essere propenso ad aiutare il prossimo neppure era una novità, così come non lo era il suo ficcanasare. Nemmeno il fatto che gli altri tendessero a dipendere su di lui o avesse tante amicizie mi sorprese, solo che forse, a differenza di quando eravamo piccoli, in me era avvenuto un cambiamento e stavo diventando più… possessiva. Perché finché parlava con persone adulte o ragazzi lo osservavo serena, ma nel momento in cui erano delle ragazze ad avvicinarglisi tendevo a farmi tesa e rabbuiarmi. Mi infastidivo nel vederlo conversare allegramente anche con loro e quando tornava da me con quel suo splendido sorriso affabile avrei solo voluto afferrarlo per il choker e baciarlo davanti a tutto il campus. Ma mi trattenevo, per educazione e buonsenso, e anche per non turbarlo e rischiare di farmi detestare, limitandomi a fare delle osservazioni mordaci, che mio malgrado non riuscivo a tenere per me.
Una di quelle situazioni si era ripetuta un pomeriggio, mentre eravamo su una panchina nel cortile della scuola a tentare di dialogare in giapponese - con me che talvolta fallivo, facendolo ridere divertito (a volte ammettevo che lo facevo apposta per sentire il caro suono della sua risata), dopodiché mi rispiegava una determinata regola anche più volte, dimostrando la pazienza di un Buddha. Mi piaceva starlo ad ascoltare e apprendere sempre cose nuove, ma poi quel piccolo momento magico che stavamo vivendo andò in frantumi con l'approcciarsi di una ragazza dai corti capelli biondi, che sembrava poco più grande di noi.
Mi salutò di sfuggita prima di dire “Lo rubo per qualche secondo” e portarselo via, prendendolo per un braccio prima che lui potesse replicare qualunque cosa o io potessi reagire. Alla vista di quel contatto, sapendo quanto i giapponesi fossero poco propensi a manifestarsi apertamente, stavo per scattare in piedi e riafferrare Ninez, per riportarlo da me. Ciononostante, con un'enorme forza di volontà riuscii a piantare i tacchi a terra, senza spostarmi neppure di un centimetro.
Mi irrigidii e li seguii con lo sguardo, per non perderli di vista. Si arrestarono ad una breve distanza, giusto per essere sicuri che da lì non li sentissi. Cominciò a parlare lei, portandosi le mani sui fianchi, e dal suo modo di fare pareva che gli stesse facendo una predica. Lui si scompigliò i capelli e si guardò le punte dei piedi, con aria di scuse. Per un attimo temetti che fosse la sua ragazza e che lo stesse rimproverando per averla trascurata, passando tutto il suo tempo libero con me. Mi sentii abbattuta perché, in tal caso, io avrei dovuto tirarmi indietro, essendo arrivata dopo. Eppure, detestavo quell'idea. Avevo sempre voluto Ninez, soltanto Ninez, nessun altro che Ninez. Come potevo accettare di rinunciare a lui, dopo tutto quell'anelare? Era lui ad avermi spinta avanti, era lui ad avermi resa quel che ero, era il ricordo di lui che aveva illuminato le mie giornate, era il pensiero che avremmo potuto tornare a stare insieme che mi faceva vivere.
Rifiutai quindi di arrendermi senza neppure provare a combattere, ma in ogni caso non potevo mettermi a fare scenate senza avere conferme sui miei dubbi. Così li tenni d’occhio come un falco, finché lui non reagì come se si vergognasse, portandosi le mani sul viso. Percepii i palpiti del mio cuore accelerare, avrei proprio voluto essere lì in quel momento e abbracciarlo per quanto era adorabile; ma la ragazza, in un impeto di gioia - almeno così sembrava - si lanciò su di lui, mettendo in atto quel mio piccolo desiderio. Strinsi i pugni sulle ginocchia, fino a che non mi si fecero bianche le nocche, e sentii il sangue ribollirmi nelle vene. Digrignai i denti e, a mio scapito, chinai la testa, frustrata.
Ero combattuta, perché da un lato mi dicevo che non avessi alcun diritto di sentirmi tanto gelosa, mentre dall'altro mi contraddicevo ricordandomi che, invece, era un mio diritto, perché io venivo prima. Venivo prima di tutti, anche se lui non se lo ricordava. E se, ormai, per lui, quel buio passato fosse un momento lontano, che non gli riguardava più? A quella supposizione mi raggelai. Se lui non mi voleva, allora io non avevo più alcun senso…
“2B.”
Sollevai il viso di scatto al suono della sua voce, sperando di non rivelare nulla.
Inizialmente pareva piuttosto fiacco, ma repentinamente la sua espressione mutò, divenendo apprensiva. Si allungò verso di me, posando la mano sulla mia fronte, domandando: “Non hai la febbre, vero? Sei pallidissima.”
Gli tolsi io stessa la mano per scuotere il capo, in segno di negazione, e anche per il pretesto di tenergliela per poco.
Insistette ancora per accertarsene e provai a rassicurarlo come potevo, sebbene persino alle mie orecchie la mia voce sembrasse molto cupa, e s'abbassò maggiormente quando mi accorsi che quella donna era al suo fianco e mi fissava, anzi, mi scrutinava, come se mi stesse studiando.
Sostenni il suo sguardo, guardandola dritto in quegli occhi cerulei, senza battere ciglio. Mi sentivo irritata, al punto che strinsi tanto la mano di Ninez da infilare le unghie nella sua pelle. Me ne accorsi solo perché gli sfuggì un lamento e io mi voltai prontamente verso di lui, pentita. Fortunatamente le portavo corte, quindi gli avevo a malapena fatto dei segnetti, e lui stesso mi disse di lasciar perdere, ma non riuscivo a perdonarmi. Fare del male a Ninez, era l'ultima cosa che volevo. Già da piccoli ci capitò e, considerando quanto si fosse ferito a causa mia, ero terrorizzata all'idea di poter ancora essere fonte di dolore.
