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Autore: Stateira    31/07/2009    4 recensioni
L'alba è un inseguirsi di notte e di giorno, dove i traditori diventano eroi, dove un addio vale poco più di un arrivederci.
- Saraba. Tomoyo. –
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Aries Shion, Libra Dohko
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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But touch my tears

PREMESSA

 

Sion è così Roccocò. E questa roba è angst.

Non che angst e roccocò siano due cose direttamente collegate, per quanto ne so.

In buona parte PoV di Doko, perché mettersi nei panni altrui è importante.

“Conosci il tuo seme” insegna il carlino di chi scrive, che è un filosofo mica da poco.

 

Dedichine, dedichine!

A Doko. Con tanto amore çOç. Anche se sento che dovrò preparare un sacco di tè verde, poi.

Alle Nespole, che dovranno cimentarsi nel nuovo gioco dell’estate: “Scova la Nespolata”. Perché sì, fra queste lacrimevoli pagine si annida una nespolata terrificante.

Ad Aphrodite, che ha scagliato oggetti contundenti contro chi scrive, ed è la fonte d’ispirazione della nespolata di cui sopra. Presto organizzeremo la Resistenza assieme agli altri sopravvissuti, non temere. Appuntamento a mezzanotte in Piazzetta. 

A Death Mask, che quasi certamente dopo questa roba si trasformerà in Lavi e frignerà le lacrime dell’inferno, salvo poi finire affettato. Che triste destino.

Ad Hades Sama, che non sa nulla di questa cosa, e che si renderà conto dell’angst solo quando sarà troppo tardi. Ma non temere, supereremo anche questa nel nome del sakè. E comunque, la sua Surplice mi sta d’incanto. <3

 

 

 

 

 

 

~ The Everwaiting ~

 

 

 

 

 

 

 

But touch my tears

with your lips.

 

 

 

 

 

E così, era giunta.

Dopo tanto aspettare, la battaglia.

Sospirata e temuta come un sogno premonitore.

Era notte piena, il momento più inaspettato per cominciare a combattere: la notte, solitamente, significa fine, quanto la mattina significa inizio.

Doko avanzò di un passo nell’aria salina che risvegliava il suo corpo intorpidito e un po’ lo inzaccherava. L’armatura di Libra abbracciava le sue membra ritrovate come una vecchia, paziente amica.

Un altro vecchio, paziente amico, lo fronteggiava, fiammeggiando il suo cosmo inconfondibile, sventolandolo come una bandiera di rivincita, e Doko ebbe l’istinto di tendere le mani e lasciarsele scottare.

 

- Dokoyo. –

 

Era una domanda, a cui Libra rispose di sì con enorme sollievo.

Sion alzò allora gli occhi al cielo, interrogando le stelle. Gli venne così naturale farlo, anche loro vecchie amiche, e poi sorelle per un certo tempo. Le guardò come se fosse stato in procinto di tendersi verso di loro e raggiungerle, tanto che Doko disse – No! –

Sion disse solo: – Grazie. – a fior di labbra.

 

- Sion, amico caro al mio cuore. Ti credevo perduto. –

- Non lo sono. Combattiamo, ora, Doko. –

- Sei un’illusione? Un trucco del nostro nemico? –

- Non lo sono. Combattiamo, ora, Doko. –

 

Sì.

Dopotutto, la battaglia non andava dimenticata.

Dimenticare lo scopo per cui si era vissuti più di duecento anni solo a causa di due occhi un po’ troppo grandi e pericolosi sarebbe stato disonorevole.

Libra non ci aveva mai creduto davvero. Che la notte fosse una fine, e la mattina un inizio. Lui si era lasciato Atene alle spalle che il sole ancora faticava a levare il capo oltre l’orizzonte, e non aveva mai considerato quel momento come un nuovo inizio. Piuttosto, come un lungo, lunghissimo intervallo.

Che lo aveva condotto…

… A questo.

Perché non riusciva a stupirsene quanto sarebbe stato giusto?

 

Cominciò a spirare un vento un po’ più fresco e un po’ più secco, che scompigliò i suoi capelli già in disordine, mentre quelli di Sion, lunghissimi, ondeggiavano come ulteriori strati del suo Cosmo. E la Via Lattea non avrebbe illuminato i marmi venerandi della casa di Aries con più intensità nemmeno se fosse stata cosparsa di dozzine di lune piene.

Due guerrieri che non erano mai stati tanto soli come in quel momento, con le loro memorie tradite e le loro speranze infrante soltanto in apparenza.

Aries che era sempre stato dorato, e invece che cos’era quell’armatura atroce, disegnata in punta di coltello e brillante di una luce che si inghiottiva ogni altro colore? L’oro a bagnargli la fronte purissima, l’oro sulla sua pelle, l’oro fra i capelli, l’oro ad incorniciargli gli occhi.

