Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato 29.07.2021
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Capitolo Secondo
27-31
agosto 1511
Fino
a quando, Signore, implorerò aiuto
e
non ascolti,
a
te alzerò il grido: “Violenza!”
e
non salvi?
Perché
mi fai vedere l’iniquità
e
resti spettatore dell’oppressione?
Ho
davanti a me rapina e violenza
e
ci sono liti e si muovono contese.
(Abacuc, Sap. 6, 12-16)
Un
silenzio di tomba regnava su quel freddo e umido meriggio del
27 agosto 1511.
Scioltosi
il livido sole dal laccio delle nuvole grigiastre e
diradatasi la nebbia della polvere da sparo, azzittitisi gli echi delle
grida
di battaglia e il fragore delle spade e delle schioppettate,
s’impose la pace
immobile e gelida del cimitero e tale dovette il Castello apparire al
maresciallo La Palice, quando vi entrò a cavallo: nulla si
muoveva né un sol
rumore umano si sentiva.
I corpi
dei marciani e dei franco-imperiali, ammassati uno sopra
l’altro in un mortale abbraccio, riuscirono a turbare il pur
navigato
generalissimo, avvertendo quegli per la prima volta in vita sua una
certa
insoddisfazione nella vittoria. Sì, avevano conquistato una
roccaforte
relativamente strategica, tuttavia … Forse
quell’aver combattuto sul serio fino
all’ultimo uomo aveva levato ogni godimento alla riuscita
dell’impresa,
schiaffando in faccia ai franco-imperiali la consapevolezza che se
quella era
la resistenza oppostagli da una fortezza male in arnese come quella di
Castelnuovo di Quero, cosa li attendeva una volta giunti sotto le mura
di
Treviso, l’irriducibile e ostinato Occhio
Destro di Venezia?
“Recherchez
les survivants!”,
ordinò ai suoi uomini La Palice, lui
per primo scettico sulla possibilità di trovare dei
sopravvissuti in quel
mattatoio. Di animo meno incerto appariva invece il capitano Mercurio
Bua, che
anzi, sceso da cavallo, rivoltava i cadaveri e all’occasione
levava loro
l’elmo, quasi stesse cercando tra di essi un volto in
particolare. Il
greco-albanese ansimava leggermente, l’aspetto più
scarmigliato del solito,
reduce infatti dall’ostinata schermaglia mossagli contro dal
capitano Vetor
Pozzo e dalla sua compagnia, la quale, per suo sommo smacco, era
riuscita a
sfuggirgli da sotto il naso e a riparare molto probabilmente a Feltre.
Se non
fosse stato per il condottiero feltrino e il suo attacco a sorpresa al
limite
del suicida, di sicuro i franco-imperiali avrebbero concluso
l’assedio assai
prima, invece di prolungarlo dolorosamente fin quasi a
mezzodì.
“Sopravvissuti?”,
ripeté snervato il Bua, passando sempre più
impaziente al prossimo corpo. “Si è combattuto
tutta la mattina, chi volete che
sia sopravvissuto? A parte quelli che hanno battuto in ritirata,
ovviamente”,
aggiunse, ribollendo di stizza al mero ricordo di Vetor Pozzo sparire
tra il
sentiero montano.
“Abbiamo
dato loro una scelta, capitaine. E loro
hanno
scelto la pace della morte.”
“Sicuro,
loro riposano in pace”, commentò ironico Mercurio,
“nella
breve attesa della nostra compagnia, perché senza bottino
quant’è vero Iddio
creperemo di fame. Forse, i vostri capitani tedeschi avrebbero dovuto
tenerlo
da conto, quando si sono avventati come i-d-i-o-t-i sui marciani,
invece di
salvarne qualcuno per il riscatto! Ogni volta la stessa storia: prima
distruggono tutto e poi si lamentano che non è rimasto
più nulla per il
rifornimento.”
Purtroppo
per lui, il maresciallo de La Palice dovette arrendersi
dinanzi all’innegabile verità proferita dal
mercenario greco-albanese, nell’intimo
anch’egli infastidito da quella cecità che li
portava sempre più sovente a
litigare tra di loro sulle scorte di cibo o altri beni di prima
necessità.
“Qualcuno
si deve pur essere salvato.”
“Nessuno
qui ci crede né lo spera. Guardatevi in giro: vi pare
questo il modo di festeggiare una vittoria? Sangue di Cristo, perfino i
nobili
hanno ucciso!”
Di nuovo,
Mercurio Bua aveva ragione. Perfino i soldati
franco-imperiali, solitamente così rumorosi nel loro
gozzovigliante razziare,
non osavano fiatare: coloro che ancora si reggevano in piedi dopo
quella mattina
di sangue si limitavano a rovistare delusi e frustrati tra le macerie e
a
spogliare i cadaveri sia dei marciani che dei propri compagni,
raggranellando
un misero malloppo composto di pezzi d’armatura; scarpe e
guanti; qualche spada
e pugnale; poche monetine e qualche anello.
Non
miglior fortuna ebbe chi invece setacciò gli interni del
Castello: di cibo era rimasto poco o niente; lo stesso per le
munizioni, avendo
dato fondo gli assediati ad ogni arma e giungendo perfino a buttare
giù in
testa le colubrine e i falconetti agli invasori pur di rallentarne
l’avanzata. Nelle stalle giacevano morti i
cavalli, se per lo
scontro o per mano degli stessi difensori di Castelnuovo difficile da
stabilire. Le stanze del castellano piangevano miseria, gli unici pezzi
di
valore – a parte il cassone cogli abiti –
risultavano la sua scrivania di legno
di quercia e le lenzuola del letto. La piccola cappella avrebbe potuto
competere con la Porziuncola delle origini in quanto a spoglia
semplicità, non
trovarono una sola pala rivestita di foglie d’oro, niente
ostensori, turiboli,
calici d’oro, d’argento e ricoperti di pietre
preziose, soltanto un crocifisso
di legno assai dozzinale subito staccato per farne legna. Neppure il
pane e il
vino per l’Eucarestia erano rimasti. Al cappellano, morto,
poterono rubare solo
un piccolo crocifisso d’oro al collo e le scarpe di cuoio
ché il rosario era
fatto con i semi di lacrime di Giobbe, perciò di nessun
valore dunque inutile.
Tanto
scoglionarsi - incominciarono a mormorare tra di loro gli
scontenti soldati la cui lungimiranza tattica si limitava alla paga
mensile e
alla sopravvivenza al giorno successivo- quasi due
giorni di
patimenti per questo in cambio?
Pietre e
cadaveri, era questo il bottino di Castelnuovo di Quero?
“Hé,
Finger weg! Ich
habe ihn zuerst gesehen, er gehört mir!”
Mercurio
Bua, come molti soldati del resto, si girarono
velocemente dinanzi a quel primo scatto di vitalità in mezzo
alla silente
desolazione. Già un piccolo gruppetto di curiosi si era
stretto ai due
contendenti, chi intimando loro di darsi una calmata chi
incoraggiandoli in
quella distrazione assai benvenuta. Un soldato tedesco e uno francese,
i quali
pur non capendo un accidenti di ciò che l’altro
gli stesse urlando dietro, si
contendevano peggio di due bambini capricciosi una misericordia,
incuranti di
come stessero a momenti calpestando il corpo per terra da cui
l’avevano
sottratta. Finché il francese, elargita al tedesco una
violenta gomitata, se lo
scrollò di dosso, intimandogli feroce:
“Pas
de chance, sale
voleur, c’est à moi! Et si tu t’approches avec tes sales mains
allemandes, je vais t’enfoncer ce couteau dans ta foutue gorge ! ”,
gli mulinò contro un lungo coltellaccio e appurato come il
contendente non
avesse intenzione di riprendere la disputa, se ne ritornò
soddisfatto alla
spoliazione della salma.
Aiutato
il compare a rimettersi in piedi, gli altri soldati
tedeschi gli batterono a mo’ di conforto la spalla,
consolandolo: “Passiert.
Nächste Mal.” [1] L’uomo,
massaggiandosi la mandibola dolente, fissò torvo
il francese e Mercurio Bua constatò come
quest’ultimo dovesse incominciare a
guardarsi le spalle d’ora in avanti.
“Hé,
tu!”, richiamò egli l’attenzione del
vincitore della contesa,
una volta dispersosi il gruppetto a spettacolo terminato. “Da
chi l’hai presa
quella misericordia? Da questo qui?”, inquisì,
girando prono col piede il
cadavere, le cui membra apparivano ancora flessuose, avendo magari
tirato le
cuoia da poco o da sé o per mano del francese stesso.
Gli occhi
inquisitori del greco-albanese ne studiarono attenti
l’armatura, troppo elaborata e di buona qualità
per appartenere ad un semplice
fante. Inoltre, per quanto scalfita, non notava affondi letali, tranne
ecco sul
corsaletto ma le budella erano ancora al posto suo, cioè in
pancia e il corpo
non era circondato dall’alone di sangue di chi salta in aria
o dall’alto cade
nel vuoto. Né sentiva il familiare tanfo
d’urina e feci. Cosa poteva aver
dunque provocato la morte?
“Spostati!”,
ordinò perentorio al soldato che, a malincuore,
dovette obbedire al suo superiore, augurandosi in cuor suo che non
volesse
sottrargli il suo bottino. Inginocchiatosi accanto al corpo, Mercurio
trafficò
coi lacci dell’elmo, imprecando a denti stretti per via dei
nodi
attorcigliatisi coi capelli. Eventualmente, riuscì
nell’impresa e l’elmo venne
levato, schiaffandolo il Bua in mano al francese i cui occhi
s’allargarono
cupidi per l’eccellente sua qualità.
Un viso
incrostato di sudore, polvere e sangue gli si parò
innanzi; ciononostante, il greco-albanese ben se lo ricordava,
impossibile dimenticarsi
di quel ragazzo che nella confusione della breccia del bastione di
Codalunga
gli aveva puntato contro la balestra, mancando lui di un dito ma
centrando
appieno il suo cavallo così da farlo cadere in un canaletto
maleodorante. Il suo luogotenente Zilio Madalo lo aveva
letteralmente
dovuto ripescar fuori dalla merda, però almeno Mercurio si
era salvato dal rogo
dei fuochi ardenti. Non aveva mai accarezzato l’ipotesi di
rincontrare quel
giovane in futuro, tantomeno a Castelnuovo di Quero.
Con
inusuale delicatezza gli tastò il capo alla ricerca di
ferite,
roteandolo sul collo: niente, nulla di rotto.
“Beata
ignoranza”, sogghignò compiaciuto, rivolgendosi al
soldato
francese che a momenti gli si appollaiava sulla spalla, pur di non
perdersi un
solo movimento del capitano
greco-albanese. “Sai tu a chi hai appena
rubato questa misericordia? Al reggente di Castelnuovo!”
Portato subito
l’orecchio sopra la bocca dell’altro,
percepì il flebile ma inconfondibile
solleticare del respiro. “Ed è ancora
vivo!”, esclamò deliziato
quanto un bambino il giorno dell’Epifania, afferrando la sua
preda e
caricatasela in spalla con sorprendente facilità, si diresse
all’interno dove
il La Palice stava completando un rapido rapporto da spedire ai suoi
capitani
rimasti al Barco e a Montebelluna.
Dietro a
Mercurio, silenzioso ma tenace alla stregua di un
cagnolino, lo seguiva serrato il soldato francese nella speranza
d’ottenere
comunque quella bella armatura.
Nel
frattanto, il maresciallo aveva inviato tre corrieri: uno a Conegliano
per domandar la sua resa; un altro incontro all’Imperatore
per informarlo della
conquista di Castelnuovo di Quero e il terzo, suo
segretario, per
annunciare all’accampamento di Montebelluna e del Barco del
loro prossimo
ritorno per i rinforzi necessari alla presa di Feltre e
Cividàl di Belluno.
L’uomo seguitava infatti ad arrovellarsi a causa di quella
mancata lettera da
parte del duca di Nemours e voleva rientrare al campo quanto prima,
giusto per
precauzione.
***
Il
salasso invece di migliorare peggiorò la già
compromessa salute
di sier Andrea Griti, al punto che suo fratello sier Polo Malipiero
aveva
scritto a Venezia per il rimpatrio immediato, non appena il
provveditore
generale fosse stato nelle condizioni di viaggiare senza rischi. Il
patrizio
aveva pianto apertamente e senza vergogna quando sier Andrea gli aveva
espresso
il suo desiderio di comunicarsi e ricevere l’estrema unzione,
nonché di
redigere il suo testamento.
