Storie originali > Soprannaturale > Vampiri
Segui la storia  |       
Autore: kurojulia_    24/10/2019    1 recensioni
«Me ne stavo lì, in piedi... e poi mi dissi: ma che stavo facendo? Per me, era tutto finito. Quindi... che stavo facendo? Perché provavo a fare qualcosa? Perché continuavo, testardamente, a cercare una soluzione per... salvarmi? Mi coprii il viso con le mani. Volevo piangere, ma non una sola lacrima varcava i miei occhi. “Non fermarti”. Così udii alle mie spalle. Una voce, femminile, dolce, vellutata. Quando la sentii, iniziai a piangere senza nemmeno rendermene conto. Mi voltai di scatto, ma qualcosa mi spinse e caddi oltre la porta, in quel buio senza fondo. L'ultima cosa che vidi fu un bagliore dorato».
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

04.





Accadde moltissimo tempo fa. Charlotte ne conservava ancora il ricordo, tanto perché era stato il suo primo incontro con un vampiro e tutto sommato era stato quasi interessante.

 

Era l'autunno del 1919, la Prima Guerra Mondiale era finita da un anno, e le strade pullulavano di agitazioni e di ansie. In quel periodo in particolare, si sentiva parlare spesso di suicidi.
Per Charlotte era un periodo fruttuoso e molto impegnato; durante quell'anno, aveva visitato tutte le potenze che avevano partecipato alla guerra, facendo un continuo su e giù che le aveva causato parecchio jet-lag – ma non se ne lamentava praticamente mai. D'altro canto, lei sapeva benissimo che avrebbe continuato a fare quel lavoraccio, almeno per un altro paio di anni, e in genere non si tirava mai indietro. La ragazza sapeva che chiunque con un po' di sale in zucca avrebbe subito approfittato dei suoi servigi, di conseguenza avrebbe continuato a lavorare ancora per un po'.

 

Charlotte era più che felice di guadagnare – e di guadagnare così bene, poi! – e andarsene in giro non era male. L'unica inconvenienza erano quei bigotti che le capitavano tra i piedi ogni volta che metteva piede in uno stato. Lei arrivava nel paese e la scorta militare veniva a prenderla. Guardandola con una certa insistenza e una chiarissima espressione diffidente, o persino sprezzante.

Anche quella volta non fu diverso.

 

Charlotte scese i gradini della scaletta e atterrò sulla banchina della stazione, trascinando la sua valigia con uno strattone. La banchina era piena di persone che andavano e venivano, chi si apprestava a salire sul vagone, chi riabbracciava i suoi cari dopo un lungo tempo, svariati uomini in divisa militare. Una fitta nube di fumo si sollevava fino al cielo ingrigito. Charlotte alzò il mento verso lo spicchio di cielo che si intravedeva oltre il muretto dell'edificio, parandosi gli occhi con la mano. Tra le sue dita, lame di luce bianca le ferivano gli occhi.

«Benvenuta a Parigi, miss Duane».

 

Charlotte si voltò verso destra, abbassando il braccio lungo il fianco. Quattro uomini in blu e rosso, sulle spalle ingombranti fucili. Gli sguardi erano di ferro e acciaio, i visi magri e i nasi prominenti.

Non sbattono nemmeno le palpebre, pensò lei, rivolgendo loro un imperscrutabile sorrisetto. «Voi siete la scorta, presumo». Mah. Non avevano davvero niente di rilevante.

«Abbiamo l'ordine di accompagnarla dal Presidente Poincaré. Il Presidente ha molto da fare, quindi... », uno degli uomini aggrottò la fronte. Da sotto le folte sopracciglia bionde, fissava Charlotte con scetticismo malcelato.
Non è che avesse del tutto torto; quanto poteva dimostrare quella ragazza, diciott'anni? Diciannove? Era decisamente troppo giovane, troppo delicatina e troppo esile per poter parlare a quattrocchi con il Presidente della Francia. A primo acchito, Charlotte Duane non aveva niente di incredibile. Eppure... quello non era nemmeno il suo primo incontro con il Presidente.

«Quindi?», incalzò Charlotte.

«... quindi dobbiamo apprestarci».