Oro della notte. Oro della morte.

Segretamente, Doko lo trovava bellissimo.

 

- Combattiamo. –

 

Ma lo disse con troppo amore nella voce. Sion, finalmente, si aprì in un sorriso soffice e svuotato da ogni malizia complottistica. Taceva perché la sua voce si stava ammorbidendo pian piano nella sua gola, lo sapeva.

E comunque Doko non ci aveva mai creduto davvero. Che la notte fosse una fine, ma anche che Sion fosse un traditore. Aveva baciato le sue labbra innumerevoli volte, e non erano quelle di un traditore. Le aveva trovate fresche e dolci come pesche appena raccolte, altre volte calde come la luce del fuoco, altre volte sanguigne, e poi chissà quante altre cose ancora, ma mai amare, mai.

 

- Combattiamo, sì. –

 

Aveva una voglia incontenibile di toccarlo. Quando il vortice di cosmo che li avvolgeva cominciò a sciogliersi, poté farlo. Le sue mani irruvidite e umide di sudore corsero al volto bello di Sion, catturandolo. Lui, Aries, formò un sorriso pieno di condivisione che lo fece sentire stupido, ma incredibilmente capito.

 

- Anche tu, Sion, cuor mio. – rispose a parole ad un abbraccio che voleva dire “Mi sei mancato”.

 

La casa di Aries era vuota del suo coraggioso custode, e chiamava con dignitosa nostalgia il suo antico signore. Sion prese Doko per mano, gli prese entrambe le mani, e fece il primo passo indietro, guardandolo con gli occhi di chi invita ad entrare non per la prima volta, ma per la seconda, e già ben sa che cosa dovrà accadere di lì a poco.

Libra se le portò alle labbra e le baciò punto per punto.

- Spegni. – pronunciò Sion, scosso. – Il tuo Cosmo. Che il mondo si dimentichi di noi per qualche tempo. –

 

Alcune colonne erano abbattute, altre semidistrutte, ed era il sipario perfetto per loro due che erano così vivi, oh, così vivi, mentre camminavano in fretta e senza mai slacciare le loro dita.

Sì, la casa di Aries si ricordava bene anche di Doko, ospite gentile di tante notti. La porta si chiuse in magico silenzio alle loro spalle, senza che nessuno dei due l’avesse sfiorata.

 

Temuta e sospirata, la battaglia era cominciata.

 

 

 

 

 

This world has only one sweet moment 
Set aside for us 

 

 

 

 

 

E così era giunta.

Dopo la battaglia, l’alba.

Che non era affatto un inizio, tanto quanto la notte appena trascorsa non era stata una fine.

Circondò con un braccio le spalle solide di Sion, che era rapito nell’ascoltare il suo cuore palpitare energicamente nel petto. Per alcuni istanti fu come se, semplicemente, il tempo fosse tornato indietro ad un’epoca remota, ma ammantata di altrettanta gloria. La disperazione del loro stringersi era addolcita, però, dagli anni.

E dalla consapevolezza di essersi già perduti. Faceva meno male di quanto Doko avesse mai potuto pensare. Faceva male in modo diverso, non un macigno che ti stritola il petto, ma uno stiletto che dilaniando la carne irradia vertigini e languore. Chiuse gli occhi, pensando che morire con le dita di Sion affondate nel cuore sarebbe stata la benedizione da chiedere ad Athena come ricompensa per tanti devoti servigi.

Morire, dopotutto, è il solo riposo per un Cavaliere di Athena.

 

- Vorrei che il Maestro fosse qui. – disse Sion con un filo di voce. Come se i suoi diciott’anni fossero davvero diciotto.

- Sarebbe orgoglioso di te. –

- Non posso far altro che pregare che Saga e gli altri riescano a compiere la loro missione. –

- Lo sai. Il compito più gravoso di un capo è quello di mandare i suoi uomini a morire. –

- Vorrei gridare a tutti loro la verità, come l’ho bisbigliata a te. –

- Verrà il momento. –

 

Le carezze devote fra i lunghi capelli sciolti acquietarono Sion, che smise la sua aria grave per riprendere i morbidi assalti al suo petto. Lo carezzava audacemente, abbandonato giocherellò un po’ con il suo capezzolo, sorrise sottilmente quando lo vide inturgidirsi, e lo mordicchiò. Doko lo lasciò fare, ridacchiando tenue, di gola. Era così appagato dalla presenza di Sion che lasciò che il soffio regolare dei loro respiri coprisse ogni altra percezione e gli riempisse tutti i sensi.

Perciò sobbalzò quando, all’improvviso, Sion trattenne il respiro, e si tirò su a sedere.