Anche il
governatore domino Lucio Malvezzi e l’altro provveditore
sier Christofal Moro facevano gli equilibrismi con la morte e assieme a
loro
purtroppo i soldati e i padovani in
generale, lasciando sier Polo
Capelo ora da solo a comando di una città
pressoché moribonda. Non confortava
apprendere come queste febbri dal padovano incominciassero lentamente
ad
espandersi nelle campagne limitrofe, mietendo vittime senza
pietà. A
peggiorar la situazione, i soldi per le paghe non arrivavano, il
malumore
cresceva e ciò corrispose alla proverbiale ultima goccia che
spinse sier Ferigo
Contarini a persuadere sua madre Ysabela Falier a salire sul primo
burchiello e
portare con sé a Venezia i fratelli minori Marco Antonio e
Regina, nonché
madona Alba Donado (con cui si era riappacificato dopo averle promesso
di
scrivere a Treviso onde persuadere sier Andrea a rispedire Marco a
casa) e il
di lei figlio Francesco.
“Siora
Mare”, si raccomandò il giovane provveditore, dopo
aver
aiutato la genitrice a salire sul burchiello
dall’imbarcadero, “statemi bene,
vi prego di riguardarvi. Pregherò con gran fervore
l’Altissimo, affinché il
viaggio sia tranquillo, arrivando quanto prima a Veniexia.”
La vedeva
tanto curva e patita, la sua povera madre, invecchiata
precocemente. La tragica morte del marito sier Hironimo, avvenuta alla
Vigilia
di Pasqua del 1508, [2] l’aveva piegata nel suo tormento,
ancor più adesso che
i figli rischiavano la vita per la Signoria, soprattutto Ferigo, quel
suo
primogenito sempre tanto brillante quanto irresponsabile della sua
persona, una
fiamma ardente e meravigliosa che lei temeva spegnersi troppo presto da
un
momento all’altro.
“Fate
attenzione, gioia mia. Vi chiedo solo questo”, si
raccomandò, accarezzandogli teneramente la guancia e Ferigo
baciò quella
fragile mano, che tanto nella vita l’aveva protetto e
confortato.
“Mo
via, coss’elo sto muso da coroto, Marco Antonio?”,
si rivolse
poi giovale al fratello minore, più che altro per
allontanarsi dalla madre,
acciocché lei non scorgesse il luccichio umido dei suoi
occhi. “Voi siete
l’uomo di casa, ora: la siora Mare, Alvixe, nostra sorela e fra poco la siora Marina
vostra novizza contano
su di voi.”
Il
giovane uomo alzò il capo, serrando caparbio la bocca onde
mantenere un’espressione stoica. “Promettetemi di
scrivere! Ogni giorno!”,
esigette, deglutendo malamente.
“Promettetemi
di tornar vivo!”, l’abbracciò sua
sorella Regina,
nascondendo il volto sull’incavo della sua spalla e il
provveditore le scoccò
un bacio sul capo coperto dallo zendale, inalando a mo’ di
ricordo il dolce e
sottile profumo di rosa con cui ella soleva imbevere il panno ricamato.
Strinse
forte al petto quella figuretta minuta appena divenuta donna, quella
sorellina
avuta quando lui era ormai quindicenne e quindi riservandole attenzioni
più di
padre che di fratello, guidandola ad ogni passo fino alla
maturità.
“Promettetemelo!”
“Sempre
ritornerò vivo per voi. Non piangete, non desidero
ricordarvi in lacrime”, le disse, asciugandole le gote coi
pollici. Regina su
sua richiesta gli sorrise tremolante, baciandogli la guancia in barba
al decoro
e cingendolo di nuovo forte, cedette e singhiozzò
sommessamente.
All’occhiata
allarmata del fratello, Marco Antonio afferrò Regina
per le spalle, staccandola dolcemente da Ferigo e aiutandola a salire
sul
burchiello, prontamente abbracciata dalla madre, che le
sistemò premurosa il
velo scuro sul volto pallidissimo.
“Calar
i remi in barba!”, gridò all’improvviso
il pope del
burchiello, giunta infine l’ora della partenza.
“Rema!”,
gli risposero in coro i rematori.
“Avanti!”
Rivoltosi
a Francesco “dai Scrigni”, Ferigo gli promise:
“State de
bona voja, amico mio. Iddio m’ascolta, vi
riporterò indietro vostro fradelo
sano e salvo.”
“Prendetevi
cura di voi e non fate strambazzerie: non potremmo
sopportare n’altra desgrazia!”, gli
ricordò Francesco.
Il pope
gridò ancora: “Andèmo! Tira!”
Le facce
contorte dalla fatica iniziale di girare il burchiello
fermo, i rematori intonarono tra uno sbuffo e l’altro:
“Oh … ehi! Oh … ehi! Oh
… ehi!”
Partiti,
infine, rimpicciolendosi gradualmente, pian
piano, scivolando via sulla Brenta fino a Venezia.
Li
avrebbe mai rivisti? Quanto fragile appariva adesso a Ferigo il
battito del suo cuore, la nervosità dei muscoli e la
solidità delle sue ossa.
Doloroso e incerto il respiro, un lusso quasi, pronto a terminare in un
qualsiasi momento. Alberi pronti a spezzarsi al vento, ecco che si era,
in
balìa di forze insormontabili e oscure con cui non si poteva
negoziare,
destinati ad una fine non voluta né evitabile. Ah,
Fra’ Lunardo, tu che
cinque mesi fa cadesti così virilmente in battaglia,
disdegnando la resa pur
essendo in numero inferiore! Dimmi, carissimo e valoroso compagno con
cui
dividemmo le imprese di Concordia e Mirandola, dimmi che si
è provato in quegli
ultimi istanti? A che cosa hai pensato? A quale Dio sei andato
incontro? A
quello dei Veneziani o dei Collegati?
“Messer
Ferigo, vi disturbo?”
Il
giovane provveditore trasalì, sbattendo le ciglia e
strabuzzando gli occhi in modo da asciugare via i rimasugli delle
ultime
lacrime. Sistematosi i guanti e sospirando profondamente, si
voltò verso il suo
interlocutore e lo salutò cordiale, un mezzo sorriso sulle
labbra:
“Affatto
e bentornato, Conte Guido. Quali nuove?”
Il conte
Guido Rangoni ricambiò il saluto, rasserenandosi e
tirando un intimo sospiro di sollievo, ché un poco
l’aveva preoccupato quello
sguardo fisso del Contarini verso l’orizzonte.
Da quando
era rimpatriato da quelle che il patrizio veneziano
stesso definiva “terre aliene” della Romagna,
un’ombra malinconica ogni tanto
velava il suo sguardo vivace e ardente e il Rangoni comprendeva il
sentimento:
la morte del cavaliere di Rodi Fra’ Leonardo da Prato di
Lecce era stata per
tutti un duro colpo e per sier Ferigo in particolare, avendolo stimato
come
collega e maestro. La Serenissima, dal canto suo, perdeva un grande
condottiero
dotato di un carisma talmente trascinante, da persuadere i suoi uomini
a
combattere anche senza paga. Malgrado ciò, tra il conte
Guido e il
gerosolimitano era scorso sangue assai amaro specie dopo
l’incidente l’anno
addietro nel Polesine, cui solo l’intercessione di sier
Andrea Griti aveva salvato
il Rangoni dagli affilati artigli dei Dieci, colpa l'essere il nipote
di
Annibale Bentivoglio e gli anni passati trascorsi al soldo della casa
d’Este.
Eppure, neanche il conte modenese poteva negare
l’inestimabile valore e lo
spirito stratega del cavaliere rodiano, neanche quando, in un momento
d’impazienza, all’ennesimo diverbio gli aveva
sbottato contro un
umiliante: Uagnone, stai bellu carmu! Tu mancu eri
nato, ch’io già
massacravo i Turchi ad Otranto! [3]
Prendendo
il provveditore in disparte sull’imbarcadero, il
Rangoni riassunse quanto appreso dai loro esploratori: “Si
è saputo come il
duca Carlo di Borbone e Giovanni Gonzaga abbiamo raggiunto Vicenza con
400
cavalli e 300 fanti. Potrei sbagliarmi, ma tutta questa fretta
m’induce a pensare
che temano un qualche attacco da parte nostra.”
Sier
Ferigo annuì, pensoso. Dunque, quella vecchia volpe di sier
Andrea Griti non aveva nutrito sospetti così infondati, alla
fine. Il Duca
Charles III de Bourbon e Giovanni Gonzaga avevano fiutato arie di
grandi
manovre da Padova, rendendosi conto di quanto stupidamente si fossero
sbilanciati sulla Marca Trevigiana, lasciando scoperto il vicentino.
Maledizione, che occasione persa!
Una
risata sardonica, cattiva, scappò al provveditore degli
stradioti. “Puoah! E così il Borbone e il Gonzaga
si credono tanto
intelligenti, da potermi leggere i pensieri? Ma sì!
lasciamoglielo credere a
questi bambinetti che giocano alla guerra!”,
esclamò divertito tra sé e sé, due
dita sotto il mento. E rivoltosi al conte Guido con sguardo
furbescamente
malevolo, lo istruì: “Voglio che si sparga la
voce, che il Contarini di San
Cassian sta marciando alla volta di Vicenza per sgozzarli tutti fino
all’ultimo
uomo.”
“A
Vicenza?”
“A
Vicenza.”
“Ma
proprio uguali parole?”
“Sgozzare
o squartare. A banchettare sui loro cadaveri.
A bruciarli come la Vècia al Panevìn [4]! A
regalare all’Illustrissima Marchesa
Isabella d’Este una collana fatta coi denti di suo cognato.
Siete un
conte e avete studiato la lingua, domino Guido, usate la
vostra immaginazione!
Esagerate, tingete di rosso fosco i dettagli! Bisogna impaurirli,
bisogna che
si arrocchino a Vicenza, bisogna che abbiano tanta paura da non osare
uscire
dalla città tranne per inviare i rinforzi da Milano per La
Palice, in attesa di
un attacco che non accadrà mai. Comprendete?”
Il conte
Guido aprì la bocca in un Ah! complice,
realizzando ora a quale conclusione il Contarini voleva che si
giungesse. “E
mentre quelli aspettano, noi invece punteremo o su Bassano, o su
Castelfranco o
su Cittadella.”
“No,
le attaccheremo contemporaneamente; ciò
rallenterà i soccorsi
dei francesi, indecisi e in difficoltà su quale
città delle tre salvare e quale
sacrificare. Imperativo è riconquistare almeno Castelfranco;
certo, la Brenta
come porta a Bassano porta anche a Padova, però Castelfranco
ha i mulini per
macinare le loro farine, senza di essi non avranno di che nutrirsi e il
provveditore sier Zuam Paulo ci ha confermato come i contadini del
Montello
stiano facendo terra bruciata sul cammino dei nemici.”
“Quando
il Borbone e il Gonzaga avranno capito il trucco, noi con
le tre città in pugno fungeremo da muro in mezzo agli
accampamenti di Vicenza,
del Barco e Montebelluna, dove ora si trova il La Palice. Insomma, gli
taglieremo i rifornimenti da ovest.”
“Esatto.”
“Rimane
però il rischio, che quei crapuloni senza fondo dei
tedeschi puntino sulla Patria del Friuli per rifarsi.”
Lo
sguardo del Contarini si rabbuiò di una cupezza
mortale. “A questo mondo, non si
può difendere ogni cosa …”
“Domanderò
al signor Giano di Campofregoso se s’unirà
all’impresa”, cambiò celere discorso il
conte modenese, notando il languore
della malinconia fiaccare la determinazione del patrizio.
“Credete che il
provveditore messer Paolo Cappello approverà il
piano?”
Lanciata
un’ultima occhiata alla linea dell’orizzonte della
Brenta, sier Ferigo si allontanò assieme al conte Guido
Rangoni per discutere
nei dettagli il piano d’attacco, tra cui le parole onde
meglio persuadere il
provveditore generale a benedire la loro impresa.
***
“Zò,
Felipeto, gh’hastu finìo co’ quel
pozzo?”