Charlotte sogghignò. «Mi stavi fissando. Un bel po'». Quella volta, infatti, non era stata diversa dalle altre. Solo che, spesso e volentieri, Charlotte si divertiva a provocarli.

I compagni soldati risero sotto i baffi. Non fecero un granché per trattenersi. Il soldato che aveva parlato per primo serrò la mandibola e schioccò la lingua, ignorando la provocazione. «Allora? Ci segua e basta».

«Se vuoi cammino di fronte a te», sibilò Charlotte. «Così puoi guardarmi quanto vuoi».

 

Forse era lo stress del dopoguerra. Forse era la stanchezza di tante notte passate nelle trincee appena un anno prima, o la stanchezza di restare sveglio per quasi tutta la notte solo per fare la dannata guardia. Forse quel soldato era davvero troppo vicino al baratro.
Qualsiasi fosse la ragione, sta di fatto che alla nuova provocazione della ragazza, l'uomo l'aveva afferrata per il bavero della mantella, i lineamenti contratti dalla rabbia, dimenticandosi che di fronte a lui non c'era una donna qualunque. Il pugno del soldato tremava per la rabbia.
Intorno a loro il fischio del treno annunciava una nuova partenza e uno sbuffo grigio investì i finestrini e buona parte della banchina.

 

Gli occhi metallici di Charlotte sorrisero per le sue labbra.

E l'uomo l'avrebbe giurato, l'avrebbe giurato sulla sua patria... ma qualcosa, intorno a quella ragazzina, stava accadendo...

 

«State occludendo il mio passaggio», tuonò una voce. Quando il fumo si diradò e i soldati riuscirono a vedere chiaramente, di fronte a loro si stava già ergendo la colossale figura di un uomo. Era imponente come una statua, al punto da proiettare un'ombra nera su di loro, e alto quasi un metro e novanta.
Era alle spalle di Charlotte e tra loro c'erano a malapena dieci centimetri. L'uomo non si era preoccupato di mettere distanza fra di loro.

Lei ruotò il viso, socchiudendo le palpebre per guardare il nuovo arrivato in controluce.

«Spostatevi», disse l'uomo.

Aveva un bell'incarnato rosato, guance un po' scavate. Il viso ovale veniva incorniciato da una folta massa di capelli neri e lucidi, lunghi fino alle spalle, ed un paio di occhi neri e felini che la guardavano dall'alto in basso. Erano come pozzi bui.
Dietro di lui, il treno ricominciò a camminare, aumentando gradualmente la sua velocità. Entro pochi secondi i binari erano vuoti.

Lo sguardo dell'uomo si spostò sul soldato e sulla mano che stringeva la mantella e fece un sorrisetto, apparentemente divertito.

«Che-che hai da ridere?». C'era qualcosa in quell'uomo... che metteva in terribile soggezione. Si era limitato ad un sorriso, immobile, a meno di un metro – eppure era stato abbastanza per far balbettare un soldato sopravvissuto alla guerra.

Ma l'uomo non gli rispose. Continuò a guardare quella scena, poi fissò il volto pallido della ragazza. Incrociarono gli sguardi, ed entrambi non fecero un movimento. A quel punto, dopo che lui l'ebbe studiata per una manciata di secondi, si voltò in direzione del soldato e lo afferrò per il polso. La sua mano era coperta da un guanto nero di pelle. «Togliti dai piedi».
Charlotte non riuscì a vedere bene cosa stava accadendo, da quel punto di vista, oltre che al profilo dello sconosciuto e ai suoi lunghi capelli neri. L'unica cosa che le fu chiara fu come i soldati si impietrirono, terrorizzati, e subito dopo si spensero come candele.

Il soldato abbandonò la presa al bavero della mantella. Meccanicamente, voltò a destra, incamminandosi verso l'uscita della stazione accompagnato dai suoi tre compagni d'armi.
Entro pochi secondi il quartetto era sparito dalla circolazione.

 

Questo sì che è rilevante, osservò la ragazza.

L'uomo dai capelli neri si tirò indietro e oltrepassò la figura di Charlotte con un unico ampio passo, rivolgendole le larghe spalle.

 

La giovane cercò di studiarlo. Non aveva la benché minima idea di chi fosse, non aveva mai visto una persona come lui. Solo una cosa, però, le era chiara come il sole.

