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Autore: Ksyl    10/10/2019    4 recensioni
Alcuni mesi dopo la 2x24
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Seconda stagione
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5. Castle

Non ricordava che il volo transoceanico verso il Vecchio Continente fosse mai stato di tale snervante lentezza, mortalmente noioso e parecchio scomodo, nonostante la poltrona in prima classe dotata di ogni comfort, di cui non era riuscito ad apprezzare il tanto decantato agio.
Avevano sorvolato ore di nulla assoluto, mentre lui se ne era stato sprofondato in cupi pensieri, infastidito da tutto, perfino dalle gentili assistenti che di tanto in tanto si erano avvicinate per chiedergli se andasse tutto bene. No, non andava tutto bene. Quel dannato aereo non procedeva abbastanza velocemente.
Per non apparire troppo molesto e non farsi bandire dalla compagnia aerea – come sua madre era convinta fosse già avvenuto - aveva tenuto per sé le sue farneticazioni e aveva sorriso, rassicurandole di non avere alcun problema. Non era colpa di nessuno se si era imbarcato dopo una notte pressoché insonne, in cui si era saltuariamente assopito e aveva sognato voli cancellati, impedimenti, ostacoli, tracolli e disastri.

Forse la vecchiaia l'aveva reso di colpo poco adattabile ai mezzi di locomozione affollati. Perché non aveva noleggiato un aereo privato? Sarebbe stato perfino disposto a comprarne uno seduta stante, se glielo avessero proposto. Invece, aveva continuato ad agitarsi irrequieto sul sedile, incapace di rilassarsi o di interrompere l'assillante centrifuga mentale.
Ricordava di aver letto che viaggiare verso est fosse più faticoso per il corpo umano, o forse era vero il contrario, non gli interessava indagarlo. Lui aveva un unico pensiero fisso ad agitargli le viscere e cioè che a breve sarebbe stato nella stessa città di Beckett e non aveva nessuna idea su come comportarsi. Si era aspettato un'illuminazione, una volta abbandonati gli indugi e messo piede sull'aereo, ma non era accaduto niente di folgorante.
Si sarebbe presentato alla sua porta? Per dirle che cosa? "Eccomi?". Nemmeno in un film di infima categoria. Oppure avrebbe finto di incontrarla per caso? Molto spontaneo e soprattutto credibile. Le coincidenze della vita, Beckett, non è straordinario ritrovarsi sotto lo stesso cielo? Soffocò un gemito di pura insoddisfazione nei confronti di se stesso, l'ultimo di una lunga serie.

Il motivo per cui non aveva preparato una strategia non era da ricercarsi in una ben riposta fiducia nelle proprie naturali doti di improvvisazione, che a onor del vero gli erano sempre venute in soccorso, salvandolo spesso da situazioni impossibili. Era semplicemente troppo agitato all'idea di rivederla per potersi permettere di rifletterci con la calma necessaria, e questa combinazione esplosiva avrebbe drasticamente ridotto il suo naturale buonsenso, che già viaggiava di molto al di sotto della soglia minima di tolleranza, se ne accorgeva a intervalli di lucidità sempre meno frequenti. Non si era mai sentito così e non era del tutto convinto che non fossero i primi segnali di una qualche malattia degenerativa incipiente che l'avrebbe condotto a una morte prematura nell'alto nei cieli, se quel dannato aereo non si fosse deciso ad arrivare a destinazione percorrendo la tratta più breve e non un giro intorno al mondo, che, ci avrebbe scommesso, era quello che stava facendo.

Il suono metallico che annunciava l'obbligo di allacciare le cinture di sicurezza, seguito da un laconico comunicato relativo al divieto di lasciare il proprio posto, perché erano iniziate le manovre di atterraggio, giunsero a salvarlo dall'abisso dei suoi tormenti, cogliendolo completamente alla sprovvista. Era arrivato. Come era possibile che non se ne fosse accorto?
Venne assalito da una spiacevole sensazione di mancamento che imputò al vuoto d'aria provocato da un brusco abbassamento di quota – qualche lampo nel cielo prossimo all'imbrunire lo avvertì che il clima a terra non era dei migliori.
Si diede dell'idiota per aver perso il controllo delle proprie emozioni ed essersi rovinato l'intera durata del viaggio, che avrebbe invece dovuto utilizzare per prepararsi al meglio. Non sarebbe cambiato niente, non nell'immediato, almeno. Condividere lo stesso cielo tempestoso non l'avrebbe resa fisicamente più vicina di quanto non fosse mentre chiacchieravano al telefono, separati da migliaia di chilometri. Avrebbe pazientemente oltrepassato i controlli - si augurò che fossero rapidi – avrebbe noleggiato un'auto e si sarebbe concesso una cena veloce, dopo aver raggiunto l'hotel che aveva prenotato. Tutto qui. Non c'era nessun bisogno di sentirsi in procinto di affrontare l'Apocalisse.