Il
ragazzino per tutta risposta s’affrettò a buttar
giù nell’acqua
una strana pappetta fatta di fango, escrementi e grano. Il fratellino,
afferrata anch’egli quella poltiglia, gli dava manforte.
“Datte
‘na mossa!”, gli intimò suo nonno Zuane
detto Nane, mentre
sistemava i carichi di farina sul carro e la moglie le gabbie con le
galline, i
conigli e le oche. Le figlie maggiori e le nuore, invece, trascinavano
i maiali
e i rispettivi mariti sistemavano legando ai carri i cavalli e i bovi.
Il
piccolo esercito di nipoti d’ambedue i sessi con
l’aiuto di altri vecchi zii e
cugini trasportavano fagotti di vestiti, coperte e lenzuola e oggetti
di valore
in un frenetico viavai. “Svelti, svelti!”,
ribadì il capofamiglia.
Terminato
coi sacchi, il contadino afferrò il cadavere del cane da
caccia che suo figlio Titta aveva con gran maestria centrato in pieno
col suo
arco, prima che potesse ululare la loro presenza ai saccomanni venuti
in
esplorazione. Un trucco infame che i contadini del Montello stavano
imparando a
loro spese: compreso infatti quanto fossero o ben nascosti nel bosco o
semplicemente per evitare di vagare a vuoto in esso, i francesi avevano
addestrato dei cani per scovare i fuggitivi e soprattutto le loro
scorte di
cibo e gli animali da fattoria per farne bottino.
“Toh,
qua stai, coi toi patroni!”, grugnì il contadino,
gettando
in un altro pozzo il cane assieme ai cadaveri nudi dei nove francesi
tanto
stolti da pensare di venir a rubargli la roba e sopravvivere.
D’altronde,
quelle terre erano state la casa sua e dei suoi avi da che
mo’ e l’uomo
riconosceva ogni loro rumore, ormai. Ovvio che, in seguito
all’uccisione del
cane e all’udir lo scalpiccio di cavalli, Nane avesse
mobilitato tutti gli
uomini di casa e così armati di arco, frecce, una picca di
fortuna e occhi di
gatto che ben vedevano al buio, essi s’erano posti a difesa
della loro fattoria
e delle loro donne e siccome Dio e la Madonna l’avevano
benedetto con bravi
figlioli e altrettanto bravi generi, manco i signori durante le battute
di
caccia all’airone ne avevano impallinati in così
gran numero come loro coi
francesi! Un giovane soldato veneziano a cavallo li era venuto poi
inaspettatamente in aiuto, fiocinandoli con la sua balestra alle spalle.
Uno di
questi francesi, però, Nane l’aveva risparmiato e
non per
cristiana carità, bensì perché pareva
il miglior vestito e dunque se lo
portavano a Treviso per farlo esaminare, magari il provveditore
Gradenigo li
avrebbe ricompensati con un bel po’ di ducati,
rimpinguando la già
soddisfacente somma che il contadino avrebbe sicuramente raggranellato
coi
cavalli dei saccomanni. Aveva quindi strabuzzato gli occhi tra lo
stupito e il
goloso non appena il giovane soldato, ghermito il prigioniero per i
capelli e
costringendolo a piegare all’indietro il collo per meglio
osservarlo, aveva
esclamato ringhiando: “Ma mi lo cognosso sto baron!
(farabutto, ndr.) Xélo on
canzelier dil la Peliza! Lo gho ben visto a Castel Novo de Quer!
Puòh!”e gli
sputò in faccia, usando molto catarro.
Pertanto,
Nane aveva lasciato il francese alle cure di sua moglie
Oria, la quale l’aveva pestato come un
materasso al cambio di
stagione, dopodiché con l’aiuto delle figlie gli
avevano legato le braccia
dietro una barra di legno a sua volta dietro la schiena, sistemandogli
a mo’ di
collare la medesima corda riservata ai bovi. Spintonato sul
carro tra gli
animali, la testa del francese penzolava inerte in avanti,
l’uomo ancor
stordito e la faccia gonfia dall’ultima randellata della
contadina col
batocchio da polenta, reo di averle implorato diosacché
nella sua lingua, cui
la donna aveva replicato latrando: “Tasi, bestia!”
e via botte da orbi.
Magre
vittorie, ché ormai la loro pace era compromessa.
Già,
infatti, ringraziavano la Madonna per averla scampata per due anni
– alcuni
loro amici di tale fortuna non si erano giovati – adesso
bisognava arrendersi
all’evidenza e cioè che altri saccomanni o
stradioti o franco-imperiali non
avrebbero tardato a trovare la strada per la sua fattoria, magari in
numero ben
superiore dei temerari della notte scorsa. Cosa sarebbe accaduto
allora?
Morire, muoiono tutti prima o poi se per vecchiaia, malattia o un
nocciolo
andato di traverso. Ma non sgozzato come un porco a San Giovanni mentre
gli violentavano
la moglie, le figlie, le nuore e pure le nipotine e tagliavano a pezzi
i figli,
i generi, i nipotini anche in culla. No! Nane il contadino nulla aveva
commesso
di male a questo mondo per meritarsi tal sorte, manco fosse un
criminale da
decollare e squartare tra le colonne di San Marco e San Todero! [5]
Dai
carri, l’intera sua famiglia di tre generazioni osservava a
lavoro completato il capofamiglia in attesa di ulteriori istruzioni,
tutti
tranne la più piccola delle sue figlie, Màlgari,
che si stava accomiatando
dogliosa dal giovane soldato che li aveva sia aiutati a difendersi sia
li aveva
avvertiti di molto probabili e ulteriori scorrerie nel Montello, visto
che
Castelnuovo era stata cinta d’assedio. Il ragazzo, Cabriel,
s’accingeva ora a
ripartire alla volta di Treviso sia per via di un messaggio che doveva
consegnare al provveditore sier Gradenigo sia per quella lettera appena
rubata
al francese, ma dall’espressione infelice e il rossore alle
orecchie dovute
alle carezze alla nuca da parte di sua figlia, Nane appurò
come entro la fine
della prossima primavera sarebbe divenuto nonno per
l’ennesima
volta. Anche nella devastazione più totale, la
forza prorompente della
natura riusciva lo stesso a trovare ogni forma di sbocco pur di
rigenerarsi. E
poi, prima della guerra, quel giovane era ceramista, prospettiva non
disprezzabile per la sua Màlgari, la più bella
delle sue figlie.
“Sior
pare, xé tutto pronto …”, gli
annunciò suo figlio.
Nane
annuì gravemente e Titta accese la torcia tenuta da
Felipeto.
Con aria solenne, il contadino si diresse alla sua fattoria, costruita
dai suoi
avi prima ancora che Treviso e la sua Marca si dessero a Venezia, fonte
sia di
sostentamento per la sua famiglia sia di vanto
giacché roba
veramente sua. Quante generazioni vi avevano sudato! Quanti sacrifici
per
poterla mantenere a discapito degli alti e bassi della vita!
“Non
fifar, nezzo mio”, consolò il ragazzino, malgrado
anche i
suoi di occhi fossero umidi di lacrime. “Semo ancor omeni
liberi e liberamente
decidemo cossa far de la nostra roba. Della pietade de’
ladri, non xé da
fidarsi. O c’amazano o ci risparmiano ma la boaria non
sarà pì nostra, ma de
Muso-da-Baila [6] e nui a laorar da s-ciavi pel patron che ci
darà. No! Mi sun
un poaro villan, perhò a servir todeschi non
m’abbasso!”
E detto
questo, lanciò la torcia e la fattoria prese lentamente
fuoco.
“E
vedarem, cossa i manzeran e i berran sti barbari, co le boarie
e i molini bruzai e i pozzi avvelenai!”
A
giudicare dai fumi neri che si levavano dal Montello, Nane il contadino
non doveva esser stato l’unico ad aver seguito tal
ragionamento. Lungo la
strada conducente a Treviso a fine giornata si contarono almeno sedici
mulini
incendiati più fattorie e campi e innumerevoli pozzi
inquinati e vasche idriche
prosciugate.
***
Non
sussiste a questo mondo nulla di peggio quando chi ti fa
prigioniero in un certo qualmodo si ricorda di te e tu non di lui e non
solo
per motivi di passate beghe e vendette da servire fredde; no, basta
solo che
questi si ricordi chi tu sia e di chi tu sia figlio per rovinarti
l’esistenza.
Un
validissimo esempio poteva fornirlo il marchese di Mantova,
Francesco Gonzaga.
Era
l’agosto del 1509. Mentre il Marchese dormiva beatamente
ignaro in un casolare ad Isola della Scala, vi si erano intrufolati
dentro silenziosi
come anguille un gruppetto di contadini armati fino ai denti e venuti
allo
scopo di derubare nel sonno i soldati francesi e mantovani. Tra questi
militava
tal Domenego di Vinturin dal Termeno al Marchese assolutamente
sconosciuto, ma
se i grandi di questa terra non tengono da conto i piccoli,
quest’ultimi nei
loro confronti posseggono una memoria di ferro e non sempre nutrita
d’affetto e
Domenego il contadino ben si sovveniva della faccia di Francesco
Gonzaga,
giacché costretto di malavoglia a servirlo a Verona.
Riconosciuta dunque la sua
preda, il giovane villano si era gettato addosso al Marchese,
afferrandolo per
la manica della camicia e trascinandolo di peso dentro visto che
l’uomo stava
tentando la fuga dalla finestra del casolare. Alla proposta di comprare
il suo
silenzio con 6000 ducati, Domenego gli aveva risposto sprezzante:
“Vi vojo dar
in man di la Signoria” e assieme ai suoi compari lo aveva
condotto a Padova
come un bove alla fiera, da dove poi il Marchese venne trasferito a
Venezia alla
Torresella. Missier el Doxe Lunardo Loredan, sier Hironimo Querini
Capo dei
Dieci e gli altri tre consiglieri sier Alvixe Capelo, sier Hironimo Contarini e suo zio sier Batista Morexini avevano ricevuto di persona e con l’affetto riservato
ai figlioli i
quattro contadini artefici di quella miracolosa quanto farsesca
cattura,
istruendo che al loro capo Domenego fosse assegnata una rendita annuale
di 100
ducati più altri 100 di dote per sua sorella; agli altri tre
una rendita di 50
ducati all’anno. Infine, cadauno se ne tornò a
casa con altri 20 ducati a testa
per le spese immediate e pure degli abiti nuovi, giacché
s’erano presentati a
Palazzo Ducale davanti alle massime autorità della
Serenissima in camicia,
brache e babbucce.
Hironimo
Miani, rientrato nella sua casa di San Vidal, non avrebbe
mai scordato l’arrivo da Padova di Francesco Gonzaga, con
Lizza Fusina talmente
ostruita di barche, che pareva un ponte. Tutta Venezia aveva atteso in
febbrile
eccitazione il fu eroe di Fornovo, un tempo beneamato figliolo ora
Giuda
Iscariota e non c’era stata una finestra, un imbarcadero, una
riva, un ponte
che non fosse stato gremito di persone lì anche solo per
scorgere per un
istante il Marchese prigioniero. Marco, Marco,
vitoria, vitoria, apicha
el traditor, sorze in cotègo! Turco preso! e
gridavano come ossessi,
oscillando pericolosamente tra ilarità derisoria e ferocia
omicida, al punto
che la scorta del Gonzaga ebbe non poche difficoltà
nell’attraversare Piazza
San Marco, temendo infatti che le guardie o per mancanza
d’energie o perché in
combutta fallissero a contenere la folla impazzita, pronta a maciullare
a mani
nude il Marchese, le donne in prima fila avendogliela giurata per la
morte o la
cattura dei loro uomini.
Il
giovane patrizio aveva assistito basito a come i suoi
concittadini avessero fatto a gara per riuscir a centrare cogli sputi
il
Marchese o peggio ancora coi pitali, con immondizia, con fango o
qualsiasi cosa
li capitasse sottomano. Perfino dai conventi si sentivano certe
ingiurie da far
rabbrividire. D’accordo, Francesco Gonzaga era un infame
traditore e pure un
vigliacco, ma non avrebbe meritato forse un trattamento un
po’ più dignitoso,
magari evitando la parata per i canali come riservato ai malviventi?
