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Autore: Hoel    18/10/2019    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato  29.07.2021

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Capitolo Secondo

27-31 agosto 1511

 

 

 

Fino a quando, Signore, implorerò aiuto

e non ascolti,

a te alzerò il grido: “Violenza!”

e non salvi?

Perché mi fai vedere l’iniquità

e resti spettatore dell’oppressione?

Ho davanti a me rapina e violenza

e ci sono liti e si muovono contese. 

(Abacuc, Sap. 6, 12-16)

 

 

 

 

Un silenzio di tomba regnava su quel freddo e umido meriggio del 27 agosto 1511.

Scioltosi il livido sole dal laccio delle nuvole grigiastre e diradatasi la nebbia della polvere da sparo, azzittitisi gli echi delle grida di battaglia e il fragore delle spade e delle schioppettate, s’impose la pace immobile e gelida del cimitero e tale dovette il Castello apparire al maresciallo La Palice, quando vi entrò a cavallo: nulla si muoveva né un sol rumore umano si sentiva.

I corpi dei marciani e dei franco-imperiali, ammassati uno sopra l’altro in un mortale abbraccio, riuscirono a turbare il pur navigato generalissimo, avvertendo quegli per la prima volta in vita sua una certa insoddisfazione nella vittoria. Sì, avevano conquistato una roccaforte relativamente strategica, tuttavia … Forse quell’aver combattuto sul serio fino all’ultimo uomo aveva levato ogni godimento alla riuscita dell’impresa, schiaffando in faccia ai franco-imperiali la consapevolezza che se quella era la resistenza oppostagli da una fortezza male in arnese come quella di Castelnuovo di Quero, cosa li attendeva una volta giunti sotto le mura di Treviso, l’irriducibile e ostinato Occhio Destro di Venezia?

“Recherchez les survivants!”, ordinò ai suoi uomini La Palice, lui per primo scettico sulla possibilità di trovare dei sopravvissuti in quel mattatoio. Di animo meno incerto appariva invece il capitano Mercurio Bua, che anzi, sceso da cavallo, rivoltava i cadaveri e all’occasione levava loro l’elmo, quasi stesse cercando tra di essi un volto in particolare. Il greco-albanese ansimava leggermente, l’aspetto più scarmigliato del solito, reduce infatti dall’ostinata schermaglia mossagli contro dal capitano Vetor Pozzo e dalla sua compagnia, la quale, per suo sommo smacco, era riuscita a sfuggirgli da sotto il naso e a riparare molto probabilmente a Feltre. Se non fosse stato per il condottiero feltrino e il suo attacco a sorpresa al limite del suicida, di sicuro i franco-imperiali avrebbero concluso l’assedio assai prima, invece di prolungarlo dolorosamente fin quasi a mezzodì.

“Sopravvissuti?”, ripeté snervato il Bua, passando sempre più impaziente al prossimo corpo. “Si è combattuto tutta la mattina, chi volete che sia sopravvissuto? A parte quelli che hanno battuto in ritirata, ovviamente”, aggiunse, ribollendo di stizza al mero ricordo di Vetor Pozzo sparire tra il sentiero montano.

“Abbiamo dato loro una scelta, capitaine. E loro hanno scelto la pace della morte.”

“Sicuro, loro riposano in pace”, commentò ironico Mercurio, “nella breve attesa della nostra compagnia, perché senza bottino quant’è vero Iddio creperemo di fame. Forse, i vostri capitani tedeschi avrebbero dovuto tenerlo da conto, quando si sono avventati come i-d-i-o-t-i sui marciani, invece di salvarne qualcuno per il riscatto! Ogni volta la stessa storia: prima distruggono tutto e poi si lamentano che non è rimasto più nulla per il rifornimento.”

Purtroppo per lui, il maresciallo de La Palice dovette arrendersi dinanzi all’innegabile verità proferita dal mercenario greco-albanese, nell’intimo anch’egli infastidito da quella cecità che li portava sempre più sovente a litigare tra di loro sulle scorte di cibo o altri beni di prima necessità.

“Qualcuno si deve pur essere salvato.”

“Nessuno qui ci crede né lo spera. Guardatevi in giro: vi pare questo il modo di festeggiare una vittoria? Sangue di Cristo, perfino i nobili hanno ucciso!”

Di nuovo, Mercurio Bua aveva ragione. Perfino i soldati franco-imperiali, solitamente così rumorosi nel loro gozzovigliante razziare, non osavano fiatare: coloro che ancora si reggevano in piedi dopo quella mattina di sangue si limitavano a rovistare delusi e frustrati tra le macerie e a spogliare i cadaveri sia dei marciani che dei propri compagni, raggranellando un misero malloppo composto di pezzi d’armatura; scarpe e guanti; qualche spada e pugnale; poche monetine e qualche anello.

Non miglior fortuna ebbe chi invece setacciò gli interni del Castello: di cibo era rimasto poco o niente; lo stesso per le munizioni, avendo dato fondo gli assediati ad ogni arma e giungendo perfino a buttare giù in testa le colubrine e i falconetti agli invasori pur di rallentarne l’avanzata.  Nelle stalle giacevano morti i cavalli, se per lo scontro o per mano degli stessi difensori di Castelnuovo difficile da stabilire. Le stanze del castellano piangevano miseria, gli unici pezzi di valore – a parte il cassone cogli abiti – risultavano la sua scrivania di legno di quercia e le lenzuola del letto. La piccola cappella avrebbe potuto competere con la Porziuncola delle origini in quanto a spoglia semplicità, non trovarono una sola pala rivestita di foglie d’oro, niente ostensori, turiboli, calici d’oro, d’argento e ricoperti di pietre preziose, soltanto un crocifisso di legno assai dozzinale subito staccato per farne legna. Neppure il pane e il vino per l’Eucarestia erano rimasti. Al cappellano, morto, poterono rubare solo un piccolo crocifisso d’oro al collo e le scarpe di cuoio ché il rosario era fatto con i semi di lacrime di Giobbe, perciò di nessun valore dunque inutile.

Tanto scoglionarsi - incominciarono a mormorare tra di loro gli scontenti soldati la cui lungimiranza tattica si limitava alla paga mensile e alla sopravvivenza al giorno successivo-  quasi due giorni di patimenti per questo in cambio?

Pietre e cadaveri, era questo il bottino di Castelnuovo di Quero?

Hé, Finger weg! Ich habe ihn zuerst gesehen, er gehört mir!

Mercurio Bua, come molti soldati del resto, si girarono velocemente dinanzi a quel primo scatto di vitalità in mezzo alla silente desolazione. Già un piccolo gruppetto di curiosi si era stretto ai due contendenti, chi intimando loro di darsi una calmata chi incoraggiandoli in quella distrazione assai benvenuta. Un soldato tedesco e uno francese, i quali pur non capendo un accidenti di ciò che l’altro gli stesse urlando dietro, si contendevano peggio di due bambini capricciosi una misericordia, incuranti di come stessero a momenti calpestando il corpo per terra da cui l’avevano sottratta. Finché il francese, elargita al tedesco una violenta gomitata, se lo scrollò di dosso, intimandogli feroce:

Pas de chance, sale voleur, c’est à moi! Et si tu t’approches avec tes sales mains allemandes, je vais t’enfoncer ce couteau dans ta foutue gorge ! ”, gli mulinò contro un lungo coltellaccio e appurato come il contendente non avesse intenzione di riprendere la disputa, se ne ritornò soddisfatto alla spoliazione della salma.  

Aiutato il compare a rimettersi in piedi, gli altri soldati tedeschi gli batterono a mo’ di conforto la spalla, consolandolo: “Passiert. Nächste Mal.” [1] L’uomo, massaggiandosi la mandibola dolente, fissò torvo il francese e Mercurio Bua constatò come quest’ultimo dovesse incominciare a guardarsi le spalle d’ora in avanti.

“Hé, tu!”, richiamò egli l’attenzione del vincitore della contesa, una volta dispersosi il gruppetto a spettacolo terminato. “Da chi l’hai presa quella misericordia? Da questo qui?”, inquisì, girando prono col piede il cadavere, le cui membra apparivano ancora flessuose, avendo magari tirato le cuoia da poco o da sé o per mano del francese stesso.

Gli occhi inquisitori del greco-albanese ne studiarono attenti l’armatura, troppo elaborata e di buona qualità per appartenere ad un semplice fante. Inoltre, per quanto scalfita, non notava affondi letali, tranne ecco sul corsaletto ma le budella erano ancora al posto suo, cioè in pancia e il corpo non era circondato dall’alone di sangue di chi salta in aria o dall’alto cade nel vuoto. Né sentiva il familiare tanfo d’urina e feci. Cosa poteva aver dunque provocato la morte?

“Spostati!”, ordinò perentorio al soldato che, a malincuore, dovette obbedire al suo superiore, augurandosi in cuor suo che non volesse sottrargli il suo bottino. Inginocchiatosi accanto al corpo, Mercurio trafficò coi lacci dell’elmo, imprecando a denti stretti per via dei nodi attorcigliatisi coi capelli. Eventualmente, riuscì nell’impresa e l’elmo venne levato, schiaffandolo il Bua in mano al francese i cui occhi s’allargarono cupidi per l’eccellente sua qualità.

Un viso incrostato di sudore, polvere e sangue gli si parò innanzi; ciononostante, il greco-albanese ben se lo ricordava, impossibile dimenticarsi di quel ragazzo che nella confusione della breccia del bastione di Codalunga gli aveva puntato contro la balestra, mancando lui di un dito ma centrando appieno il suo cavallo così da farlo cadere in un canaletto maleodorante. Il suo luogotenente Zilio Madalo lo aveva letteralmente dovuto ripescar fuori dalla merda, però almeno Mercurio si era salvato dal rogo dei fuochi ardenti. Non aveva mai accarezzato l’ipotesi di rincontrare quel giovane in futuro, tantomeno a Castelnuovo di Quero.

Con inusuale delicatezza gli tastò il capo alla ricerca di ferite, roteandolo sul collo: niente, nulla di rotto.

“Beata ignoranza”, sogghignò compiaciuto, rivolgendosi al soldato francese che a momenti gli si appollaiava sulla spalla, pur di non perdersi un solo movimento del capitano greco-albanese.  “Sai tu a chi hai appena rubato questa misericordia? Al reggente di Castelnuovo!” Portato subito l’orecchio sopra la bocca dell’altro, percepì il flebile ma inconfondibile solleticare del respiro. “Ed è ancora vivo!”,  esclamò deliziato quanto un bambino il giorno dell’Epifania, afferrando la sua preda e caricatasela in spalla con sorprendente facilità, si diresse all’interno dove il La Palice stava completando un rapido rapporto da spedire ai suoi capitani rimasti al Barco e a Montebelluna.

Dietro a Mercurio, silenzioso ma tenace alla stregua di un cagnolino, lo seguiva serrato il soldato francese nella speranza d’ottenere comunque quella bella armatura.

Nel frattanto, il maresciallo aveva inviato tre corrieri: uno a Conegliano per domandar la sua resa; un altro incontro all’Imperatore per informarlo della conquista di Castelnuovo di Quero e il terzo, suo segretario,  per annunciare all’accampamento di Montebelluna e del Barco del loro prossimo ritorno per i rinforzi necessari alla presa di Feltre e Cividàl di Belluno. L’uomo seguitava infatti ad arrovellarsi a causa di quella mancata lettera da parte del duca di Nemours e voleva rientrare al campo quanto prima, giusto per precauzione.

