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Autore: Kat Logan    17/10/2019    3 recensioni
Makoto ripulì il banco del bar dalla sabbia e dall’ appiccicume di qualche Margarita finito lì sopra per colpa di qualche bevitore distratto. Ne aveva piene le orecchie di storie e confessioni che la gente le faceva con i piedi affondati nella sabbia fine di Malibù. Chi credeva che fare la barista fosse un lavoro semplice, si sbagliava. Lei era il confessore dei peccati più bollenti di tutta la costa e nel suo tempio sacro ogni peccato veniva perdonato con un cocktail.
«Adesso ve la racconto io una storia davvero stramba».
Avrebbe dovuto starsene zitta, ma qualcosa in lei era scattato come una molla e da confidente silenzioso, Makoto, divenne oracolo senza peli sulla lingua.
«C’è un pompiere che rischia di bruciarsi per amore e convive con un’aspirante star della musica. Un artificiere incosciente, arrogante e pieno di sé. E poi c’è lei, con lo sguardo che nasconde una ferita profonda perché per la seconda volta nella vita ha fallito in qualcosa…».
«E poi?». Usagi la interruppe presa dell’entusiasmo. «Gli altri personaggi di quest’avventura chi sono?».
Makoto sospirò, portandosi lo strofinaccio sulla spalla.
«Un timido genio, una baby sitter fuori controllo e una stupida barista…»
Genere: Azione, Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Un po' tutti, Yaten | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Il cielo rischiarava illuminando le incertezze di Minako.
«Quindi…finisce così?» mormorò lei, lasciandosi andare ad un lungo e pesante sospiro.
Quel momento, quello per cui si erano trovati, era passato. Avevano suonato cercando gli occhi l’uno dell’altro su quella canzone che era il bambino di entrambi. E quello, quel momento, era stato magico. Irripetibile. Ma era andato. Finito. Ed ora cosa rimaneva? Loro, esistevano ancora?
La morsa della malinconia l’attanagliava allo stomaco. Si sentiva come fosse lontana anni luce da Yaten e da quel loro rapporto che non aveva avuto alcuna definizione.
«Forse». Aveva risposto lui, lasciando cadere la sua voce nel vuoto.
La ragazza sentì tutto il peso della tensione e della stanchezza scivolarle addosso. Dapprima sulle palpebre e poi sul resto del corpo sino ad arrivare alla punta delle dita.
Lanciò un'altra manciata di briciole in acqua e un piccolo stormo di gabbiani scese in picchiata nelle vicinanze.
Si voltò verso di lui, esausta.
Yaten comprese il suo sguardo. Voleva fosse più esaustivo.
«Forse abbiamo solo fatto una performance pazzesca. Forse…abbiamo convinto qualcuno. Non puoi pretendere che venissero subito a stringerci la mano. Dagli tempo».
Minako si sentì confusa. Cos’era quella? Fede cieca? Ottimismo? C’era stato un cambio di ruolo inaspettato?. Chi era chi? Tutto quel turbinio di domande la fece riflettere sul fatto di aver solo scalfito la superficie della complessa personalità del ragazzo.
E ciò non fece altro che alimentare il suo desiderio di conoscerlo. Di godere ancora un po’ del tempo a loro concesso. Come se ci fosse un’inevitabile scadenza al loro stare assieme.
 
«Che hai?» domandò lui vedendola strana.
«Posso chiederti una cosa?».
«Ho forse scelta?» domandò con uno sguardo di sfida.
 
Lei inclinò il capo accennando un sorriso, ignara che quella fosse la debolezza di Yaten.
 
«Hai navigato a lungo. In mare aperto. Per giorni e notti, senza fermarti in un porto. Fino ad ora, fino a fermarti qui».
«Giusto» asserì lui, passandosi distrattamente una mano fra i capelli.
 
Lei fece un passo per avvicinarsi. L’aria frizzantina le scatenò la pelle d’oca. O forse era il suo sguardo. Perché come ogni volta che lui la guardava dritta negli occhi, lei si smarriva.
 
«Raccontami».
Lui strizzò un occhio confuso, emettendo un sospiro prima che lei lo interrompesse finendo la frase.
«Che rumore fa l’Oceano di notte?».
 