Ma i suoi
erano pensieri di un ragazzo ancora ingenuo e sobrio da
una vera e propria vittoria militare. Hironimo avrebbe compreso infatti
il dionisiaco
potere provato dal vincitore sullo sconfitto a Padova
l’autunno del medesimo
anno, dopo aver umiliato i Collegati in un assedio che aveva tenuto col
fiato
sospeso tutta Europa, per decidere se la Serenissima sarebbe
divenuta o
meno un ricordo come la Roma degli Antichi. Trascorse due settimane a
tagliar a
pezzi e bruciar vivi senza sosta tedeschi, francesi, spagnoli,
ferraresi,
papalini e chiunque altro gli si era parato innanzi, il giovane Miani
aveva
perduto pezzo per pezzo ogni sua nozione del codice cavalleresco di cui
era
stato infarcito fin
dall’infanzia, arrivando a cantare a
squarciagola
coi suoi compagni mentre impiccavano sui bastioni di Padova gli
ufficiali
prigionieri tedeschi, affinché li vedesse bene da lontano
l’Imperatore in
fuga.
Gi
è partù quei slançeman!
Allegronse
tutti, friegi,
al
dispetto di ribiegi,
ch’i
se dié magnar le man.
Gi
è partù quei slançeman.
Oh,
gi ha havù el bel honore,
quella
zente della Magna,
digo
ben, l’imperaore,
Franza,
Frara, Roma e Spagna.
I
ha habù el cancaro ch’i magna
A
vegnire sul Pavan.
Se non
fosse stato per la presa alla collottola da parte di un
indignato Lucha, Hironimo avrebbe imitato coloro che, non paghi di
veder
scalciare nel vuoto i moribondi, avevano preso a gettar loro escrementi
e li
ingiuriavano: “Te volevi un toco de Padoa? Togalo, porco
d’on todesco, togalo,
muso-de-merda!” e ancora a cantare a squarciagola:
“Su,
Todeschi onti e bisonti
Su,
su, su, for de la paja;
Voi mai
più passate i monti
Se
verete
a dar bataja;
Vostre
arme poco taja
Se la
faza
v'è mostrata
Su, su,
su!”
La
prospettiva di poter un giorno finire prigioniero non aveva mai
sfiorato Hironimo, più rassegnato a quella della morte.
Eppure eccolo lì, nelle
stinche della suo stessa fortezza con un dolore lancinante alla testa e
al
fianco, più una nausea montante a serrargli la gola.
L’ultimo ricordo prima del
buio pece dell’incoscienza corrispondeva al colpo infertogli
a tradimento al
corsaletto, che l’aveva costretto a voltarsi e decollare
indignato il suo
avversario, imprecando: “Maladeto can
d’un todesco, toga qua!” ma
così facendo s’era sbilanciato e scoperto. Se il
suo nuovo avversario nella
smania di ammazzarlo non fosse inciampato su di un cadavere e di
conseguenza
rotolati assieme giù per le scale, hé, al posto
di ritrovarsi un bel bernoccolo
in testa, Hironimo avrebbe piuttosto rimediato un cranio aperto in due,
altroché.
Poi il
niente fino al suo risveglio in cella e senza la sua
armatura, con solo indosso la camicia, peggio dei contadini.
Messosi a
carponi, Hironimo cedette e vomitò anche l’anima,
reggendosi la testa che gli martellava.
Il tocco
leggerissimo di due manine gli levarono dal volto i
capelli sudati, per poi massaggiargli delicatamente la schiena.
Girandosi di
scatto, nella penombra il giovane Miani scorse Thomà,
anch’egli assai
malridotto, lo zigomo gonfio e un occhio pesto.
“Come
sei riuscito a scamparla?”, gli domandò incredulo;
teoricamente, non potendo tenere un’arma in mano, sarebbe
dovuto esser stato
tra i primi caduti nello scontro.
“El
reverendissimo sior cappellano, patron. El gaveva 8 ducati
co’
lu e i g’ha dati via per no degolarmi, perché
m’gero rifugià in la capela,
perhò i todeschi lo coparon uguale perché nol
gaveva danari per salvar se
stesso”, gli spiegò il bambino, tirando su col
naso e la voce che gli tremava
dal groppo in gola.
Pah,
tipico di quegli avidi agire così.
“Chi altro s’è
salvato?”
“Ch’jo
sapia, i capetanij Doglioni e Colle.”
“Dove
xéli?”
“Li
tragharon fora per examilarli e par razonar sora la taja. Vuj
anchor dormavate.”
Ovvio,
per il riscatto. Medesima sorte l’aveva sperimentata Lucha,
ma quali sarebbero state per loro le dinamiche? Soldi o scambio di
prigionieri?
Inoltre, quanto tempo avrebbero dovuto aspettare? Suo fratello era
stato
prigioniero per ben quattro mesi, un’eternità
quasi … O, ipotesi tremenda, se
l’avessero mai voluto scambiare com’era successo
col D’Alviano, ancora
prigioniero in Francia. Ma no! Figurarsi se lui valeva quanto il loro
condottiero!
Puntellandosi
sui gomiti, Hironimo strisciò fino alla parete,
appoggiandovisi con la schiena e il capo, la bocca serrata stretta in
modo da
impedire ulteriore vomito di fuoriuscire. Maledizione, neanche i
dopo-sbornia
del Carlevar gli avevano scombussolato così tanto lo stomaco!
Plock
… plock … plock …
Una
goccia gli cadde sulla scollatura della camicia, facendolo
sobbalzare per il gelo, seguita da un’altra e
un’altra ancora. Spostandosi,
Hironimo appurò trattarsi dell’acqua piovana che
s’infiltrava tra le grate
delle stinche, unita alla naturale umidità dei sotterranei
scavati accanto alla
Piave, il cui energico flusso riecheggiava simile ad un lugubre e sordo
rullo
di tamburo. Dunque ancora pioveva.
Plock
… plock … plock …, senza il suo corpo ad attutirne il
rumore, le gocce rimbombavano ora nella cella, amplificate
dall’oscurità e
martellando di conseguenza il cranio del giovane patrizio il quale,
esasperato,
batté la testa contro il muro tra il ringhio frustrato suo e
il gridolino
scioccato del bambino, che lo fissava come se avesse perduto il lume
della
ragione.
E magari
ciò corrispondeva al vero.
Idiota,
idiota, mille volte idiota, cosa aveva pensato di ottenere
col suo ingenuo patriottismo, se non un bagno di sangue? Quei poveri
disgraziati, li aveva ognuno sulla sua coscienza, tutta colpa sua,
idiota,
idiota, coglione orgoglioso a sacrificarli come agnelli pasquali per
una causa
persa in partenza mentre lui, il più stupido e inutile dei
comandanti, ancora
seguitava a vivere! Avrebbero potuto riparare a Feltre o a
Cividàl di Belluno come
quei fottuti bastardi dei Arimondi e Bataja e lì organizzare
la controffensiva,
invece d’ostinarsi a tenere quelle misere quattro pietre che
tanto erano lo
stesso state conquistate!
E Menego,
il leale servitore che l’aveva visto nascere … I
suoi
figli Trovaso e Vico! E Nadalin, neppure ventenne … compagni
di giochi, con cui
aveva condiviso i pomeriggi sulle ginocchia dell’Orsolina
… … Morti, uccisi per
colpa sua, non avrebbe mai potuto rimediare a quel torto …
Li aveva sottratti
dalla sicurezza di Venezia … Li aveva privati di ogni futuro
… Aveva ripagato
la loro fedeltà con la morte … Orsolina, Eudokia
Zanetta glieli avevano
affidati e lui … e lui … Inutile! Incompetente!
Stupido, stupido, stupido!
“Patron,
molighe! (smettetela, ndr.) Ve spacaré ea testa!”,
lo
strattonò per la manica Thomà nel tentativo di
distoglierlo da quell’autoflagellazione.
“Gera el nuostro deber custodir ea fortaleza, gavé
fato el vuostro deber! Niun
vi rimprovera gnente!”
“Perché
non è rimasto nessuno per farlo! Cospeto e tacca
via!”,
gridò Hironimo e appoggiò la fronte sulle
ginocchia portate al petto.
Calò
il silenzio, rotto dal solito Plock …
plock … plock …
“Mi
dispiace per tuo fradelo Andrea Trepin.”
Thomà
si morse imbarazzato il labbro già di suo gonfio, forse da
un manrovescio per indurlo a smettere di frignare dalla paura.
“Patron, horra
ch’el Andrea xé morto, ve lo digo sença
timor: el no gera mi fradelo.”
Il
giovane Miani girò di scatto la testa, chiudendo gli occhi
per
le repentini vertigini provocate da quel gesto inconsulto.
“Cosa?”
“El
sior mio pare e la mia siora mare i xéi volai in Cielo
presso
la Nostra Dona, cortesia de li todeschi, cussì chome i mii
veri fradeli e
sorele. Per on anno, me sun ranzato, niun ne volea saver de mi, poaro
orfano,
una bocha in pì da sfamar. Ma el Andrea l’gera un
bonomo e un bon christiano, cussì
com’el sior sòo par Vitor. El me g’ha
dito: Aver ti visin no me fa ni
pì richo ni pì poaro, ma un fradelo piccinin
xé senpre ‘na bea cossa d’aver.
E cussì la xé andà e mi sun zonto qua,
chome soo assistente per smissiar la
polvere da sparo.”
Un comandante
invero competente era stato, abbindolato
perfino dai propri bombardieri e i loro mocciosi appresso!
“Seu
arabià, sior patron?”
“Cosa
cambierebbe se lo fossi?”
“Donca,
sonjo libero de dirve n’altra cossa?”
“Se
proprio no te pol star zitto”, sospirò stancamente
Hironimo,
nettandosi gli angoli della bocca col dorso della mano.
“Me
facevate assa’ paura, senpre a criar pèzo
d’on matto e co tal
muso da gorgon, parevate voler trasformare gli omeni en
piere!”
Silenzio.
“Thomà?”
“Comandeu,
patron?”
“Tasi!”
In
quell’istante s’aprì la botola della
cella e sia Hironimo che
Thomà vennero issati su assai malamente, manco quei balordi
di soldati avessero
avuto intenzione di staccarli le braccia. Li
spintonarono fuori in
direzione del cortile interno, là dove li attendevano La
Palice già a cavallo e
i suoi uomini pronti a partire. Paulo Doglioni e Christofal Colle si
trovavano
lì, anche loro spogliati fino alla camicia, frastornati e
coi segni delle
percosse ben visibili. Li avevano legati le mani con corde strette ai
carri,
così da trascinarseli via al campo di Montebelluna; dunque,
cogitò Hironimo, là
sarebbe avvenuto lo scambio o il pagamento del riscatto. Non scorse
invece
Vittore del Pozzo, sicché ne dedusse esser riuscito a
riparare con la sua
compagnia o a Feltre o a Cividal di Belluno.
Malgrado
la luce livida di una giornata oscurata dalla pioggia,
essa ferì ugualmente gli occhi del patrizio e del bambino
oramai abituati
all’oscurità della cella; nondimeno, gradirono
assai l’aria pura e fresca,
sebbene per qualche istante. Passato infatti il piacevole
scombussolamento di
uscire all’aperto, esso venne rimpiazzato
dall’orrore di ciò che li circondava,
una volta guardatisi più attentamente attorno: cadaveri nudi
e lividi,
ammassati in pile manco cataste di legna per l’inverno era
quanto rimasto della
guarnigione di Castelnuovo di Quero. Riconoscendo tra di essi Andrea il
bombardiere, Thomà nascose di scatto il volto contro
l’anca di Girolamo,
piangendo sommessamente, le spalle minute sconquassate dai singhiozzi.
Senza
rendersene conto, il giovane castellano gli appoggiò la mano
sulla testa a mo’
di consolazione, fissando ipnotizzato quel grottesco spettacolo.
Percepì
lacrime salate colarli nella bocca, quando individuò,
rigidi in un’ultima angosciosa smorfia, i volti di Trovaso e
Nadalin,
semi-seppelliti in quel groviglio violaceo di corpi.
“Vi
avevo avvertito, monseigneur le châtelain ,
che avremmo fatto preda di voi, se aveste perseguito nella vostra
insensata
difesa”, gli ricordò il maresciallo francese col
medesimo tono di un padre che
redarguisce un figlio discolo. “Eccone la prova!” e
indicò i soldati marciani
trucidati.