Non potendo neppure mettergli la mano al fresco, sotto a dell'acqua, mi limitai a lasciarvi dei flebili bacetti. Era il nostro piccolo rituale per far sparire il dolore: avevamo all'incirca sette anni, lui lo aveva letto in un libro e dato che presi una botta vicino al gomito mi ci diede un bacino. Immediatamente mi sentii meglio e cominciammo a fare sempre così tra di noi. Era la nostra ‘cura speciale’. Ma lui certamente non ne aveva idea.
Un po’ mesta sollevai lo sguardo, trovandolo con gli occhi lucidi e le guance purpuree. Si morse un labbro, sviando lo sguardo, forse per sfuggire dall'imbarazzo, e notai si fosse portato l'altra mano sul cuore, quasi temesse potesse volargli via. Piegai la testa su un lato, chiedendomi cosa significasse quella reazione, essendo quelli nuovi aspetti di lui, ma le mie riflessioni furono interrotte da una risata deliziata.
Ninez scattò immediatamente, rivolgendosi alla ragazza alla sua sinistra in maniera focosa: “Non osare prendermi in giro davanti a 2B.”
“Non lo faccio, tranquillo.”
Continuò a ridacchiare spettinandogli i capelli, al che non nascosi un'occhiataccia. A quel punto ne avevo abbastanza, per cui mi misi in piedi, guardandola con ostilità, lanciandole un muto avvertimento. Da donna a donna ero certa che lo avesse captato, ma lei rispose con un ghigno trionfante.
“Mi piace, è combattiva.”
Le sue parole mi spaesarono, per cui sollevai un sopracciglio, interrogativa.
“Tamae, non deve piacere a te” borbottò Ninez, imbronciandosi.
“Uno: sì che deve piacere anche a me. Siamo una famiglia, no?”
Una famiglia…, mi ripetei in testa, senza fine.
Una volta, noi eravamo stati una famiglia. Avessi potuto tornare indietro, avessi potuto dirglielo allora che non doveva rinunciare a me, avessi potuto portarlo con me…
“Due: quante volte devo ripeterti di chiamarmi onee-san, mmh?”
“Sì sì.”
“E basta un ‘sì’, te lo dico sempre.”
“Sì” enfatizzò, scocciato.
Seguivo le loro battute cominciando a sentirmi confusa, non riuscendo a decriptare il loro rapporto. Sembravano andare d'accordo, troppo d'accordo, proprio come…
“Erika-chan, sono lieta di conoscerti finalmente. Nines s'è sempre rifiutato di presentarci perché mi trova insopportabile.”
“Non sei insopportabile” ribatté prontamente. “Sei solo sboccata, potresti farmi fare brutte figure!”
“Ma lo senti? Spero non sia tanto scostumato anche con te.”
“Tamae!”
“È sempre educato” replicai, difendendolo. “È cortese e paziente, sempre disponibile ogni volta che ne ho bisogno. Mi mette sempre a mio agio e…” Tacqui, consapevole di non poter proseguire.
Illumina costantemente il mio cammino. È la fonte di ogni mio sorriso, di ogni mia gioia. È la persona che amo, persino più di me stessa.
Lei mi ascoltò attenta per poi annuire e fare un breve inchino.
“D'ora in avanti, abbi cura del mio otouto.”
Detto ciò spettinò anche i miei capelli e si allontanò, tutta contenta.
Con un mega sospiro Ninez si riaccomodò al suo posto, sembrando sfiancato.
“Mia sorella è un consumo eccessivo di energie.”
“Tua sorella?” ripetei risedendomi alla sua sinistra, ricevendo conferma ai miei dubbi.
Si voltò a guardarmi, rivolgendomi un timido sorriso.
“Non siamo fratelli di sangue, ma la sento come se fosse vera.”
Stavolta non riuscii a trattenere un sorriso, sentendomi sì sollevata, ma non solo per il fatto che non ci fosse una rivale. Aveva trovato qualcuno che, in mia assenza, potesse proteggerlo e prendersi cura di lui.
“Oh, un giorno dovrei presentarti i miei genitori!” rifletté ad alta voce e dal modo in cui si illuminò il suo sguardo capii che fosse stato un pensiero improvviso, spontaneo. “Potrebbero piacerti, sai, perché a differenza di Tamae sono molto discreti e quieti.”
“Mi piacerebbe” accettai, riportandolo sulla frase pronunciata poco prima. “Ad ogni modo, non importa che non siate veramente fratelli. Penso che sia una cosa stupenda trovare qualcuno che, seppure non abbia con te un legame di sangue, riesce ad occupare un ruolo tanto importante nella tua vita.”
“E un posto speciale nel tuo cuore” aggiunse, guardandomi dritto negli occhi, facendomi trasalire.
Quella frase, fu l'ultima che gli rivolsi. Non fui diretta sui miei sentimenti, ma glieli lasciai intendere.
Ninez, non dimenticarlo mai: tu occuperai per sempre un posto speciale nel mio cuore. Per sempre.”
Dopo qualche secondo sbatté le palpebre, quasi si stesse riprendendo da un sogno ad occhi aperti, ed emise immediatamente una risatina intrisa di disagio.
“Perdonami, a volte sembro dire cose incomprensibili. La mia mente funziona in maniera un po’ bizzarra, tu non darci peso.”
Scossi la testa, non resistendo più. Mi trattenevo troppe volte e poi succedeva che, a forza di riempirmi di azioni non fatte e cose non dette, finivo per strabordare.
Gli carezzai pertanto una guancia, sollevandomi di poco per riuscire a lasciargli un bacio tra i capelli, giusto al centro della testa. Nell'incontrollabile desiderio che potesse guarire e, finalmente, ricordarsi di me.




 
■■■□■ 9S's Story



2B era, probabilmente, tutto ciò che avevo sempre desiderato. Tutto ciò che avevo sempre aspettato e sperato di trovare, un giorno. Tutto ciò che volevo nella mia vita e che sentivo bastarmi.