 

***

 

 

Il salasso invece di migliorare peggiorò la già compromessa salute di sier Andrea Griti, al punto che suo fratello sier Polo Malipiero aveva scritto a Venezia per il rimpatrio immediato, non appena il provveditore generale fosse stato nelle condizioni di viaggiare senza rischi. Il patrizio aveva pianto apertamente e senza vergogna quando sier Andrea gli aveva espresso il suo desiderio di comunicarsi e ricevere l’estrema unzione, nonché di redigere il suo testamento.

Anche il governatore domino Lucio Malvezzi e l’altro provveditore sier Christofal Moro facevano gli equilibrismi con la morte e assieme a loro purtroppo i soldati e i padovani in generale,  lasciando sier Polo Capelo ora da solo a comando di una città pressoché moribonda. Non confortava apprendere come queste febbri dal padovano incominciassero lentamente ad espandersi nelle campagne limitrofe, mietendo vittime senza pietà.  A peggiorar la situazione, i soldi per le paghe non arrivavano, il malumore cresceva e ciò corrispose alla proverbiale ultima goccia che spinse sier Ferigo Contarini a persuadere sua madre Ysabela Falier a salire sul primo burchiello e portare con sé a Venezia i fratelli minori Marco Antonio e Regina, nonché madona Alba Donado (con cui si era riappacificato dopo averle promesso di scrivere a Treviso onde persuadere sier Andrea a rispedire Marco a casa) e il di lei figlio Francesco.

“Siora Mare”, si raccomandò il giovane provveditore, dopo aver aiutato la genitrice a salire sul burchiello dall’imbarcadero, “statemi bene, vi prego di riguardarvi. Pregherò con gran fervore l’Altissimo, affinché il viaggio sia tranquillo, arrivando quanto prima a Veniexia.”

La vedeva tanto curva e patita, la sua povera madre, invecchiata precocemente. La tragica morte del marito sier Hironimo, avvenuta alla Vigilia di Pasqua del 1508, [2] l’aveva piegata nel suo tormento, ancor più adesso che i figli rischiavano la vita per la Signoria, soprattutto Ferigo, quel suo primogenito sempre tanto brillante quanto irresponsabile della sua persona, una fiamma ardente e meravigliosa che lei temeva spegnersi troppo presto da un momento all’altro.

“Fate attenzione, gioia mia. Vi chiedo solo questo”, si raccomandò, accarezzandogli teneramente la guancia e Ferigo baciò quella fragile mano, che tanto nella vita l’aveva protetto e confortato. 

“Mo via, coss’elo sto muso da coroto, Marco Antonio?”, si rivolse poi giovale al fratello minore, più che altro per allontanarsi dalla madre, acciocché lei non scorgesse il luccichio umido dei suoi occhi. “Voi siete l’uomo di casa, ora: la siora Mare, Alvixe, nostra sorela  e fra poco la siora Marina vostra novizza contano su di voi.”

Il giovane uomo alzò il capo, serrando caparbio la bocca onde mantenere un’espressione stoica. “Promettetemi di scrivere! Ogni giorno!”, esigette, deglutendo malamente.

“Promettetemi di tornar vivo!”, l’abbracciò sua sorella Regina, nascondendo il volto sull’incavo della sua spalla e il provveditore le scoccò un bacio sul capo coperto dallo zendale, inalando a mo’ di ricordo il dolce e sottile profumo di rosa con cui ella soleva imbevere il panno ricamato. Strinse forte al petto quella figuretta minuta appena divenuta donna, quella sorellina avuta quando lui era ormai quindicenne e quindi riservandole attenzioni più di padre che di fratello, guidandola ad ogni passo fino alla maturità. “Promettetemelo!”

 “Sempre ritornerò vivo per voi. Non piangete, non desidero ricordarvi in lacrime”, le disse, asciugandole le gote coi pollici. Regina su sua richiesta gli sorrise tremolante, baciandogli la guancia in barba al decoro e cingendolo di nuovo forte, cedette e singhiozzò sommessamente.

All’occhiata allarmata del fratello, Marco Antonio afferrò Regina per le spalle, staccandola dolcemente da Ferigo e aiutandola a salire sul burchiello, prontamente abbracciata dalla madre, che le sistemò premurosa il velo scuro sul volto pallidissimo.

“Calar i remi in barba!”, gridò all’improvviso il pope del burchiello, giunta infine l’ora della partenza.

“Rema!”, gli risposero in coro i rematori.

“Avanti!”

Rivoltosi a Francesco “dai Scrigni”, Ferigo gli promise: “State de bona voja, amico mio. Iddio m’ascolta, vi riporterò indietro vostro fradelo sano e salvo.”

“Prendetevi cura di voi e non fate strambazzerie: non potremmo sopportare n’altra desgrazia!”, gli ricordò Francesco.

Il pope gridò ancora: “Andèmo! Tira!”

Le facce contorte dalla fatica iniziale di girare il burchiello fermo, i rematori intonarono tra uno sbuffo e l’altro: “Oh … ehi! Oh … ehi! Oh … ehi!”

Partiti, infine, rimpicciolendosi  gradualmente, pian piano, scivolando via sulla Brenta fino a Venezia.

Li avrebbe mai rivisti? Quanto fragile appariva adesso a Ferigo il battito del suo cuore, la nervosità dei muscoli e la solidità delle sue ossa. Doloroso e incerto il respiro, un lusso quasi, pronto a terminare in un qualsiasi momento. Alberi pronti a spezzarsi al vento, ecco che si era, in balìa di forze insormontabili e oscure con cui non si poteva negoziare, destinati ad una fine non voluta né evitabile. Ah, Fra’ Lunardo, tu che cinque mesi fa cadesti così virilmente in battaglia, disdegnando la resa pur essendo in numero inferiore! Dimmi, carissimo e valoroso compagno con cui dividemmo le imprese di Concordia e Mirandola, dimmi che si è provato in quegli ultimi istanti? A che cosa hai pensato? A quale Dio sei andato incontro? A quello dei Veneziani o dei Collegati?

“Messer Ferigo, vi disturbo?”

Il giovane provveditore trasalì, sbattendo le ciglia e strabuzzando gli occhi in modo da asciugare via i rimasugli delle ultime lacrime. Sistematosi i guanti e sospirando profondamente, si voltò verso il suo interlocutore e lo salutò cordiale, un mezzo sorriso sulle labbra:

“Affatto e bentornato, Conte Guido. Quali nuove?”

Il conte Guido Rangoni ricambiò il saluto, rasserenandosi e tirando un intimo sospiro di sollievo, ché un poco l’aveva preoccupato quello sguardo fisso del Contarini verso l’orizzonte.

Da quando era rimpatriato da quelle che il patrizio veneziano stesso definiva “terre aliene” della Romagna, un’ombra malinconica ogni tanto velava il suo sguardo vivace e ardente e il Rangoni comprendeva il sentimento: la morte del cavaliere di Rodi Fra’ Leonardo da Prato di Lecce era stata per tutti un duro colpo e per sier Ferigo in particolare, avendolo stimato come collega e maestro. La Serenissima, dal canto suo, perdeva un grande condottiero dotato di un carisma talmente trascinante, da persuadere i suoi uomini a combattere anche senza paga. Malgrado ciò, tra il conte Guido e il gerosolimitano era scorso sangue assai amaro specie dopo l’incidente l’anno addietro nel Polesine, cui solo l’intercessione di sier Andrea Griti aveva salvato il Rangoni dagli affilati artigli dei Dieci, colpa l'essere il nipote di Annibale Bentivoglio e gli anni passati trascorsi al soldo della casa d’Este. Eppure, neanche il conte modenese poteva negare l’inestimabile valore e lo spirito stratega del cavaliere rodiano, neanche quando, in un momento d’impazienza, all’ennesimo diverbio gli aveva sbottato contro un umiliante: Uagnone, stai bellu carmu! Tu mancu eri nato, ch’io già massacravo i Turchi ad Otranto! [3]

Prendendo il provveditore in disparte sull’imbarcadero, il Rangoni riassunse quanto appreso dai loro esploratori: “Si è saputo come il duca Carlo di Borbone e Giovanni Gonzaga abbiamo raggiunto Vicenza con 400 cavalli e 300 fanti. Potrei sbagliarmi, ma tutta questa fretta m’induce a pensare che temano un qualche attacco da parte nostra.”

Sier Ferigo annuì, pensoso. Dunque, quella vecchia volpe di sier Andrea Griti non aveva nutrito sospetti così infondati, alla fine. Il Duca Charles III de Bourbon e Giovanni Gonzaga avevano fiutato arie di grandi manovre da Padova, rendendosi conto di quanto stupidamente si fossero sbilanciati sulla Marca Trevigiana, lasciando scoperto il vicentino. Maledizione, che occasione persa!

Una risata sardonica, cattiva, scappò al provveditore degli stradioti. “Puoah! E così il Borbone e il Gonzaga si credono tanto intelligenti, da potermi leggere i pensieri? Ma sì! lasciamoglielo credere a questi bambinetti che giocano alla guerra!”, esclamò divertito tra sé e sé, due dita sotto il mento. E rivoltosi al conte Guido con sguardo furbescamente malevolo, lo istruì: “Voglio che si sparga la voce, che il Contarini di San Cassian sta marciando alla volta di Vicenza per sgozzarli tutti fino all’ultimo uomo.”

“A Vicenza?”

“A Vicenza.”

“Ma proprio uguali parole?”

“Sgozzare o squartare.  A banchettare sui loro cadaveri. A bruciarli come la Vècia al Panevìn [4]! A regalare all’Illustrissima Marchesa Isabella d’Este una collana fatta coi denti di suo cognato. Siete un conte e avete studiato la lingua, domino Guido, usate la vostra immaginazione! Esagerate, tingete di rosso fosco i dettagli! Bisogna impaurirli, bisogna che si arrocchino a Vicenza, bisogna che abbiano tanta paura da non osare uscire dalla città tranne per inviare i rinforzi da Milano per La Palice, in attesa di un attacco che non accadrà mai. Comprendete?”

Il conte Guido aprì la bocca in un Ah! complice, realizzando ora a quale conclusione il Contarini voleva che si giungesse. “E mentre quelli aspettano, noi invece punteremo o su Bassano, o su Castelfranco o su Cittadella.”

“No, le attaccheremo contemporaneamente; ciò rallenterà i soccorsi dei francesi, indecisi e in difficoltà su quale città delle tre salvare e quale sacrificare. Imperativo è riconquistare almeno Castelfranco; certo, la Brenta come porta a Bassano porta anche a Padova, però Castelfranco ha i mulini per macinare le loro farine, senza di essi non avranno di che nutrirsi e il provveditore sier Zuam Paulo ci ha confermato come i contadini del Montello stiano facendo terra bruciata sul cammino dei nemici.”

“Quando il Borbone e il Gonzaga avranno capito il trucco, noi con le tre città in pugno fungeremo da muro in mezzo agli accampamenti di Vicenza, del Barco e Montebelluna, dove ora si trova il La Palice. Insomma, gli taglieremo i rifornimenti da ovest.”

“Esatto.”

“Rimane però il rischio, che quei crapuloni senza fondo dei tedeschi puntino sulla Patria del Friuli per rifarsi.”

Lo sguardo del Contarini si rabbuiò di una cupezza mortale.  “A questo mondo, non si può difendere ogni cosa …”

“Domanderò al signor Giano di Campofregoso se s’unirà all’impresa”, cambiò celere discorso il conte modenese, notando il languore della malinconia fiaccare la determinazione del patrizio. “Credete che il provveditore messer Paolo Cappello approverà il piano?”

Lanciata un’ultima occhiata alla linea dell’orizzonte della Brenta, sier Ferigo si allontanò assieme al conte Guido Rangoni per discutere nei dettagli il piano d’attacco, tra cui le parole onde meglio persuadere il provveditore generale a benedire la loro impresa.

 

***

 

 

“Zò, Felipeto, gh’hastu finìo co’ quel pozzo?”