Nonostante il pessimo umore con cui affrontò le successive operazioni di sbarco, queste non richiesero più tempo del previsto. Recuperò il bagaglio velocemente e, quando le porte si aprirono davanti a lui, percepì una folata di vento caldo che gli restituì un'immediata sensazione di libertà e leggerezza. Si sentì lievemente meglio, nonostante le luci al neon gli facessero bruciare gli occhi, già affaticati dal lungo volo. Superò velocemente i gruppetti sparsi e vocianti che interrompevano disordinatamente il flusso composto e silenzioso dei viaggiatori solitari, quelli che non aspettavano nessuno e avevano solo fretta di allontanarsi da quel girone infernale per raggiungere le loro destinazioni. Proprio come lui.

Mentre cercava di non spazientirsi ulteriormente, la persona in fila davanti a lui si fermò di colpo e fece un improvviso dietro-front, rischiando di tagliargli la strada. Evidentemente la gente non era in grado di spostarsi senza infastidire il prossimo, pensò irritato, modificando in automatico la sua traiettoria verso destra, per evitare l'ostacolo e una sgradita intrusione nel suo spazio privato. In altre circostanze non vi avrebbe badato, ma non era nelle migliori condizioni di spirito, per dirla con un eufemismo.
Come conseguenza dello spostamento, a cui era stato obbligato per non scontrarsi con l'estraneo maldestro, il suo campo visivo mutò, facendogli registrare con la coda dell'occhio una figura seminascosta da una grossolana palma finta, posizionata a ridosso della parete, qualche metro più avanti.
Di nuovo quella fase. Quella in cui tutte le donne gli sembravano lei. Sospirò. Ci era già passato i primi tempi a New York, quando era ancora convinto che avrebbe ricevuto una chiamata che l'avrebbe riportato dritto al distretto e alla vita che era stato così sicuro di ritrovare, dopo la pausa estiva. Scosse la testa per scacciare i fastidiosi ricordi. Aveva solo bisogno di tornare in sé, riprendersi dal jet lag nel minor tempo possibile, mangiare qualcosa di commestibile, o almeno bere un caffè che potesse definirsi tale, anche se dubitava che sarebbe stato semplice trovarlo.

La palma si mosse di nuovo, mentre era in procinto di superarla. Trasalì. Era troppo nervoso, doveva darsi una calmata. Sperò che non si trattasse di una minaccia terroristica, o qualcosa di altrettanto sospetto, perché era troppo stanco per offrire i suoi servigi alla polizia locale, anche se era certo che avrebbero apprezzato il suo acume. Prima avrebbe avuto almeno bisogno di farsi una doccia.
Ridacchiò tra sé fantasticando di confessare a una Beckett in carne o ossa – cominciava ad averne abbastanza di chiacchierare con la sua immagine mentale - di aver avuto un incontro allucinatorio con una palma di plastica, tra le peggiori imitazioni in cui si fosse mai imbattuto. Era tanto dispendioso prendersi cura di piante vere? La gente mancava di buon gusto, ecco tutto.

L'ambigua figura, che fino a quel punto era rimasta nell'ombra, abbandonò quello che sembrava a tutti gli effetti un nascondiglio e si mosse decisa verso di lui. Perché gli intralciavano tutti il cammino?
Prima che potesse rendersi conto di quel che stava accadendo, il suo sistema limbico già in allerta decise di scatenare l'emergenza e così un repentino fiotto di adrenalina si propagò in tutto il suo corpo. Si fermò di botto, costringendo il fiume di persone alle sue spalle a dividersi, sciamando intorno a lui, per evitare di investirlo. Qualcuno doveva averlo insultato in un idioma sconosciuto, ma non gli importò. Era troppo impegnato a decidere se dar credito a quello che la sua mente su di giri gli suggeriva – e cioè che quella che aveva davanti agli occhi fosse l'autentica Kate Beckett in tutto il suo splendore, ma soprattutto concretezza, o se arrendersi alla temibile constatazione di trovarsi da solo in un Paese straniero nell'evidente necessità di una visita neurologica urgente.