 
 
§§§
 
 
 
Il gallo della modesta abitazione accanto al loro fienile cantò una volta ancora.
Haruka si strofinò gli occhi intontita dal sonno.
Il cielo terso del Kansas illuminava le sue grandi pianure accecando chiunque tentasse di spiarne la lucentezza.
Mugulò stiracchiandosi, alzando lo sguardo alle travi in legno bucate dai tarli sopra alla sua testa.
 
 Il secchio accanto al giaciglio di paglia era pieno di acqua pulita che Sarah aveva amorevolmente cambiato alle prime luci dell’alba, così che lei potesse lavarsi il viso. Lei, sapeva che Haruka spesso si rifugiava lì piuttosto che al piano di sopra dov’era stata allestita una cameretta povera e scarna come si addice ad una bambina Amish. Ma ad Haruka le bambole senza volto di pezza non piacevano affatto. Era come se la fissassero nonostante la mancanza degli occhi. Non capiva come le bambine amish potessero starsene ad acconciarle con trecce o a portarle in giro come fossero preziosi tesori.
Erano inquietanti. Senza identità.
E lei chi era? Se si soffermava su quel pensiero aveva poche risposte a cui aggrapparsi. Forse qualcuno un giorno l’avrebbe trovata inquietante proprio come quei fantocci anonimi?
Balzò in piedi, scrollandosi di dosso il sonno e con quello tutti quei pensieri.
 
Di prima mattina, quando il gallo cessava il suo canto, si poteva udire lo scroscio possente del fiume Missouri e Haruka smaniava per correre lungo le sponde umide per tentare di catturare a mani nude qualche pesce. Perché lei non sapeva nulla di se stessa se non che era come una raffica di vento irriverente. Uno spiritello dispettoso di qualche leggenda nordica.
Allargava le braccia, continuando a correre sino a rimanere senza fiato, con gli occhi chiusi, inclinando il corpo leggermente come a virare, fingendo di essere un’aquila, sognando di planare con un paio d’ali enormi in aria,  bagnandosi nell’azzurro di quel cielo che vegliava sul suo capo.
 
«Haruka!» una voce la chiamava in lontananza. Forse Sarah che si preoccupava bevesse quanto meno un bicchiere di latte appena munto.
Ma Haruka non ascoltava, troppo presa dalle sue fantasie di bambina.
 
 
§§§
 
 
Michiru stava per coricarsi quando accese la televisione.
Le serviva un sottofondo per inebetire i pensieri che spintonavano nella testa impedendole di cedere subito nonostante la stanchezza.
Si sistemò sul divano, tirandosi una coperta sino alle spalle, godendo per un momento della flebile luce dell’albeggiare che la salutava dalla finestra.
Emise un sospiro pesante come un macigno.
Pensava ad Haruka. Al momento in cui avevano ballato e niente era stato più lo stesso. C’era il suo tocco, il suo sguardo intenso che scrutava nel blu dei suoi occhi adornato di mille piccole scintille a causa del riflesso delle lucine nel locale.
Sarebbe potuto crollare il mondo in quel momento e lei non si sarebbe accorta di nulla in quella bolla temporanea simile ad un sogno.
«Sembri Usagi. Riprenditi…» mugugnò, tentando di convincere la se stessa un po’ più adulta e accovacciandosi meglio.
A breve Hotaru si sarebbe svegliata e avrebbe reclamato la colazione e lei doveva assolutamente chiudere occhio.
Fu in quell’istante; quando serrò le palpebre e il sonno sopraggiunse che le parve di sentirla. La presenza irriverente di Haruka, il soffio caldo che l’aveva solleticata quella volta in palestra prima di quel bacio maldestro.
Per un attimo la vide. In quel frangente di sogno che si mescolava ai ricordi. Con i capelli spettinati dal vento, scesa dall’auto per controllare stesse bene. Era tremendamente bella. E Michiru un pensiero così su un’altra donna non lo aveva mai fatto. Spesso se ne dimenticava. Scordava cosa fosse per scovare chi fosse realmente.
«Lasciami in pace…» sospirò in quel leggero sonno che via via stava per trascinarsela lontano dal mondo reale, da quel nuovo giorno.
Morfeo le aveva stretto i polsi ormai, c’era quasi riuscito a prenderla. Sino a che una voce in sottofondo non la costrinse a riaprire gli occhi.
La conosceva.
Setsuna. Una certezza che le attraversò le sinapsi come un fulmine a ciel sereno.
 