Il ragazzino per tutta risposta s’affrettò a buttar giù nell’acqua una strana pappetta fatta di fango, escrementi e grano. Il fratellino, afferrata anch’egli quella poltiglia, gli dava manforte.

“Datte ‘na mossa!”, gli intimò suo nonno Zuane detto Nane, mentre sistemava i carichi di farina sul carro e la moglie le gabbie con le galline, i conigli e le oche. Le figlie maggiori e le nuore, invece, trascinavano i maiali e i rispettivi mariti sistemavano legando ai carri i cavalli e i bovi. Il piccolo esercito di nipoti d’ambedue i sessi con l’aiuto di altri vecchi zii e cugini trasportavano fagotti di vestiti, coperte e lenzuola e oggetti di valore in un frenetico viavai. “Svelti, svelti!”, ribadì il capofamiglia.

Terminato coi sacchi, il contadino afferrò il cadavere del cane da caccia che suo figlio Titta aveva con gran maestria centrato in pieno col suo arco, prima che potesse ululare la loro presenza ai saccomanni venuti in esplorazione. Un trucco infame che i contadini del Montello stavano imparando a loro spese: compreso infatti quanto fossero o ben nascosti nel bosco o semplicemente per evitare di vagare a vuoto in esso, i francesi avevano addestrato dei cani per scovare i fuggitivi e soprattutto le loro scorte di cibo e gli animali da fattoria per farne bottino.

“Toh, qua stai, coi toi patroni!”, grugnì il contadino, gettando in un altro pozzo il cane assieme ai cadaveri nudi dei nove francesi tanto stolti da pensare di venir a rubargli la roba e sopravvivere. D’altronde, quelle terre erano state la casa sua e dei suoi avi da che mo’ e l’uomo riconosceva ogni loro rumore, ormai. Ovvio che, in seguito all’uccisione del cane e all’udir lo scalpiccio di cavalli, Nane avesse mobilitato tutti gli uomini di casa e così armati di arco, frecce, una picca di fortuna e occhi di gatto che ben vedevano al buio, essi s’erano posti a difesa della loro fattoria e delle loro donne e siccome Dio e la Madonna l’avevano benedetto con bravi figlioli e altrettanto bravi generi, manco i signori durante le battute di caccia all’airone ne avevano impallinati in così gran numero come loro coi francesi! Un giovane soldato veneziano a cavallo li era venuto poi inaspettatamente in aiuto, fiocinandoli con la sua balestra alle spalle.

Uno di questi francesi, però, Nane l’aveva risparmiato e non per cristiana carità, bensì perché pareva il miglior vestito e dunque se lo portavano a Treviso per farlo esaminare, magari il provveditore Gradenigo li avrebbe ricompensati con un bel po’ di ducati, rimpinguando la già soddisfacente somma che il contadino avrebbe sicuramente raggranellato coi cavalli dei saccomanni. Aveva quindi strabuzzato gli occhi tra lo stupito e il goloso non appena il giovane soldato, ghermito il prigioniero per i capelli e costringendolo a piegare all’indietro il collo per meglio osservarlo, aveva esclamato ringhiando: “Ma mi lo cognosso sto baron! (farabutto, ndr.) Xélo on canzelier dil la Peliza! Lo gho ben visto a Castel Novo de Quer! Puòh!”e gli sputò in faccia, usando molto catarro.

Pertanto, Nane aveva lasciato il francese alle cure di sua moglie Oria, la quale l’aveva pestato  come un materasso al cambio di stagione, dopodiché con l’aiuto delle figlie gli avevano legato le braccia dietro una barra di legno a sua volta dietro la schiena, sistemandogli a mo’ di collare la medesima corda riservata ai bovi. Spintonato sul carro tra gli animali, la testa del francese penzolava inerte in avanti, l’uomo ancor stordito e la faccia gonfia dall’ultima randellata della contadina col batocchio da polenta, reo di averle implorato diosacché nella sua lingua, cui la donna aveva replicato latrando: “Tasi, bestia!” e via botte da orbi.

Magre vittorie, ché ormai la loro pace era compromessa. Già, infatti, ringraziavano la Madonna per averla scampata per due anni – alcuni loro amici di tale fortuna non si erano giovati – adesso bisognava arrendersi all’evidenza e cioè che altri saccomanni o stradioti o franco-imperiali non avrebbero tardato a trovare la strada per la sua fattoria, magari in numero ben superiore dei temerari della notte scorsa. Cosa sarebbe accaduto allora? Morire, muoiono tutti prima o poi se per vecchiaia, malattia o un nocciolo andato di traverso. Ma non sgozzato come un porco a San Giovanni mentre gli violentavano la moglie, le figlie, le nuore e pure le nipotine e tagliavano a pezzi i figli, i generi, i nipotini anche in culla. No! Nane il contadino nulla aveva commesso di male a questo mondo per meritarsi tal sorte, manco fosse un criminale da decollare e squartare tra le colonne di San Marco e San Todero! [5]

Dai carri, l’intera sua famiglia di tre generazioni osservava a lavoro completato il capofamiglia in attesa di ulteriori istruzioni, tutti tranne la più piccola delle sue figlie, Màlgari, che si stava accomiatando dogliosa dal giovane soldato che li aveva sia aiutati a difendersi sia li aveva avvertiti di molto probabili e ulteriori scorrerie nel Montello, visto che Castelnuovo era stata cinta d’assedio. Il ragazzo, Cabriel, s’accingeva ora a ripartire alla volta di Treviso sia per via di un messaggio che doveva consegnare al provveditore sier Gradenigo sia per quella lettera appena rubata al francese, ma dall’espressione infelice e il rossore alle orecchie dovute alle carezze alla nuca da parte di sua figlia, Nane appurò come entro la fine della prossima primavera sarebbe divenuto nonno per l’ennesima volta. Anche nella devastazione più totale, la forza prorompente della natura riusciva lo stesso a trovare ogni forma di sbocco pur di rigenerarsi. E poi, prima della guerra, quel giovane era ceramista, prospettiva non disprezzabile per la sua Màlgari, la più bella delle sue figlie.

“Sior pare, xé tutto pronto …”, gli annunciò suo figlio.

Nane annuì gravemente e Titta accese la torcia tenuta da Felipeto. Con aria solenne, il contadino si diresse alla sua fattoria, costruita dai suoi avi prima ancora che Treviso e la sua Marca si dessero a Venezia, fonte sia di sostentamento per la sua famiglia  sia di vanto giacché roba veramente sua. Quante generazioni vi avevano sudato! Quanti sacrifici per poterla mantenere a discapito degli alti e bassi della vita!

“Non fifar, nezzo mio”, consolò il ragazzino, malgrado anche i suoi di occhi fossero umidi di lacrime. “Semo ancor omeni liberi e liberamente decidemo cossa far de la nostra roba. Della pietade de’ ladri, non xé da fidarsi. O c’amazano o ci risparmiano ma la boaria non sarà pì nostra, ma de Muso-da-Baila [6] e nui a laorar da s-ciavi pel patron che ci darà. No! Mi sun un poaro villan, perhò a servir todeschi non m’abbasso!”

E detto questo, lanciò la torcia e la fattoria prese lentamente fuoco.

“E vedarem, cossa i manzeran e i berran sti barbari, co le boarie e i molini bruzai e i pozzi avvelenai!”

A giudicare dai fumi neri che si levavano dal Montello, Nane il contadino non doveva esser stato l’unico ad aver seguito tal ragionamento. Lungo la strada conducente a Treviso a fine giornata si contarono almeno sedici mulini incendiati più fattorie e campi e innumerevoli pozzi inquinati e vasche idriche prosciugate.

 

 

***

 

 

Non sussiste a questo mondo nulla di peggio quando chi ti fa prigioniero in un certo qualmodo si ricorda di te e tu non di lui e non solo per motivi di passate beghe e vendette da servire fredde; no, basta solo che questi si ricordi chi tu sia e di chi tu sia figlio per rovinarti l’esistenza.

Un validissimo esempio poteva fornirlo il marchese di Mantova, Francesco Gonzaga.

Era l’agosto del 1509. Mentre il Marchese dormiva beatamente ignaro in un casolare ad Isola della Scala, vi si erano intrufolati dentro silenziosi come anguille un gruppetto di contadini armati fino ai denti e venuti allo scopo di derubare nel sonno i soldati francesi e mantovani. Tra questi militava tal Domenego di Vinturin dal Termeno al Marchese assolutamente sconosciuto, ma se i grandi di questa terra non tengono da conto i piccoli, quest’ultimi nei loro confronti posseggono una memoria di ferro e non sempre nutrita d’affetto e Domenego il contadino ben si sovveniva della faccia di Francesco Gonzaga, giacché costretto di malavoglia a servirlo a Verona. Riconosciuta dunque la sua preda, il giovane villano si era gettato addosso al Marchese, afferrandolo per la manica della camicia e trascinandolo di peso dentro visto che l’uomo stava tentando la fuga dalla finestra del casolare. Alla proposta di comprare il suo silenzio con 6000 ducati, Domenego gli aveva risposto sprezzante: “Vi vojo dar in man di la Signoria” e assieme ai suoi compari lo aveva condotto a Padova come un bove alla fiera, da dove poi il Marchese venne trasferito a Venezia alla Torresella. Missier el Doxe Lunardo Loredan, sier Hironimo Querini Capo dei Dieci e gli altri tre consiglieri sier Alvixe Capelo, sier Hironimo Contarini e suo zio sier Batista Morexini avevano ricevuto di persona e con l’affetto riservato ai figlioli i quattro contadini artefici di quella miracolosa quanto farsesca cattura, istruendo che al loro capo Domenego fosse assegnata una rendita annuale di 100 ducati più altri 100 di dote per sua sorella; agli altri tre una rendita di 50 ducati all’anno. Infine, cadauno se ne tornò a casa con altri 20 ducati a testa per le spese immediate e pure degli abiti nuovi, giacché s’erano presentati a Palazzo Ducale davanti alle massime autorità della Serenissima in camicia, brache e babbucce.

Hironimo Miani, rientrato nella sua casa di San Vidal, non avrebbe mai scordato l’arrivo da Padova di Francesco Gonzaga, con Lizza Fusina talmente ostruita di barche, che pareva un ponte. Tutta Venezia aveva atteso in febbrile eccitazione il fu eroe di Fornovo, un tempo beneamato figliolo ora Giuda Iscariota e non c’era stata una finestra, un imbarcadero, una riva, un ponte che non fosse stato gremito di persone lì anche solo per scorgere per un istante il Marchese prigioniero. Marco, Marco, vitoria, vitoria, apicha el traditor, sorze in cotègo! Turco preso! e gridavano come ossessi, oscillando pericolosamente tra ilarità derisoria e ferocia omicida, al punto che la scorta del Gonzaga ebbe non poche difficoltà nell’attraversare Piazza San Marco, temendo infatti che le guardie o per mancanza d’energie o perché in combutta fallissero a contenere la folla impazzita, pronta a maciullare a mani nude il Marchese, le donne in prima fila avendogliela giurata per la morte o la cattura dei loro uomini.

Il giovane patrizio aveva assistito basito a come i suoi concittadini avessero fatto a gara per riuscir a centrare cogli sputi il Marchese o peggio ancora coi pitali, con immondizia, con fango o qualsiasi cosa li capitasse sottomano. Perfino dai conventi si sentivano certe ingiurie da far rabbrividire. D’accordo, Francesco Gonzaga era un infame traditore e pure un vigliacco, ma non avrebbe meritato forse un trattamento un po’ più dignitoso, magari evitando la parata per i canali come riservato ai malviventi?