La fissò inebetito. Era impossibile che fosse lei, era ancora abbastanza in sé da rendersene conto. Doveva trattarsi di una sosia, perfettamente identica all'originale, tranne che per qualche dettaglio insignificante, come il taglio di capelli, non erano stati più corti l'ultima volta che l'aveva vista? Percorse febbrilmente con lo sguardo la figura immobile davanti a lui, che lo fissava a sua volta perplessa.
"Castle?".
La sosia conosceva il suo nome? Era bizzarro. Era forse qualcuno venuto ad accoglierlo per oscuri motivi e che per una spiacevole coincidenza assomigliava in modo insopportabile alla persona su cui si stava ossessionando da tempo? Che cosa andava a pensare? Nessuno sapeva che avrebbe preso quel volo, salvo la sua famiglia, e in ogni caso non aveva alcuna necessità di un comitato di benvenuto, non era lì per motivi professionali. Che la CIA lo avesse fatto seguire per rapirlo? Non che l'eventualità non lo stuzzicasse, ma era decisamente troppo a corto di energie per imbarcarsi in un'avventura del genere.
Quanto sarebbe durato quel delirio allucinatorio? Quali erano le tempistiche classiche?
Forse l'aereo aveva avuto un incidente nel quale aveva riportato un trauma cranico, che gli stava facendo confondere la realtà con le proprie fantasie. Magari si sarebbe risvegliato in ospedale, unico superstite del crollo. Era decisamente la versione più sensata, rispetto a credere di averla a pochi passi da lui, senza aver fatto nulla per meritarselo.
La donna aveva anche un tono di voce molto simile all'originale, ma non se ne stupì, del resto era la sua mente ad averla creata e le aveva quindi attribuito caratteristiche che ben conosceva. Niente di più ovvio.

Lei gli si fece più vicina, rendendo possibile un esame più accurato da parte sua. Aveva quella tipica aria divertita di quando usciva vittoriosa da uno dei loro duelli verbali, dopo averlo tramortito con una battuta lapidaria. Era strano perfino che riuscisse a rievocarla con tanta spaventosa puntualità.
Si diede un pizzicotto sul braccio, con discrezione, per risvegliarsi dall'esperienza onirica che si stava facendo un po' troppo indigesta e prolungata per i suoi gusti. La finta-Beckett, però, non scomparve, come effetto del suo ritorno alla realtà. Continuò a osservarlo con quell'inconfondibile sfumatura nocciola degli occhi che avrebbe riconosciuto ovunque. Così come la fierezza del suo portamento. Per non dimenticare le sue gambe, quando si arrischiò a dare un'occhiata verso il basso.
"Beckett?", farfugliò, rendendosi conto con sollievo di essere ancora in possesso della capacità di verbalizzare pensieri ahimè confusi.
Non era ancora convinto che fosse lei, naturalmente, ma era curioso di vedere come si sarebbe comportato l'avatar una volta smascherato. Non successe nulla di trascendentale. Gli sorrise – forse compatendolo - e rimase salda al suo posto. Sembrava lieta che, dopotutto, lui fosse in grado di comunicare con lei, anche se in modo rudimentale e non particolarmente brillante.
A quel punto dovette arrendersi all'evidenza di accettare che l'ipotesi più semplice e quindi corrispondente al vero, fosse quella di trovarsi al cospetto di Kate Beckett in persona. La sua Kate Beckett.

Rimase per qualche istante assorbito dall'epifania appena sperimentata. Quindi era proprio lei. Come potesse essere lì rimaneva al di sopra della sua comprensione.
"Che cosa ci fai qui?". Non era di certo l'ispirato discorso che avrebbe voluto farle, perché in realtà non ne aveva preparato nessuno. Ma blaterare cose di nessuna importanza gli dava la possibilità di bearsi delle mutevoli espressioni del suo viso perfetto, dopo averlo a lungo ricostruito unicamente intorno alle parole che si erano scambiati al telefono.
"Che cosa ci fai tu qui, Castle? Sbaglio o non sei nel continente giusto?". Incrociò le braccia, sfidandolo. Aveva voglia di abbracciarla e sollevarla da terra, ma tenne per sé quello sconsiderato impulso.
"L'ho chiesto prima io", si affrettò a risponderle. Sempre più arguto e brillante, decisamente un conversatore nato, notò in preda allo sconforto.