Alla televisione una mandria di giornalista la stavano assalendo con i loro microfoni.
Michiru si drizzò col cuore in gola scoprendo che a qualche chilometro da lei erano sprofondati all’inferno.
 
 
 
§§§
 
 
 
Setsuna aveva assistito impotente a quello spettacolo catastrofico.
Aveva visto il palazzo sgretolarsi come un castello di sabbia sotto al suo naso e ogni muscolo del suo corpo parve come paralizzato.
E nonostante da bambina non volesse fare la principessa, lei lo aveva imparato. Dove c’è un maledetto castello esiste anche un principe. E il suo era ancora là dentro. In quello che era venuto giù con una facilità tale da credere di essere intrappolati in un incubo nel bel mezzo della notte.
 
«Oh Cristo santo…».
 
Tutti gli agenti si erano riparati il volto ed alcuni erano ancora chini all’interno delle volanti, increduli a quello che si palesava dinnanzi ai loro occhi.
Solo lei era rimasta in piedi. Impassibile. Mentre una nube grigiastra si alzava nell’aria impedendo la vista di ciò che rimaneva di quella carcassa.
 
«Li ho uccisi. Li ho uccisi tutti…» boccheggiò, sentendosi venir meno l’aria ai polmoni. Si portò le mani alla bocca riuscendo finalmente ad uscire da quella sorta di paralisi che l’aveva pervasa nel momento in cui il boato aveva assunto anche una forma fisica.
«Capo Meiō. Capo Meiō, cosa facciamo?»  chiese nel panico uno degli agenti che le era accanto.
Lei lo ignorò, cominciando a correre verso la nube.
Se l’istinto umano dell’auto conservazione faceva scappare più lontano possibile le persone da quelle situazioni, lei, come una carpa, andava contro corrente.
«Meiō chiama Harris, rispondi».
Parlò nella ricetrasmittente senza riuscire a comprendere cosa stesse dicendo.
Doveva raggiungerli.
Dovevano essere vivi.
Sentì la gola bruciare e il respiro venirle meno. Cambiò stazione e comunicò di chiamare un’ambulanza sul posto.
Dovette chiudere gli occhi per la polvere, avanzando ancora anche se alla cieca.
«Chiba. State bene? Qualcuno mi risponda. Cazzo».
Silenzio radio. E la sensazione di star camminando nel bel mezzo di un cimitero.
Setsuna sentì solo il suo cuore. Una marcia di tamburo talmente assordante che rischiava di farla impazzire.
Forse sarebbe svenuta da quello strazio che stava scavando un tunnel profondo dentro di lei. Forse sarebbe morta per il senso di colpa perché non sarebbe riuscita ad uscirne come aveva fatto Michiru.
Quanta forza ci voleva per essere come lei?
Gettò a terra la radiolina, con un rantolo disperato fino a che non venne colpita.
 
Cercò di aprire gli occhi nel bel mezzo di quella nebbia e non poté crederci.
Era Dan. Imbiancato da testa ai piedi di calce e chissà cos’altro che l’aveva presa prima che potesse inciampare nei suoi stessi piedi.
«Dan, oddio…». Gesticolò stranamente, quasi non avesse idea di come comportarsi. I suoi movimenti non avevano più una connessione col cervello tanta era l’incredulità del trovarselo davanti in piedi. Statuario. Sano e salvo.
Uno dei macigni sembrò scivolarle giù dalla gola fino a rotolare altrove a quella sorpresa.
«Setsuna… No, capo Meiō…» si corresse in preda all’agitazione. «Cosa ci fa qui? È venuto giù tutto. E’ pericoloso».
«Lo vedo, idiota». L’insultò lei con la voce spezzata battendo i pugni contro il suo petto.
Stava cedendo come quelle fondamenta. Si ritrovò incapace di reggere tutte quelle emozioni che l’avevano colpita come proiettili nei suoi punti vitali.
«Pensavo fossi morto» poggiò la testa al suo petto, ignorando tutto il resto. Piangendo.
«Pensavo di averti ucciso per la seconda volta».
Tutto il peso di quelle responsabilità, il peso di tutte quelle vite umane la stava schiacciando. E lo faceva tutto in una volta, senza preavviso. Senza che potesse difendersi come aveva fatto sino a quel momento.
«Sono un eroe ricordi?».
«Ti avevo detto di non fare cose stupide o avventate».
«Infatti ti ho ascoltato, sono uscito e…».
Setsuna si asciugò il volto alzando lo sguardo. Si schiarì la voce e guardò alle sue spalle.
«Dov’è quella piattola di Ten’ō?».
«Haruka» lui sembrò rinsavire. Entrambi avevano come ricevuto un colpo in testa per ritrovarsi catapultati nuovamente alla realtà.
«Stavo correndo per chiedere aiuto per lei».
Setsuna sbiancò.
«Lei e Rei sono ancora là dentro. Là sotto». Sottolineò lui. Prendendo nuovamente coscienza dello scorrere del tempo.
«Ho chiamato l’ambulanza» lo rassicurò Setsuna con voce tremante.
Doveva respirare e riprendere in mano la situazione.
«Abbiamo perso le radio. Hanno già cominciato a scavare. Abbiamo bisogno degli altri» spiegò come un fiume in piena Dan.
«Ok. Corri» lo intimò lei scambiandosi un ultimo sguardo prima di vederlo allontanarsi.
 
