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Autore: yonoi    02/11/2019    8 recensioni
Un'antica villa abbandonata, attorno a cui ruotano inquietanti leggende.
Una campagna avvolta, per molti mesi all'anno, da una fitta coltre di nebbia.
Un pomeriggio d'estate e tre ragazzini in cerca di emozioni forti.
Un agente immobiliare alle prese con un difficile incarico: concludere la vendita della Cà D'Anime e affrontare i propri incubi del passato.
Prima classificata al contest "Tattoo Studio" indetto da Wurags e valutato da Juriaka sul Forum di EFP. Terza classificata al contest "Siglaaa..." indetto da Milla4 sempre sul Forum di EFP.
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Fantasmi. Espressione materiale e visibile
di una paura interiore”
(Ambrose Bierce)
 
 

2. In mezzo alla campagna, il tintinnio di un passaggio a livello
 

Quella sera il Passerini buttò in padella una busta di tagliatelle al ragù e nel microonde quattro pizzette, e al diavolo la dieta ché tanto, per quanto s’impegnasse a brucare insalate e la sera uno yogurt, centododici chili era e centododici restava, come se la maga Gisella in persona gli avesse stregato la bilancia, impedendo all’ago di scendere anche solo di un etto.
Mentre i cubetti cominciavano a sciogliersi e poi a sfrigolare un confortante aroma di sugo, gettò uno sguardo dalla finestra di quel cubo di due metri per tre che fungeva da cucinotto. Il Reno di Casalecchio, immobile nella foschia della sera, gli ricordò il paese e il fiume che lo attraversava sonnolento. Strusciando col suo pelo umido contro gli argini, proprio dietro alla Cà D’Anime mandava su un odore di cantina e di muschio che secondo i cuntadèn di una volta era sicuro indizio della presenza dei fantèsmi.
Chissà perché gli spettri amano l’umidità. Forse perché, in fondo, son fatti della stessa sostanza della nebbia: suggestioni e pensieri, memorie destinate a ritornare a galla quando meno te lo aspetti. Del suo ultimo pomeriggio trascorso alla Cà D’Anime, Massimo Passerini detto il Ninèn rammentava soltanto quella vecchia da spavento che strillava dal ballatoio dell’ultimo piano, pronta a venir giù per una scala che non c’era e con gambe che non aveva.
Lui invece, che le gambe le aveva eccome, era scappato insieme al Secchio e all’Anguilla che neanche una saetta avrebbe potuto filare più svelta. Di quel che era successo da quel momento in poi, conservava soltanto brandelli confusi. Ricordava gli amici in due sul motorino, lui a fianco che pedalava sulla Graziella e intorno solamente il silenzio. Poi tutti quanti, a un tratto, erano stati investiti da un urto così potente che l’ultima cosa che il Ninèn aveva pensato, prima di rotolare nelle profondità di un sonno ch’era durato mesi, era che la Cà D’Anime doveva essersi sollevata dai cespugli, aveva cacciato fuori zampe lunghe e veloci come quelle dei ragni, li aveva inseguiti in strada e là era crollata addosso a loro tre, con tutto il suo peso di mura e puntelli di ferro.
Una punizione coi fiocchi, alla faccia di chi sostiene che i fantasmi son puri spiriti.
Solo durante il ricovero, ascoltando nel dormiveglia i discorsi degli adulti, aveva realizzato che la villa non s’era mossa neppure di un metro. Era stato un trasporto di orologi a cucù a stirarli come sfoglie col mattarello, bici e moto comprese.
Un certo Punghèn di Budrio si trovava in quel momento alla guida del mezzo, sicché nella sua mente ancora scompaginata, il Ninèn s’era figurato un camion che correva con un topo al volante.
Quella scena aveva continuato ad angosciarlo per anni: gli bastava chiudere gli occhi per trovarsela davanti, fresca e nuova di zecca come se stesse succedendo in quel momento.
Al Punghèn era mancato il tempo per raccontare di aver visto una vecchia comparire dal nulla proprio in mezzo alla strada, così all’improvviso che neppure un pilota di rally sarebbe riuscito a scansarla senza infilarsi in un fosso. Ma anche senza conoscere questi particolari, dal giorno dell’incidente per il Ninèn il tempo s’era fermato sul ciglio della sterrata, a mezza via tra la Cà D’Anime e il paese. Nella sua testa continuava ad andare in onda sempre lo stesso film e lui si aggrappava al suo banco di scuola, all’istituto tecnico, come se si trattasse del manubrio della Graziella.
Quando i professori lo chiamavano alla cattedra, era già molto se riusciva a ricordarsi che Massimo Passerini era davvero lui. Le ore di lezione gli scorrevano sotto al naso alla stessa velocità dei treni che attraversavano la campagna sferragliando a testa bassa. Ai tempi di suo nonno, quando non c’era ancora la televisione, i cuntadèn si portavano le seggiole da casa e li guardavano passare come fossero al cinema, assaporando assieme alla polvere dei binari l’odore di città sconosciute e del mare.  
L’istituto per geometri si trovava a Bologna e dopo le lezioni, sapendo che la Cà D’Anime lo attendeva lungo la strada, puntualmente il Ninèn sbagliava orario e addirittura corriera. Alla terza bocciatura consecutiva, i suoi si decisero a lasciare il paese e a trasferirsi altrove.  
A Casalecchio di Reno il Ninèn ricominciò a crescere, soprattutto in larghezza perché aveva scoperto che il luogo più sicuro per sfuggire ai suoi incubi era la cucina di casa. Persino nelle ore più buie della notte, il fornello odorava di soffritto e sughi d’uva. L’asse che sua madre levava da sotto il tavolo per tirare la sfoglia conservava l’impronta della farina setacciata a montagnola, dentro a cui ricadevano lo zucchero e due occhi d’uova.