Tale supposizione si consolidò un’afosa mattina di tarda estate, in cui non avevamo lezioni, per cui ne approfittai per mantenere la promessa fatta, portandola a casa mia. In realtà la scusa ufficiale era continuare ad insegnarle la lingua nazionale, ma per me era un mero pretesto per stare insieme, anche fuori dalle mura accademiche. E qualcosa mi suggeriva che lo stesso valesse per lei.
Non mi spiegavo ancora tutta quella familiarità che ci univa. Già dal nostro incontro, nonostante le sue azioni improvvise che mi avevano colto in contropiede, c'era stato un particolare agio tra di noi. Era come se fossi semplicemente abituato a vederla tutti i giorni, come se fosse del tutto naturale e consueto per me salutarla al mattino o alla sera, parlarle durante l’arco della giornata, scherzare con lei, insegnarle cose nuove, stare insieme anche in silenzio, osservare il suo modo serio di interagire con gli altri e la sua impassibilità nel rispondere ai loro giochi, quando invece a me non negava mai un sorriso. Un sorriso che potevo vedere soltanto io.
Quante meno persone c'erano attorno a noi tanto più lei si rilassava, tanto più sembrava far crollare quella maschera di sicurezza e durezza, appoggiandosi a me, che fosse fisicamente o emotivamente. Ero certo che lo concedesse soltanto a me. Non ne sapevo bene la ragione, ma sebbene inizialmente fossi pieno di interrogativi col tempo li lasciai divenire un flebile mormorio di sottofondo, decidendo invece di godermi semplicemente quei momenti e lasciarmi guidare non dal raziocinio, bensì dal mio cuore finalmente vivo.
Era per 2B che sembrava aver cominciato a palpitare e, per 2B, era anche disposto a correre, fare acrobazie e saltare. E come il mio cuore sembrava persino pronto ad esplodere per lei, così io stesso mi sentivo pronto a tutto. La aiutavo, perché volevo, non perché era un compito assegnatomi dall'università. La sostenevo in tutto, le domandavo se ci fossero problemi nella vita fuori dall'accademia, consapevole che potesse essere difficile abituarsi ad una nuova quotidianità, soprattutto se tanto diversa da quella originaria. Fortunatamente non sembrava avere problemi, forse anche perché con lei s'era trasferita una sua cara amica, Sybil, e mi spiegò che, nell'eventualità, poteva far riferimento ad A2, che lei stessa mi rivelò essere sua sorella - come già sospettavo.
Ero lieto di sapere che aveva numerosi punti di appoggio, che non dovesse muoversi alla cieca e cominciare partendo da zero, ma in ogni caso le assicurai la mia disponibilità, per qualunque cosa.
Una volta, mentre ne parlavamo, mi sfuggì in un tono che stupì persino me stesso, per quanto sembrasse vezzoso: “Se vuoi posso anche fungerti da guida turistica. Potrei portarti a qualche festival, o al lunapark, o a fare shopping, o al mare, o nelle città più belle e ricche di storia.”
Lei mi lasciò finire prima di piegare la testa su un lato, accigliandosi: “Ninez, è un appuntamento?”
Mi spiazzò a tal punto con quella domanda che divenni incapace di risponderle. Era ciò che le stavo proponendo?
Tergiversai, prima di sussurrare appena, indeciso: “Se tu vuoi…”
“Voglio” rispose prontamente, lasciandomi basito.
A questo il cuore mi fece un balzo in testa e sentivo che un sorriso enorme stesse prendendo forma sul mio viso.
“È una promessa?” mi accertai, e lei annuì, con una certa solennità.
Mi dissi, in ogni caso, che non dovessi illudermi. 2B era americana, era cresciuta con altri valori, con altre ideologie, con altri costumi che io soltanto vagamente ricordavo d’aver vissuto. Io ero stato educato ‘alla giapponese’ e il fatto che per me ogni singola cosa, per quanto piccola, assumesse una tale importanza, non significava che lo stesso valesse per lei.
Comunque, quella promessa la mantenemmo ben presto, quando la portai al Tanabata matsuri. Fu una piacevole serata, la migliore della mia vita, costellata dalla calma e la serenità. Lei era stupenda, avvolta in un yukata floreale del colore della notte, coi capelli raccolti e intrecciati a dei fiori bianchi. Sicuramente era opera di Sybil, cionondimeno la riempii di complimenti, che lei ricambiò subito in maniera breve e concisa. Ci inoltrammo poi tra la folla, passando da una bancarella all'altra mentre le raccontavo delle origini di quella festività e ogni volta che non capiva qualcosa gliela spiegavo come meglio potevo, per rendere tutto il più chiaro possibile. Tra una chiacchiera e l'altra la convinsi ad assaggiare nuovi sapori e sembrò apprezzarli, la invitai a partecipare a giochi mai fatti prima e ne uscì vincente. Lei era così, era vittoriosa, e quella vittoria l'aveva ottenuta anche su di me. Soprattutto quando, dopo lo spettacolo pirotecnico, fissò a lungo le stelle attraverso le nubi, prima di guardarmi e chiedermi: “Ninez, credi che si siano trovati?”
“Sono sicuro che si siano ricongiunti” confermai con certezza.
Lei rispose al mio sorriso con una pacata serenità e si appoggiò alla mia spalla, emettendo un mormorio felice. Non aggiunse altro, ciononostante compresi che c'era qualcosa che tentava di trasmettermi, non con le parole, ma con i gesti. E forse una parte di me l'aveva già ricevuto.
Forse per questo, stavo cambiando.
Mi ero accorto che non fossi più indifferente all'amore e a tutto ciò che vi ruotava attorno. Mi ero accorto che, in assenza di 2B, continuavo a pensare a lei, a cercare lei, ovunque mi trovassi. Talvolta persino in casa sognavo ad occhi aperti, sospiravo nell'immaginarmela costantemente al mio fianco e a detta di Tamae - che mai era sembrata tanto fiera e contenta di me - quelli erano i sospiri di un ragazzo innamorato. La mia, in generale, divenne l’espressione di un ragazzo innamorato, ogni volta che qualcosa concerneva 2B. E io sentivo che d’amore si trattasse, proprio perché non lo avevo mai sperimentato prima. Proprio perché non m’era mai successo prima.