Ma i suoi erano pensieri di un ragazzo ancora ingenuo e sobrio da una vera e propria vittoria militare. Hironimo avrebbe compreso infatti il dionisiaco potere provato dal vincitore sullo sconfitto a Padova l’autunno del medesimo anno, dopo aver umiliato i Collegati in un assedio che aveva tenuto col fiato sospeso tutta Europa, per decidere se la Serenissima sarebbe divenuta o meno un ricordo come la Roma degli Antichi. Trascorse due settimane a tagliar a pezzi e bruciar vivi senza sosta tedeschi, francesi, spagnoli, ferraresi, papalini e chiunque altro gli si era parato innanzi, il giovane Miani aveva perduto pezzo per pezzo ogni sua nozione del codice cavalleresco di cui era stato infarcito fin dall’infanzia, arrivando a cantare a squarciagola coi suoi compagni mentre impiccavano sui bastioni di Padova gli ufficiali prigionieri tedeschi, affinché li vedesse bene da lontano l’Imperatore  in fuga.

 

Gi è partù quei slançeman!

Allegronse tutti, friegi,

al dispetto di ribiegi,

ch’i se dié magnar le man.

Gi è partù quei slançeman.

Oh, gi ha havù el bel honore,

quella zente della Magna,

digo ben, l’imperaore,

Franza, Frara, Roma e Spagna.

I ha habù el cancaro ch’i magna

A vegnire sul Pavan.

 

Se non fosse stato per la presa alla collottola da parte di un indignato Lucha, Hironimo avrebbe imitato coloro che, non paghi di veder scalciare nel vuoto i moribondi, avevano preso a gettar loro escrementi e li ingiuriavano: “Te volevi un toco de Padoa? Togalo, porco d’on todesco, togalo, muso-de-merda!” e ancora a cantare a squarciagola:

 

“Su, Todeschi onti e bisonti

Su, su, su, for de la paja;

Voi mai più passate i monti

Se verete a dar bataja;

Vostre arme poco taja

Se la faza v'è mostrata

Su, su, su!”

 

La prospettiva di poter un giorno finire prigioniero non aveva mai sfiorato Hironimo, più rassegnato a quella della morte. Eppure eccolo lì, nelle stinche della suo stessa fortezza con un dolore lancinante alla testa e al fianco, più una nausea montante a serrargli la gola. L’ultimo ricordo prima del buio pece dell’incoscienza corrispondeva al colpo infertogli a tradimento al corsaletto, che l’aveva costretto a voltarsi e decollare indignato il suo avversario, imprecando: “Maladeto can d’un todesco, toga qua!” ma così facendo s’era sbilanciato e scoperto. Se il suo nuovo avversario nella smania di ammazzarlo non fosse inciampato su di un cadavere e di conseguenza rotolati assieme giù per le scale, hé, al posto di ritrovarsi un bel bernoccolo in testa, Hironimo avrebbe piuttosto rimediato un cranio aperto in due, altroché.

Poi il niente fino al suo risveglio in cella e senza la sua armatura, con solo indosso la camicia, peggio dei contadini.

Messosi a carponi, Hironimo cedette e vomitò anche l’anima, reggendosi la testa che gli martellava.

Il tocco leggerissimo di due manine gli levarono dal volto i capelli sudati, per poi massaggiargli delicatamente la schiena. Girandosi di scatto, nella penombra il giovane Miani scorse Thomà, anch’egli assai malridotto, lo zigomo gonfio e un occhio pesto.

“Come sei riuscito a scamparla?”, gli domandò incredulo; teoricamente, non potendo tenere un’arma in mano, sarebbe dovuto esser stato tra i primi caduti nello scontro.

“El reverendissimo sior cappellano, patron. El gaveva 8 ducati co’ lu e i g’ha dati via per no degolarmi, perché m’gero rifugià in la capela, perhò i todeschi lo coparon uguale perché nol gaveva danari per salvar se stesso”, gli spiegò il bambino, tirando su col naso e la voce che gli tremava dal groppo in gola.

Pah, tipico di quegli avidi  agire così. “Chi altro s’è salvato?”

“Ch’jo sapia, i capetanij Doglioni e Colle.”

“Dove xéli?”

“Li tragharon fora per examilarli e par razonar sora la taja. Vuj anchor dormavate.”

Ovvio, per il riscatto. Medesima sorte l’aveva sperimentata Lucha, ma quali sarebbero state per loro le dinamiche? Soldi o scambio di prigionieri? Inoltre, quanto tempo avrebbero dovuto aspettare? Suo fratello era stato prigioniero per ben quattro mesi, un’eternità quasi … O, ipotesi tremenda, se l’avessero mai voluto scambiare com’era successo col D’Alviano, ancora prigioniero in Francia. Ma no! Figurarsi se lui valeva quanto il loro condottiero!

Puntellandosi sui gomiti, Hironimo strisciò fino alla parete, appoggiandovisi con la schiena e il capo, la bocca serrata stretta in modo da impedire ulteriore vomito di fuoriuscire. Maledizione, neanche i dopo-sbornia del Carlevar gli avevano scombussolato così tanto lo stomaco!

Plock … plock … plock …

Una goccia gli cadde sulla scollatura della camicia, facendolo sobbalzare per il gelo, seguita da un’altra e un’altra ancora. Spostandosi, Hironimo appurò trattarsi dell’acqua piovana che s’infiltrava tra le grate delle stinche, unita alla naturale umidità dei sotterranei scavati accanto alla Piave, il cui energico flusso riecheggiava simile ad un lugubre e sordo rullo di tamburo. Dunque ancora pioveva.

Plock … plock … plock …, senza il suo corpo ad attutirne il rumore, le gocce rimbombavano ora nella cella, amplificate dall’oscurità e martellando di conseguenza il cranio del giovane patrizio il quale, esasperato, batté la testa contro il muro tra il ringhio frustrato suo e il gridolino scioccato del bambino, che lo fissava come se avesse perduto il lume della ragione.

E magari ciò corrispondeva al vero.

Idiota, idiota, mille volte idiota, cosa aveva pensato di ottenere col suo ingenuo patriottismo, se non un bagno di sangue? Quei poveri disgraziati, li aveva ognuno sulla sua coscienza, tutta colpa sua, idiota, idiota, coglione orgoglioso a sacrificarli come agnelli pasquali per una causa persa in partenza mentre lui, il più stupido e inutile dei comandanti, ancora seguitava a vivere! Avrebbero potuto riparare a Feltre o a Cividàl di Belluno come quei fottuti bastardi dei Arimondi e Bataja e lì organizzare la controffensiva, invece d’ostinarsi a tenere quelle misere quattro pietre che tanto erano lo stesso state conquistate!

E Menego, il leale servitore che l’aveva visto nascere … I suoi figli Trovaso e Vico! E Nadalin, neppure ventenne … compagni di giochi, con cui aveva condiviso i pomeriggi sulle ginocchia dell’Orsolina … … Morti, uccisi per colpa sua, non avrebbe mai potuto rimediare a quel torto … Li aveva sottratti dalla sicurezza di Venezia … Li aveva privati di ogni futuro … Aveva ripagato la loro fedeltà con la morte … Orsolina, Eudokia Zanetta glieli avevano affidati e lui … e lui … Inutile! Incompetente! Stupido, stupido, stupido!

“Patron, molighe! (smettetela, ndr.) Ve spacaré ea testa!”, lo strattonò per la manica Thomà nel tentativo di distoglierlo da quell’autoflagellazione. “Gera el nuostro deber custodir ea fortaleza, gavé fato el vuostro deber! Niun vi rimprovera gnente!”

“Perché non è rimasto nessuno per farlo! Cospeto e tacca via!”, gridò Hironimo e appoggiò la fronte sulle ginocchia portate al petto.

Calò il silenzio, rotto dal solito Plock … plock … plock …

“Mi dispiace per tuo fradelo Andrea Trepin.”

Thomà si morse imbarazzato il labbro già di suo gonfio, forse da un manrovescio per indurlo a smettere di frignare dalla paura. “Patron, horra ch’el Andrea xé morto, ve lo digo sença timor: el no gera mi fradelo.”

Il giovane Miani girò di scatto la testa, chiudendo gli occhi per le repentini vertigini provocate da quel gesto inconsulto. “Cosa?”

“El sior mio pare e la mia siora mare i xéi volai in Cielo presso la Nostra Dona, cortesia de li todeschi, cussì chome i mii veri fradeli e sorele. Per on anno, me sun ranzato, niun ne volea saver de mi, poaro orfano, una bocha in pì da sfamar. Ma el Andrea l’gera un bonomo e un bon christiano, cussì com’el sior sòo par Vitor. El me g’ha dito: Aver ti visin no me fa ni pì richo ni pì poaro, ma un fradelo piccinin xé senpre ‘na bea cossa d’aver. E cussì la xé andà e mi sun zonto qua, chome soo assistente per smissiar la polvere da sparo.”

Un comandante invero competente era stato, abbindolato perfino dai propri bombardieri e i loro mocciosi appresso!

“Seu arabià, sior patron?”

“Cosa cambierebbe se lo fossi?”

“Donca, sonjo libero de dirve n’altra cossa?”

“Se proprio no te pol star zitto”, sospirò stancamente Hironimo, nettandosi gli angoli della bocca col dorso della mano.

“Me facevate assa’ paura, senpre a criar pèzo d’on matto e co tal muso da gorgon, parevate voler trasformare gli omeni en piere!”

Silenzio.

“Thomà?”

“Comandeu, patron?”

“Tasi!”

In quell’istante s’aprì la botola della cella e sia Hironimo che Thomà vennero issati su assai malamente, manco quei balordi di soldati avessero avuto intenzione di staccarli le braccia.  Li spintonarono fuori in direzione del cortile interno, là dove li attendevano La Palice già a cavallo e i suoi uomini pronti a partire. Paulo Doglioni e Christofal Colle si trovavano lì, anche loro spogliati fino alla camicia, frastornati e coi segni delle percosse ben visibili. Li avevano legati le mani con corde strette ai carri, così da trascinarseli via al campo di Montebelluna; dunque, cogitò Hironimo, là sarebbe avvenuto lo scambio o il pagamento del riscatto. Non scorse invece Vittore del Pozzo, sicché ne dedusse esser riuscito a riparare con la sua compagnia o a Feltre o a Cividal di Belluno.

Malgrado la luce livida di una giornata oscurata dalla pioggia, essa ferì ugualmente gli occhi del patrizio e del bambino oramai abituati all’oscurità della cella; nondimeno, gradirono assai l’aria pura e fresca, sebbene per qualche istante. Passato infatti il piacevole scombussolamento di uscire all’aperto, esso venne rimpiazzato dall’orrore di ciò che li circondava, una volta guardatisi più attentamente attorno: cadaveri nudi e lividi, ammassati in pile manco cataste di legna per l’inverno era quanto rimasto della guarnigione di Castelnuovo di Quero. Riconoscendo tra di essi Andrea il bombardiere, Thomà nascose di scatto il volto contro l’anca di Girolamo, piangendo sommessamente, le spalle minute sconquassate dai singhiozzi. Senza rendersene conto, il giovane castellano gli appoggiò la mano sulla testa a mo’ di consolazione, fissando ipnotizzato quel grottesco spettacolo.

Percepì lacrime salate colarli nella bocca, quando individuò, rigidi in un’ultima angosciosa smorfia, i volti di Trovaso e Nadalin, semi-seppelliti in quel groviglio violaceo di corpi.

 “Vi avevo avvertito, monseigneur le châtelain , che avremmo fatto preda di voi, se aveste perseguito nella vostra insensata difesa”, gli ricordò il maresciallo francese col medesimo tono di un padre che redarguisce un figlio discolo. “Eccone la prova!” e indicò i soldati marciani trucidati.