«Tu non l'hai fatto per aiutarmi», bisbigliò Charlotte, in modo che solo lui potesse ascoltare. «non è così?».

L'uomo ruotò il volto di tre quarti. Le labbra avevano un sorriso strano – come se si sentisse estremamente intrigato. Lei capì che aveva fatto centro.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Le aveva proposto di seguirlo. Non aveva detto dove, non aveva detto perché. Di sicuro quello non era un invito galante.

Charlotte aveva un appuntamento con il Presidente Poincaré quindi, a rigor di logica, lei avrebbe dovuto rifiutare e sgambettare in quella direzione – ovviamente.
Invece, aveva fatto tutto l'opposto; aveva accolto l'offerta del tetro e leggermente inquietante – eppure bellissimo – sconosciuto e l'aveva seguito fuori dalla stazione, infilandosi nella via centrale insieme a lui.
Stavano percorrendo il marciapiedi, costellato di case, la cui maggior parte era ridotta in condizioni pietose. Sulla strada i bambini giocavano ad inseguirsi come piccole volpi mentre le donne stendevano i vestiti bagnati o cucivano, appostate di fronte all'uscio della porta di casa come guardiani.

Charlotte cominciava a innervosirsi. Lui camminava ad ampie falcate e per quanto lei fosse veloce, non riusciva mai a raggiungerlo del tutto o stargli accanto.

Con un po' di fiatone e l'aria irritata, la ragazza sbottò: «Beh? Vuoi raggiungere l'Inghilterra a piedi o cosa?».

Un altro sorriso. Era tutto ciò che riusciva ad ottenere, a quanto sembrava.

«È chiaro. È qualcosa di cui non puoi parlare con gente intorno». Lui le lanciò un'occhiata silente e poi tornarono entrambi a guardare la strada di fronte.

 

Continuarono a percorrerla, – e stavolta Charlotte non ci provò neanche a capire dove stessero andando – per la bellezza di dieci minuti, svoltando a destra, a sinistra, di nuovo a destra. Lei si stava trascinando la valigia dietro sin dall'inizio ed era stanca morta e quell'idiota non si era neanche proposto per portarla al posto suo.
Quando aveva ormai perso ogni speranza e la sua pazienza era sul punto di annullarsi, lo sconosciuto entrò dentro una via, stretta da edifici, e si fermò di fronte al portone di un vecchio locale, apparentemente abbandonato. Sopra la porta di legno, dove avrebbe dovuto esserci il nome del locale, c'era un'insegna con una frase trascritta a caratteri eleganti.

«Libéré comme un fantôme oublié*... ?», Charlotte corrugò le sopracciglia. «Ma che roba è? Ma dove mi hai portato?».

«L'hai detto anche tu. Non possiamo parlare in un posto affollato».

«E quindi hai pensato bene di andare in un locale».

L'uomo la guardò con la coda dell'occhio, perdurando nel sorrisetto. Charlotte si fermò, aprendo la bocca lentamente. «Tu non sei un essere umano, vero?».

Ma l'uomo non rispose a quella sorta di domanda. «Vieni. Entriamo». Aprì entrambe le ante del portone, spalancandole verso l'interno.
Quello che si aprì di fronte agli occhi di entrambi non era un semplice locale. Per vari motivi. A Charlotte bastò annusare l'aria che impregnava l'ambiente per capire che lì dentro non c'era un singolo essere umano. Più flebile e lontano, si sentiva un vago odore di sangue fresco.
Il posto era piccolo e imbottito di tavoli, ma aveva un certo fascino raffinato; i tavoli circolari in legno scuro e le poltrone imbottite – impegnati dai clienti – occupavano la pavimentazione in cotto, illuminata debolmente da un lampadario al soffitto basso. In fondo sorgeva un bancone, occupato da una donna intenta a pulire svogliatamente un calice da birra, mentre alle sue spalle splendeva un arcobaleno di alcolici di ricco tipo.

Ma ciò che realmente colse alla sprovvista la ragazza fu come tutti i presenti stessero guardando verso di lei e l'uomo. A dir il vero, non appena le porte si erano aperte, uomini e donne erano già girati nella loro direzione. La stramaggioranza abbassò lentamente il capo, per poi rialzarlo.