Il mio cuore s’involava ogni volta che la vedevo, anche se soltanto da lontano, e quando camminavamo fianco a fianco mi sentivo leggero, come se fluttuassimo su delle nuvole. Mi sentivo costantemente felice, finché non mi accorgevo che qualcosa oscurava il suo sguardo rattristandolo, e allora mi allarmavo, mi impensierivo, mi crucciavo, sentendomi fisicamente male all’idea che lei potesse soffrire. Ci furono dei giorni in cui si accentuò la sensazione che la fonte di quella velata sofferenza potessi essere io stesso, perché mi guardava, e sebbene mi sorridesse v’era quella mestizia nel suo sguardo, mista ad una sorta di rassegnazione. Non sapevo cosa avessi potuto commettere di sbagliato, ma se le domandavo cosa la rattristava lei o taceva o cambiava argomento, dandovi poca importanza.
Riflettei sulle mie azioni: non mi sembrava di comportarmi male, ero sempre abbastanza educato e anche quando lei mi prendeva per mano o mi abbracciava ricambiavo con delicatezza, sperando di carezzare così sia il suo corpo che il suo spirito, perché avevo la sensazione che tutte le volte in cui lo faceva fosse per la ricerca di un tacito conforto. Un conforto che speravo essere in grado di procurarle. In altre occasioni mi si avvicinava maggiormente, per lasciarmi un piccolo bacio, e io a quello avvampavo e sembravo quasi smettere di funzionare, perché mi faceva sentire amato e protetto e non capivo se fosse realmente così o mi stessi semplicemente riempiendo di illusioni e sogni. Perché ogni momento trascorso con lei era troppo bello, talmente bello da non sembrarmi reale.
Gli unici veri contatti fisici che partivano da me, invece, erano delle occasionali carezze che mi concedevo. Inizialmente ero restio a farlo perché, nonostante lei sembrasse non porsi tutti i miei problemi, mi accorsi che non le piaceva farsi toccare.
Lo sperimentai in maniera indiretta notandola in corridoio con una sua compagna di corso. Stavo per andare a salutarla, quando due ragazzi usciti dalla sua stessa aula si avvicinarono a loro. Uno di essi riuscì a mettere un braccio attorno alle spalle della sua amica, nonostante l’evidente insofferenza sul viso di lei; l’altro tentò di fare altrettanto con 2B, senza risultato, perché lei prontamente, prima ancora che lui potesse anche solo sfiorarla, afferrò il suo polso e con uno scatto felino lo bloccò contro il muro, lanciandogli un avvertimento in tono sufficientemente alto da farsi sentire dalle persone circostanti: “Non osare toccarmi.”
In seguito a quell’evento vissi un miscuglio di emozioni. Ero passato da una sorta di avversione che mi aveva fatto stringere i pugni per l’impulso di allontanare quanto prima quel tizio da 2B, avevo attraversato il sollievo per la sua forza che le permetteva di vivere soltanto ciò che lei stessa sceglieva, per poi giungere allo sconforto: s’era fatta sentire apposta perché voleva fosse un messaggio chiaro a tutti. E tra quel pubblico c’ero anche io.
Per questo mi astenni dal toccarla in alcun modo, sebbene a volte mi risultasse istintivo e non riuscivo proprio a trattenermi.
La prima volta fu per sostenerla quando inciampò in un sassolino, ma non appena assicuratomi che avesse ritrovato l’equilibrio la lasciai e lei, a parte ringraziarmi, non disse altro. La consolazione fu che non mi rimproverò, ma io lo stesso mi ammonii a far sì che non si ripetesse.
Malgrado ciò, ci ricascai.
Era un giorno di vento e pioggia, in giugno; non essendo abituata alla stagione delle piogge, 2B non aveva portato con sé un ombrello e così fu sorpresa da un acquazzone scoppiato proprio quando dovevamo vederci, dopo le lezioni. Le corsi incontro nell’accorgermi che a malapena riusciva a ripararsi con la borsa e la coprii immediatamente con l’ombrello, domandandole se avesse preso freddo, correndo al riparo sotto la grondaia più prossima a noi. Lei scosse la testa mentre cercava un asciugamano dal borsone della palestra - che aveva portato auspicalmente con sé, avendo poi gli allenamenti con sua sorella. Una volta trovato se lo passò sulle punte e lo strofinò con vigore sul capo, ringraziandomi per averla riparata, mentre io la fissavo in apprensione, sperando non le venisse un raffreddore o la febbre.
Vedendo che non replicavo nulla sollevò lo sguardo e allora, accorgendomi che una ciocca di capelli le si era appiccicata sulla guancia, l’unica azione che ebbi la forza di compiere fu allungare una mano per spostargliela dal viso, riportandogliela dietro l’orecchio. Mi sentivo in realtà un po’ incantato, non stavo pensando, non stavo riflettendo, e mi attardai con le dita tra quei capelli umidi e disordinati. Glieli carezzai, tornando poi sulla sua pelle, esitando a pochi centimetri dalle sue labbra.
Osservavo imbambolato tutto il suo angelico viso, notando poco prima che li serrasse che i suoi occhi fossero lucidi, che aveva stretto quelle labbra carnose e che le sue gote fossero più rosse del solito, come se fosse in preda ad un incontrollabile batticuore, come me. Oppure quella reazione, per quanto adorabile, era una dimostrazione di disagio e a tale supposizione immediatamente mi staccai da lei, scusandomi, consapevole che le desse fastidio.
Lei prese un breve respiro, quasi avesse trattenuto il fiato, e tornò a guardarmi con uno strano luccichio in quelle iridi che, in assenza di sole, sembravano più grigie che mai. Mi tenne incatenato ad esse mentre negava con la testa, spiegando: “È vero che non sopporto essere toccata, ma con te è diverso Ninez. Tu mi tranquillizzi, che sia con la tua presenza, che sia con uno sguardo, che sia anche soltanto con la tua voce.”