Hironimo digrignò i denti, replicandogli sferzante: “Se intendente prova d’esser degli animali, mi trovate molto d’accordo.”

“Anche nella sconfitta ci riservate solo insolenza?”

“Fin troppa cortesia per voi barbari.”

La Palice scosse il capo. “Legateli assieme agli altri. On returne au champ de Montebelluna!”.

Ma prima che i soldati potessero avvicinarsi a loro, un iroso ruggito fendette l’aria, riecheggiando per il cortile interno alla stregua di un rombo di cannone. “Pas si vite! Al tempo!” e girandosi videro Mercurio Bua avanzare a grosse falcate verso il maresciallo francese, gli occhi iniettati di sangue e livido in volto.

“Avevamo un patto, monseigneur de La Palice!”

“Vi lascio presidiare questo Castello fino all’arrivo dell’Imperatore, non gradite l’onore?”, replicò sbrigativamente l’interessato in questione, più che altro per evitare scenate dinanzi ai soldati.

Il comandante greco-albanese, invece, pareva di diverso avviso, ché insistette: “Mi ci sciacquo il gargarozzo coi vostri onori. Anzi, è grazie ad essi, se siamo rimasti senza bottino e senza cibo, padroni di un cimitero!”

“E che mi dite delle scorrerie dei vostri uomini? Non portano vettovaglie rubate ai contadini?”

“Appena per sfamarci qualche giorno e quando i miei uomini riescono a ritornare vivi e in un sol pezzo, ben inteso. Tra gli stradioti marciani e i contadini, non si sa chi si diverta di più a maciullarli!”

“Poche storie, capitaine Bua, è deciso: fino all’arrivo dell’Imperatore, rimarrete qui!”

Malakas”, imprecò sottovoce l’uomo e meno male che La Palice non comprendeva la sua lingua, altrimenti non avrebbe di sicuro gradito il complimento rivoltogli. “Non verrà, ve l’assicuro!”

Un agitato mormorio si diffuse tra i soldati. Come sarebbe a dire che il Re dei Romani, garanzia di sostentamento e per il quale stavano rischiando notte e dì la pelle, non sarebbe venuto?

La Palice percepì quel montante disagio e decise di porvi immediatamente rimedio, evitando che sfociasse in disordini. “Dubitate dell’augusta e sacra parola dell’Imperatore?”, sfidò egli apertamente il condottiero greco-albanese a contraddirlo, domanda ostica da rispondere lì davanti a tutti, senza rischiare un’accusa di sedizione. Soddisfatto del silenzio rancoroso di quel satanasso, l’uomo impartì di nuovo l’ordine di mettersi in marcia.

Sennonché, all’ultimo, Mercurio Bua berciò ai suoi uomini: “Tani!” e in un lampo, Hironimo avvertì qualcosa stringerlo al collo e trascinarlo indietro mentre Thomà gli si aggrappava nell’inutile tentativo di trattenerlo, finendo invece per venire anch’egli trascinato via dall’greco-albanese, subito circondato dai suoi stradioti con le spade e le balestre puntate contro i disorientati soldati franco-imperiali. Zilio Madalo recise le corde di Paulo Doglioni e Christofal Colle, spintonando anche loro nel quadrato improvvisato.

“Che significa questo, monseigneur?”, gridò indignato e confuso La Palice da tanta sfacciataggine.

Una volta espugnato Castelnuovo, potrete appropriarvi di qualsiasi cosa vi sia di gradimento al suo interno”, gli ricordò verbatim il condottiero la promessa del giorno precedente. “Ebbene, questi qua” e accennò col capo sia i capitani bellunesi sia un Hironimo sempre più paonazzo in volto per l’incapacità di respirare a causa della stretta al collo, “si trovavano all’interno del Castello e sono assai di mio gradimento. Me li sono più che guadagnati! Se non fosse stato per il sottoscritto, a quest’ora ce ne stavamo stupidamente a farci impallinare alla stregua di anatre! Non ho quindi il diritto di reclamare il bottino promessomi? O”, e qui il suo ghigno s’allargò diabolicamente, “il maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice è uno spergiuro, che non mantiene i patti? Questo dovrò riferire al Roi de France Louis?”

Anima semplice, aveva affermato il comandante francese? Anima da forzato, di uno stramaledetto pendaglio da forca dalla lingua lunga, ecco cos’era quell’uomo!

“Tre giorni, capitano Bua”, cedette infine La Palice, non desiderando minata la sua autorità dinanzi ai soldati: adesso capiva come mai, tra tutti i capitani insoddisfatti e senza paga, l’unico a riuscire a far valere le sue ragioni dinanzi allo stesso Re dei Romani fosse stato proprio Mercurio Bua, costringendo il Cesare Augusto a piegarsi ed esaudire ogni suo capriccio. “Tre giorni rimarrete qui in attesa dell’Imperatore. Se al terzo non si presenta né ricevete conferma del suo arrivo, potrete rientrare al campo. Ovviamente, se riuscirete a tenere la fortezza in ordine fino ad allora.”

La morsa al pezzo di corda al collo di Hironimo s’allentò e il giovane boccheggiò aria, tastandosi di riflesso la carne martoriata. “La vostra ragionevolezza mi consola, monseigneur”, convenne soddisfatto il greco-albanese, esibendosi in un beffardo inchino deferente.

Il maresciallo La Palice gli scoccò un’ultima occhiata nauseata e le truppe si misero in marcia.

Finito di osservare sornione l’esercito che si allontanava dal Castello, mormorando tra sé e sé Mercurio Bua commentò: “E pensare che stavo per essere sconfitto da un bambinetto come te … Di nuovo”, cogitava ad alta voce, notando come Hironimo ancora tossisse, il collo segnato da chiazze scure. Avvicinatoglisi, seguitò incautamente: “Chissà poi com’hai ottenuto quest’incarico … hai forse pianto dall’avuncolo? O con quei begli occhi neri hai sedotto qualcuno in Senato?”

Al che il giovane Miani cessò di tossire e giratosi lentamente verso di lui, lo fissò con tale odio da crocifiggerlo per poi esprimere la sua modesta opinione a riguardo in greco corrente: “Lo vuoi un consiglio, keratas? Cagati in mano e prenditi a schiaffi!”, gracchiò.

Un pugno allo stomaco lo zittì, forzandolo a carponi.

“Dunque sul serio, non ti ricordi di me a Padova?”

Ansimando, il patrizio replicò: “Una faccia da turco come la tua? Avrei avuto gli incubi a ricordarmela!”

L’espressione del Bua si trasformò in un qualcosa di mostruoso. “Oh, li avrai gli incubi”, l’assicurò, ordinando ai suoi uomini di rigettarlo nei sotterranei. Siccome poi, si sentiva d’umor particolarmente dispettoso, gli fece gettar addosso una secchiata d’acqua gelida della Piave, ridendo sguaiatamente all’urlo acuto di protesta sia di Hironimo che di Thomà, colpito suo malgrado dalla fredda cascata.

“Avanti, un’altra!”, gridò giulivo il capitano tra le grasse risate degli stradioti. “Che Sua Signoria si netti un poco la lingua!”

 

***

 

 “Me maraveggio ch’el abbia uto tanto muso da mostrarsi qui a Trevixo!”

“Non solo g’ha abbandonà Castel Novo, ma pur Cividàl de Belluno!”

“Pajàzo! Canàja! Pendajo da forcha! Meriterebbe l’oggio bollente!”

“No! Le tenaglie!”

“Ma perché el sier Provedador no g’ha dato orden de farlo apichar?”

“In tempi de carestia, ogni omo xé utile ancha co nol g’ha cogiòni!”

“Aveu visto con che muso el sier Marco Miani lo varda? Par volerselo manzar vivo!”

“Burlestu?” (scherzi, ndr.)

“El Batagin Bataja g’ha abbandonà so fradelo, il quale gera el castelan de Quer!”

“Dasseno?” (davvero?, ndr.)

“No!”

“Oh sì! El magnifico sier provedador Zuam Paulo g’ha affidato apposta quel caga-in-braghesse dil Bataja a la supervision dil sier Marco, perché lu lo scruterà assa’ attentamente, nella speransa ch’el scampoli cussì da cavarse el piazer de coparlo de propria man con la scusa di diserzione!”

“Pulito!”

“An, ecco perché el g’ha senpre ea man a la spada e gli oci tacai a la soa schiena.”

“Silenzio là, banda di comari pettegole!”, rimbeccò Lorenzo “Renzo” Orsini degli Anguillara di Ceri quel gruppetto a suo gusto un po’ troppo chiacchierone,  supervisionando intanto i lavori di pulizia dalle macerie della case abbattute lungo le mura. Non appena si girò dalla parte opposta, gli venne elargito un bel segno sconcio che provocò l’ilarità degli altri civili per poi chetarsi subito, quando il capitano delle fanterie, attirato dalle risate, si focalizzò di nuovo su di loro.

Onde velocizzare i lavori di fortificazione delle mura e della città già incominciati due addietro su progetto di Fra' Giocondo da Verona, il provveditore Zuam Paulo Gradenigo aveva emanato l’ordine che ogni trevigiano – sia laico che religioso – dovesse contribuire allo smantellamento degli edifici e smaltimento dei detriti. Infatti, per far fronte alle tensioni tra i soldati e i civili e soprattutto alla fiumana di fuggitivi dalle campagne che si riversava ogni giorno incontrollata in città, il Provveditore e il Consiglio Cittadino avevano convenuto come nessuno a Treviso dovesse stare con le mani in mano a poltrire; anche i rifugiati, se abili e in salute, al meglio delle loro possibilità e competenze col proprio lavoro dovevano ripagare la protezione, il pane e il vino offertoli da Treviso. Essendo la maggior parte di essi dei braccianti, con tale incarico ci andavano a nozze, fornendo un prezioso aiuto.

Fin qui dunque tutto bene, malgrado la pioggia battente che proprio non voleva smettere di cadere e impacciava di conseguenza i movimenti. Abbandonate dunque la berretta, la veste e il farsetto in mano alle loro donne, (tutte schierate sotto i portici, le braccia incrociate sotto gli zendali) i trevigiani si erano messi a lavorare nel fango più fradici e sporchi di quando la Melma straripava e allora dovevano andare a rovistare e liberare le zone allagate. Anche i monaci si erano rimboccati le maniche, onorando l’antichissimo ora et labora.

Tuttavia, quando avevano visto arrivare il Batagin Bataja e i suoi uomini assieme a sier Marco Miani (questi con una faccia da Gorgone Medusa), ecco che la bile aveva incominciato a ribollire, non gradendo dover faticare accanto a quei vigliacchi e all’occasione, quando l’Orsini non guardava, ne approfittavano per lanciar loro qualche manciata di fango addosso.

A peggiorare le cose, dopo il campanile si era annunciato l’imminente abbattimento del monastero di Santa Maria Maggiore e ai trevigiani era venuto un colpo, soprattutto essendo in pena per la sorte dei Canonici Regolari di San Salvatore, loro custodi. Al priore Fra’ Hironimo Francesco Bono e i suoi confratelli non era rimasto altra protesta, se non quella di piangere e recitare rosari, mentre il loro amatissimo santuario veniva demolito pezzo per pezzo, manco fossero ritornati gli Ungari [7].

“Spero solo che lassino star la capela di la Devotissima, la qual senpre g’ha difeso Trevixo da li nemici”, confessò a fine giornata Donado Cimavin a Marco Contarini “dai Scrigni”, mentre si dirigevano a casa del primo poco distante dalla chiesa di San Francesco.