Infine, ognuno riprese a parlare.

 

«Prego, prima le signore», cantilenò l'uomo dai capelli neri. Charlotte lo squadrò di sbieco, ma non si fece problemi, e proseguì, scendendo i tre gradini che precedevano il pavimento. Appena giunta, una porta sulla parete a sinistra attirò la sua attenzione. Essa era socchiusa e si intravedeva la figura di un uomo e la luce calda e gialla di una lampada ad olio.

«Non si sbircia», le bisbigliò all'orecchio. «Non te l'hanno mai detto in secoli di vita?».

Charlotte non si mosse. I suoi occhi erano freddi come il ghiaccio.

«Non ti interessa se qualcuno sa che sei una strega. Oppure, non vuoi dare a vedere il tuo stupore. Quale delle due?».

«Forse entrambe. Non che ti riguardi, in ogni caso». Charlotte sospirò. Si passò la mano sinistra tra i capelli neri, scompigliando i boccoli scuri sulle spalle, noncurante. «Allora, per quale motivo un vampiro desidera parlare con me a tal punto da portarmi in un locale pieno zeppo di suoi simili?».

L'uomo le fece cenno di seguirla con la mano. Si insinuò tra i tavoli, mani nelle tasche dei pantaloni, con una facilità e una tranquillità che facevano ben intendere quanto spesso si trovasse in quel posto. Seguito dalla ragazza, l'uomo si fermò ad un tavolo accanto al bancone, l'unico vuoto – sempre e comunque vuoto, almeno fino al suo arrivo – e si lasciò cadere sul divanetto. Charlotte si accomodò sulla sedia di fronte a lui.

«Ah, già. Io sono Charlotte Duane». La strega lo osservava, un vano tentativo di studiare quello che, a tutti gli effetti, era un vampiro. Non aveva, non ancora, lunghe zanne al posto dei denti, e portava una collanina con una croce al collo. Lo osservava, pensando che magari avrebbe capito qualcosa. Ma era un tentativo futile.

 

Lui sollevò due dita verso la donna al bancone. I suoi magnetici occhi scuri brillarono. «E io sono Alyon Hendrik Akawa. Tu, cara strega, devi aiutarmi».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Il pugnale gli cadde dalle mani, affondando nel terreno morbido ai suoi piedi. Una caduta anonima e silenziosa.

La ragazza, non più incappucciata, non accennava ad allentare la sua stretta. Anche se lui ci avesse messo tutta la forza del mondo, non sarebbe mai riuscito a liberarsi. Ma, in quel momento, Takeshi non riusciva nemmeno a pensare, a malapena il respiro valicava le sue labbra.

Lui aveva visto dei capelli bianchi. Apparentemente lunghi. *

 

«Ti prego», vacillante, Takeshi sollevò le mani, appoggiandole sulle spalle della ragazza, aggrappandosi con le dita. «Uccidimi».

 

Perché se non era lei ad abbracciarlo così disperatamente, se quei capelli albini non appartenevano alla mezzosangue arrabbiata con il mondo, allora voleva morire, e basta. Aveva sofferto e non aveva mai smesso. Quello forse era il momento giusto per essere di nuovo felice.
Ma la ragazza, che aveva affondato la testa nella spalla di Takeshi, sembrava... star piangendo. Tremava e sussultava. La sua presa si indeboliva velocemente. «Sei... Yuki... ?», lui ancorò le mani sulle sue spalle e gentilmente la scostò da sé.

Takeshi guardò la ragazza in piedi, di fronte a lui – e sentì le forze venirgli meno.
Forse era un allucinazione. Doveva essere un allucinazione. Perché lei era morta tra le sue braccia, sparendo come cenere. Ma... la ragazza con gli occhi pieni di lacrime... era davvero lei.


Yuki Akawa era lì.

 

«Yu... »,.

 

Era lei. Era lei. Riusciva a sentire le carne sulle sue braccia, riusciva a sentire l'odore di sangue su i suoi vestiti. E ne riconosceva il viso ovale e piccolo, la pelle bianca e delicata come il petalo di una peonia. Gli occhi dal taglio a mandorla, coronati da folte ciglia e le iridi che spiccavano nel loro caldo dorato, un raggio di vita – i capelli baciati dal candore della luna e dall'argento.
Il collo sottile, le labbra piccole e rosee... le sopracciglia chiare, i capelli ondulati... riconosceva persino le clavicole spuntare dal pesante mantello, la punta del naso leggermente all'insù.

