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Autore: LeanhaunSidhe    22/10/2019    7 recensioni
La lama brillava ed era sporca. Imuen girò il taglio della falce verso la luna e ghignò incontrando il proprio riflesso. Si sentiva di nuovo vivo. Non distingueva il rosso dei suoi capelli da quello del sangue dei suoi nemici. La sua voce si alzò fino a divenire un urlo. Rideva, rinato e folle, verso quel morto vivente che era stato a lungo: per quanto era rimasto lo spettro di se stesso? Voleva gridare alla notte.
È una storia con tanto originale, che tratta argomenti non convenzionali, non solo battaglia. È una storia di famiglia, di chi si mette in gioco e trova nuove strade... Non solo vecchi sentieri già tracciati... PS: l'avvertimento OOC e' messo piu' che altro per sicurezza. Credo di aver lasciato IC i personaggi. Solo il fatto di averli messi a contatto con nemici niente affatto tradizionali puo' portarli ad agire, talvolta, fuori dalla loro abitudini, sicuramente lontano dalle loro zone di comfort
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aries Kiki, Aries Mu, Aries Shion, Cancer DeathMask, Nuovo Personaggio
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ballata dei finti immortali'
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Nessuna vita dovrebbe valere più delle altre. Eppure, solo alcune danno senso al nostro essere, al nostro agire, vivere e morire, alla nostra follia...

 

La terra si ribellava: ribolliva e le scosse erano diventate rapide, imprevedibili. Ovunque si posasse il piede c’era il rischio di perdere l’equilibrio dopo poco. Avevano iniziato a spostarsi in fretta, chiedendosi dove mai avrebbero potuto trovare un punto stabile. Ormai, era chiaro che non sarebbero potuti restare li ancora per molto. La pietra si sgretolava pure dall’alto e minuscole crepe serpeggiavano sotto i piedi. Pezzi sempre più grandi di stalattiti rovinavano dal soffitto ed un leggero odore di zolfo permeava dal basso. A qualcuno, parve addirittura di percepire il calore ed il colore del fuoco. Poi, una luce chiara accecò il centro del gruppo per pochi istanti, restituendo le sembianze di Haldir e Zalaia.

Un masso che si era staccato dal soffitto e piombava a filo sopra le loro teste fu distrutto da un semplice gesto della falce. In quel momento, chiunque avesse incontrato il viso del figlio di Cancer avrebbe voluto distogliere lo sguardo, che dardeggiava ed era affranto: c’era dentro il dolore di un affronto feroce, subito, come se fosse stato ingannato nel profondo. Death Mask aveva provato a ricambiarlo e suo figlio aveva abbassato il capo, come se si vergognasse o, semplicemente, fosse più interessato alla persona che stringeva convulsamente al petto. Poi, Zalaia aveva afferrato delicatamente la mano di lei che era scivolata oltre il busto, prima che terminasse l’ultima oscillazione e si fermasse priva di peso, svelando completamente la totale incoscienza in cui la ragazza versava.

Suo padre, allora, aveva teso le labbra, conscio del senso di colpa che avvertiva in suo figlio. Death Mask ricordava chiaramente la sfacciataggine con il suo ragazzo aveva esibito la promessa che avrebbe protetto a tutti i costi l’Altare solo per far piacere a lei.(1) Zalaia era vivo e riportava indietro quasi due cadaveri, uno era della persona che amava. Sulle spalle, sicuramente, si sentiva il peso per aver fallito su molti fronti.

 

Nel momento in cui Haldir e Zalaia si erano materializzati davanti ai suoi occhi, Mu aveva compreso cosa si provasse ad avere l’anima spaccata: una parte tra gli artigli del gigante bianco ed una tra le braccia del figlio di Cancer. Era come sentire il cuore smettere di pulsare mentre nella testa si scatena il blackout. Ogni cosa ti attraversa come se non ti appartenesse. Neppure i tuoi passi, i tuoi battiti, i tuoi respiri. L’Ariete non sapeva se le lacrime gli stessero bagnando le guance mentre raggiungeva suo fratello. Sincerarsi di come stesse Seleina, invece, capì a malincuore che non era un suo diritto.

“Non sono ancora morti.”