Le vide fare una minuscola smorfia quando dovette accettare di aver perso il primo round delle loro schermaglie verbali appena riesumate.
"D'accordo", ammise infine con un certo sforzo. "Volevo vedere la tua faccia nel renderti conto di non essere così furbo come credevi. Che cosa accidenti pensavi di fare, Castle?". Era irritata e già pronta a rimproverarlo, tutto come al solito. La trovò adorabile.
La fissò per qualche secondo."Il turista", rispose con grande flemma. "Tu invece come facevi a sapere che sarei arrivato oggi? Mi hai fatto seguire? Hai hackerato il sito della compagnia aerea? Mi hai impiantato un microchip a distanza?".
Era davvero interessato a saperlo. Nessuno tra quanti potessero contattarla era a conosceva dei suoi piani; si era letteralmente catapultato in Europa tenendo per sé i suoi progetti. Eppure in qualche modo lei ne era stata messa al corrente. A meno che non si trattasse di una coincidenza. No, non sembrava sorpresa di vederlo. Quello più sorpreso tra i due era stato indubbiamente lui, convinto di essere vittima di una psicosi.

"Vuoi essere tu a denunciarmi per stalking, dopo che ti sei presentato nella città in cui vivo, dall'altra parte dell'oceano, senza aver chiesto il mio parere e, soprattutto, senza che io ti abbia mai dato indizi su come rintracciarmi? Non stenteranno a credere alla tua versione", recriminò spazientita e molto alterata. Non era la migliore delle premesse, era più che evidente che non avesse nessuna voglia di rivederlo e, peggio, che non apprezzasse la sua idea di precipitarsi da lei. Sfortunatamente, la peggiore tra le ipotesi che aveva previsto.
"Se la pensi così, perché sei corsa a darmi il benvenuto all'aeroporto? Stai forse ammettendo che non vedevi l'ora di incontrarmi?"
"Ammetto solo di volerti ricacciare a forza sull'aereo e rispedirti a casa o, in alternativa, ottenere un ordine restrittivo che ti tenga lontano da me". Era furiosa e lui riusciva solo a pensare che sarebbe stato disposto a farsi maltrattare per sempre. Forse sarebbe stato meglio recuperare una parvenza di dignità, almeno davanti ai suoi occhi.
"Intanto che un giudice si prenda la briga di esaminare e firmare la tua richiesta, possiamo rimanere a questa distanza o vuoi che mi sposti più lontano? Sarà più difficile parlarci, ma potremo sempre urlare e dare spettacolo, tra un volo e l'altro".

Lo trapassò con uno sguardo che avrebbe ridotto a miti consigli il malvivente più ostinato.
"Sei esasperante, Castle. E completamente pazzo".
"Lo so, fa parte del mio fascino", commentò, sforzandosi di sorriderle imperturbabile.
"Non voglio avere niente a che fare con te e la tua follia", sottolineò duramente, come se lui avesse bisogno di continuare a sentirselo ripetere. Aveva capito benissimo l'infelice antifona, stava solo cercando di resistere all'assalto.
"Per quel che vale, ci tengo a informarti che sono qui unicamente per visitare la città. Non per incontrarti", insistette con grande calma.
"Certo, come no. Città che ormai conoscerai a memoria".
"Si scoprono sempre lati nascosti delle cose, guardandoli con occhi diversi". Si fermò, prima di farle una lunga lezione moraleggiante sulla maturità che arricchisce lo sguardo di nuovi particolari, eccetera. Non voleva che mettesse in pratica le minacce dell'ordine restrittivo, a quel punto i suoi piani si sarebbero complicati parecchio.