Hironimo
digrignò i denti, replicandogli sferzante: “Se
intendente prova d’esser
degli animali, mi trovate molto
d’accordo.”
“Anche
nella sconfitta ci riservate solo insolenza?”
“Fin
troppa cortesia per voi barbari.”
La Palice
scosse il capo. “Legateli assieme agli altri. On
returne au champ de Montebelluna!”.
Ma prima
che i soldati potessero avvicinarsi a loro, un iroso
ruggito fendette l’aria, riecheggiando per il cortile interno
alla stregua di
un rombo di cannone. “Pas si vite! Al
tempo!” e girandosi videro
Mercurio Bua avanzare a grosse falcate verso il maresciallo francese,
gli occhi
iniettati di sangue e livido in volto.
“Avevamo
un patto, monseigneur de La Palice!”
“Vi
lascio presidiare questo Castello fino all’arrivo
dell’Imperatore, non gradite l’onore?”,
replicò sbrigativamente l’interessato
in questione, più che altro per evitare scenate dinanzi ai
soldati.
Il
comandante greco-albanese, invece, pareva di diverso avviso,
ché insistette: “Mi ci sciacquo il gargarozzo coi
vostri onori. Anzi, è grazie
ad essi, se siamo rimasti senza bottino e senza cibo, padroni di un
cimitero!”
“E
che mi dite delle scorrerie dei vostri uomini? Non portano
vettovaglie rubate ai contadini?”
“Appena
per sfamarci qualche giorno e quando i miei uomini
riescono a ritornare vivi e in un sol pezzo, ben inteso. Tra gli
stradioti
marciani e i contadini, non si sa chi si diverta di più a
maciullarli!”
“Poche
storie, capitaine Bua, è deciso: fino all’arrivo
dell’Imperatore, rimarrete qui!”
“Malakas”,
imprecò sottovoce l’uomo e meno male che La Palice
non comprendeva la sua lingua, altrimenti non avrebbe di sicuro gradito
il
complimento rivoltogli. “Non verrà, ve
l’assicuro!”
Un
agitato mormorio si diffuse tra i soldati. Come sarebbe a dire
che il Re dei Romani, garanzia di sostentamento e per il quale stavano
rischiando notte e dì la pelle, non
sarebbe venuto?
La Palice
percepì quel montante disagio e decise di porvi
immediatamente rimedio, evitando che sfociasse in disordini.
“Dubitate
dell’augusta e sacra parola
dell’Imperatore?”, sfidò egli
apertamente il
condottiero greco-albanese a contraddirlo, domanda ostica da rispondere
lì
davanti a tutti, senza rischiare un’accusa di sedizione.
Soddisfatto del
silenzio rancoroso di quel satanasso, l’uomo
impartì di nuovo l’ordine di
mettersi in marcia.
Sennonché,
all’ultimo, Mercurio Bua berciò ai suoi uomini:
“Tani!”
e in un lampo, Hironimo avvertì qualcosa stringerlo al collo
e trascinarlo
indietro mentre Thomà gli si aggrappava
nell’inutile tentativo di trattenerlo,
finendo invece per venire anch’egli trascinato via
dall’greco-albanese, subito
circondato dai suoi stradioti con le spade e le balestre puntate contro
i
disorientati soldati franco-imperiali. Zilio Madalo recise le corde di
Paulo
Doglioni e Christofal Colle, spintonando anche loro nel quadrato
improvvisato.
“Che
significa questo, monseigneur?”, gridò indignato e
confuso La
Palice da tanta sfacciataggine.
“Una
volta espugnato Castelnuovo, potrete appropriarvi di
qualsiasi cosa vi sia di gradimento al suo interno”,
gli ricordò verbatim
il condottiero la promessa del giorno precedente. “Ebbene,
questi qua” e
accennò col capo sia i capitani bellunesi sia un Hironimo
sempre più paonazzo
in volto per l’incapacità di respirare a causa
della stretta al collo, “si
trovavano all’interno del
Castello e sono assai
di mio gradimento.
Me li sono più che guadagnati! Se non
fosse stato per il sottoscritto, a quest’ora ce ne
stavamo stupidamente a
farci impallinare alla stregua di anatre! Non ho quindi il diritto di
reclamare
il bottino promessomi? O”, e qui il suo ghigno
s’allargò diabolicamente, “il
maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice è uno
spergiuro, che non mantiene
i patti? Questo dovrò riferire al Roi de France
Louis?”
Anima
semplice, aveva affermato il comandante francese? Anima da
forzato, di uno stramaledetto pendaglio da forca dalla lingua lunga,
ecco cos’era
quell’uomo!
“Tre
giorni, capitano Bua”, cedette infine La Palice, non
desiderando minata la sua autorità dinanzi ai soldati:
adesso capiva come mai,
tra tutti i capitani insoddisfatti e senza paga, l’unico a
riuscire a far
valere le sue ragioni dinanzi allo stesso Re dei Romani fosse stato
proprio
Mercurio Bua, costringendo il Cesare Augusto a piegarsi ed esaudire
ogni suo
capriccio. “Tre giorni rimarrete qui in attesa
dell’Imperatore. Se al
terzo non si presenta né ricevete conferma del suo arrivo,
potrete rientrare al
campo. Ovviamente, se riuscirete a tenere la fortezza in ordine fino ad
allora.”
La morsa
al pezzo di corda al collo di Hironimo s’allentò e
il
giovane boccheggiò aria, tastandosi di riflesso la carne
martoriata. “La vostra
ragionevolezza mi consola, monseigneur”, convenne soddisfatto
il
greco-albanese, esibendosi in un beffardo inchino deferente.
Il
maresciallo La Palice gli scoccò un’ultima
occhiata nauseata e
le truppe si misero in marcia.
Finito di
osservare sornione l’esercito che si allontanava dal
Castello, mormorando tra sé e sé Mercurio Bua
commentò: “E pensare che stavo
per essere sconfitto da un bambinetto come te … Di
nuovo”, cogitava ad alta
voce, notando come Hironimo ancora tossisse, il collo segnato da
chiazze scure.
Avvicinatoglisi, seguitò incautamente:
“Chissà poi com’hai ottenuto
quest’incarico … hai forse pianto
dall’avuncolo? O con quei begli occhi neri
hai sedotto qualcuno in Senato?”
Al che il
giovane Miani cessò di tossire e giratosi lentamente
verso di lui, lo fissò con tale odio da crocifiggerlo per
poi esprimere la sua
modesta opinione a riguardo in greco corrente: “Lo vuoi un
consiglio, keratas?
Cagati in mano e prenditi a schiaffi!”, gracchiò.
Un pugno
allo stomaco lo zittì, forzandolo a carponi.
“Dunque
sul serio, non ti ricordi di me a Padova?”
Ansimando,
il patrizio replicò: “Una faccia da turco come la
tua?
Avrei avuto gli incubi a ricordarmela!”
L’espressione
del Bua si trasformò in un qualcosa di mostruoso.
“Oh, li avrai gli incubi”,
l’assicurò, ordinando ai suoi uomini di rigettarlo
nei sotterranei. Siccome poi, si sentiva d’umor
particolarmente dispettoso, gli
fece gettar addosso una secchiata d’acqua gelida della Piave,
ridendo
sguaiatamente all’urlo acuto di protesta sia di Hironimo che
di Thomà, colpito
suo malgrado dalla fredda cascata.
“Avanti,
un’altra!”, gridò giulivo il capitano
tra le grasse
risate degli stradioti. “Che Sua Signoria si netti un poco la
lingua!”
***
“Me
maraveggio ch’el abbia uto tanto muso da mostrarsi qui a
Trevixo!”
“Non
solo g’ha abbandonà Castel Novo, ma pur
Cividàl de Belluno!”
“Pajàzo!
Canàja! Pendajo da forcha! Meriterebbe l’oggio
bollente!”
“No!
Le tenaglie!”
“Ma
perché el sier Provedador no g’ha dato orden de
farlo
apichar?”
“In
tempi de carestia, ogni omo xé utile ancha co nol
g’ha
cogiòni!”
“Aveu
visto con che muso el sier Marco Miani lo varda? Par
volerselo manzar vivo!”
“Burlestu?”
(scherzi, ndr.)
“El
Batagin Bataja g’ha abbandonà so fradelo, il quale
gera el
castelan de Quer!”
“Dasseno?”
(davvero?, ndr.)
“No!”
“Oh
sì! El magnifico sier provedador Zuam Paulo g’ha
affidato
apposta quel caga-in-braghesse dil Bataja a la supervision dil sier
Marco,
perché lu lo scruterà assa’
attentamente, nella speransa ch’el scampoli cussì
da cavarse el piazer de coparlo de propria man con la scusa di
diserzione!”
“Pulito!”
“An,
ecco perché el g’ha senpre ea man a la spada e gli
oci tacai
a la soa schiena.”
“Silenzio
là, banda di comari pettegole!”,
rimbeccò Lorenzo “Renzo”
Orsini degli Anguillara di Ceri quel gruppetto a suo gusto un
po’ troppo
chiacchierone, supervisionando intanto i lavori di
pulizia dalle
macerie della case abbattute lungo le mura. Non appena si
girò dalla parte
opposta, gli venne elargito un bel segno sconcio che provocò
l’ilarità degli
altri civili per poi chetarsi subito, quando il capitano delle
fanterie,
attirato dalle risate, si focalizzò di nuovo su di loro.
Onde
velocizzare i lavori di fortificazione delle mura e della
città già incominciati due addietro su progetto
di Fra' Giocondo da Verona, il
provveditore Zuam Paulo Gradenigo aveva emanato l’ordine che
ogni trevigiano –
sia laico che religioso – dovesse contribuire allo
smantellamento degli edifici
e smaltimento dei detriti. Infatti, per far fronte alle tensioni tra i
soldati
e i civili e soprattutto alla fiumana di fuggitivi dalle campagne che
si
riversava ogni giorno incontrollata in città, il
Provveditore e il Consiglio
Cittadino avevano convenuto come nessuno a Treviso dovesse stare con le
mani in
mano a poltrire; anche i rifugiati, se abili e in salute, al meglio
delle loro
possibilità e competenze col proprio lavoro dovevano
ripagare la protezione, il
pane e il vino offertoli da Treviso. Essendo la maggior parte
di essi dei
braccianti, con tale incarico ci andavano a nozze, fornendo un prezioso
aiuto.
Fin qui
dunque tutto bene, malgrado la pioggia battente che
proprio non voleva smettere di cadere e impacciava di conseguenza i
movimenti.
Abbandonate dunque la berretta, la veste e il farsetto in mano alle
loro donne,
(tutte schierate sotto i portici, le braccia incrociate sotto gli
zendali) i
trevigiani si erano messi a lavorare nel fango più fradici e
sporchi di quando
la Melma straripava e allora dovevano andare a rovistare e liberare le
zone
allagate. Anche i monaci si erano rimboccati le maniche, onorando
l’antichissimo ora et labora.
Tuttavia,
quando avevano visto arrivare il Batagin Bataja e i suoi
uomini assieme a sier Marco Miani (questi con una faccia da Gorgone
Medusa),
ecco che la bile aveva incominciato a ribollire, non gradendo dover
faticare
accanto a quei vigliacchi e all’occasione, quando
l’Orsini non guardava, ne
approfittavano per lanciar loro qualche manciata di fango addosso.
A
peggiorare le cose, dopo il campanile si era annunciato
l’imminente abbattimento del monastero di Santa Maria
Maggiore e ai trevigiani
era venuto un colpo, soprattutto essendo in pena per la sorte dei
Canonici
Regolari di San Salvatore, loro custodi. Al priore Fra’
Hironimo Francesco Bono
e i suoi confratelli non era rimasto altra protesta, se non quella di
piangere
e recitare rosari, mentre il loro amatissimo santuario veniva demolito
pezzo
per pezzo, manco fossero ritornati gli Ungari [7].
“Spero
solo che lassino star la capela di la Devotissima, la qual
senpre g’ha difeso Trevixo da li nemici”,
confessò a fine giornata Donado
Cimavin a Marco Contarini “dai Scrigni”, mentre si
dirigevano a casa del primo
poco distante dalla chiesa di San Francesco.