Le parole di Haldir avevano preceduto le sue dita nel tentare di sfiorare la fronte di Kiki: suo fratello era troppo pallido per avere ancora una speranza. Eppure, da lui proveniva una forza che non gli era mai appartenuta: qualcosa di più antico e sotterraneo, che riusciva ad avvertire chiaramente ma non ad inquadrare.

“Cosa gli è successo?”

Haldir lo aveva ricambiato col suo volto impassibile. Per la prima volta, però, gli era sembrato di scorgerci una traccia di espressione: un rimorso di cui non lo avrebbe mai reputato capace.

“Ho cercato di rimediare.”

Mentre gli restituiva Kiki, notò finalmente il corpo del gigante privo della corazza. Spalancò gli occhi verdi, rendendosi conto che l’aveva in qualche modo sacrificata a quello scopo. Anche Seleina pareva ancorata tenacemente in quel mondo dalla stessa energia.

“Sbrigatevi ad uscire.”

Aveva ribadito ancora Haldir, rimarcando il valore ed il senso del proprio gesto. Nel suo tono che non ammetteva repliche o incertezze, Mu ritrovò la lucidità per eseguire quell’ordine. Mostrare loro la meta, toccava a Zalaia. Il cavaliere d’Ariete aveva annuito. Nonostante tutto, avrebbe voluto cancellare per sempre quegli attimi concitati dalla sua memoria. Avrebbe ricordato solo i comandi secchi dei domatori gemelli, impartiti sia ai cavalieri d’oro e sia ai sottoposti. Imuen ed Haldir li avevano letteralmente cacciati via tutti: purificare del tutto quel posto era il loro ultimo compito. Il nero ed il bianco delle loro aure li racchiusero, confondendosi, circondandoli nel buio.

 

****************

Apparvero in una radura coperta di verde, dove alti arbusti celavano macerie di un antico castello incrostate di rampicanti e licheni. Mantenendo il silenzio, si poteva addirittura udire il ronzare delle api e le ali degli uccelli che frullavano veloci a sperdersi tra le fronde. I cavalieri si guardarono attorno confusi, certi di essere soli.

Zalaia, però, aveva messo la mano a coppa attorno alla bocca, a gridare a pieni polmoni un nome. Poi, aveva controllato ancora Seleina, ansioso.

“Eccomi. Chi mi chiama?”

Sorpresi da una voce femminile e suadente che li aveva colti alle spalle, i cavalieri si girarono verso chi aveva risposto, scoprendo una donna di rara bellezza. Zalaia, però, aveva sbuffato. Le aveva spiegato che avevano feriti gravi e poco tempo. Lei, allora, aveva riso, portandosi aggraziata la mano alla bocca, a nascondere le labbra sottili e rosate.

“Perché non lasci mai divertire un po’ questa povera vecchia, bambino dalle dita di miele? Non c'è fretta. Lo sai che qui il tempo si dilata e si accorcia a nostro piacere.”

Poi, quella aveva steso il braccio con un movimento elegante alla propria destra, mentre la pelle raggrinziva e copriva di rughe. Gli occhi glauchi e lucenti si adombravano di un velo opalescente e spento. I capelli dalle morbide onde sbiadivano crespi, dall’ebano all’argento. Le mura sbeccate alle sue spalle si innalzavano fino a possenti blocchi murari squadrati, poggiati l’uno sull’altro a coprire qualche decina di metri. L’espressione serena dell’inizio era diventata sicura e rapace. Li squadrava uno a uno, anche se all’apparenza sembrava ceca.

“Come mai tanti estranei? Non bastavano vecchie e sgradite conoscenze?”

Del tutto diversa nelle sembianze e nelle vesti, la strega delle fiabe aveva indicato Tabe, che l’aveva ricambiata con un inchino di scherno. Zalaia, però, aveva ribadito che stavano solo eseguendo ordini ed avevano fretta.

“Gli ordini di Haldir, il domatore della vita su questa terra.”

L’anziana aveva masticato le parole a denti stretti, prima di terminare la sua considerazione astiosa.

“Si spera li abbia ponderati a dovere, stavolta.”

Aveva assottigliato lo sguardo verso Seleina, come se in lei avesse riconosciuto qualcosa. Prima di rivolgersi a Gona, pretendendo da lui ogni conferma, quale più alto in grado, ribadì però di non capire la necessità della presenza di tutti quegli estranei nel loro villaggio.