 
Setsuna respirò a fondo. Chiamando a raccolta tutto il contegno di cui poteva essere provvista.
Sarebbero arrivati i giornalisti e l’avrebbero azzannata come lupi.
 
 
 
§§§
 
 
«Vuoi saperlo sul serio?».
L’oceano, di notte, aveva il rumore della solitudine più profonda. Di un pozzo buio in cui si rischia di annegare e non ritrovare più se stessi.
Quello era il suo suono per Yaten. Ma se ci si metteva a riflettere a fondo, probabilmente il mare aveva una voce più articolata che cambiava a seconda dello stato d’animo dei marinai. Ma come poteva spiegarlo a Minako?
Lei era lì, con gli occhi curiosi di una bambina in attesa della favola della buona notte.
«Che razza di domande…» schioccò la lingua lui.
«Oh Yaten, dai. Non farti pregare!» lei si avvinghiò al suo braccio con un gesto istintivo.
Il ragazzo sospirò e trascinandosela in quella posizione risalì a bordo della sua piccola imbarcazione.
«Mh, vediamo».
Minako venne pervasa da un capogiro a causa del dondolio della Blue Lagoon, ma era sinceramente curiosa della risposta dell’altro per prestarci attenzione.
Lei aveva deciso che voleva sapere tutto. Anche il dettaglio più sciocco che lo riguardava prima di andare. Se le loro strade si fossero dovute dividere allora voleva essere convinta di conoscerlo davvero. Di poter vantare quel privilegio.
«A volte è come un rombo. Un gorgoglio forte e scuro».
«Quando è in tempesta?».
Lui accennò un cenno affermativo col capo. Ricordava il rumore sordo e secco delle onde battere prepotentemente contro la fiancata. Il ponte bagnato e le onde talmente alte da aver paura di scomparire in quel nero pece liquido.
«E quando non lo è?» domandò lei come ad incitarlo a continuare.
«È…una tavola piatta e scura se non c’è la luna. Quasi un fruscio. Se invece è una notte serena brilla di fasci argentati, ma il suono è sempre lo stesso. Una nenia pacata…» la mente scivolò altrove. Lui sembrò quasi estraniarsi e ritrovarsi sdraiato nel bel mezzo del nulla a fissare il cielo puntinato di stelle. Col vento freddo e il nulla più assoluto davanti a lui.
«E come ti faceva sentire?» lei lo guardò negli occhi prendendogli la mano. «Solo?».
Yaten deglutì forse troppo rumorosamente. Dove voleva arrivare e perché si sentiva strano? Perché lei lo confondeva talmente tanto da non riuscire più a distinguere le sue emozioni?
«Che piattola che sei». Cercò di scrollarsela di dosso con tutto quel carico emotivo che lei gli stava lanciando addosso.
«Ma io voglio saperlo!» protestò.
«Perché?» domandò seccamente. Non amava che qualcuno scavasse così a fondo dentro di lui. Forse perché nessuno ci aveva mai provato. Eppure, per quanto scontroso apparisse o si comportasse da indolente tutto voleva tranne che lei si allontanasse. Che andasse via e lo riportasse alla noiosa e solitaria routine in cui aveva sguazzato prima del suo arrivo.
Lei s’imbarazzò alla domanda di Yaten e dovette abbassare gli occhi per un attimo, incapace di reggere allo sguardo ipnotico del ragazzo.
«Voglio solo…».
«Che cosa?».
«Voglio solo non perdermi niente di te».
«Parli come fosse un addio» ne convenne.