A quella dichiarazione mi parve quasi di toccare il cielo con un dito, ma l’unica cosa che fui in grado di fare fu nasconderle quel mio sorriso stupido, asciugandole io stesso i capelli. Poiché la facevo dondolare da una parte all’altra le scappò una rara risata, che alle mie orecchie superò persino il rumore della pioggia battente, alleggerendomi il cuore.
Per quanto fossero brevi quei momenti insieme, in cui esistevamo soltanto noi due, li consideravo eternamente speciali. Inoltre, sapere che per lei io fossi diverso diede un nuovo significato a tutto, sia alle sue azioni che alle mie reazioni. Ecco perché non mi stupii affatto quando cominciai a diventare iperprotettivo. La questione era semplice, volevo proteggerla, e a scapito di ciò che avevo sempre negativamente pensato di me stesso, sentivo che sarei stato in grado di riuscire a diventare il suo scudo. Non che lei ne avesse avuto effettivamente bisogno, cavandosela perfettamente anche da sola, ma già solo il pensiero di poter fare qualcosa per lei mi riempiva di orgoglio. E se quel qualcosa consisteva nel ‘salvarla’ dall’orda di ragazzi che ci provava con lei, ci trovavo ancora più soddisfazione.
2B era oggettivamente una bella ragazza. Sebbene ‘utsukushii’ sembrasse descriverla abbastanza come aggettivo, lo trovavo tuttavia riduttivo. A differenza degli altri che la definivano ‘bijō’, infatti, io sarei passato direttamente a ‘kirei’, perché lei era stupenda, sia dentro che fuori. Aveva un bel portamento, particolare, fiero e altero; esso la rendeva affascinante, le donava un’aria matura, ma incuteva anche un certo timore che teneva lontani gli altri. Cionondimeno non impediva ai più coraggiosi di farsi avanti e lei puntualmente li respingeva con durezza, senza mezzi termini, talvolta non permettendo neppure che portassero a termine la ‘confessione’, non nascondendo quanto la cosa la scocciasse. Intanto io, dentro di me, oscillavo tra fastidio e soddisfazione, facendomi grosse risate. Forse era quello il mio lato malvagio? Eppure era più forte di me e, scoprendo da un suo piccolo sfogo quanto le desse noia che i ragazzi ci provassero soltanto per il suo aspetto fisico, senza neppure sapere niente di lei, pensai a come risolvere quel problema.
Fu molto semplice, in effetti: mi bastò convincerla a non indossare più scarpe alte, così poteva perdere qualche centimetro e, quando camminavamo, riuscivo a coprirla agli sguardi altrui. Se mi accorgevo che qualcuno la fissava con insistenza mi frapponevo alla visione che questi ne aveva; fulminavo con lo sguardo la persona in questione, lanciandovi un muto avvertimento, e quella subito guardava altrove, con aria sconfitta. Mi facevo quindi più vicino a 2B, le nostre braccia quasi arrivavano a sfiorarsi, e quando mi voltavo la trovavo con un sorrisetto oscillante tra gratitudine e appagamento.
Pensavo di starmi comportando come un fratello maggiore, cosa che senza che lo sapessi per lei ero già stato, ma alcuni miei amici mi presero in giro per il fatto che, col mio essere ‘possessivo’, avessi eliminato la concorrenza. Non gradivo molto quel termine, faceva passare me per egoista e rendeva 2B una sorta di oggetto, quando io non la consideravo tale e mai l’avrei fatto. Tuttavia parzialmente mi resi conto che un fondo di verità c’era, perché stavo effettivamente diventando egoista. Mi dava fastidio se altri uomini guardavano 2B. Mi dava fastidio se altri uomini parlavano con 2B. Mi dava fastidio se altri uomini apprezzavano 2B. E quel fastidio crebbe talmente tanto che, incontrollabilmente, divenne una sorta di odio che mi sforzavo di reprimere come potevo.
Ciononostante, qualche scazzottata non me la risparmiai, uscendone vincente. Fu come risultato di ciò e grazie a mia sorella - che se ci si metteva sapeva fare più paura di me - che molti si tirarono indietro, ritenendo che ‘non ne valesse la pena’. Buon per me, in ogni caso, perché così potei riuscire nel mio intento e assicurare una vita quieta a 2B, libera da una malvagità nutrita di falsità e luridi secondi fini.



 
■■■□■



Come già detto, quel giorno di metà agosto avevo deciso di far conoscere 2B al resto della mia famiglia. Tamae sembrava averla ormai apprezzata e approvata, prendendola in simpatia, definendola già parte di noi. Da quando la aveva conosciuta - sebbene fosse avvenuto in maniera inaspettata e un tantino improvvisa - mi assillava chiedendomi quando avessi intenzione di farmi avanti con lei e confessarle i miei sentimenti. Non era facile quanto lo faceva sembrare lei perché sì, era vero che a volte prendevo in giro 2B, facendo l’allusivo apposta, e mi comportavo da grande eroe, ma lei prendeva tutto sul serio e per questo provavo un profondo rispetto nei suoi confronti. Un rispetto che mi impediva di farmi avanti. Quindi non era come credeva mia sorella, ossia che temessi che lei potesse rifiutarmi, come aveva fatto con tutti. Non avevo quel timore, perché sentivo che nel nostro caso sarebbe stato diverso.
Avrei voluto trascorrere il resto della mia vita insieme a 2B e una parte di me s’era persino convinta che in una precedente vita eravamo stati effettivamente insieme, altrimenti non mi spiegavo tutte quelle sensazioni e quei déjà-vu che vivevo con lei. Ma per quanto la amassi, c’era anche qualcos’altro che mi bloccava. Era quel senso di colpa che tornava, stavolta in maniera differente: stavolta sembrava ripetermi “chiedile scusa”, sebbene non capissi per quale ragione. Quanto più quella voce si faceva insistente tanto più mi convincevo d’aver commesso un errore imperdonabile con lei, anche se in maniera inconsapevole. Ecco perché prendevo tempo e intanto i mesi passavano senza che io riuscissi ad essere del tutto onesto.