“Passi per il lemuriano che ha compiuto il miracolo e pure quello che dicono essere suo fratello. Passi addirittura tuo padre. Ma gli altri potrebbero benissimo tornare da dove sono venuti. Troppi conosceranno il posto dove nascondiamo quelli che vanno protetti!”

Zalaia, allora, aveva cercato di rassicurarla. Erano tutte persone fidate. La vecchia, però, prima di dar loro le spalle ed appoggiarsi al suo bastone, aveva tirato le labbra sottili in un sorriso sardonico.

“Bambino dalle dita di miele, sei tanto bravo col violino e con la falce quanto ingenuo. E’ dei guerrieri come te proteggere con le armi, delle vecchie come me usando il cervello.”

Poi, aveva riposto, rapidissima, lo sguardo sui cavalieri, scatenando in loro una singolare situazione di disagio.

“Haldir abbai come vuole: se uno solo di voi danneggia, mette in pericolo o offende in qualche modo quelli che vanno protetti, tutti rimpiangerete la condanna divina a cui vi hanno sottratti come il giorno più lieto della vostra miserabile esistenza. Siete avvertiti.”

Li aveva indicati uno per uno col dito artigliato e scarno, Cancer per ultimo ed un attimo in più, prima di riporre la mano ed inforcare un sentiero in mezzo al verde che si delineava per incanto mano a mano che lei ci poggiava il piede malfermo. L’erba ingialliva sotto la suola della sua scarpa per far largo alla terra battuta. Ad osservare meglio il tracciato, si sarebbero potute rintracciare le orme di molta gente. Erano piedi piccoli: impronte poco profonde, di bambini che pesavano poco e correvano veloci. Poi, mentre faceva strada, la vegliarda aveva girato di poco il viso verso uno degli ateniesi.

“Tu, che sei talmente bello da sembrare divino: come mai puzzi così tanto?”

Aphrodite, dalla direzione in cui si era girata l’anziana, non poteva aver dubbi che ce l’avesse con lui. Meravigliato, rispose che non era colpa sua se si presentava in quel modo indegno, lordo del sangue dei loro nemici. La vecchia, però, aveva schioccato la lingua. Precisò che non si riferiva alla puzza del sangue dei perduti, che conosceva troppo bene, ma a quella del veleno alle rose. Tabe, allora, fino a quel momento silenzioso spettatore, s’era fatto avanti, a scimmiottarla nel suo incedere claudicante. Intrecciate le mani dietro la schiena, si era poi chinato al suo orecchio, per salutarla. Precisò di essere stato lui a coprire di quel sangue marcio l’ateniese, proprio per camuffare un po’ l’aroma pungente e fastidioso del veleno che il cavaliere si portava appresso.

“Non basta uno stratagemma futile dei miei ad ingannare il tuo fiuto efficace. Resti sempre la migliore, madre.”

Aveva portato il peso del corpo ora sulla punta dei piedi ora sul tallone, a far dondolare, avanti ed indietro, il corpo asciutto, mentre lei lo scrutava infastidita.

“Altrimenti, riconoscendo me e sentendo del veleno, ci avresti uccisi per proteggerli ancora prima di farci spiegare.”

La vecchia aveva sbuffato, maledicendo tra i denti ancora perfetti ed aguzzi il giorno esatto in cui l’aveva generato.

“Anche tu non sei cambiato: sempre come acqua di mare su una ferita aperta.”

Alla fine, aveva accettato il braccio che le era stato offerto per rendere più celere l’andatura.

“Beh, con me la ferita brucia ma almeno cicatrizza prima.”

Lo aveva guardato in tralice, per niente convinta. Quel debosciato si faceva vivo fugacemente una volta ogni dieci anni in media, sempre con nuove esperienze e viaggi, magie e pensieri. Senza dubbio, le somigliava troppo.

 

****************
 

Milo aveva osservato la schiena di quella singolare coppia stranamente assortita. Più che madre e figlio, sembravano nipote e trisavola. C’era però qualcosa nello sguardo lattiginoso di quella che non avrebbe saputo come definire, forse maga, che pareva tremendamente veloce e vivo. Era lo stesso guizzo imprevedibile che saettava nelle spade del presunto figlio, nelle sue azioni imperscrutabili, veloci ed altalenanti ma che, come lui stesso aveva appena spiegato, forse avevano sempre un fine. La minaccia che era stata rivolta loro all’inizio, tuttavia, non sembrava essere stata pronunciata a vanvera. Che lo spadaccino avesse davvero usato una specie di precauzione, nei loro confronti? Se quella maga avesse sentito un odore pericoloso addosso al loro compagno d’armi li avrebbe attaccati tutti, per difendere quelli che andavano protetti? Sarebbe stato anche interessante scoprire cosa o chi fossero, dopotutto, quegli individui.