«Non lo è? Se non ci chiamassero. O ci dicessero che siamo andati male. Se io avessi rovinato il tuo sogno. Tu, vorresti ancora passare del tempo assieme? Non torneresti a percorrere la tua strada?».
L’espressione del ragazzo mutò trasformandosi in una smorfia indecifrabile.
«Cavolo bionda» esordì. «Tu pensi che io me ne vada in giro a baciare chiunque?!».
Era arrabbiato. Minako lo aveva capito dall’incrinatura della voce. Non era una rabbia selvaggia come quella che riservava a Seya, non era rancoroso. Era più che altro deluso, probabilmente.
«Come ho già detto, non sono un maestro con le parole. Le so mettere solo in musica, d’accordo?».
«Yaten, io…» lei boccheggiò ma venne zittita dall’impeto che il ragazzo stava mettendo in quel discorso. Probabilmente il più lungo della sua vita.
«Ma credevo non fossi stupida Mina. Insomma, ti ho portato nel mio posto, ti ho baciata più di una volta. E…oh cavolo!». Alzò le spalle, lasciando che le braccia si alzassero sulla sua testa per poi ricadere lungo il suo corpo.
«Non ci posso credere. Io ti sto persino dando delle spiegazioni!». Calciò la barca, ignorando il male che l’urto gli provocò al piede.
Faceva schifo nelle relazioni. Aveva preso davvero dai suoi parenti. Era così geneticamente tarato da non riuscire a far comprendere ad una ragazza i suoi sentimenti. Ed era difficile sputare fuori dalla bocca quello che sentiva.
Ma credeva che Minako lo avrebbe compreso, perché lei era stata diversa sin da subito.
«Calmati…» gli si avvicinò come fosse un animale pericoloso. «Scusami, io sono stata sciocca. Ho solo paura, credo». Le labbra si tirarono in quello che somigliava ad un debole sorriso e bastò per fermare quella rabbia cieca. Bastò per rabbonirlo e sedare il suo spirito bollente.
«Vuoi sapere che rumore fa l’oceano?!» la voce gli graffiò la gola. Yaten allungò una mano e prese il palmo di Minako per poi metterlo all’altezza del suo petto.
«Lo senti?» chiese. «L’oceano è un sibilo in confronto a questo».
Aveva il batticuore. Forse gli sarebbe venuto un infarto e la colpa era solamente di Minako e del suo stupido sorriso. Di quegli occhi blu gentili che lo guardavano come fosse un angelo caduto dal cielo o qualcuno di speciale.
Le lasciò la mano per portargliela dietro al collo e baciarla.
Chiuse gli occhi e come scomparve il mondo circostante, lo fece anche quella delusione che l’aveva colto un istante prima. Perché era quello il suo posto. Con le labbra incollate a quelle di Minako.
Lei si lasciò andare. Cingendogli le spalle con le braccia come per ingabbiarlo impedendogli di fare il gabbiano e volare altrove.
Forse lei era stupida e lui incomprensibile ma in comune avevano di non poter più esistere l’uno diviso dall’altra.
 
«Mi fa fatto sentire solo l’oceano. Tremendamente solo» sibilò lui col fiatone, scostandosi appena dal viso di lei.
«E Mina, non mi voglio più sentire così».
Lo aveva detto. Aveva confessato tutto senza doverci girare troppo attorno. Ed era stato stranamente semplice.
«Non dovrai più farlo» soffiò Minako. «Non finché ci sarò io».
«Stai dicendo che rimarrai. Lo sai?» la presa di lui si fece più salda e scivolò dietro ai suoi fianchi.
«Certo».
«Rimani?».
«Rimango».
 