Volevo, in ogni caso, che anche i miei genitori vedessero quanto fosse fantastica, la conoscessero e come me stesso e Tamae si invaghissero di lei. Non che ci fosse bisogno di attendere, per questo. La accolsero immediatamente come se fosse una loro figlia e, sebbene mi accorsi che 2B fosse più tesa di come l’avessi mai vista, persino più delle competizioni, non ci mise molto a rilassare i muscoli. Bastò il pranzo perché lei, in maniera pacata, rispondesse alle loro discrete domande, per poi porgerne altrettante. Non mi sfuggì, ed ero certo di non essere l'unico, che tutte ruotavano attorno a me.
Lei ascoltava tutto quello che le veniva detto con una certa contentezza, finché verso la fine del pasto Tamae non diede voce alla questione che mi stava assillando: “Erika-chan, come mai tutto questo interesse per Nines?”
Quasi mi strozzai col cibo - come al solito era troppo diretta -, ma 2B semplicemente posò le bacchette sul poggia hashi, guardandomi.
“Perché…” Ero sicuro che stesse per dire una cosa diversa da quella che poi proferì, in quanto repentinamente spostò lo sguardo su mia madre e mio padre, sorridendo loro. “Sono contenta che abbia trovato dei genitori come voi.”
Entrambi fecero le lacrime agli occhi, anche Tamae sorrise raddolcita, quasi avesse voluto sentirsi dire proprio una cosa simile. Io, invece, la fissai sentendomi la gola serrata.
Di colpo ebbi una certezza: 2B doveva sapere del mio passato.



 
■■■□■ 2B's Story



Quel giorno Ninez mi aveva invitata a pranzo a casa sua. Mi ero già decisa da un po’ di parlargli, di dirgli la verità, e quella mi sembrava l'occasione più propizia.
Durante il pasto ascoltai tutte le nuove informazioni su di lui che mi seppero dare i suoi genitori, dopodiché pronunciai quella frase, sentendomi veramente lieta all’idea che, come me, anche lui avesse potuto trovare qualcuno che lo amava.
Sapevo del suo tragico passato. Zinnia stesso me lo raccontò, prima che me ne andassi. Mi spiegò cosa ne era stato dei suoi veri genitori, cosa avevano fatto, e dinanzi ad una simile crudeltà provai talmente tanta rabbia che desiderai averli davanti e riempirli di botte. Ero sempre stata così, pronta alla rissa, ecco perché avevo cominciato a dedicarmi alle arti marziali. Per dar libero sfogo a tutte le mie forti, impetuose emozioni negative. Anche mia sorella era così, quindi non c'era molto da sorprendersi se avevamo preso la stessa strada.
Come lei mi ero sempre sentita una paladina della giustizia, ma finché Iris mi era accanto lasciavo che svolgesse il suo ruolo di sorella maggiore, sia con me che con gli altri nostri fratelli e sorelle acquisiti; quando poi se ne andò, per quanto mi rattristasse essere separata dall’unica persona che fosse sempre stata insieme a me, sin dalla nascita, potei finalmente divenire la spada di Ninez. Potei finalmente proteggerlo.
Ecco perché quando in passato si ferì a causa mia, mi sentii quasi morire. Eravamo piccoli e quella fu la prima volta in cui mi ammalai; ciononostante non ne volevo sapere di restarmene a letto e decisi di scendere al piano di sotto, ignorando i continui rimproveri di Ninez. Mentre gli assicuravo di sentirmi bene mi girò violentemente la testa: il mondo oscillò e si contorse davanti ai miei occhi, facendomi perdere l’equilibrio. Stavo per cadere dalle scale, ma lui prontamente mi spinse sul pianerottolo, sostituendosi a me nella caduta, ruzzolando giù per vari scalini. Quando me ne feci capace gridai il suo nome, allungando una mano verso di lui, non ricevendo risposta perché aveva perso i sensi. Mi rialzai per correre da lui, e al contempo anche i nostri genitori accorsero, chiedendomi cosa fosse successo. Glielo spiegai tra lacrime e singhiozzi, mentre loro prontamente lo accompagnavano in infermeria. Era una fortuna che nostra madre fosse una dottoressa, così si prese buona cura di lui e nonostante si fosse sfregiato tutta la parte esterna della gamba destra, dal ginocchio alla caviglia, riuscì a curarlo e a farlo guarire in un tempo relativamente breve.
Mi ordinò in realtà di riposare io stessa, scoprendo che avessi la febbre, ma anche se mi mostravo docile in sua presenza ogni volta che si allontanava andavo a sedermi accanto a Ninez, scusandomi ripetutamente, incapace di perdonarmi. Non ero l’eroina che avrei voluto essere. Non ero in grado di mantenere la promessa che gli avevo fatto.
Quando avevo cinque anni lessi una fiaba illustrata. Dinanzi ad un’immagine con un cavaliere ed una dama ebbi un lampo di genio e corsi da Ninez, mostrandogliela, recitando: “Giuro solennemente che ti proteggerò, a costo della mia stessa vita!”
Lui sgranò gli occhi e mi prese il libro dalle mani, scoppiando poi a ridere: “Ma Erika, dovrebbe essere il contrario!”
“No” ribattei risoluta, argomentando: “Sono più grande, più alta e più forte di te, e tu sei il mio principe. È un dovere proteggerti.”
Sebbene inizialmente insistesse che i ruoli dovessero essere invertiti, rifiutandosi di assumere quello da donna, alla fine si arrese alle mie volontà. Iris non sembrava capire quel giochetto - o meglio, fingeva di non capire, dichiarandosi indifferente a quelle cose infantili. Fatto sta che era veritiera la mia versione, per cui provavo un’immensa soddisfazione ogni volta che recitavamo quelle parti e, dopo aver combattuto e sconfitto nemici immaginari, prendevo in braccio Ninez come una principessa, senza alcuno sforzo - anche perché, sin da bambino, era sempre stato piuttosto mingherlino. Lui si imbarazzava tantissimo, io invece sorridevo appagata, fiera di me stessa per riuscire a proteggere la persona per me più cara al mondo. E invece, quella volta avevo fallito.
