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Autore: _Lightning_    15/10/2019    5 recensioni
[INCOMPIUTA]
«Mi sembrava che ne avessi bisogno,» sussurra Natasha, con voce velata, e Tony sorride appena a quello sfoggio di spavalderia che sanno entrambi essere inutile.
«Decisamente,» non la contraddice, ma aumenta un poco la stretta e sente la sua farsi quasi disperata a sottolineare quanto ne avesse bisogno anche lei.
Come se quell’abbraccio potesse alleggerire il dolore di entrambi, o fonderlo in modo da renderlo più comprensibile, meno oscuro.
Non sa se Natasha lo stia trascinando verso il basso per piantare un ormeggio sicuro, o verso l’alto, a fluttuare incerto a mezz’aria. Ma sfiora la terra con la punta dei piedi e rimane lì, in equilibrio, in bilico con lei.

In un universo in cui lo schiocco ha reciso e distrutto legami, chi è rimasto è costretto a ricostruirli, ritrovarli, o crearne di nuovi, con il costante interrogativo di quanto sia giusto andare avanti quando ci si è lasciati così tanto dietro.
[pre-Endgame // Hurt-comfort // IronWidow + Pepperony // PoV Tony]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
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.1.

Cecità
 
 

“Il mondo è pieno di ciechi vivi.
J. Saramago - Cecità



 Luglio 2018, Complesso dei Vendicatori
 


Il mondo ha cessato di esistere. Non solo la sua metà tramutata in cenere, ma ogni singola particella che lo compone: è disgregato, scomposto ai minimi termini in atomi che non riescono a legarsi tra loro per creare forme solide. Scivolano gli uni sugli altri come tasselli sfuggenti di un puzzle, rimescolandosi all'infinito in vortici grigi.

Tony non riesce a seguirne i movimenti, non ricorda neanche quale fosse il loro assetto originario. Non sa se ne sia mai esistito uno, né sa interpretare le nuove forme che gli si parano davanti. Prendono tutte le sembianze di galassie sfumate di colori impossibili, di sprazzi di cielo di un nero più buio di quello terrestre e che l'occhio umano non può sondare. Si sparpagliano in cenere farinosa e sottile, appiccicata ai palmi e alla fronte viscida di sangue e sudore.

Quelli sono gli unici tasselli vividi, collocati in punti precisi dispersi sull'arazzo sfilacciato della sua mente. Galassie e cenere. Buio e sangue. Quattro punti cardinali nefasti in una bussola priva di nord.

Ma è cieco, non riesce neanche a vederla, quella bussola. È cieco e si ostina ad avanzare a tentoni, in trance, tra schermi olografici e proiezioni e banchi di lavoro, ma non vede nulla di ciò che fa, è solo il suo corpo che agisce in preda agli ultimi scampoli di energia di un serbatoio in riserva.

Non sa cosa farà quando si esauriranno. Non lo sa.

Lo sa perfettamente. Dovrà trovare del carburante alternativo – un surrogato scialbo e patetico di tutto ciò che ha perso, del calore fasullo che lo brucia invece di scaldarlo: kerosene infiammabile, acre, volatile. Benzina sul fuoco. Alcol. Lo sa, lo sente in quel punto dello stomaco che prima voleva un bicchiere in più e che adesso si contorce in cerca di sollievo tossico condensato in bottiglia.

Ma non può ancora cedere – non dovrebbe mai – perché non può uscire dalla stanza. Deve rimanere qui in laboratorio, a pensare. A creare e disfare le sue galassie personali composte da possibilità e calcoli e schemi. Dare ordine al caos. Tracciare rette regolari attraverso le sue nebulose di pensieri – ma anche se le rette sono infinite e immateriali, tornano sempre a congiungersi, in un cerchio rovente che gli avvolge la testa come una corona troppo stretta – pesante, inadeguata. Inquieto è il suo capo, piena di scorpioni è la sua mente. [1] Parole astruse e lontane, lette di sfuggita secoli prima e che adesso sono in primo piano, in sovrimpressione alle sue retine.

Diventerà pazzo. La sente, la follia, un passo dopo la soglia su cui continua a indugiare, tentato dall'oblio... ma non può permettersi neanche di impazzire. Può solo sognare a occhi sbarrati, fissi su immagini sempre più sbiadite anche nei ricordi più freschi, ormai sogni che fluttuano eterei.