Il giovane patrizio annuì distrattamente, più impegnato a scostarsi col polso alcune ciocche biondo-rossicce dalla fronte e a guardarsi infelice le mani doloranti e sanguinanti dalle vesciche pur avendo lavorato coi guanti, rimpiangendo quel suo colpo di testa di voler aiutare i soldati e i civili “volontari”. D’altronde, aveva provato un bisogno matto di sfogarsi contro i mattoni, non avendo potuto prendere a picconate la faccia del Bataja. Al convegno a Palazzo dei Trecento, dinanzi alla pesante accusa d’aver mancato alla parola d’onore data ad Hironimo Miani, ossia di venirlo a prelevare in caso di pericolo, ecco che il Batagin aveva replicato con una scrollatina di spalle: Non è mica colpa mia, se quel pazzo insolente e cocciuto ha voluto restare a tutti i costi lì a morire!

Come Marco Miani fosse riuscito a trattenersi dallo strappare a morsi quella faccia di bronzo, mistero e lode al suo autocontrollo. Eppure, Marco Contarini era certo di averlo scorto barcollare in preda ad una violenta vertigine nel momento in cui quel giovane soldato scampato dal Castello - Cabriel si chiamava? -  gli aveva ceduto le redini di Eòo e Marco conosceva abbastanza bene il Cor suo da sapere che solo da morto egli si sarebbe separato dall’amatissimo cavallo.

Tre giorni erano trascorsi dalla caduta di Castelnuovo di Quero, ma della sorte dei suoi difensori si ricevevano notizie incerte e contraddittorie: Domenico da Modone aveva appreso come se ne fossero salvati solo quattro su cinquanta, ma ignorava se il castellano fosse tra questi, anzi, confuse perfino Hironimo con suo fratello Carlo che per poco non gli era costato il collo da parte di un furibondo Marco Miani; il capitano Costantino Paleologo tramite i suoi esploratori infiltratisi nel campo di Montebelluna aveva riferito del ritorno del maresciallo La Palice e di come il francese stesse preparando un’invasione di Feltre risalendo (chissà perché) la Valle della Brenta. Altre spie avevano confermato il rilascio dei capitani bellunesi Doglioni e Colle dietro cospicuo pagamento. Feltre e Cividal di Belluno erano state abbandonate - avevano aggiunto-  i rispettivi podestà fuggiti a Serravalle in attesa di conoscere la risposta dell’Imperatore al loro ambasciatore, non avendo infatti alcuna alternativa se non la resa, specie se era vera la notizia di un doppio attacco a sud-ovest della Valle Serpentina.

Ma di Hironimo, ancora nessuna conferma se fosse vivo o morto e Marco Contarini, essendogli stato negato dal Gradenigo il permesso di unirsi alle missioni d’avanscoperta e incapace di respirare a causa di quel groppo in gola, era improvvisamente smontato da cavallo e s’era messo furiosamente a vangar via la terra e a sollevare mattoni pur di sfogare in qualche modo quel suo dolore, grato della pioggia torrenziale che gli nascondeva le lacrime. Si era ripetuto che in teoria era assai improbabile che avessero ucciso Hironimo, un patrizio veneziano rimaneva nel mercato dei riscatti una merce troppo preziosa da sprecare stoltamente. Eppure, non era da escludere che il Cor Suo, orgoglioso e testardo, avesse scelto di morire piuttosto di lasciarsi catturare.

“A caxa, la mia mojer la ve darà un fiatin d'unguento e bende – no gh’aveu mai laorato co’ le mani?”, gli chiese candidamente intrigato Donado e Marco gli elargì un cortese sorriso di circostanza, scuotendo il capo in diniego.

Al suo arrivo piuttosto inaspettato a Treviso, giacché aggiuntosi all’ultimo momento e non volendo soggiornare dallo zio – il podestà sier Andrea Donado -   il giovane Contarini era stato assegnato in via temporanea, ve lo zuro! in casa dei Cimavin, di professione mugnai, il che aveva impensierito non poco Marco, siccome non godevano gli esponenti di tale professione esattamente di buona fama – ladri, imbroglioni, usurai della farina -  non si soleva forse ripetere: i muneri i roba pregando? [8] Non ne avrebbero mica approfittato per derubarlo nel sonno, vero?

Il giovane patrizio aveva però ben presto scoperto con suo sommo sollievo come i Cimavin sì fossero mugnai, però già agiati di loro nel senso che possedevano ben tre “rode de molin” a Treviso e  lungo il Sile, un gran lusso: un mulino, il più grande, lo lavoravano direttamente loro; due li avevano dati in affitto a conduttori di fiducia, venendo tuttavia a controllarli spesso sia per la manutenzione che fosse costante sia per la produzione che non doveva calare sotto i livelli imposti della Serenissima, pena l’esproprio. E il padron peggiore è quello del mestiere.

Anche con la guerra in corso le loro fortune non erano mutate, anzi, l’ultimo che more de fame xé el munèr e Donado Cimavin aveva ben compreso la pressante richiesta di farina e pertanto i suoi mulini giorno e notte macinavano non solo per la popolazione trevigiana, bensì per Venezia, per l’esercito e le città limitrofe, con ritmi lavorativi talmente serrati che lui stesso dormiva all’occasione al mulino. Con l’arrivo dei soldati e il timore di eventuali danni, Donado aveva organizzato una contro-ronda coi suoi braccianti, così da controllare che quelle malerbe non gli rubassero o peggio danneggiassero la sua roba, bastonando senza pietà qualora necessario. E per roba sua intendeva anche la moglie, la siora Felicita, il cui palpeggiamento il Cimavin non aveva affatto gradito.

Ed eccola lì, la matrona di casa, seduta accanto al centro della stanza principale impegnata in apparenza a rammendare, in realtà i suoi occhi seguivano stretto ogni movimento della serva e del piccolo Jacopo seduto in braccio alla vecchia siora Luzia, sua madre. Donado andò subito incontro alla moglie, sennonché la giovane, annusando l’aria lo bloccò prima che potesse abbracciarla.

Noli me tangere!”, proclamò ieratica, il braccio levato a creare la debita distanza. “Seti onto, ve spuzate da cagnon e non vi vojo da rente! (vicino, ndr.)”, ma se le parole sembravano aspre, gli occhi e la bocca luccicavano di contentezza nel riavere ora per sé il marito, seppur sporco di fango e bagnato dalla pioggia e dal sudore.

“Aveu assunto ‘na massera?” (serva, ndr.), notò d’un tratto Donado la ragazza che stava riattizzando il fuoco nel caminetto, la quale si pose frettolosamente in piedi e salutò il nuovo padrone con un goffo inchino.

“Sior sì.”

“Sença dirme gnente?”

“Mi sun la patrona de caxa.”

“E mi el marido che paga.”

“Appunto, paghé! Qua a furia di prender zente in caxa, mi non sciò pì chome starghe drio!”, si giustificò impunita la moglie, senza smettere l’agile andirivieni dell’ago nella stoffa.  “An, la puta la se ciama Màlgari. La soa fameja la xé zonta ozi dal Montelo e la g’han alozata a la contrada di San Martim. Mi zerchavo guarda caso propio qualcheduna che m’ajutasse e la soa siora mare la me g’ha dito a man zonte: Madona, tolevela in caxa, la xé na brava puta de quindece anni, robusta e assa’ brava in cucina, v’ubbidirà in ogni cossa le comandaré . Et jo potevo rifiutar ad una poara mare disperata? Hé! Un fia’ di carità christiana!”, gli narrò, seppur l’espressione del marito seguitasse a rimanere molto scettica. Al che Felicita  esclamò spazientita: “Animo, andé a lavarve e fate pase col savon, deboto (fra poco, ndr.) svengo per via de sta spuza!”

“Vado, vado, perhò dopo faremo i conti!”

“Sì, sì sior marido, ché la puta la vol esser pagata in anticipo per la semana!” e rise all’imprecazione del consorte che riecheggiò dalle scale. Cambiando totalmente il tono di voce in uno più vezzoso, cinguettò in un sorrisone tutto fossette a Marco, rimasto saggiamente in disparte e sordo: “Zelenza, la massera la g’ha preparà un bel bagno ancha par vu; stasera, poi, gavemo di la lengua de bo’ co poenta e verdure bollite. Ve piaseu?”

“Mi piacerebbe, sì”, asserì educatamente il giovane patrizio, seguitando a sfregarsi le mani doloranti.

“Malgari, corate a ciapar el balsamo e di le bende pel magnifico messer domino Marco Contarini. Lesta!”, diede istruzioni Felicita alla domestica, la quale scese rapida ai piani inferiori.  Invitando Marco a sedersi, la giovane matrona riprese il suo lavoro. “Chome stanno i vuostri omeni?”, s’informò, riferendosi ai cinque soldati a spese del Contarini giunti seco da Padova. D’accordo presentarsi all’ultimo, ma senza nessuno come seguito proprio no, troppo sospetto. Per fortuna Ferigo gli aveva indirettamente indicato dove poter trovare dei volontari poco inclini a porre domande sconvenienti.

“Bene, ch’io sappia.”

“No ghe spiaseli alozar nel molino?”

“Si accontentano.”

Madona Felicita sospirò teatralmente. “Femo zò che podemo. D’altronde, cadaun zorno ne scapan cussì tanti a Trevixo, che non si sa pì ni dove metterli ni che cossa farli far. Bisogna dar a sta zente da laorar, sennò i vegne in testa strane idee. Chome predicava zustamente San Paulo: Chi non lavora non mangia! ché l’otium xélo pater de ogni vitium!”

Ascoltando il sermone in silenzio, Marco si guardava nel frattempo attorno, cogliendo i piccoli dettagli della stanza, dalle grezze decorazioni del grande caminetto, al vasellame di ceramica dipinta di Bassano, forse l’unico pezzo di pregio della casa e di fatti ben esposto all’occhio critico del visitatore. Studiò il fuoco scoppiettante, il biancore della tovaglia del grande tavolo guizzare nella penombra, il buco dei calzoni sparire gradualmente sotto i colpi dell’ago e filo. Cogli occhi accarezzò i soffici capelli del piccolo Jacopo che giocava felice e ignaro ai piedi della madre, la quale a sua volta passava di tanto in tanto la mano sul ventre sempre più grosso. Una scena domestica, serena, irreale quasi: quanto lontana pareva la guerra lì dentro! Eppure, bastava varcare la soglia di quella stanza per ripiombare nella sua squallida realtà.

“Siete molto tranquilla, madona”, commentò di punto in bianco.

L’espressione della giovane assunse tinte amare. “An, g’ho patìo de ben pèzo d’on assedio … Do anni fa, per puoco non divenivo vedoa co’n puto de quattro mexi, se nol gera pel magnifico messer Hironimo Miani.  Cossa gavaria fato mi sença el mio Donado? Jo, sola al mondo a diciasete anni co’n puto! Sier Hironimo me lo g’ha riportà vivo, el non gavea alcuna obligazion con elo, eppur me lo gh’ha riportà indrio, vivo!”, tirò su col naso, la maschera di cinica nonchalance caduta e Marco vi scorse dietro una fanciulla spaventata.

Felicita s’accarezzò ansiosa il pancione, memore del terrore atroce provato quando s’era vista il marito ricoperto di fango e sangue zoppicare verso casa, con Hironimo che lo sorreggeva per il braccio.

“Poaro, poaro sier Hironimo, g’ho tanto pregà la Devotissima azzò lo protegesse! Poareto,  non se meritava sta baronata. Non si abbandonano cussì i propri compagni!”, si asciugò la donna una lacrima ribelle, sorridendo imbarazzata a mo’ di scusa. “Zelenza, vuj seti omo de mondo, donca per cortesia  prudensa col fradelo, el magnifico messer Marco Miani: da quando g’ha savuo di la nova, a xé divenuo un tal salvadego; non si pol parlargli senza che ve morseghi. Poareta la soa siora mojer madona Helena, la compatisso!”