- Athena. –

 

Anche Doko l’aveva sentito. Forte e chiaro, come se invece di spegnersi il cosmo divino fosse sorto.

 

- Dobbiamo andare. –

- Sì. Sbrighiamoci. –

 

La luna era rossa come la guerra. Non come il sangue, come la guerra. E faceva impressione per quanto era grande. A Doko fece venire in mente certi colossali medaglioni posti a sacra guardia dei più antichi templi, in Cina. Da bambino ne aveva visti a decine, nelle località più disperse, incastrate fra le colline e i fiumi. Non gli era più capitato di rivederli, dopo il periodo di addestramento: dal Goro Ho non si vedeva alcun tempio. Quella luna, ora, sembrava pronta a rovesciarsi sulle loro spalle con il suo peso immane, ma allo stesso tempo era anche una guida. Il cono di luce spettrale che proiettava a terra tracciava un sentiero netto, l’unico su cui ci si potesse fidare a mettere i piedi.

Sion era lacerato.

La parte più razionale di lui esultava, ma il suo cuore sanguinava.

Doko ne conosceva bene il motivo, gliel’aveva spiegato parlando fitto fitto per un minuto intero, prima di lasciarsi interrompere dall’amore che pian piano li aveva sommersi come un’onda potente e placida. Ma non poteva condividere l’orrore con lui, quello che Sion aveva deliberatamente trattenuto fra i denti parlando, e che lui aveva solo intravisto baluginare come una pozione tossica.

 

Cercò di non pensarci troppo, mentre correva al suo fianco, con la coda dell’occhio su di lui per cercare di saziarsi del suo profilo.

La notte insegue il giorno, e il giorno insegue la notte. E Sion non era un traditore, ma un eroe.

 

- Che cosa accadrà, adesso? – domandò di getto, continuando a correre. Ora che il cosmo sovrumano di Athena si era estinto per insinuarsi in un mondo non loro – non suo, avrebbe dovuto pensare, ma preferì non farlo – non ricordava nemmeno dove stessero andando.

- Doko. Perché me lo chiedi. Non hai paura di saperlo? –

- Ho paura, certo. Te ne andrai, non è vero? –

 

Sion allungò il passo. Falcate eleganti che tagliavano la via tutta in salita. Doko correva con le gambe ancora molli di languore, e si stupiva di come Sion potesse restare così superbamente ritto dopo aver patito per ore gli assalti di un guerriero di Athena che aveva bramato di riaverlo fra le braccia per più di due secoli.

Rise, e si disse che le sue capacità amatorie dovevano essersi un po’ appannate per via della lunga astinenza forzata.

Rise, e si disse che avrebbe recuperato in fretta, in un modo o nell’altro.

Dopotutto, ora che lo aveva rivisto sapeva che era solo questione di tempo. Era vicinissimo, era sempre stato vicinissimo, anche quando era salito fra le stelle, a brillare intensamente su nella Bilancia per vegliare su di lui.

 

- Te ne andrai di nuovo. –

- Dokoyo. –

- No, ti prego. Sion, tu sai che non poteva bastarmi. Non poteva bastarmi la consolazione che tu, forse, da qualche parte, chissà come, eri ancora con me. –

- Sì. Però battevo nel tuo cuore. –

- Il mio cuore non potevo abbracciarlo. Avrei prima dovuto strapparlo dal petto. –

- Dammi la tua mano. Corriamo insieme ancora. –

 

Doko afferrò al volo il palmo di Sion, guantato nella Surplice dai riflessi sinistri che era prova del suo eroismo. Per quella stessa armatura, avrebbe perduto di nuovo la vita dopo appena una notte di tregua.

Che poi, era stata una tregua di schiaffi, che lui aveva incassato con ammirevole risolutezza, negandosi persino l’onore del martirio per metter su una faccia cattiva che gli riusciva magnificamente. Erano bastate poche parole, a lui, per capire che l’aveva ritrovato soltanto per perderlo di nuovo.

Ma le loro speranze erano state infrante soltanto in apparenza, perché, segretamente, Doko lo trovava bellissimo.

 

- E’ l’alba. –

- Sì. È già l’alba. –

- Oh, l’alba. –

 

Gli occhi di Sion brillavano come splendide Afroditi, e Doko capì come si sentisse a vedere il sole sorgere dopo tredici anni di buio, lo capì dal fremito elettrico delle sue dita, che strinse ancora più forte.

All’improvviso, lo sentì rallentare. Sion ansimava, come se d’un tratto le forze gli fossero venute a mancare, e Libra non poté far altro che guardarlo terrorizzato e implorare “no, no!”, con lo stomaco squassato da una nausea violenta e i capelli soffici della nuca rizzati come aghi.

Non c’era davvero più tempo. Nemmeno una briciola.