Il
giovane patrizio annuì distrattamente, più
impegnato a
scostarsi col polso alcune ciocche biondo-rossicce dalla fronte e a
guardarsi
infelice le mani doloranti e sanguinanti dalle vesciche pur avendo
lavorato coi
guanti, rimpiangendo quel suo colpo di testa di voler aiutare i soldati
e i
civili “volontari”. D’altronde, aveva
provato un bisogno matto di sfogarsi
contro i mattoni, non avendo potuto prendere a picconate la faccia del
Bataja.
Al convegno a Palazzo dei Trecento, dinanzi alla pesante accusa
d’aver mancato
alla parola d’onore data ad Hironimo Miani, ossia di venirlo
a prelevare in
caso di pericolo, ecco che il Batagin aveva replicato con una
scrollatina di
spalle: Non è mica colpa mia, se quel
pazzo insolente e cocciuto ha
voluto restare a tutti i costi lì a morire!
Come
Marco Miani fosse riuscito a trattenersi dallo strappare a
morsi quella faccia di bronzo, mistero e lode al suo autocontrollo.
Eppure,
Marco Contarini era certo di averlo scorto barcollare in preda ad una
violenta
vertigine nel momento in cui quel giovane soldato scampato dal Castello
-
Cabriel si chiamava? - gli aveva ceduto le redini di
Eòo e Marco
conosceva abbastanza bene il Cor suo da
sapere che solo da
morto egli si sarebbe separato dall’amatissimo cavallo.
Tre
giorni erano trascorsi dalla caduta di Castelnuovo di Quero,
ma della sorte dei suoi difensori si ricevevano notizie incerte e
contraddittorie: Domenico da Modone aveva appreso come se ne fossero
salvati
solo quattro su cinquanta, ma ignorava se il castellano fosse tra
questi, anzi,
confuse perfino Hironimo con suo fratello Carlo che per poco non gli
era
costato il collo da parte di un furibondo Marco Miani; il capitano
Costantino
Paleologo tramite i suoi esploratori infiltratisi nel campo di
Montebelluna
aveva riferito del ritorno del maresciallo La Palice e di come il
francese
stesse preparando un’invasione di Feltre risalendo
(chissà perché) la Valle
della Brenta. Altre spie avevano confermato il rilascio dei capitani
bellunesi
Doglioni e Colle dietro cospicuo pagamento. Feltre e Cividal di Belluno
erano
state abbandonate - avevano aggiunto- i rispettivi
podestà fuggiti a
Serravalle in attesa di conoscere la risposta dell’Imperatore
al loro
ambasciatore, non avendo infatti alcuna alternativa se non la resa,
specie se
era vera la notizia di un doppio attacco a sud-ovest della Valle
Serpentina.
Ma di
Hironimo, ancora nessuna conferma se fosse vivo o morto e
Marco Contarini, essendogli stato negato dal Gradenigo il permesso di
unirsi
alle missioni d’avanscoperta e incapace di respirare a causa
di quel groppo in
gola, era improvvisamente smontato da cavallo e s’era messo
furiosamente a
vangar via la terra e a sollevare mattoni pur di sfogare in qualche
modo quel
suo dolore, grato della pioggia torrenziale che gli nascondeva le
lacrime. Si
era ripetuto che in teoria era assai improbabile che avessero ucciso
Hironimo,
un patrizio veneziano rimaneva nel mercato dei riscatti una merce
troppo
preziosa da sprecare stoltamente. Eppure, non era da escludere che
il Cor
Suo, orgoglioso e testardo, avesse scelto di morire piuttosto
di lasciarsi
catturare.
“A
caxa, la mia mojer la ve darà un fiatin d'unguento e bende
– no
gh’aveu mai laorato co’ le mani?”, gli
chiese candidamente intrigato Donado e
Marco gli elargì un cortese sorriso di circostanza,
scuotendo il capo in
diniego.
Al suo
arrivo piuttosto inaspettato a Treviso, giacché aggiuntosi
all’ultimo momento e non volendo soggiornare dallo zio
– il podestà sier Andrea
Donado - il giovane Contarini era stato
assegnato in
via temporanea, ve lo zuro! in casa dei Cimavin, di
professione
mugnai, il che aveva impensierito non poco Marco, siccome non godevano
gli
esponenti di tale professione esattamente di buona fama –
ladri, imbroglioni,
usurai della farina - non si soleva forse
ripetere: i muneri
i roba pregando? [8] Non ne avrebbero mica
approfittato per derubarlo
nel sonno, vero?
Il
giovane patrizio aveva però ben presto scoperto con suo
sommo
sollievo come i Cimavin sì fossero mugnai, però
già agiati di loro nel senso
che possedevano ben tre “rode de molin” a Treviso
e lungo il Sile,
un gran lusso: un mulino, il più grande, lo lavoravano
direttamente loro; due
li avevano dati in affitto a conduttori di fiducia, venendo tuttavia a
controllarli spesso sia per la manutenzione che fosse costante sia per
la
produzione che non doveva calare sotto i livelli imposti della
Serenissima,
pena l’esproprio. E il padron peggiore è quello
del mestiere.
Anche con
la guerra in corso le loro fortune non erano mutate,
anzi, l’ultimo che more de fame
xé el munèr e Donado Cimavin
aveva ben compreso la pressante richiesta di farina e pertanto i suoi
mulini
giorno e notte macinavano non solo per la popolazione trevigiana,
bensì per
Venezia, per l’esercito e le città limitrofe, con
ritmi lavorativi talmente
serrati che lui stesso dormiva all’occasione al mulino. Con
l’arrivo dei
soldati e il timore di eventuali danni, Donado aveva organizzato una
contro-ronda
coi suoi braccianti, così da controllare che quelle malerbe
non gli rubassero o
peggio danneggiassero la sua roba, bastonando senza pietà
qualora necessario. E
per roba sua intendeva anche la moglie, la siora Felicita, il cui
palpeggiamento il Cimavin non aveva affatto gradito.
Ed eccola
lì, la matrona di casa, seduta accanto al centro della
stanza principale impegnata in apparenza a rammendare, in
realtà i suoi occhi
seguivano stretto ogni movimento della serva e del piccolo Jacopo
seduto in
braccio alla vecchia siora Luzia, sua madre. Donado
andò subito incontro
alla moglie, sennonché la giovane, annusando
l’aria lo bloccò prima che potesse
abbracciarla.
“Noli
me tangere!”, proclamò ieratica, il
braccio levato a
creare la debita distanza. “Seti onto, ve spuzate da cagnon e
non vi vojo da
rente! (vicino, ndr.)”, ma se le parole sembravano aspre, gli
occhi e la bocca
luccicavano di contentezza nel riavere ora per sé il marito,
seppur sporco di
fango e bagnato dalla pioggia e dal sudore.
“Aveu
assunto ‘na massera?” (serva, ndr.),
notò d’un tratto Donado
la ragazza che stava riattizzando il fuoco nel caminetto, la quale si
pose
frettolosamente in piedi e salutò il nuovo padrone con un
goffo inchino.
“Sior
sì.”
“Sença
dirme gnente?”
“Mi
sun la patrona de caxa.”
“E
mi el marido che paga.”
“Appunto,
paghé! Qua a furia di prender zente in caxa, mi non
sciò
pì chome starghe drio!”, si giustificò
impunita la moglie, senza smettere
l’agile andirivieni dell’ago nella
stoffa. “An, la puta la se ciama
Màlgari. La soa fameja la xé zonta ozi dal
Montelo e la g’han alozata a la
contrada di San Martim. Mi zerchavo guarda caso propio qualcheduna che
m’ajutasse e la soa siora mare la me g’ha dito a
man zonte: Madona,
tolevela in caxa, la xé na brava puta de quindece anni,
robusta e assa’ brava
in cucina, v’ubbidirà in ogni cossa le
comandaré . Et jo potevo
rifiutar ad una poara mare disperata? Hé! Un fia’
di carità christiana!”, gli
narrò, seppur l’espressione del marito seguitasse
a rimanere molto scettica. Al
che Felicita esclamò spazientita:
“Animo, andé a lavarve e fate pase
col savon, deboto (fra poco, ndr.) svengo per via de sta
spuza!”
“Vado,
vado, perhò dopo faremo i conti!”
“Sì,
sì sior marido, ché la puta la vol esser pagata
in anticipo
per la semana!” e rise all’imprecazione del
consorte che riecheggiò dalle
scale. Cambiando totalmente il tono di voce in uno più
vezzoso, cinguettò in un
sorrisone tutto fossette a Marco, rimasto saggiamente in disparte e
sordo: “Zelenza,
la massera la g’ha preparà un bel bagno ancha par
vu; stasera, poi, gavemo di
la lengua de bo’ co poenta e verdure bollite. Ve
piaseu?”
“Mi
piacerebbe, sì”, asserì educatamente il
giovane patrizio,
seguitando a sfregarsi le mani doloranti.
“Malgari,
corate a ciapar el balsamo e di le bende pel magnifico
messer domino Marco Contarini. Lesta!”, diede istruzioni
Felicita alla
domestica, la quale scese rapida ai piani
inferiori. Invitando Marco
a sedersi, la giovane matrona riprese il suo lavoro. “Chome
stanno i vuostri
omeni?”, s’informò, riferendosi ai
cinque soldati a spese del Contarini giunti
seco da Padova. D’accordo presentarsi all’ultimo,
ma senza nessuno come seguito
proprio no, troppo sospetto. Per fortuna Ferigo gli aveva
indirettamente
indicato dove poter trovare dei volontari poco inclini a porre domande
sconvenienti.
“Bene,
ch’io sappia.”
“No
ghe spiaseli alozar nel molino?”
“Si
accontentano.”
Madona
Felicita sospirò teatralmente. “Femo zò
che podemo.
D’altronde, cadaun zorno ne scapan cussì tanti a
Trevixo, che non si sa pì ni
dove metterli ni che cossa farli far. Bisogna dar a sta zente da
laorar, sennò
i vegne in testa strane idee. Chome predicava zustamente San
Paulo: Chi
non lavora non mangia! ché l’otium xélo pater de
ogni vitium!”
Ascoltando
il sermone in silenzio, Marco si guardava nel frattempo
attorno, cogliendo i piccoli dettagli della stanza, dalle grezze
decorazioni
del grande caminetto, al vasellame di ceramica dipinta di Bassano,
forse
l’unico pezzo di pregio della casa e di fatti ben esposto
all’occhio critico
del visitatore. Studiò il fuoco scoppiettante, il biancore
della tovaglia del
grande tavolo guizzare nella penombra, il buco dei calzoni sparire
gradualmente
sotto i colpi dell’ago e filo. Cogli occhi
accarezzò i soffici capelli del
piccolo Jacopo che giocava felice e ignaro ai piedi della madre, la
quale a sua
volta passava di tanto in tanto la mano sul ventre sempre
più grosso. Una
scena domestica, serena, irreale quasi: quanto lontana pareva la guerra
lì
dentro! Eppure, bastava varcare la soglia di quella stanza per
ripiombare nella
sua squallida realtà.
“Siete
molto tranquilla, madona”, commentò di punto in
bianco.
L’espressione
della giovane assunse tinte amare. “An, g’ho
patìo
de ben pèzo d’on assedio … Do anni fa,
per puoco non divenivo vedoa co’n puto
de quattro mexi, se nol gera pel magnifico messer Hironimo
Miani. Cossa gavaria fato mi sença el mio
Donado? Jo, sola al mondo
a diciasete anni co’n puto! Sier Hironimo me lo
g’ha riportà vivo, el non gavea
alcuna obligazion con elo, eppur me lo gh’ha
riportà indrio, vivo!”, tirò su
col naso, la maschera di cinica nonchalance caduta e Marco vi scorse
dietro una
fanciulla spaventata.
Felicita
s’accarezzò ansiosa il pancione, memore del
terrore
atroce provato quando s’era vista il marito ricoperto di
fango e sangue
zoppicare verso casa, con Hironimo che lo sorreggeva per il braccio.
“Poaro,
poaro sier Hironimo, g’ho tanto pregà la
Devotissima azzò
lo protegesse! Poareto, non se meritava sta
baronata. Non si
abbandonano cussì i propri compagni!”, si
asciugò la donna una lacrima ribelle,
sorridendo imbarazzata a mo’ di
scusa. “Zelenza, vuj seti omo de mondo,
donca per cortesia prudensa col fradelo, el
magnifico messer Marco
Miani: da quando g’ha savuo di la nova, a xé
divenuo un tal salvadego; non si
pol parlargli senza che ve morseghi. Poareta la soa siora mojer madona
Helena,
la compatisso!”