Una promessa per lui era sufficiente. Le credeva perché sapeva che lei lo aveva detto sentendolo.
Un altro bacio per sigillare quel giuramento e Minako lo spintonò giù per gli scalini in legno, fino alla stanzetta che era stata il loro riparo. Il loro inizio.
Lui la sollevò da terra senza più sapere nemmeno dove si trovassero.
Voleva solo non lasciarla più.
E lei desiderava solo sentirlo addosso, così vicino come non lo era stato mai.
All’improvviso non c’era più nessuna clessidra a scandire il loro tempo assieme. Nessuna paura. Nessun tormento.
C’erano il tocco di Yaten sulla sua pelle e le mani di Minako nei suoi jeans.
 
C’era ancora una volta solo il mare come testimone silenzioso a quell’amore impetuoso come una tempesta.
 
 
§§§
 
 
Haruka non si stava chiedendo come fosse giunta sino a lì.
Lo conosceva quel posto. Era la tavola calda alla quale sgattaiolava di nascosto quando riusciva a scappare per qualche ora dalla comunità.
Aveva indosso i Jeans che teneva nascosti nella valigia sotterrata a un paio di chilometri da “casa”.
Aveva indosso il peccato che Sarah, aveva compiuto per farla felice.
Se esisteva un paradiso, l’anima di Sarah non sarebbe potuta andare altrove per lei. Anche se Amos non condivideva la sua teoria.
Ma loro non avevano nulla in comune. Forse Haruka, per la verità, non aveva nulla in comune proprio con nessuno.
A lei piacevano gli inglesi[1].  Le piacevano le canzoni alla radio di quel jukebox anche se gracchiavano un po’.
Quel posto desolato nella campagna del Kansas accoglieva i viaggiatori e alcuni cowboy intenti a bere birra e a sputacchiare arachidi.
Era il tipo di posto dove si fermava Bob.
Era il tipo di posto che le aveva permesso di fuggire.
 
Haruka si fermò sulla soglia.
Vide Rei seduta a un tavolo dall’altra parte della sala.
Fece per avvicinarsi a lei sino a che qualcuno non la chiamò di nuovo.
Non era Sarah. Ma conosceva quella voce.
Rei alzò lo sguardo. La salutò con la mano e il viso felice di chi è contento di rincontrare finalmente una faccia amica.
Loro però non erano mai state lì insieme.
Loro si erano incontrate durante una fuga quando erano più piccole.
«Vieni a sederti, Haruka!». Rei si sgolò sbracciandosi.
 
Haruka fece nuovamente per raggiungerla ma qualcuno la fermò prendendola per il polso.
Erano delle belle dita, lunghe e affusolate.
«Haruka…».
Lei abbassò lo sguardo e nel suo campo visivo una cascata di onde blu fece la sua comparsa.
«Resta qua. Non andare».
Era Michiru che la implorava.
 
Ma perché mai Haruka avrebbe dovuto allontanarsi dall’amica? Non potevano sedere assieme tutte e tre?
 
«Michiru?! Cosa ci fai qui?» domandò in preda alla sorpresa.
«Sono qui per te, sciocchina». La sua presa si fece più lenta. Michiru batté piano la mano sul tavolo.
La cosa strana è che non fece alcun suono nel farlo.
«Siediti qui con me».
Ora che ci faceva caso nemmeno il parlottare degli avventori era udibile. Né tantomeno la musica del jukebox.
Ma per quanto le cose le paressero irreali, Haruka, tendeva a perdere quei particolari subito dopo averli raccolti.
«Rei mi aspetta» sentenziò.
Michiru parve rabbuiarsi. «Anche io».
Haruka tentennò.
 
Avvertì un fischio lontano poi solo il canto sempre più vivido dell’oceano.



Tre.
Due.
Uno...libera!
 




Note dell'autrice:
Sicuramente non il mio capitolo più riuscito. Purtroppo ho zero tempo per scrivere e anche solo questo è stato un parto.
Avrei voluto scrivere di più di tutti, ma ho preferito "tagliare corto", mettere meno cose e pubblicare visto l'attesa tanto lunga. Spero di ritrovare un pò di calma per poter scrivere uno dei miei poemi al più presto.
Sono conscia del fatto che ci siano tantissimo Yaten e Minako ma li avevo saltati di pari passo nel capitolo precedente perciò ho dato la priorità a loro. So già che è la storia infinita perciò prima o poi tocca a tutti.
Grazie a chi ancora sarà qui a leggere a supportarmi!

 
 
 
 
 
 
 

[1] Gli Amish sono soliti chiamare inglesi gli stranieri o le persone al di fuori delle loro comunità.
   
 
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