Non dorme. Non mangia, non beve. Non piange: non gli è ancora riuscito. Non prega più, come non ha mai pregato in vita sua. Non trova soluzioni: gli sfuggono sempre tra le dita come fumo, lasciandolo con un pugno di cenere.

 
§


Settembre 2018, Complesso dei Vendicatori 

«Tony,» emerge una voce familiare, piuttosto sonora anche per i suoi timpani ovattati.

Scolla gli occhi arrossati dal piano olografico inattivo da ore, forzando la testa verso la porta del laboratorio, i palmi puntati contro il bordo del tavolo a sorreggersi. Distingue una sagoma sulla soglia. Si sforza di eliminare le smerigliature dalla sua vista, di ricollegare quella figura a qualcosa di conosciuto – di ricollegarsi, di smettere di fissare le stelle appese dietro ai suoi occhi – e per un attimo teme che il suo cervello sovraccarico stia per implodere nel tentativo di eseguire quel processo elementare, quel codice binario di base.

«Tony,» ripete Steve – è Steve? – più lentamente, «stiamo per cenare. Tutti quanti, ci è sembrata un'idea... per stare insieme. Vieni anche tu.»

Tony impiega quelle che sembrano due ore e che probabilmente corrispondono a un intero minuto per sentire le sue parole, sbrogliarle dai propri pensieri, analizzarle e comprenderle abbastanza da riuscire a formulare una risposta: un semplice cenno d'assenso, a malapena percettibile. Ha la lingua incollata al palato da giorni, forse settimane: non lo sa. Ha fatto prendere un attacco isterico a Rhodey perché non parlava da troppo. Da allora si sta sforzando di dare dei cenni sonori almeno con lui, di tanto in tanto, anche perché teme di dimenticare come articolare i suoni. Ma gli si blocca sempre l'aria in gola, come su Titano, viene soffocato da parole non dette.

Adesso dovrebbe mandare al diavolo Rogers e cacciarlo via a forza, scagliarsi contro di lui come ha fatto un mese fa, ma sente di avere ancora meno energie di allora. E non porterebbe a nulla. Riaprirebbe solo le ferite, si spaccherebbe di nuovo il petto e riprenderebbe a sentire fitte acute e gelide allo sterno. Non è con Rogers che vuole prendersela, non stavolta. E lui si è comportato in modo estremamente pacato anche dopo il loro acceso diverbio, non sa se per compassione verso di lui – probabile, ipocrita com'è – o perché anche lui è solo troppo stanco per accapigliarsi sul nulla, sulla cenere. Non ha senso contare le colpe, come non ha senso contare ogni granello di cenere o ogni stella che gli macchia le retine.

Rogers esita ancora sulla soglia, e forse si aspetta che si scolli subito dai suoi traffici inconcludenti per seguirlo in sala comune. Tony vorrebbe, ma non sa neanche dove siano i propri piedi, figurarsi riuscire a muoverli. Si sente disarticolato, come se ogni suo arto fosse leggero come aria e incontrollabile, come se avesse dell'elio nello stomaco, al posto degli organi interni, e gas infiammabili e in espansione nel cranio. Prende un respiro profondo, e quell'immissione improvvisa di ossigeno e anidride carbonica – e cenere, perché è ovunque, ovunque – è pesante, gli fa girare la testa proprio mentre cerca di muovere un passo.

Si aggrappa al bordo del piano olografico e vi si poggia di schiena, evitando una caduta rovinosa. Vede Rogers scattare verso di lui e si ritrae d'istinto, il palmo teso per tenerlo a distanza.

Zero fiducia.

Il mondo potrà anche essere finito, ma non è ancora arrivato il giorno in cui Rogers può toccarlo come se niente fosse – e senza causargli un principio di attacco di panico.

Bugiardo.

La sua stessa voce gli rimbomba in testa, e sa che i suoi occhi urlano anche adesso quelle parole. Steve si ferma di colpo, il viso corrucciato, segnato da troppe rughe anche per un ultracentenario.

«Tony?» lo chiama di nuovo, e lui chiude gli occhi esasperato, peggiorando solo le vertigini. «Da quanto non mangi?» gli chiede, ancora con quel tono accondiscendente che si userebbe con un bambino che sta male.