Marco si
drizzò sulla sedia, scattando in avanti verso la donna.
“Sier Marco xelo qui? In sta caxa?” Sin dal suo
arrivo a Treviso, il Contarini
aveva cercato invano di conferire con lui, tuttavia fallendo ad ogni
occasione
anche perché troppo impegnato il Miani sia con le ronde, sia
a tener sottocchio
il Bataja nella speranza di poterlo accusare di diserzione e
così ucciderlo
lentamente, con gusto.
“Macché,
i xei nuostri visini. I g’han na caxa qui da che
mo’, no
saveu? El mio missier (suocero, ndr.) masenava le farine pel quondam
sier
Anzolo Miani, el qual gera on tal galantomo, sì
sì.”
“No,
no ... cioè, sì ma non pensavo che
… Avessi
saputo, avrei chiesto …”
Gli occhi
di madona Felicita si strinsero di dispetto, la fronte
corrugata e le labbra piegate all’ingiù, pronte
alla pugna sia dialettica sia
della padella delle castagne in testa. “Zelenza, co tuto
respeto, non ci
credareu mica indegni d’alozar vuialtri patricij?”
“Non
sia mai, voi siete i migliori anfitrioni dell’intero Stato da
Tera! Non avrei potuto sperare in miglior alloggio!”,
tagliò corto Marco, le
gote vermiglie e sentendo la sua persona piuttosto minacciata.
“Solo, non
immaginavo che la famiglia Miani abitasse proprio in questa contrada.
Che caso
raro!”
“Ma
ve par? Manco mi ghe credea!”, esclamò gioviale
Felicita,
distendendo il viso in un’espressione più
rilassata. “Zò, Malgari, sistu andà
fin a San Vio [9] a ciapar sto unguento?”, gridò
verso le scale conducenti alla
cucina.
“Vi
servo, patrona, vi servo!”, sbuffò
l’ex-contadinella,
prendendo uno sgabello e posizionandosi davanti a Marco, afferrandogli
energicamente brusca il polso e mettendosi al
lavoro. “A vara zò che man
de tosa!” (ragazza, nr.), commentò in genuino
stupore.
Nascosto
in maniera strategica dalla fantesca che gli disinfettava
e bendava le mani piagate, il giovane Contarini sospirò di
sollievo per lo
scampato pericolo di un incidente diplomatico -domestico.
Come
facesse Hironimo a relazionarsi con ogni ceto sociale e
a stringere amicizie sincere tra i loro esponenti con tal
facilità da
risultargli naturale quanto respirare, Marco ancora
faticava a
comprenderlo ché lui dopo un’oretta a conversare
con madona Felicita già gli
stava venendo un gran mal di testa.
***
“Donca,
porco d’un can franzoso, hastu voja de parlar?”
“Alors,
sale chien
français, as-tu envie maintenant de parler ? "
“Comme
si vous me
faisiez peur, vous, un porc cocu
Vénitien ! ”
“Che
ciancia sto macaco?”
“Che
non vi teme e che … e che voi siete un porco cornuto,
magnifico sior Provedador.”
“A
mi dil cornudo?! Paron Fortunato: date a questo furbastro
qualche sorsetto d’acqua in più. Vedremo, se
avrà ancora voglia di far lo
spiritoso!”
Nelle
stinche dietro a Palazzo dei Trecento ci si stava impegnando
da molte ore e con grandi sforzi ad insegnare il veneziano al
prigioniero
francese, il segretario del maresciallo de La Palice, catturato da Nane
il
contadino sul Montello e condotto a Treviso legato e pestato alla
stregua del
baccalà mantecato del venerdì. Provando
una piccolissima pena nei suoi
confronti – le terrificanti prodezze che una donna arrabbiata
può compiere
quando armata anche solo di un batocchio di legno – gli
inquisitori avevano
deciso di limitarsi a farlo sedere al centro della sala,
schiaffeggiandolo ogni
tanto giusto per tenerlo sveglio, ma porgendogli soltanto domande. Una
volta
però ripresosi dal selvaggio trattamento campestre, il
francese s’era armato di
beffarda spavalderia e aveva rifiutato di tradire il suo maresciallo,
ingiuriando
sempre più pesantemente gli astanti al punto che
l’interprete sudava freddo ad
ogni frase tradotta.
In altre
circostanze, e magari con altre persone, tale tenace
atteggiamento avrebbe anche destato l’ammirazione di chi allo
spirito
cavalleresco ci credeva ancora. Siccome però la
vita reale si riassumeva
meglio in uno spiccio “ciò che voglio prendo, poco
importa come e guai a te se
mi fai la morale”, ecco che il segretario
all’ennesimo insulto agli onorati
presenti venne condotto in una cella sotterranea e lì
s’incominciò il vero e
proprio interrogatorio. Legato ad una tavola di
legno leggermente
inclinata verso il basso e con la testa in quella medesima direzione,
il
francese col naso tappato fu costretto a bere acqua finché
non si sentiva soffocare,
tra colpi di tosse, vomito e fiumi d’urina per la vescica
sovraccaricata da
quell’inaspettata quantità di liquidi da smaltire.
“Parla,
cancaro! O te fazzo tajar i cogiòni!”
“Parle,
racaille! Ou
je vais te faire couper les couilles! ”
Il
francese, trattenendo un po’ acqua in bocca, la
sputò in faccia
al Gradenigo, ringhiandogli contro: “Je vous encule,
boule de suif!”
Nettandosi
il viso bagnato e paonazzo per l’affronto, il
provveditore lanciò un’occhiata molto
significativa all’interprete, che
farfugliò penosamente quasi sveniva: “Sier Zuam
Paulo … devo proprio?”
L’arco
minaccioso del sopracciglio dell’uomo gli confermò
che sì,
doveva proprio bere l’amaro calice di tradurre tutto fino
all’ultima parola.
Pregando la Madonna, il poveraccio gli riferì quanto detto
dal segretario.
Un
silenzio di tomba calò nella cella e neanche il capitano
Vitello Vitelli, che pur di grossolanità ne aveva udite a
bizzeffe, riuscì a
guardare dritto in faccia il Gradenigo, il cui labbro inferiore
tremò in un
pericoloso rictus nervoso. L’unico serafico pareva sier
Lunardo Zustignan, che
anzi sorrideva lezioso al francese. “S-ciavo, sior canzelier.
Stavolta l’hai
fatta!”, gli sussurrò ironico.
Di
diverso umore sguazzavano l’interprete e lo scrivano,
spostando
agitati lo sguardo dal provveditore al prigioniero e viceversa, in
attesa
dell’esplosione. “Sier …”
“Ah
sì?”, sibilò sier Zuam Paulo, alla
penombra un diavol
d’inferno quanto l’era in
collera. “Cussì me la conti?
Che te me vol
…”, si trattenne a stento, inspirando forte per il
naso “… a me? Lo sai,
muso-da-mona, cosa facciamo a Veniexia a chi copula alla fiorentina? Li
bruciamo!”, berciò e preso un
attizzatoio, lo passò sul fuoco finché
non divenne rovente, sventolandolo infine sotto il naso del
prigioniero. “Se
non vuoti il sacco in questo esatto momento, puoi immaginare dove ti
ficco
questo?”
E
l’interprete più che tradurre le parole di Zuam
Paulo Gradenigo,
faticò a riportare parola per parola la fiumana che fu la
confessione del
terrorizzato francese.
Brevemente,
Castelnuovo di Quero era stata conquistata con un
inganno, essendoci dei traditori che fungevano da guida ai
franco-imperiali nel
feltrino, bellunese e trevigiano – Gradenigo volle e ottenne
i nomi. Del
castellano ignorava la sorte; l’Imperatore ancora
cincischiava a Bolzano e
intanto si puntava ora su Conegliano, Feltre e Cividàl di
Belluno. Il francese
aggiunse poi che La Palice aveva in progetto di rientrare a
Montebelluna in
attesa dei rinforzi che da Vicenza sarebbero arrivato a Marostica, dove
si
diceva li aspettasse il duca di Baviera e da lì sarebbero
partiti con fanti
almeno 10.000 per l’impresa, più 13 pezzi
d’artiglieria (grosse, mezzane) e
quasi 30 tra falconetti e colubrine; cavalleggeri tra i
1.500-2.000.
Treviso
sarebbe caduta - li assicurava -era già in mano loro come
tutta la Marca; appunto per questo era intenzione
dell’Imperatore di svernare
in città per poi puntare su Venezia.
Soddisfatto,
Gradenigo appoggiò l’attizzatoio rovente e il
segretario del La Palice ritornò a respirare con la bocca.
“An,
e dategli una dozzina di frustrate, come da protocollo. Non
troppo forte, ma neanche da putelo, tutto esercizio, tutta
salute”, aggiunse
poi il provveditore generale non appena lo scrivano appoggiò
la penna, mentre
si sedeva sullo scranno pronto a godersi compiaciuto i frutti del suo
duro
lavoro. Facendo spallucce, incurante, il boia si apprestò a
riscaldare la
frusta sulla schiena del francese.
“Ma
perché?”, chiese perplesso il podestà
sier Andrea Donado
“dalle Rose”. “Ha confessato!”
“Sì,
ma no me xé garbà el tono!”, insistette
seccamente Gradenigo,
massaggiandosi al fianco là dove friggeva il suo povero
fegato.
“Signor
Gian Paolo, con vostra buona licenza, incomincio il turno
di ronda per stasera.”
Schiocco-urla
… schiocco-urla … schiocco-urla …
“Già
s’è fatta sera? Sì, sì,
andate pure capitano Vitello. Vi
raggiungerò più tardi.”
“Con
permesso.”
Schiocco-urla
… schiocco-urla … schiocco-urla …
“Un
cosa qui ancora mi sfugge: questo Papa è vivo o
morto?”,
cogitò ad alta voce sier Lunardo Zustignan, una volta che il
capitano Vitelli
ebbe chiuso dietro di sé la pesante porta.
Schiocco-urla
… schiocco-urla … schiocco-urla …
Osservando
sempre più disgustato lo spettacolo dinanzi a sé,
il
podestà replicò: “Il fante ferrarese
non aveva detto esser morto? Anche il
governatore di Millan, il duca Gastone di Foys si è
rallegrato pubblicamente
della sua morte. Che ne pensate, sier Zuam Paulo?”
Schiocco-urla
… schiocco-urla … schiocco-urla …
“Mah
… quel fiorentino è una canaglia, un parassita,
difficilmente
la pula la si cava dal grano …”
L’essersi staccato dalla Lega di Cambrai, una
volta ottenute le città della Romagna, non aveva garantito a
Giulio II l’immunità
da lui sperata, al contrario: sia il Re di Francia che
l’Imperatore avevano
indetto un concilio a Pisa per eleggere un antipapa e gran gaudio
generale
nell’immaginare quel disgraziato rosolarsi nei suoi medesimi
rimorsi, avendo
dimenticato che Venezia, gli piacesse o meno, era un necessario
cuscinetto tra
lo Stato Pontificio e Francia e Impero. Chi troppo vuole nulla stringe,
dice il
proverbio, ma forse Della Rovere era stato disattento quel giorno.
Schiocco-urla
… schiocco-urla … schiocco-urla …
Avendone
abbastanza e ottenuto le informazioni necessarie, i tre
patrizi veneziani lasciarono la cella mefitica e claustrofobica e il
francese
nelle ottime mani di paron Fortunato, boia di qualità.
Quando
giunsero in Cancelleria, la trovarono rivoltata in piena rumorosa
confusione: i consiglieri, i rettori, i coadiutori e
l’auditore sier Piero
Antonio Morexini avevano circondato Cipriano da Forlì e la
giovane staffetta,
discutendo assai animatamente. Perfino Vitello
Vitelli, dimentico
della ronda, ascoltava incredulo.
“Coss’ela
sta cagnara? Siamo forse a Carlevar?”, li rimbeccò
il
podestà sier Donado.
Affatto
intimorito, Cipriano da Forlì gli venne incontro,
esclamando: “Signor Andrea, è appena giunto un
messaggio del magnifico domino
messere Francesco Foschari capo dei Dieci: il Papa è ancora
vivo!”