Marco si drizzò sulla sedia, scattando in avanti verso la donna. “Sier Marco xelo qui? In sta caxa?” Sin dal suo arrivo a Treviso, il Contarini aveva cercato invano di conferire con lui, tuttavia fallendo ad ogni occasione anche perché troppo impegnato il Miani sia con le ronde, sia a tener sottocchio il Bataja nella speranza di poterlo accusare di diserzione e così ucciderlo lentamente, con gusto.

“Macché, i xei nuostri visini. I g’han na caxa qui da che mo’, no saveu? El mio missier (suocero, ndr.) masenava le farine pel quondam sier Anzolo Miani, el qual gera on tal galantomo, sì sì.”

 “No, no ... cioè, sì ma non pensavo che … Avessi saputo, avrei chiesto …”

Gli occhi di madona Felicita si strinsero di dispetto, la fronte corrugata e le labbra piegate all’ingiù, pronte alla pugna sia dialettica sia della padella delle castagne in testa. “Zelenza, co tuto respeto, non ci credareu mica indegni d’alozar vuialtri patricij?”

“Non sia mai, voi siete i migliori anfitrioni dell’intero Stato da Tera! Non avrei potuto sperare in miglior alloggio!”, tagliò corto Marco, le gote vermiglie e sentendo la sua persona piuttosto minacciata. “Solo, non immaginavo che la famiglia Miani abitasse proprio in questa contrada. Che caso raro!”

“Ma ve par? Manco mi ghe credea!”, esclamò gioviale Felicita, distendendo il viso in un’espressione più rilassata. “Zò, Malgari, sistu andà fin a San Vio [9] a ciapar sto unguento?”, gridò verso le scale conducenti alla cucina.

 “Vi servo, patrona, vi servo!”, sbuffò l’ex-contadinella, prendendo uno sgabello e posizionandosi davanti a Marco, afferrandogli energicamente brusca il polso e mettendosi al lavoro. “A vara zò che man de tosa!” (ragazza, nr.), commentò in genuino stupore.

Nascosto in maniera strategica dalla fantesca che gli disinfettava e bendava le mani piagate, il giovane Contarini sospirò di sollievo per lo scampato pericolo di un incidente diplomatico -domestico.

Come facesse Hironimo a relazionarsi con ogni ceto sociale e a stringere amicizie sincere tra i loro esponenti con tal facilità da risultargli naturale quanto respirare,  Marco ancora faticava a comprenderlo ché lui dopo un’oretta a conversare con madona Felicita già gli stava venendo un gran mal di testa.

 

 

***

 

“Donca, porco d’un can franzoso, hastu voja de parlar?”

Alors, sale chien français, as-tu envie maintenant de parler ? "

Comme si vous me faisiez peur, vous, un porc cocu Vénitien ! 

“Che ciancia sto macaco?”

“Che non vi teme e che … e che voi siete un porco cornuto, magnifico sior Provedador.”

“A mi dil cornudo?! Paron Fortunato: date a questo furbastro qualche sorsetto d’acqua in più. Vedremo, se avrà ancora voglia di far lo spiritoso!”

Nelle stinche dietro a Palazzo dei Trecento ci si stava impegnando da molte ore e con grandi sforzi ad insegnare il veneziano al prigioniero francese, il segretario del maresciallo de La Palice, catturato da Nane il contadino sul Montello e condotto a Treviso legato e pestato alla stregua del baccalà mantecato del venerdì. Provando una piccolissima pena nei suoi confronti – le terrificanti prodezze che una donna arrabbiata può compiere quando armata anche solo di un batocchio di legno – gli inquisitori avevano deciso di limitarsi a farlo sedere al centro della sala, schiaffeggiandolo ogni tanto giusto per tenerlo sveglio, ma porgendogli soltanto domande. Una volta però ripresosi dal selvaggio trattamento campestre, il francese s’era armato di beffarda spavalderia e aveva rifiutato di tradire il suo maresciallo, ingiuriando sempre più pesantemente gli astanti al punto che l’interprete sudava freddo ad ogni frase tradotta.

In altre circostanze, e magari con altre persone, tale tenace atteggiamento avrebbe anche destato l’ammirazione di chi allo spirito cavalleresco ci credeva ancora. Siccome però la vita reale si riassumeva meglio in uno spiccio “ciò che voglio prendo, poco importa come e guai a te se mi fai la morale”, ecco che il segretario all’ennesimo insulto agli onorati presenti venne condotto in una cella sotterranea e lì s’incominciò il vero e proprio interrogatorio.  Legato ad una tavola di legno leggermente inclinata verso il basso e con la testa in quella medesima direzione, il francese col naso tappato fu costretto a bere acqua finché non si sentiva soffocare, tra colpi di tosse, vomito e fiumi d’urina per la vescica sovraccaricata da quell’inaspettata quantità di liquidi da smaltire.

“Parla, cancaro! O te fazzo tajar i cogiòni!”

Parle, racaille! Ou je vais te faire couper les couilles! ”

Il francese, trattenendo un po’ acqua in bocca, la sputò in faccia al Gradenigo, ringhiandogli contro: “Je vous encule, boule de suif!”

Nettandosi il viso bagnato e paonazzo per l’affronto, il provveditore lanciò un’occhiata molto significativa all’interprete, che farfugliò penosamente quasi sveniva: “Sier Zuam Paulo … devo proprio?”

L’arco minaccioso del sopracciglio dell’uomo gli confermò che sì, doveva proprio bere l’amaro calice di tradurre tutto fino all’ultima parola. Pregando la Madonna, il poveraccio gli riferì quanto detto dal segretario.

Un silenzio di tomba calò nella cella e neanche il capitano Vitello Vitelli, che pur di grossolanità ne aveva udite a bizzeffe, riuscì a guardare dritto in faccia il Gradenigo, il cui labbro inferiore tremò in un pericoloso rictus nervoso. L’unico serafico pareva sier Lunardo Zustignan, che anzi sorrideva lezioso al francese. “S-ciavo, sior canzelier. Stavolta l’hai fatta!”, gli sussurrò ironico.  

Di diverso umore sguazzavano l’interprete e lo scrivano, spostando agitati lo sguardo dal provveditore al prigioniero e viceversa, in attesa dell’esplosione. “Sier …”

“Ah sì?”, sibilò sier Zuam Paulo, alla penombra un diavol d’inferno quanto l’era in collera.  “Cussì me la conti? Che te me vol …”, si trattenne a stento, inspirando forte per il naso “… a me? Lo sai, muso-da-mona, cosa facciamo a Veniexia a chi copula alla fiorentina? Li bruciamo!”, berciò e  preso un attizzatoio, lo passò sul fuoco finché non divenne rovente, sventolandolo infine sotto il naso del prigioniero. “Se non vuoti il sacco in questo esatto momento, puoi immaginare dove ti ficco questo?”

E l’interprete più che tradurre le parole di Zuam Paulo Gradenigo, faticò a riportare parola per parola la fiumana che fu la confessione del terrorizzato francese.

Brevemente, Castelnuovo di Quero era stata conquistata con un inganno, essendoci dei traditori che fungevano da guida ai franco-imperiali nel feltrino, bellunese e trevigiano – Gradenigo volle e ottenne i nomi. Del castellano ignorava la sorte; l’Imperatore ancora cincischiava a Bolzano e intanto si puntava ora su Conegliano, Feltre e Cividàl di Belluno. Il francese aggiunse poi che La Palice aveva in progetto di rientrare a Montebelluna in attesa dei rinforzi che da Vicenza sarebbero arrivato a Marostica, dove si diceva li aspettasse il duca di Baviera e da lì sarebbero partiti con fanti almeno 10.000 per l’impresa, più 13 pezzi d’artiglieria (grosse, mezzane) e quasi 30 tra falconetti e colubrine; cavalleggeri tra i 1.500-2.000.  

Treviso sarebbe caduta - li assicurava -era già in mano loro come tutta la Marca; appunto per questo era intenzione dell’Imperatore di svernare in città per poi puntare su Venezia.

Soddisfatto, Gradenigo appoggiò l’attizzatoio rovente e il segretario del La Palice ritornò a respirare con la bocca.

“An, e dategli una dozzina di frustrate, come da protocollo. Non troppo forte, ma neanche da putelo, tutto esercizio, tutta salute”, aggiunse poi il provveditore generale non appena lo scrivano appoggiò la penna, mentre si sedeva sullo scranno pronto a godersi compiaciuto i frutti del suo duro lavoro. Facendo spallucce, incurante, il boia si apprestò a riscaldare la frusta sulla schiena del francese.

“Ma perché?”, chiese perplesso il podestà sier Andrea Donado “dalle Rose”. “Ha confessato!”

“Sì, ma no me xé garbà el tono!”, insistette seccamente Gradenigo, massaggiandosi al fianco là dove friggeva il suo povero fegato.

“Signor Gian Paolo, con vostra buona licenza, incomincio il turno di ronda per stasera.”

Schiocco-urla … schiocco-urla … schiocco-urla …

“Già s’è fatta sera? Sì, sì, andate pure capitano Vitello. Vi raggiungerò più tardi.”

“Con permesso.”

Schiocco-urla … schiocco-urla … schiocco-urla …

“Un cosa qui ancora mi sfugge: questo Papa è vivo o morto?”, cogitò ad alta voce sier Lunardo Zustignan, una volta che il capitano Vitelli ebbe chiuso dietro di sé la pesante porta.

Schiocco-urla … schiocco-urla … schiocco-urla …

Osservando sempre più disgustato lo spettacolo dinanzi a sé, il podestà replicò: “Il fante ferrarese non aveva detto esser morto? Anche il governatore di Millan, il duca Gastone di Foys si è rallegrato pubblicamente della sua morte. Che ne pensate, sier Zuam Paulo?”

Schiocco-urla … schiocco-urla … schiocco-urla …

“Mah … quel fiorentino è una canaglia, un parassita, difficilmente la pula la si cava dal grano …” L’essersi staccato dalla Lega di Cambrai, una volta ottenute le città della Romagna, non aveva garantito a Giulio II l’immunità da lui sperata, al contrario: sia il Re di Francia che l’Imperatore avevano indetto un concilio a Pisa per eleggere un antipapa e gran gaudio generale nell’immaginare quel disgraziato rosolarsi nei suoi medesimi rimorsi, avendo dimenticato che Venezia, gli piacesse o meno, era un necessario cuscinetto tra lo Stato Pontificio e Francia e Impero. Chi troppo vuole nulla stringe, dice il proverbio, ma forse Della Rovere era stato disattento quel giorno.

Schiocco-urla … schiocco-urla … schiocco-urla …

Avendone abbastanza e ottenuto le informazioni necessarie, i tre patrizi veneziani lasciarono la cella mefitica e claustrofobica e il francese nelle ottime mani di paron Fortunato, boia di qualità.

Quando giunsero in Cancelleria, la trovarono rivoltata in piena rumorosa confusione: i consiglieri, i rettori, i coadiutori e l’auditore sier Piero Antonio Morexini avevano circondato Cipriano da Forlì e la giovane staffetta, discutendo assai animatamente.  Perfino Vitello Vitelli, dimentico della ronda, ascoltava incredulo.

“Coss’ela sta cagnara? Siamo forse a Carlevar?”, li rimbeccò il podestà sier Donado.

Affatto intimorito, Cipriano da Forlì gli venne incontro, esclamando: “Signor Andrea, è appena giunto un messaggio del magnifico domino messere Francesco Foschari capo dei Dieci: il Papa è ancora vivo!”

“Cosa?!”, esclamarono basiti sier Lunardo e sier Zuam Paulo, ricevendo quest’ultimo in mano la lettera del Foscari e divorandone i contenuti.