Quando entrarono all’interno delle mura, l’anziana si ritrovò circondata da un capannello di ragazzini urlanti. Lo spadaccino al suo fianco se ne mise in spalla un paio che gli si stavano letteralmente arrampicando addosso. All’improvviso, i Dunedain parevano aver perso quella loro aria guardinga e minacciosa. Nelle loro espressioni finalmente più comprensibili, sembravano quasi umani. Quello che era stato un dubbio, in Milo di Scorpio, si radicò come una certezza: che fossero semplicemente quei bambini quelli che andavano protetti?

C’era stata la carezza docile da parte di quell’anziana, le cui le dita nodose si erano soffermate sul braccio di Zalaia, dal momento che, tremule, mai sarebbero arrivate alla sua guancia. Milo avrebbe scommesso che, un tempo, persino Zalaia era stato in quel prezioso gruppo di ragazzini. Ebbe la sensazione di scoprirlo nella familiarità tra il figlio di Cancer e quella donna che, davvero, sembrava volesse consolarlo.

Taka aveva sussurrato qualcosa al giovane ed il suo viso offeso da tante righe non era più ostile. Aveva aperto una porta, permettendo solo a Zalaia, Mu e Death Mask di entrare. A loro, invece, aveva ribadito ancora una volta di comportarsi a dovere. Milo, stiracchiandosi appena, onestamente sfinito, aveva deciso che avrebbe iniziato a non curarsene troppo.

Invece, si era rivolto allo spadaccino magro, curioso.

“Davvero sei il figlio di quella donna?”

Gli chiese, vedendolo inarcare un sopracciglio. Dalla reazione che aveva suscitato, non era sicuramente il primo a porgere quel genere di domanda.

****************

Death Mask aveva atteso che entrassero Mu e Zalaia, per poi gettare un’occhiata all’interno del piccolo ambiente. Aveva scorto Mnemosine in un angolo, con le mani intrecciate, strette in grembo, mentre attendeva che si avvicinassero coi feriti sui giacigli e si era fatta piccola, per permettere di eseguire i comandi svelti di Taka senza rubare spazio. L’aveva vista fissarlo intensamente, a mimare un grazie commosso con le labbra, senza voce. Gli aveva fatto cenno di aspettare.

Stupito, si posizionò allora in un angolo, osservandola mentre aiutava ad allungare Seleina tenendola per la testa, per poi ripetere un’azione simile anche con l’Altare. C’era un silenzio quasi assoluto in quella stanza, rotto solo dai sussurri veloci tra le due guaritrici: Taka ordinava e Mnemosine eseguiva. Si udirono poche battute tra Zalaia, e l’Ariete, i passi metallici di questo verso l’esterno e la porta cigolare intanto che usciva. Per qualche minuto, il cavaliere del Cancro si chiese se aveva interpretato male il volere della donna che aveva amato. Poi, al cenno delle iridi verdi di lei, che si erano alzate nelle sue e poi puntate alle spalle di Zalaia, aveva compreso. Lo supplicava di portare ancora un po’ di pazienza. Di perdonarla se non poteva ringraziarlo come si deve e stare vicino a suo figlio. Prima che Death Mask si avviasse per accontentarla, Mnemosine gli aveva sorriso.

 

****************

Tornare libero era esaltante: Haldir non si curava della pelle scoperta sotto la maglia di cotta mentre continuava a tagliare. Mano a mano che trafiggeva quei fantocci a metà tra la vita e la morte ricordava di più, attimo dopo attimo, cosa significasse sentirsi completi, essere un tutt’uno con le proprie origini: come quando i perduti non esistevano ancora. Si era girato verso il gemello, euforico, contando quanti Imuen ne purificasse, spedendoli direttamente all’altro mondo, col movimento della sua falce. Sparendo nemici e fuochi fatui, attorno a loro, le tenebre si facevano via via più fitte, se non fosse stato per i cirri rossi che avevano iniziato a schizzare da bocche di fuoco aperte improvvise nel terreno. Erano come scintille aghiformi coniate dalla mano del fuochista, che vivevano nel firmamento petrolio per morire in pochi istanti. C’era sempre meno tempo: quell’antro di pietra sarebbe crollato una volta per tutte, lasciando solo un cumulo di rocce fumanti.