Ninez, quando si riprese, mi ripeté più volte di non farmene una colpa, ma fu un’esperienza che volente o nolente mi segnò, facendomi diventare ancora più attenta ai dintorni e a me stessa di quanto lo fossi in precedenza.
E quella stessa percettività che avevo sviluppato col tempo mi fece capire che, ormai, mi fossi rivelata.
Mi sentii risollevata: finalmente avrei potuto dirgli tutto. D’altronde, eravamo stati insieme per un periodo che sostenevo sufficiente, avevamo riallacciato un buon rapporto e sebbene temessi un po’ la sua reazione, ero certa che non sarebbe arrivato ad odiarmi per aver taciuto. Lo conoscevo bene e lui non era quel tipo di persona da covare rancore; no, molto probabilmente se la sarebbe presa con se stesso, e io avrei dovuto assolutamente evitarlo.
Così, dopo pranzo, mentre i suoi accoglienti genitori si preparavano per aprire il negozio - stando a quanto m’avevano detto possedevano un bellissimo negozietto d’antiquariato, con oggettistica di fattura sia occidentale che orientale - e Tamae pure andava a cambiarsi prima di andare alle lezioni di danza, Ninez mi fece fare un giro della casa. Trattandosi di un’abitazione tradizionale mi insegnò nuovi termini per le varie parti che la componevano, dandomi delle delucidazioni a riguardo, e io lo ascoltai con interesse, apprendendo e memorizzando. Aveva tutto un’aria quasi surreale e pacificante, soprattutto quel giardino fatto di pietre, sassi e qualche sporadica pianta. Ricordava veramente la corrente marina e io mi feci sfuggire: “Forse l'hanno voluto così perché anche tu vieni dall’oceano.”
A questo tacque, fissandomi con le sopracciglia aggrottate. Parve innervosirsi, visto che si passò ripetutamente una mano su e giù per il braccio, vizio che si portava dietro da sempre. Come quello di tirare calcetti all’aria per manifestare tedio o disinteresse, che avevo scoperto ancora mantenesse.
Guardai automaticamente i suoi piedi, facendo scivolare gli occhi su quella cicatrice più pallida.
Presi un respiro, indicandogliela.
“Ninez, come… come te la sei procurata?”
Lui stava per rispondere, ma poi tacque, guardandomi smarrito. Si portò una mano alla fronte, scuotendo la testa, mormorando in tono cupo: “Cadendo dalle scale.”
Annuii, sentendomi un po’ in colpa per quello che stavo facendo.
“Come facesti a cadere dalle scale?”
“Sarò inciampato.” Fece spallucce, prima di fissarmi con una certa intensità. “O almeno è quello di cui vorrei essere sicuro. Non lo so, 2B. Tu hai una risposta?”
Sorrisi con amarezza, capendo che ormai era fatta.
“Aspettiamo che i tuoi escano” suggerii, tornando a guardare le rocce.
Lo sentii sospirare, ma pur senza guardarlo dai fruscii della stoffa capivo che era talmente irrequieto da non riuscire a stare fermo.
Pregai mentalmente che si sbrigassero e, fortunatamente, dopo pochi minuti si congedarono augurandoci buono studio, ricordando a Ninez di offrirmi qualcosa più tardi e fare una pausa. Dopo poco se ne andò anche Tamae, minacciandomi quasi di aspettarla per cena.
Rimasti soli ci rivolgemmo uno sguardo, decidendo in silenzio di sederci in veranda, dove tirava un venticello fresco che faceva tintinnare i ‘fuurin’. Mi posi perfettamente di fronte a lui e aprii la borsa, estraendone una busta da lettere, stringendola tra le mani. La mia idea era mostrargli il mio tesoro più prezioso, ma era appropriata all’affrontare un argomento tanto delicato?
“2B” mi richiamò, la sua voce più ferma di quanto mi aspettassi. Sollevai lo sguardo e lessi la paura nei suoi occhi, al di là della quale mi ingiunse: “Sii diretta, come sempre.”
Gli sorrisi grata, come sempre.
Gli porsi la busta e mentre lui la apriva, un po’ confuso, ma agitato, com’era evidente dalle sue mani tremanti, pronunciai d’un fiato: “Noi due ci conosciamo da quando avevamo quattro anni. Io e mia sorella venimmo adottate dopo di te, perché tu crescesti insieme a Zinnia e Primrose. Fosti il loro primo vero figlio, visto che ti ebbero sin dai tuoi primi giorni di vita, e come tale ti crebbero, rivolgendoti sempre una particolare attenzione. Avevano però anche altri bambini, che divennero i nostri fratelli e sorelle maggiori.”
Tacqui, notando che aveva estratto le fotografie che avevo portato con me. Mi allungai in avanti, indicandogliele, spiegando: “È tutto ciò che mi resta. Dopo l'incendio non è rimasto più niente, ma fortunatamente Zinnia mi permise di portare queste con me. Questi siamo io, tu e mia sorella.” Toccai la prima che ci ritraeva tutti e tre, lui che battibeccava con A2 e io che tentavo di riappacificarli. Ridacchiai, sottolineando: “Non andavate esattamente d'accordo, come avrai notato. Al contrario, noi due, eravamo migliori amici.” Presi la seconda fotografia, scattataci di nascosto da Zinnia, mentre ci eravamo entrambi appisolati sul divano nel salone, con le pance piene dopo esserci rimpinzati di gelato. Avevamo tutti e due espressioni beate mentre dormivamo testa contro testa e, sebbene io mi portassi più grande di lui, Ninez mi cingeva a sé con un braccio, facendomi sembrare minuscola.
Rievocai quel giorno, sorridendo ai ricordi di tutte le marachelle che combinavamo, di quanto io inizialmente fossi seria e volessi evitarle ma lui mi convinceva ad attuarle, giusto per ridere un po’ insieme a Zinnia e sua moglie, che ci adoravano anche per questo.