Tony mette da parte quella considerazione per ponderare la domanda, rendendosi conto di non avere risposta. È vero, considera tra sé, dovrebbe anche mangiare, oltre a farsi a pezzi il cervello in laboratorio. Deglutisce a vuoto, ora conscio della secchezza della propria gola e della piccola zona arida al centro della lingua che non gli riesce di inumidire, e forse l'ultima volta che ha bevuto è stata ieri sera – più di ventiquattr'ore fa, almeno crede.

Guarda Rogers e si limita a scuotere la testa, indicandogli seccamente la bottiglia d'acqua posata sul bancone a qualche metro da lui. Il fu Capitan America sospira e sembra volerlo rimproverare, ma gli porge comunque prima la bottiglia. Tony se la porta alle labbra spaccate e beve a sorsi minuscoli – consigli lontani dati in una grotta desertica gli suggeriscono di non tracannarla di colpo. Sembrano spazzare via la polvere dalla propria bocca abbattendosi poi a cascata nello stomaco vuoto, ristretto, ma ancora esente dai morsi della fame.  Finisce lentamente il litro d'acqua nel giro di qualche minuto, evitando di causarsi uno shock, e Rogers aspetta, semiseduto sul bancone a braccia incrociate, lo sguardo fisso sulle linee del pavimento. Lo aspetta, e Tony lo detesta anche per questo.

Dopo aver bevuto le vertigini diminuiscono quel tanto che basta per farlo camminare senza avere l'impressione di avanzare su una giostra in movimento, anche se le piastrelle sembrano ancora fissate a delle sabbie mobili.

«Andiamo,» lo sprona quindi e, Dio, la sua voce è disumana, gli gratta in gola con un raschietto e sembra avere il sottotono metallico delle sue armature.

Raggiungono la sala comune senza incidenti, forse perché Tony decide di ascoltare il proprio buonsenso e prendere l'ascensore, piuttosto che le scale. Il suo cervello entra di nuovo in stand-by quando vede il tavolo, già apparecchiato e occupato dai superstiti.

Superstiti. Pochi, troppo pochi.

Si scollega in automatico, risponde a cenni, evita attivamente lo sguardo di Rhodey e sente un crampo alle gambe quando si siede alleviando il peso sulle ginocchia. Non sa quanto sia rimasto in piedi. Forse per tutta la notte. Non si sdraia su un letto da quando è tornato, al massimo sprofonda in poltrona e dorme un paio d'ore. La maggior parte delle volte si ritrova ad addormentarsi in piedi, scivolando in un dormiveglia instabile che lo fa spesso risvegliare mezzo chinato su un banco di lavoro, con la fronte dolorante premuta sul metallo freddo e la schiena a brandelli.

Cerca di riscuotersi, di uscire dalla catalessi, ma attorno a lui sente solo fruscii, come se fosse nel bel mezzo di un torrente, e i suoi pensieri continuano a viaggiare, mescolati tra loro; i sensi lo guidano quel tanto che basta per non causare disastri mentre si versa una mezza cucchiaiata di purè nel piatto – l'unico cibo semi-solido che crede di poter mandar giù al momento senza rimettere. Sente lo sguardo di Rhodey su di sé e tiene il proprio fisso verso il basso, mentre punzecchia il cibo senza appetito, conscio però di doverlo mangiare se non vuole davvero morire d'inedia, come sulla Benatar. Per un istante, la spirale che ha tracciato distrattamente nel purè con la forchetta sembra quella di una galassia lontana. Reprime un conato e prende a forza un boccone insipido, quasi con rabbia, a distruggere quella congregazione di stelle inesistente.

Passa un pollice sul piccolo segno ancora roseo che gli è rimasto inciso alla base del palmo, stringendo la forchetta con più forza del dovuto, ancora estraneo a quello che sta accadendo attorno a lui. Gli sembra di sentirli parlare in un borbottio indistinto, ma ha smesso di fidarsi del suo udito quando, un paio di volte, gli è sembrato di riconoscere le voci di Pepper e Peter in mezzo a quei discorsi.