Haldir saettò in mezzo ai rivoli di lava per tagliare anche una degli ultimi. Poiché riviveva la storia di ognuno di loro mentre ci interagiva, riconobbe la paura ed il viso delicato di quella giovane, che somigliava tanto a Seleina ma non era certo lei. Apprese chiaramente come, con quelle sembianze piacevoli, avesse cercato inutilmente di ingannare, poco tempo prima, persino il cavaliere d’Altare.(2) Nella mente di Haldir, per un attimo, la morte si confuse con la vita vera. La coltre del passato tagliò i suoi ricordi. La vide viva, sorridente, compagna del suo attuale guerriero più forte, prima che la furia dei perduti la strappasse via e Gona, disperato per il dolore, si allontanasse dai suoi simili per restare un animale solamente, con l’espressione dell’asceta e lo spirito dilaniato, per molti anni. Rivisse il sangue e l’oscurità che la avvolgevano, corpo ed anima, per restituirla nel demone odioso che era diventata, ad accusarlo di averla abbandonata, persino lei, esattamente come tutti gli altri. Gli sembrò davvero che fosse Seleina a rivolgergli quell’accusa che lo torturava. (3) Fiaccato dal rimorso, Haldir esitò per una manciata di secondi prima di trapassarle il petto e permetterle di morire davvero, ansante. La punta della sua spada era emersa dietro alla schiena ed al costato della fanciulla perduta, mentre lei si accasciava per spegnersi. Una lacrima che non gli apparteneva strisciò sul viso del gigante bianco, mentre davanti a lui si riapriva, per l’ennesima volta, il vuoto dell’oscurità. Si sbagliava: neppure lui, dopo tutto ciò che era accaduto, sarebbe più riuscito a tornare se stesso. Aveva ricominciato a mulinare le armi e quel clangore, quel rosso che le sporcavano, era fetido. Gridò di impotenza, rabbia e dolore mentre terminava l’opera. Davvero, quella era stata una degli ultimi. Ne rimanevano una manciata. Ringhiando, sibilò i loro nomi, uno per uno, di quella decina scarsa che restava. Alla fine, aveva terminato il fiato. Insieme a loro, aveva trafitto con centinaia di colpi pure se stesso. Era stato alto il prezzo della libertà.

 

Imuen non si accorse del suo esitare, preso solo dal terminare quell’impresa, per uscire al più presto possibile da quella fogna, insieme. Gli sembrava reattivo, potente, come era sempre stato. Aveva capito che non c’erano altri nemici da uccidere, ma solo fantasmi a cui concedere finalmente pace. Concludere tutto e vivere. Non voleva nient’altro. Appena aveva purificato anche l’ultimo fuoco fatuo, il rosso delle fiamme disegnò la sua umbra sul terreno frastagliato. Balzò indietro, richiamando il gemello. Spalancò gli occhi, soffiando: la lava, come la mano aperta di un titano, andava a stringere le dita attorno al corpo accasciato del fratello. Imuen gridò il nome di Haldir, mentre lo vedeva solo espandere la propria aura prima che il magma lo avvolgesse, trascinandolo via, come un’onda. Alla fine, il manto rosso iridescente s’era abbattuto sul terreno, piatto: del gigante bianco non vi era più traccia. Solo l’eco dell’ultima parola a suo fratello, compagno di tante battaglie. Scappa. Sconfitto, del tutto certo di essere rimasto solo, Imuen non attese che il terremoto diventasse più impetuoso, prima di servirsi delle sue facoltà per riemergere da quella grotta senza sbocchi.