Kate si mordicchiò un labbro, pensierosa. Sperò che non stesse meditando di legarlo e farlo scomparire in qualche anfratto dell'aeroporto.
"Se avessi voluto passare a trovarti te lo avrei comunicato in una delle nostre telefonate, non credi?", continuò, sperando di convincerla. "Quale sarebbe il senso di precipitarmi qui a tua insaputa, senza nemmeno avere il tuo indirizzo? Non ti sto dando la caccia". Affondò il colpo sperando con tutto il cuore che non gli si leggesse in faccia la mostruosità appena raccontata e che lei lo perdonasse, una volta scoperte invece le sue vere motivazioni. Perché di certo non se la stava bevendo.

Lo scrutò a lungo in un silenzio glaciale che non prometteva niente di buono. Alla fine era talmente provato dall'esame a cui era stato sottoposto da essere pronto a fare qualsiasi cosa gli avrebbe ordinato. Forse nel frattempo si era specializzata nello stroncare la volontà altrui con il solo ausilio della sua forza mentale.
Alla fine emise il verdetto, sospirando contrariata. "D'accordo, Castle. Dal momento che sei qui per fare il turista e non per darmi la caccia...", gli lanciò un'occhiata accusatoria. Non ci aveva creduto nemmeno per un istante. "E che ucciderti richiederebbe un dispendio di energie troppo elevato, nonché la difficoltà oggettiva di occultare il tuo cadavere, ti lascerò ai tuoi musei e monumenti o qualsiasi altra cosa tu sia qui a fare, purché non mi riguardi".
Gli diede le spalle con la gelida eleganza che aveva ancora il potere di farlo fremere, nonostante la paralisi che l'aveva colpito, e lo piantò in asso in mezzo al corridoio, che si era lentamente svuotato, rendendo l'atmosfera generale molto desolata.

Si ritrovò confuso a guardarla andarsene, non sapendo come reagire. Si sentiva sperduto senza di lei, nonostante l'avesse rivista da appena qualche minuto, e quasi tramortito dall'impatto che quell'incontro non pianificato aveva avuto su di lui. L'unica cosa certa era l'incontrovertibile constatazione che lei non avesse preso benissimo la sua improvvisata, per dirla con sobrietà. Era stato un tremendo buco nell'acqua, si sentiva fortunato a esserne uscito incolume. Che cosa sarebbe successo adesso? Che fine avrebbero fatto i loro esili rapporti? Aveva rovinato tutto?

Ragionò sulla situazione, per quanto gli fosse possibile con i ridotti strumenti mentali che aveva a disposizione. L'aveva rivista ed era stato rimesso brutalmente al suo posto nel giro di cinque minuti. Lei gli aveva fatto scacco matto, mandando all'aria qualsiasi piano. Da un certo punto di vista aveva raggiunto con pochissimo dispendio di energie l'obbiettivo che si era prefissato, ovvero rendersi conto con i propri occhi di quale fosse la situazione, se ci fosse qualcosa in lei che non andava. In realtà, non l'aveva capito, essendo stato travolto da un uragano inferocito.
Chiaramente, però, non aveva nessuna intenzione di farsi bastare quel poco che aveva ottenuto. Voleva saperne di più. Forse doveva ripiegare sul piano b, che non aveva mai pensato di predisporre e cioè lasciarla andare, fare finta di niente, proseguire con il suo progetto iniziale di noleggiare un'automobile, vagabondare nelle campagne fino a raggiungere il mare, molto più a sud. Lontano da lei. Nemmeno per sogno. Ci avrebbe pensato con più calma quando fosse tornato a una condizione di normalità emotiva. Nel frattempo, si sarebbe inventato qualcosa.

Seguì incantato la sua figura statuaria allontanarsi con passo deciso. Realizzò di sembrare un enorme stoccafisso impossibilitato a muoversi per effetto del sortilegio che lei emanava semplicemente esistendo, ma non voleva perdersi preziosi fotogrammi della sua presenza, che avrebbe custodito gelosamente.
Fu lei a voltarsi, una volta che ebbe quasi raggiunto l'uscita.
"Che fai, Castle, non vieni?", gli domandò a bruciapelo. Avrebbe giurato di aver visto un lampo divertito negli occhi, che lo rimescolò e lo confuse ulteriormente. Si affrettò a correrle dietro, esattamente come aveva sempre fatto, felice come aveva dimenticato di poter essere, pronto per infilarsi in qualsiasi avventura, purché fosse insieme a lei.

   
 
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