Ripresi il respiro, chiedendomi come potessi raccontargli tutto andando in ordine, ma non riuscii a pronunciarmi ad oltranza notando le lacrime che sfuggivano dai suoi occhi, bagnando il suo flebile sorriso.
“E poi?” domandò in tono roco, stringendomi il cuore.
Chinai il capo pentita.
“La ferita alla gamba, è colpa mia.”
Gli spiegai l’accaduto e lui subito scosse la testa, ripetendo le stesse parole di anni fa: “Non è colpa tua, 2B. Sono io ad essere imbranato.”
Mi morsi le labbra, sentendomele tremolare. Per quanto fosse cambiato, non era cambiato affatto.
Guardò la terza foto asciugandosi gli occhi con una mano, supponendo: “Questa era la nostra famiglia, vero?”
Assentii, con un groppo in gola.
“Sembra numerosa” commentò con aria triste.
Mi feci più vicina a lui, col cuore stretto in una morsa.
“Come ti senti?”
Ci impiegò un po’ a rispondere, sussurrando con un sospiro: “Non lo so. Sono sempre stato convinto che il mio passato fosse pieno di dolore, ma stando ai tuoi racconti non sembra così. E non mi sembra vero, perché avevo cominciato a fare sogni popolati da una versione di te bambina, ma credevo che… fossero sogni, appunto. La mia vita può mai essere stata così serena?”
“Lo è stata, Ninez.” Gli asciugai le lacrime, scusandomi con lo sguardo. “Perdonami se non ti ho detto tutto subito, ma non credevo che avessi dimenticato, ed ero così sollevata d’averti rivisto che ho agito senza riflettere. Io… io temevo che fossi morto anche tu nell’incidente.” Senza più riuscire a controllarmi scoppiai a piangere, scuotendo la testa. “In realtà, sentivo che non potesse essere così. Per questo ero divisa tra una sofferenza atroce e una vaga speranza, quella di rivederti. Per questo sono sempre rimasta me stessa, ho cercato di cambiare il meno possibile, sia dentro che fuori. Per questo sono diventata famosa, nella speranza che tu mi vedessi, che eventualmente mi venissi a cercare o capissi che, in un modo o nell’altro, se non l’avessi fatto sarei stata io a trovarti, ad ogni costo. Per questo ti ho aspettato per tutta la vita, anche se alla fine avessi trovato la tua tomba. E per questo ero veramente, veramente sollevata di vederti sano e salvo, in carne ed ossa, e -” Mi interruppi, perdendomi tra i miei singhiozzi. “Perdonami, se non sono riuscita a dirtelo.”
“2B, non fare così…”
Mi accorsi, nonostante tutto, della sua voce dilaniata, il che non faceva che farmi ulteriormente male.
“Dispiace a me” pianse, stringendomi tra le sue braccia, con una tale forza da lasciarmi senza fiato. “Dispiace a me, d’averti dimenticata. Come ho potuto farti questo? Tu sei… sei la persona per me più importante al mondo! E come pensavo, lo sei sempre stata! Ho dimenticato proprio te, te! E proprio tu hai dovuto stare tutto questo tempo al mio fianco, con la triste consapevolezza che io non ricordassi nulla e non avessi idea di chi tu fossi. Deve aver fatto così tanto male, 2B. Non oso neppure immaginare quanto tu abbia sofferto, ma mi dispiace, mi dispiace così tanto di essere io la causa.”
Sgranai gli occhi, sconvolta. Si stava immedesimando in me? E come temevo, si stava accusando!
Tirai su col naso, abbracciandolo con tutte le mie forze.
“Ninez, non pensarla così, ti prego. Anche se non ricordi nulla, non mi importa. Io voglio soltanto stare con te, nient'altro.”
“Ma ti ho ferita, ti ho fatto del male…”, singhiozzò sulla mia spalla, tremando.
“Non è così!” Mi allontanai di poco, afferrandolo per le spalle con quel poco di fermezza che mi era rimasta. “Non è così.” Spostai le mani sulle sue guance, asciugandogli le lacrime, sforzandomi di fare un sorriso. “Ho un unico desiderio, Ninez, da sempre, ma dieci anni fa ho fallito nel dirtelo. Ora che ci siamo ritrovati e che sai, anche se non ti ho ancora spiegato tutto, devo necessariamente rivelartelo. Ninez, anche tu sei la persona più importante della mia vita. E occupi un posto principale al centro del mio cuore.”
Nuove lacrime bagnarono le sue iridi cobalto, scivolandomi tra le dita, risparmiando quelle sue labbra ora stese in un piccolo sorriso.
Come al nostro nuovo incontro mi avvicinai al suo viso, chiudendo gli occhi, e, a un centimetro dalle sue labbra, glielo dissi in giapponese, così che potesse assumere un significato ancora più vero, ancora più profondo.
Aishiteru, Ninez.”










 
Traduzioni/spiegazioni:
- otouto = fratellino
- con "lingua nazionale" si intende il giapponese
- il Tanabata matsuri è un festival celebrato annualmente tra luglio e agosto (equivalente al Qixi festival cinese) che celebra il ricongiungimento delle divinità Orihime e Hikoboshi, rappresentanti le stelle Vega e Altair, separate dalla Via Lattea. Vi racconterei tutta la leggenda, ma in effetti penso annoierebbe (e comunque la si può facilmente trovare su internet)
- yukata = kimono estivo, di cotone 
- utsukushii (美しい) è un aggettivo che si può tradurre come "bello". Da questo aggettivo viene preso il kanji per formare la parola bijo (美女), che letteralmente significa "bella donna". Nines fa una differenza con "kirei", termine che va oltre la bellezza puramente estetica
- hashi = bacchette (quelle che si usano per mangiare)
- i fuurin sono quei tipici campanellini che si vedono d'estate appesi in veranda 
- Primrose, se non è chiaro, è la moglie di Zinnia
- aishiteru = ti amo

P.S.: se qualcuno vuole saperne di più sulla scelta di vocabolario, può chiedere :3
  
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