 

L’aria fresca gli solleticò le narici mentre riusciva a distinguere chiaramente fuliggine e terra, sulla pelle delle mani. Avrebbe dovuto tornare al campo. Sua moglie lo attendeva trepidante, con suo figlio in braccio. Doveva istruire Zalaia sulla protezione del campo, che non fosse sopraffatto dall’autorità ingombrante ed autoacquisita di Taka. Doveva concludere gli accordi diplomatici con gli ateniesi. Di sicuro quelli stavano avendo problemi con i Dunedain, per via delle diversità fra le loro razze. Poi, doveva informare Gona che avrebbe dovuto sbrigarsi a prendere il posto di Haldir. I Dunedain non potevano restare senza uno dei capi. La sua mente corse a riempirsi di tutti i pensieri più inutili ed assurdi. Qualsiasi cosa, meno che accettare che Haldir non sarebbe tornato insieme a lui. Imuen tese le labbra, sfilandosi l’elmo. Mosse qualche passo e si sedette nell’erba. Poche lacrime lambirono silenziose gli occhi verdi. Tutto era finito. Haldir era stato trascinato via e lui non aveva capito bene neppure il motivo. Perché Halrdir da troppo tempo taceva i dettagli dei suoi piani, i pensieri che tormentavano la sua psiche. Eppure, nell’ultimo momento, prima di andarsene, il suo viso sfinito era sereno, del tutto diverso dalla maschera apatica che aveva conosciuto negli ultimi secoli. Per una frazione di secondo, era diventato di nuovo la mente acuta, sorridente e vivace, che carpiva i segreti della natura aspra che li aveva generati. C’era stato un tempo in cui comunicavano, svelandosi i rispettivi segreti del mondo dei morti e di quello dei vivi, quando tutti e due avevano spalle abbastanza larghe da sopportarne i rispettivi dolori, prima che gli dei ci infilassero naso ed artigli. Artigli ben più affilati ed oscuri dei loro. Più sporchi di sangue innocente. Imuen deglutì. Persino la sua corazza era opera della magia di suo fratello. Il lascito del suo gemello non sarebbe appartenuto alle parole ma alle azioni che si era abbandonato dietro. L’ultimo era nelle vite che aveva protetto a prezzo così caro. Ebbe il dubbio che, se avesse mantenuto intatta la sua corazza, forse la principessina ed il lemuriano non si sarebbero salvati ma Haldir sì. Decise che avrebbe protetto per sé quel segreto. Come, sicuramente, suo fratello avrebbe desiderato. Del resto, lui stesso non aveva ancora una moglie ed un figlio solo per capriccio o dono di Haldir? Rigirò l’elmo scuro tra le dita, sfiorando le incisioni a protezione del metallo. Haldir aveva scoperto quelle magie con impegno e dedizione. Da cuccioli, lo aveva canzonato, una volta, domandandogli se non fosse stato meglio smettere di voler a tutti i costi scomodare certe forze, solo per piegarne la potenza. Haldir, cocciuto, aveva ribattuto che il suo non era una frivolezza, semplicemente la sua natura.

“Siamo una famiglia. Abbiamo lo stesso sangue. E’ nella nostra natura proteggere. Serve per sopravvivere.”

Haldir era diventato ciò che era per tenere fede a quel proposito. Ci aveva creduto ciecamente, tanto da disperdersi nel fuoco o restarci secco in mezzo. Si persuase che non avrebbe ritrovato facilmente neppure le sue spoglie. Lui, invece, tornava vivo al campo, per merito di quel desiderio. Vivo, signore, marito e padre. Ultimo dei domatori delle anime più potenti. Solo.

 

Note:

(1)Cap 34: L’alleanza: la promessa baldanzosa che Zalaia fa di fronte a tutto il concilio dorato, quando Imuen è andato ad arruolare aiuti al Grande Tempio, prima che inizino le botte date con vero sentimento.

(2) Cap 37: Lo scontro – Parte 2. La stessa che sta per attirare Kiki nella primissima parte del capitolo. Però il cavaliere è troppo furbo e non ci casca.

(3)Cap 32: L’arma finale. Nella parte iniziale del capitolo, viene svelato che è una delle accuse con cui i perduti chiamano in causa e tormentano Haldir

Siamo quasi alle battute quasi di chiusura. Come al solito, non ho idea della qualità del risultato finale. Volevo concludere la battaglia includendo tutti i personaggi. Seguiranno uno al massimo due capitoli, per chiarire le ultime questioni lasciate in sospeso. Poi ci salutiamo definitivamente. In ogni caso, ringrazio fatina78. Senza il suo supporto, di sicuro non sarei mai arrivata a questo capitolo. Mi sarei bloccata parecchio prima e questa sarebbe diventata una delle tante storie da cassetto, magari lo diventerà presto ma non qui e ora. Se e quando leggerà, fatina78 sappia che le dico grazie. Davvero tanto.
   
 
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