Continua a mangiare in silenzio, considera una conquista essere addirittura riuscito a finire la propria porzione, e si alza senza ulteriori indugi. Il suo sguardo incontra la tavolata vuota. Si sente smarrito per un istante e pianta le dita nello schienale della sedia – sono scomparsi, sono scomparsi tutti –  prima di vederli in salotto, e di sentire Rhodey che si avvicina per recuperare il suo piatto dal tavolo, già sparecchiato da chissà quanto senza che lui se ne accorgesse. Tony lo anticipa portandolo da solo in cucina, i movimenti meccanici come quelli di un automa, ma sente di riuscire a controllare leggermente meglio i propri passi, che non affondano più nelle sabbie mobili.

Crede di sentire il sospiro di Rhodey dietro di sé mentre piazza il piatto in lavastoviglie, ma non si gira per accertarsene, poi sente la sua mano ampia e salda che gli stringe la spalla. La trattiene lì abbastanza a lungo da fargli capire che, forse, vorrebbe abbracciarlo, se solo lui glielo permettesse. Tony si avvolge invece il busto con le braccia, sentendo un'ondata di nausea al solo pensiero di lasciarsi stringere da qualcuno – di stringere qualcuno e sentire di nuovo la consistenza orripilante di un corpo che si sfalda nel nulla sotto le dita.

Risucchia un respiro a forza e svicola alla sua stretta, diretto in laboratorio, verso il suo mondo freddo di ologrammi e strade senza uscita che è comunque deciso a battere fino in fondo.

Nell'attraversare il salotto, adesso un po' più nitido di fronte ai suoi occhi, rallenta perplesso. Steve è seduto sul divano, lo sguardo perso oltre la vetrata sul patio buio; Bruce traffica con un tablet immerso in chissà quali progetti; Carol, che per qualche motivo orbita ancora qui con loro al Complesso, è intenta a messaggiare con qualcuno; Nebula e Rocket sono impegnati in una partita silenziosa di finger-football – e lei sta decisamente vincendo; Thor è fuori, nel patio, e fissa gli alberi immersi nel buio.

Aggrotta la fronte e scocca un'occhiata a Rhodey, ancora in cucina con lo sguardo preoccupato fisso su di lui. Tony scuote la testa ed esce infine dalla stanza, senza riuscire a scrollarsi di dosso una strana sensazione, come un'intuizione mancata, ovvia ma troppo inarrivabile per il proprio cervello sconnesso.

È solo mezz'ora dopo, mentre cerca di concentrarsi su un modello incompleto e frammentato della Gemma dell'Anima, che realizza cosa ha visto; o meglio, cosa non ha visto. Si blocca nel manipolare un tassello olografico a mezz'aria, schiudendo le labbra in un lieve moto di sorpresa.

Natasha non c'era.





 

Note:

[1] Inquieto giace il capo che porta la corona: citata nei film, è uno stralcio dell'Enrico IV di Shakespeare; Piena di scorpioni è la mia mente: citazione del Macbeth. Il perché Tony conosca citazioni letterarie simili viene spiegato da miei headcanon che verranno ripresi nel corso della storia.



Note dell'Autrice:

Cari Lettori,

eccoci giunti al secondo capitolo e, no, non vi addolcirò la pillola dicendo che siamo al punto più basso... non ci siamo arrivati neanche lontanamente :')
La storia era partita in modo estremamente lineare ma, come con quasi tutti i miei progetti, si è poi ramificata a dismisura, portandomi ad affrontare molti più aspetti e tematiche di quanto avessi preventivato, primo tra tutti il declino fisico ed emotivo di Tony in una situazione del genere. Il resto (chissà cosa, poi *fischietta*) arriverà, ma con i dovuti tempi ;)
Colgo l'occasione per dire che le parti in corsivo sono, a seconda del contesto, pensieri veri e propri di Tony o concetti più forti che spiccano nei suoi flussi di coscienza/introspezioni.
Ringrazio infinitamente voi belle persone che avete recensito lo scorso capitolo (you know who you are) e vi bacio tutte, così de botto senza senso a tradimento <3
A presto col prossimo capitolo, e come sempre ogni commento è gradito o voi Lettori silenziosi <3

-Light-

P.S. Un grazie e una scusa a Saramago per averlo sfruttato indegnamente al fine di ispirarmi, e non sarà neanche la prima volta. E comunque leggete Cecità, è un libro meraviglioso.



 
   
 
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