«Tu sei... Yuki. Sei tu. Sei tu, non è vero... ?», Takeshi sentì gli occhi andargli in fiamme. «YUKI!».

 

La ragazza ebbe un fremito, i suoi occhi titubarono prima di guardarlo. Le spalle vacillavano al di sotto, la mandibola si serrava e gli occhi le si riempivano di copiose lacrime prima che – prima che si gettasse fra le braccia di Takeshi, ancora una volta. Si buttò verso il suo petto, affondandoci il viso, circondando il suo torso con le braccia, aggrappandosi con tutte le sue forze alla felpa. Era lì.
«Yuki... Yuki... ». Takeshi la strinse, affondando le dita tra i capelli bianchi. La strinse a sé fin quando non sentì le sue costole premere contro le proprie, fin quando non ebbe più forza nelle gambe, incapace di sorreggere entrambi. Caddero in ginocchio, senza staccarsi un secondo da quella morsa di puro amore, ricordando in uno sfuggente secondo quell'intero anno passato insieme.

 

Takeshi aveva dimenticato la presenza delle due bambine, poco distanti, che guardavano la scena con la confusione dipinta in volto.

Nella testa gli sembrava di avere un vortice. Gli girava talmente tanto che per un attimo si sentì svenire.

Ma l'abbraccio e l'odore di Yuki lo riportavano a galla, verso l'equilibrio. Lo tenevano ancorato alla vivida realtà.

 

«Sorellona Yuki? Quel fratellone si sta sentendo male, per caso?», disse la sorella più piccola. Mano nella mano con la sorella maggiore, passarono accanto al laghetto e raggiunsero la coppia dall'altra parte, accanto al tronco disteso.

L'albina scosse lentamente la testa. Con estrema fatica, entrambi sciolsero l'abbraccio. Takeshi la guardava con lo sguardo pieno di smarrimento, di emozione e di paura. Ma era così bella. Era così bella, proprio come se la ricordava. La vedeva sorridere, con le guance arrossate per le lacrime, malinconicamente, gli occhi addolciti e lucidi.

«Stiamo bene», fu il bisbigliò dell'albina.

Era lei. Era la sua voce. «Yuki... Non... non capisco cosa... ».

La mezzosangue gli prese le mani tra le sue, rimanendo in silenzio, le sopracciglia basse. Un espressione un po' colpevole, un po' spaesata e persino debole. Lei pareva essersi rimpicciolita. Magari era solo una strana impressione, tuttavia Takeshi non poteva fare a meno di vederla più piccola e più esile.

Il bruno scosse la testa. Non aveva nessuna importanza. Raccolse il pugnale dall'erba, si sollevò in piedi e porse la mano all'albina. «Non capisco», esordì, spostando lo sguardo sulle due bambine. «Ma non importa. Se sei qui, allora non mi importa di niente».

 

Yuki prese la mano di Takeshi, afferrandola saldamente. «Sono tornata».

 

 

 

 

 

 

 

 

* Libré comme un fantôme oublié: libero come un fantasma dimenticato.

* Apparentemente lunghi: se vi va di farvi del male, provate ad ascoltare “Cage” di SawanoHiroyuki.

 

 

NOTA:

Okay raga mi sono emozionata scrivendo le ultime scene, ovviamente quelle tra Takeshi e Yuki. È normale questa cosa? Perché io non mi sento molto normale......

Ma parlando di qualcosa che non siano i miei disturbi [?], cosa ne pensate della situazione? O meglio, cosa ne pensate del fatto che Charlotte – una strega – abbia probabilmente collaborato con Alyon, moltissimi anni prima? Tenendo conto che l'attitudine di Charlotte non è ancora chiarissima, in questo capitolo, e che Alyon sa essere parecchio squilibrato.

Onestamente, per ora, questo è uno dei capitoli che più ho amato scrivere. E spero che anche voi sarete contenti di come sta filando!

BYE.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Vampiri / Vai alla pagina dell'autore: kurojulia_