 

 

 

 

 

Who dares to love forever

 

 

 

 

 

Dopo l’alba, più niente.

Non sarebbe giunto più niente.

Doko guardava la figura imponente di Sion, stagliata nel rovinoso panorama del Santuario, con tutto l’amore con cui non aveva potuto guardarla per tanto tempo.

Sion che gli aveva fatto il dono, o la cattiveria, di non andarsene subito.

 

- Sarà fra le mie braccia, stavolta. – disse ad alta voce, fiero, come a dimostrare che aveva deciso lui per l’altro.

Sion fece qualche passetto dall’aria tremendamente instabile.

- Dokoyo. – sussurrò, straziandolo.

Doko quasi lo incenerì con i suoi occhi verdi come il coraggio e bagnati di disperazione.

- Quanto vorrei restare qui a parlare ancora con te. –

 

“Ma che cosa dici. Tu te ne stai andando, Sion, non io. Tu”.

E si odiò, per averlo pensato. Al punto da non avere più la forza per guardarlo. Sion non lo rimproverò.

“Resta.”

E invece disse: - Aspettami. –

Sarebbe stato più semplice.

Sion rispose che l’avrebbe aspettato, ma questo non servì a placare lo strazio, non servì a niente. Cominciò a tremare senza poterci fare niente, miserevole di ogni miseria, ferito, ma non abbastanza a fondo perché potesse farla finita lì con tutto quel dolore.

E siccome, quella volta di tredici anni prima, aveva visto tutto, con gli occhi della mente, stavolta si risparmiò almeno quel dolore. Ma non perse nulla del suo incantevole svanire, perché lasciò svegli i suoi sensi tesi dall’angoscia: doveva essere una prova di fuoco e di sangue per lui, un viaggio attraverso il dolore, come unica via per uscirne.

 

- Saraba. Tomoyo. –

 

“Addio. Addio, Sion, Sion mio.”

Quanto aveva sperato di potergli almeno dire addio.

E mentre glielo diceva, qualcosa si allentò nel suo petto, come benedetto dalla mano di Sion che lo salutava con grazia. Respirò aria l’aria fresca e l’umidore delle proprie lacrime come se fosse reduce da un’apnea lunga tredici anni. Riemerse sotto una cascata di stelle, che erano Sion stesso che gli si dedicava con amore nelle sue ultime ore di vita – e di solitudine.

 

Non fu fra le sue braccia, ma fu davanti ai suoi occhi.

Vide l’oro riaffiorare dai riflessi bluastri dell’armatura spettrale, e capì dov’era rimasto nascosto: non negli occhi, non fra i capelli, no.

Nel sangue.

 

Sion della neve, Sion fatto di sabbia, Sion della materia dei sogni. Pregò di poter baciare il suo ultimo respiro, per poter raccogliere la sua anima e darle pace nelle profondità della sua.

C’era sempre stato spazio per lui.

Quanto erano stati sfortunati, loro due, amanti caparbi, splendidi innamorati. Sion gliel’avevano portato via crudelmente, e lui non era stato lì con lui, non gli aveva chiuso amorevolmente gli occhi, nutrendo la sua anima delle lacrime che le spettavano.

Lontani per tutta la vita, e lontani persino nella morte. La salvazione, dunque, poteva giungere soltanto con un addio.

 

Dopo tanto aspettare, la battaglia, e dopo la battaglia, l’alba.

E dopo l’alba, una nuova battaglia.

Ché non esistono veri inizi e vere fini.

Non esistono notti né albe. Soltanto una lunga vita.

 

- E’ tempo di andare. – disse alzandosi. Il fatto che Kanon dei Gemelli fosse lì ad ascoltarlo era probabilmente del tutto secondario.

Aveva le gambe pesanti di muscoli e di anni, ma qualche passo ancora, si disse, poteva farlo.

Presto, prestissimo, l’alba sarebbe scomparsa dietro la più grande delle notti, e allora, forse, avrebbe avuto riposo, il vero riposo di un Cavaliere di Athena.

Ne valeva la pena.

 

Chissà perché, immaginava che Sion lo aspettasse dietro ad un immenso portale di pietra.

 

 

 

 

 

Who waits forever anyway

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

 

Nota:

 

Everwaiting” è una parola che non esiste. Ma credo che il suo significato sia abbastanza lampante. Qualcosa come “la semprattesa”. Che sembra un incantesimo di Harry Potter, ecco.

 

Gli stralci di canzone sono tratti dalla celeberrima “Who wants to live forever”, dei Queen. Perché è struggente, ma soprattutto perché Gucci pensa che Freddie abbia le gambe più belle del mondo. Questo non è vero, dato che le gambe più belle del mondo sono senza alcun dubbio le mie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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