Di quanto affermato da Gaston de Foix e l’emissario estense, sier Francesco Foscari smentiva tutto, poiché un suo uomo aveva appreso da fonti attendibilissime – il patrigno del cardinal Arzentino e lo stesso cardinale Giovanni de’ Medici – come il Papa certamente si trovasse in extremis e disperata salute, ma non per questo necessariamente orizzontale. In ogni modo, Roma intera si trovava in arme in attesa di sviluppi e tutte le spie dei Dieci, l’ambasciatore sier Hironimo Donado “dalle” Rose e i cardinali domino Domenego Grimani e Marco Corner tendevano ben bene le orecchie pronti a riferire all’istante.

Sier Gradenigo sorrise carnivoro: forse la missione di sier Hironimo Donado, dottor e orator della Signoria Serenissima a Roma, si poteva dichiarare ancora opus in corso.

 

***

 

Il milanese Aloisio Ferrer, capitano d’uomini d’arme, cavalcava inquieto accanto ai capitani di fanteria  monseigneur de Richebourg e monseigneur de Mongiron, la mente in subbuglio: la notizia di un imminente attacco da parte di Ferigo Contarini di San Cassian aveva instillato in Vicenza un panico sottile, presi infatti di contropiede sia Giovanni Gonzaga che il duca Charles de Bourbon, i quali tale mossa azzardata forse ancora se la sarebbero aspettata dal loro Bon Chevalier de Bayard, ma non di certo da quel diavolo d’inferno veneziano. Malgrado i sospetti del duca di Bourbon, che aveva suggerito d’inviare degli esploratori in avanscoperta per confermare la veridicità della notizia, alla fine era stata accordata la decisione di spostare immediatamente a Marostica i rinforzi giunti da Milano inviati dal Duca di Nemours, così da unirsi al contingente del Duca di Baviera e proseguire fino a Montebelluna dove La Palice e, a Dio piacendo, l’Imperatore li stavano attendendo per l’impresa di Treviso.

Ah, Treviso … A sentir il Re di Francia e Gaston de Foix suo nipote la città già pareva conquistata, sicuri dei loro numeri sia in fatto di uomini e di cavalli sia d’artiglieria. Un assedio facile - si vantavano - le mura scaligere crolleranno al primo tocco, vous verrez!

Eppure … eppure …

Il Ferrer non riusciva a districarsi dalla morsa stretta dell’ansia, una sgradevole sensazione di stonatura in quella marcia precocemente trionfale.

Primo, perché non arrivavano lettere dal maresciallo La Palice, informandoli dei loro ultimi spostamenti?

Secondo, perché proprio adesso quell’improvviso attacco suicida del Contarini di San Cassian?

Terzo, perché, nell’euforia e ottimismo generale (già il Re di Francia brindava alla caduta di Treviso), soltanto la voce del maresciallo  Gian Giacomo Trivulzio s’era levata contro l’impresa? Egli era arrivato addirittura a sfidare apertamente il Re, rifiutando l’incarico malgrado l’insistenza di quest’ultimo e quando il sovrano aveva esatto spiegazioni, il Trivulzio si era giustificato affermando che dopo anni di sfavillanti vittorie su grandi signorie e avversari, non voleva rimpatriare a Milano ricoperto dal fango del disonore e della vergogna, sconfitto da una città misconosciuta e dai suoi burocrati. “Sire, Treviso come Venezia è una luogo di cielo, terra e acqua. Quest’estate è piovuto anche fin troppo, la Marca sarà ritornata di sicuro una palude, cioè un disastro per muovere truppe e artiglierie, rallentandoci in ogni manovra ma esponendoci allo stesso tempo ai nemici. Inoltre, ricordatevi cosa fecero al trombetta di Leonardo Trissino: sono feroci quanto bestie lì, non arrischierò una morte disonorevole ai miei uomini, sgozzati nel sonno peggio d’agnelli!”

Sgozzati nel sonno …

Le truppe sfilavano in marcia a ranghi ben serrati, guardinghi al massimo, viaggiando persino di notte e concedendosi solo qualche ora di riposo, così anche da cambiare i soldati nelle retrovie in modo da guardarsi le spalle da eventuali attacchi.

“Sandrigo, enfin!”, esclamò il capitano de Richebourg, guardandosi attorno. “Encore un peu, e tosto arriveremo a Marostica!”

Quasi a segno di buon augurio, il sole s’erse su quel 31 agosto, tingendo il cielo del delicato rosa dell’alba e levando gli ultimi residui della nebbia dovuta dal terreno ancora imbevuto dell’acqua della pioggia torrenziale del giorno precedente.

Il capitano Ferrer si coprì gli occhi con la mano, ferito da uno strano bagliore. Come?  Già così splendente il sole?

Levato lo schermo, il milanese spalancò la bocca in pieno orrore e prima ancora che potesse urlare: “Imboscata!”, una freccia trapassava la gola di uno dei cavalieri accanto a lui e un fragore da far tremare la terra li giungeva incontro, un fiume in piena che si divideva con diabolica precisione per spezzare la colonna di marcia delle truppe, una legione di diavoli venuti per il loro sangue.

“Marco! Marco!”

I vessilli dorati di Venezia brillavano beffardi alla luce del sole, questo loro tacito complice che era sorto apposta per renderli i franco-imperiali visibilissimi e tra gli stendardi il capitano Ferrer riconobbe lo stemma a tre bande azzurre in campo d’oro che tanto aveva imparato a temere.

Embuscade! Embuscade!”

A che pro chiedersi come avessero fatto a raggiungerli così in fretta, intercettandoli? A che pro?

Bastavano i fatti e cioè che Ferigo Contarini li aveva ingannati tutti, non avendo mai avuto intenzione di andare a Vicenza e adesso, per quella loro ingenuità, avrebbero pagato con la vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

****************************************************************************************************************

 

I francesi sono dei pessimi perdenti: nella loro versione della Guerra della Lega di Cambrai, mai non hanno accennato a questo episodio né a qualsiasi altra sconfitta inflittagli dai veneziani. Federico Contarini mai nominato. Appena appena si accenna alla sconfitta a Padova del 1509, ovviamente dando la colpa a Massimiliano, agli spagnoli, ad Alfonso d’Este, al Papa, alla gatta di Codalonga, etc. A sentir loro, insomma,  non persero neanche una battaglia … Boh.

Treviso contava all’incirca più di 200 mulini nel suo territorio per via dell’eccellente risorsa idrica: essendo i suoi fiumi di risorgiva, non soffriva della siccità estiva o del gelo invernale, producendo pertanto per tutto l’anno e Venezia esigeva quasi 30,000 staie (sacchi) di farina come rifornimento, anzi, alcuni mulini macinavano esclusivamente per la città che all’epoca contava quasi 150.000 abitanti; altri mulini all’occasione erano tenuti a macinare per Venezia mentre un’altra parte solo per il territorio trevigiano e dintorni. Sul Sile scivolavano continuamente burchi pieni di farina, ma anche lana che veniva follata a Treviso e pure legna dal Montello che veniva lavorata prima della spedizione in Arsenale per le galere.  I mulini molto spesso venivano dati in affitto ai mugnai, talmente importanti che prima dell’annessione a Venezia avevano la loro Corporazione. Sotto la Serenissima, i mulini appartenevano o agli ordini ecclesiastici, o al comune, o ai patrizi veneziani o ai nobili terrieri locali; tuttavia, non era improbabile per un mugnaio possedere il proprio mulino, solo che i costi di manutenzione sia ordinaria che straordinaria erano talmente alti, che se non possedeva sufficiente capitale per mantenerlo, allora preferiva andare in affitto.

Riguardo al Nostro, le cronache confermano come si salvarono in quattro dal massacro di Castelnuovo di Quero: lui, i bellunesi Paolo Doglioni e Cristoforo Colle e un popolano di cui però non specificano il nome. Vittore del Pozzo s’era già portato fuori dal castello, quindi non conta.

 Per motivi di trama e per tentare di spiegare (e anche anticipare) ciò che accadrà al Nostro, ho deciso essere un bambino. Interessantemente, ho trovato esempi in cui non era improbabile utilizzare bambini per il trasporto delle polveri da sparo e per la mescolatura in loco, forse in quanto piccoli e difficile da centrare?

In ogni caso, spero che il capitolo vi sia piaciuto!

Alla prossima!



Un po’ di noticine:

 [1] Hé, Finger weg! Ich habe ihn zuerst gesehen, er gehört mir = hé, giù le zampe! Lo visto prima io, mi appartiene! // Pas de chance, sale voleur, c’est à moi! Et si tu t’approches avec tes sales mains allemandes, je vais t’enfoncer ce couteau dans ta foutue gorge ! = scordatelo (lett. Nessuna possibilità/fortuna), sporco ladro, è mio ! E se ti avvicini con le tue sporche mani tedesche, ti ficco questo coltello giù per la tua fottuta gola ! // Passiert. Nächste Mal = capita / succede. La prossima volta.

[2] Sulla morte di Girolamo Contarini, padre di Federico, riferisce il Sanudo in data 1508: "A dì 10, fo la vezilia di Pasqua di mazo. Et la sera achadete un caxo molto strano et miserando, che fo conduto in questa terra il corpo di sier Hironimo Contarini, quondam sier Moisè, era stato provedador di l’armada fuora zà molti mexi, el qual si era anegato versso Lanzam, e rota la so galia, et cussì quella di sier Bernardim da cha’ Tajapiera, sopracomito, per fortuna grandissima. Il modo, quando e come, scriverò di soto. Fo caxo zà molti anni non sequito un tal, et a tutta la terra si dolse."

 [3] i Turchi ad Otranto = Fra’ Leonardo partecipò alla Guerra d’Otranto (1480-81) militando per Alfonso II di Napoli, all’epoca principe ereditario e Duca di Calabria.

[4] la Vècia al Panevìn = la vecchia (un fantoccio ben inteso!) alla festa del Pane e Vino. Si tratta di un falò di inizio anno, una tradizione popolare dell’Italia nord-orientale che consiste nel bruciare grandi cataste di legno e frasche su cui viene posto il fantoccio di una vecchia, questo il giorno della vigilia dell’Epifania (5 gennaio). Si suppone questo essere un rito pagano poi cristianizzato risalente addirittura ai tempi dei Paleoveneti, legato alla purificazione della terra. A seconda della direzione del fumo si saprà come andrà l’anno: male se va ad occidente, bene se va ad oriente, con tutte le varianti da città a città.

[5] colonne tra San Marco e San Todero =  a Piazza San Marco si concludevano le esecuzioni dei condannati a morte dopo la sfilata tra i canali, appunto tra le due colonne con in cima le statue del Leone Marciano e di San Teodoro (Todero in veneziano), davanti a Palazzo Ducale verso il bacino di San Marco.

[6] Muso-da-Baila = Faccia da Badile, un fantomatico soprannome di Massimiliano.

[7] Nell’899 Treviso subì un devastante saccheggio da parte degli Ungari. Il santuario di Santa Maria Maggiore venne pressoché distrutto, salvandosi solo il muro coll’antico affresco della Madonna, tuttora esistente.

[8] i muneri i roba pregando = I mugnai rubano pregando.  Si riferisce al gesto di prelevare la farina con le “mani giunte” come quando si prega, col “rischio” di dare meno di quanto si pagava per farla macinare.

[9] San Vio = San Vito di Cadore, comune in provincia di Belluno, situato nel cuore delle Dolomiti. Appartenente ai feudi dei da Camino, nel 1420 passa alla Serenissima sotto cui conosce una fase di felice sviluppo economico (ovviamente prima e dopo la Guerra della Lega di Cambrai).

 

 

 

  
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