“Cosa?!”,
esclamarono basiti sier Lunardo e sier Zuam Paulo,
ricevendo quest’ultimo in mano la lettera del Foscari e
divorandone i
contenuti.
Di quanto
affermato da Gaston de Foix e l’emissario estense, sier
Francesco Foscari smentiva tutto, poiché un suo uomo aveva
appreso da fonti
attendibilissime – il patrigno del cardinal Arzentino e lo
stesso cardinale
Giovanni de’ Medici – come il Papa certamente si
trovasse in extremis e
disperata salute, ma non per questo necessariamente
orizzontale. In ogni
modo, Roma intera si trovava in arme in attesa di sviluppi e tutte le
spie dei
Dieci, l’ambasciatore sier Hironimo Donado
“dalle” Rose e i cardinali domino
Domenego Grimani e Marco Corner tendevano ben bene le orecchie pronti a
riferire all’istante.
Sier
Gradenigo sorrise carnivoro: forse la missione di sier
Hironimo Donado, dottor e orator della Signoria Serenissima a Roma, si
poteva
dichiarare ancora opus in corso.
***
Il
milanese Aloisio Ferrer, capitano d’uomini d’arme,
cavalcava
inquieto accanto ai capitani di fanteria monseigneur
de Richebourg e
monseigneur de Mongiron, la mente in subbuglio: la notizia di un
imminente
attacco da parte di Ferigo Contarini di San Cassian aveva instillato in
Vicenza
un panico sottile, presi infatti di contropiede sia Giovanni Gonzaga
che il
duca Charles de Bourbon, i quali tale mossa azzardata forse ancora se
la
sarebbero aspettata dal loro Bon Chevalier de Bayard, ma non di certo
da quel
diavolo d’inferno veneziano. Malgrado i sospetti del duca di
Bourbon, che aveva
suggerito d’inviare degli esploratori in avanscoperta per
confermare la
veridicità della notizia, alla fine era stata accordata la
decisione di
spostare immediatamente a Marostica i rinforzi giunti da Milano inviati
dal Duca
di Nemours, così da unirsi al contingente del Duca di
Baviera e proseguire fino
a Montebelluna dove La Palice e, a Dio piacendo, l’Imperatore
li stavano
attendendo per l’impresa di Treviso.
Ah,
Treviso … A sentir il Re di Francia e Gaston de Foix suo
nipote
la città già pareva conquistata, sicuri dei loro
numeri sia in fatto di uomini
e di cavalli sia d’artiglieria. Un assedio
facile - si
vantavano - le mura scaligere crolleranno al primo
tocco, vous verrez!
Eppure
… eppure …
Il Ferrer
non riusciva a districarsi dalla morsa stretta
dell’ansia, una sgradevole sensazione di stonatura in quella
marcia
precocemente trionfale.
Primo,
perché non arrivavano lettere dal maresciallo La Palice,
informandoli dei loro ultimi spostamenti?
Secondo,
perché proprio adesso quell’improvviso attacco
suicida
del Contarini di San Cassian?
Terzo,
perché, nell’euforia e ottimismo generale
(già il Re di
Francia brindava alla caduta di Treviso), soltanto la voce del
maresciallo Gian Giacomo Trivulzio s’era
levata contro l’impresa?
Egli era arrivato addirittura a sfidare apertamente il Re, rifiutando
l’incarico malgrado l’insistenza di
quest’ultimo e quando il sovrano aveva
esatto spiegazioni, il Trivulzio si era giustificato affermando che
dopo anni
di sfavillanti vittorie su grandi signorie e avversari, non voleva
rimpatriare
a Milano ricoperto dal fango del disonore e della vergogna, sconfitto
da una
città misconosciuta e dai suoi burocrati. “Sire,
Treviso come Venezia è
una luogo di cielo, terra e acqua. Quest’estate è
piovuto anche fin troppo, la
Marca sarà ritornata di sicuro una palude, cioè
un disastro per muovere truppe
e artiglierie, rallentandoci in ogni manovra ma esponendoci allo stesso
tempo
ai nemici. Inoltre, ricordatevi cosa fecero al trombetta di Leonardo
Trissino: sono
feroci quanto bestie lì, non arrischierò una
morte disonorevole ai miei uomini,
sgozzati nel sonno peggio d’agnelli!”
Sgozzati
nel sonno …
Le truppe
sfilavano in marcia a ranghi ben serrati, guardinghi al
massimo, viaggiando persino di notte e concedendosi solo qualche ora di
riposo,
così anche da cambiare i soldati nelle retrovie in modo da
guardarsi le spalle
da eventuali attacchi.
“Sandrigo, enfin!”,
esclamò il capitano de Richebourg,
guardandosi attorno. “Encore un peu, e
tosto arriveremo a
Marostica!”
Quasi a
segno di buon augurio, il sole s’erse su quel 31 agosto,
tingendo il cielo del delicato rosa dell’alba e levando gli
ultimi residui
della nebbia dovuta dal terreno ancora imbevuto dell’acqua
della pioggia
torrenziale del giorno precedente.
Il
capitano Ferrer si coprì gli occhi con la mano, ferito da
uno
strano bagliore. Come? Già
così splendente il sole?
Levato lo
schermo, il milanese spalancò la bocca in pieno orrore e
prima ancora che potesse urlare: “Imboscata!”, una
freccia trapassava la gola di
uno dei cavalieri accanto a lui e un fragore da far tremare la terra li
giungeva incontro, un fiume in piena che si divideva con diabolica
precisione
per spezzare la colonna di marcia delle truppe, una legione di diavoli
venuti
per il loro sangue.
“Marco!
Marco!”
I
vessilli dorati di Venezia brillavano beffardi alla luce del
sole, questo loro tacito complice che era sorto apposta per renderli i
franco-imperiali visibilissimi e tra gli stendardi il capitano Ferrer
riconobbe
lo stemma a tre bande azzurre in campo d’oro che tanto aveva
imparato a temere.
“Embuscade!
Embuscade!”
A che pro
chiedersi come avessero fatto a raggiungerli così in
fretta, intercettandoli? A che pro?
Bastavano
i fatti e cioè che Ferigo Contarini li aveva ingannati
tutti, non avendo mai avuto intenzione di andare a Vicenza e adesso,
per quella
loro ingenuità, avrebbero pagato con la vita.
Continua
…
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I
francesi sono dei pessimi perdenti: nella loro versione della
Guerra della Lega di Cambrai, mai non hanno accennato a questo episodio
né a
qualsiasi altra sconfitta inflittagli dai veneziani. Federico Contarini
mai
nominato. Appena appena si accenna alla sconfitta a Padova del 1509,
ovviamente
dando la colpa a Massimiliano, agli spagnoli, ad Alfonso
d’Este, al Papa, alla
gatta di Codalonga, etc. A sentir loro, insomma, non
persero neanche
una battaglia … Boh.
Treviso
contava all’incirca più di 200 mulini nel suo
territorio
per via dell’eccellente risorsa idrica: essendo i suoi fiumi
di risorgiva, non
soffriva della siccità estiva o del gelo invernale,
producendo pertanto per
tutto l’anno e Venezia esigeva quasi 30,000 staie (sacchi) di
farina come
rifornimento, anzi, alcuni mulini macinavano esclusivamente per la
città che
all’epoca contava quasi 150.000 abitanti; altri mulini
all’occasione erano
tenuti a macinare per Venezia mentre un’altra parte solo per
il territorio
trevigiano e dintorni. Sul Sile scivolavano continuamente burchi pieni
di
farina, ma anche lana che veniva follata a Treviso e pure legna dal
Montello
che veniva lavorata prima della spedizione in Arsenale per le
galere. I mulini molto spesso venivano dati in
affitto ai mugnai,
talmente importanti che prima dell’annessione a Venezia
avevano la loro
Corporazione. Sotto la Serenissima, i mulini appartenevano o agli
ordini
ecclesiastici, o al comune, o ai patrizi veneziani o ai nobili terrieri
locali;
tuttavia, non era improbabile per un mugnaio possedere il proprio
mulino, solo
che i costi di manutenzione sia ordinaria che straordinaria erano
talmente
alti, che se non possedeva sufficiente capitale per mantenerlo, allora
preferiva andare in affitto.
Riguardo
al Nostro, le cronache confermano come si salvarono in
quattro dal massacro di Castelnuovo di Quero: lui, i bellunesi Paolo
Doglioni e
Cristoforo Colle e un popolano di cui però non specificano
il nome. Vittore del
Pozzo s’era già portato fuori dal castello, quindi
non conta.
Per motivi di trama e per
tentare di spiegare (e anche anticipare) ciò che
accadrà al Nostro, ho deciso
essere un bambino. Interessantemente, ho trovato esempi in cui non era
improbabile utilizzare bambini per il trasporto delle polveri da sparo
e per la
mescolatura in loco, forse in quanto piccoli e difficile da centrare?
In ogni
caso, spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Alla
prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Hé,
Finger weg!
Ich habe ihn zuerst gesehen, er gehört mir =
hé, giù le zampe! Lo visto
prima io, mi appartiene! // Pas de chance, sale
voleur, c’est à
moi! Et si tu t’approches avec
tes sales mains allemandes, je vais t’enfoncer ce couteau
dans ta foutue
gorge ! =
scordatelo (lett. Nessuna possibilità/fortuna), sporco
ladro, è mio ! E se
ti avvicini con le tue sporche mani tedesche, ti ficco questo coltello
giù per
la tua fottuta gola ! // Passiert.
Nächste Mal = capita /
succede. La prossima volta.
[2]
Sulla
morte di Girolamo Contarini, padre di Federico, riferisce il Sanudo in
data
1508: "A dì 10, fo la vezilia di
Pasqua di mazo. Et la sera achadete un caxo molto strano et miserando,
che fo
conduto in questa terra il corpo di sier Hironimo Contarini, quondam
sier
Moisè, era stato provedador di l’armada fuora
zà molti mexi, el qual si era
anegato versso Lanzam, e rota la so galia, et cussì quella
di sier Bernardim da
cha’ Tajapiera, sopracomito, per fortuna grandissima. Il
modo, quando e come,
scriverò di soto. Fo caxo zà molti anni non
sequito un tal, et a tutta la terra
si dolse."
[3] i Turchi ad Otranto =
Fra’
Leonardo partecipò alla Guerra d’Otranto (1480-81)
militando per Alfonso II di
Napoli, all’epoca principe ereditario e Duca di Calabria.
[4]
la Vècia al Panevìn = la vecchia (un fantoccio ben
inteso!) alla festa del Pane e Vino. Si tratta di un falò di
inizio anno, una
tradizione popolare dell’Italia nord-orientale che consiste
nel bruciare grandi
cataste di legno e frasche su cui viene posto il fantoccio di una
vecchia,
questo il giorno della vigilia dell’Epifania (5 gennaio). Si
suppone questo essere
un rito pagano poi cristianizzato risalente addirittura ai tempi dei
Paleoveneti, legato alla purificazione della terra. A seconda della
direzione
del fumo si saprà come andrà l’anno:
male se va ad occidente, bene se va ad
oriente, con tutte le varianti da città a città.
[5]
colonne tra San Marco e San Todero = a Piazza
San Marco si concludevano le esecuzioni dei condannati a morte dopo la
sfilata
tra i canali, appunto tra le due colonne con in cima le statue del
Leone
Marciano e di San Teodoro (Todero in veneziano), davanti a Palazzo
Ducale verso
il bacino di San Marco.
[6] Muso-da-Baila = Faccia
da
Badile, un fantomatico soprannome di Massimiliano.
[7] Nell’899 Treviso subì un
devastante saccheggio
da parte degli Ungari. Il santuario di Santa Maria Maggiore venne
pressoché
distrutto, salvandosi solo il muro coll’antico affresco della
Madonna, tuttora
esistente.
[8]
i muneri i roba pregando = I mugnai
rubano pregando. Si riferisce al gesto di prelevare
la farina con le
“mani giunte” come quando si prega, col
“rischio” di dare meno di quanto si
pagava per farla macinare.
[9]
San Vio =
San Vito di Cadore, comune in
provincia di Belluno, situato nel cuore delle Dolomiti. Appartenente ai
feudi
dei da Camino, nel 1420 passa alla Serenissima sotto cui conosce una
fase di
felice sviluppo economico (ovviamente prima e dopo la Guerra della Lega
di
Cambrai).