Il Ninèn era convinto che là nessun fantèsma avrebbe potuto raggiungerlo perché la cucina era un luogo vivo, in grado di sconfiggere tutte le case infestate del mondo. Dopo aver spazzolato il fondo di tutte le casseruole, la madia del pane e tutto quello che riusciva a recuperare in giro, finalmente crollava con la testa tra le braccia.
Riposava protetto dal ronzio del frigorifero e in compagnia della Trifola, il vecchio bracco da guardia che non era mai riuscito ad abituarsi alla città e di notte abbaiava perché scambiava gli autobus per rumori di ladri attorno al pollaio.
Più tardi, Trifola divenne talmente insofferente che i suoi dovettero rimandarlo al paese. Ormai cieco e con le zampe che stentavano a reggerlo, finì i suoi giorni abbaiando alla catena e alla nebbia, perché ormai le galline non le rubava più nessuno e i ladri erano semplice frutto della sua immaginazione.
Mentre grattugiava una collinetta di forma sopra alle tagliatelle, il Passerini pensò che da quando era morto Trifola era venuto meno anche l’ultimo legame con il paese, come se il vecchio cane si fosse portato via anche la nostalgia. Al tempo in cui la famiglia si era trasferita, c’era ancora il nonno Eleuterio: a ottantasei anni curava l’orto e i campi e alle diciotto in punto, con l’afa o con la nebbia, si fermava a guardare il diretto che tagliava la pianura da cima a fondo. Finché una sera l’avevano trovato i vicini di casa, seduto sulla seggiola tra le spighe e i papaveri alti di giugno.
Una volta abbandonata a se stessa, la cascina Passerini aveva cominciato a riempirsi di fruscii, a scricchiolare come le giunture del fu Eleuterio quando si arrampicava per potare i ciliegi. Pur di non vederla andare in malora, i genitori del Ninèn avevano appeso il cartello vendesi e seppure a malincuore l’avevano data via.
La casa di campagna, così come il paese, aveva subito il destino dei luoghi dove un tempo si andava e ora non si va più. Aveva continuato a esistere da qualche parte, in quella dimensione ormai lontanissima dove vanno a finire le vecchie cose, i giocattoli e gli abiti che non si può nemmeno passare ai cugini perché ormai sono cresciuti anche loro.
Da allora, anche Massimo Passerini aveva finalmente cominciato a pensare ad altro. Almeno fino al giorno in cui il signor Draghetti dell’Immobiliare Reno gli aveva affibbiato la trattativa per la Cà D’Anime.
“Sono anni che ce l’abbiamo sulla groppa e mai che si sia presentato un potenziale acquirente. D’altra parte, si fa prima a buttare giù tutto che a restaurare. Però ci sono stucchi e affreschi del Settecento. Tu punta su quelli,” aveva detto Draghetti, piazzandogli sotto al naso una serie di foto. Scattate in bianco e nero su uno sfondo lattiginoso, le immagini non facevano che accentuare l’atmosfera sinistra del luogo. Mancavano solo i palpastrèl e la vecchia alla balaustra.
“Cosa sarebbe, un fienile?” aveva commentato il Passerini, fingendo di non avere mai visto la villa. Draghetti l’aveva smascherato più o meno immediatamente.
“Tu sei di quelle parti, la Cà D’Anime la conosci sicuramente. Domani viene l’Adalgisa Buganè, quella che legge le carte su Tele Savena.” Sulla scrivania del Passerini si materializzò un faldone ingiallito, che probabilmente risaliva ai tempi in cui era stata posta la prima pietra e persino i fantèsmi erano ancora giovani. “La tua cliente mi ha tenuto al telefono più di un’ora, per discutere il prezzo senza neppure aver visto l’immobile. Io tra una settimana parto per la Thailandia, quindi sta a te concludere. Vediamo di riuscire a piazzare quel rudere.”
 Il Passerini non aveva certo potuto dirgli che lui in quella casa ci aveva visto un fantèsma e che ancora adesso, dopo trent’anni, avrebbe preferito tagliarsi tutti e due i piedi piuttosto che portarli a spasso per la Cà D’Anime. In buon ordine, aveva chinato il capo e s’era preparato all’incontro con la Gisella leggendo per intero il dossier sulla villa, sintonizzandosi addirittura su Tele Savena per capire con chi gli toccava avere a che fare.
Anche quella sera, forte della protezione di un bel piatto di tagliatelle, si mise a sfogliare il fascicolo con la maga che imperversava in sottofondo, impegnata in uno dei suoi consulti telefonici: “Signora, qui le carte parlano chiaro, c’è un cambiamento in vista ma sarà un cambiamento per il peggio.” E ti pareva, pensò il Passerini, abbassando il volume per evitare che un’altra strega, quella del piano di sotto, cominciasse a tempestare di colpi il pavimento con la scopa d’ordinanza.
Malgrado l’audio ridotto a un sussurro, la Gisella teneva banco con piglio e sentimento. “Sento molta negatività nella sua voce, signora,” replicò a una certa Clotilde di Casteldebole, che aveva osato contestare il responso. “Le carte dicono che qui c’è un impedimento, forse una fattura. Controlli se per caso c’è un rotolo di peli dentro al suo materasso.”
Che altro dovrebbe esserci dentro a un materasso? pensò il Passerini, poco partecipe delle traversie della Clotilde. Continuò a sfogliare il fascicolo e ritrovò le foto che mostravano diversi scorci della Cà D’Anime: la facciata avviluppata da festoni di edera, gli affreschi degli interni ripresi in modo da nascondere il più possibile gli svolazzi con lo spray. La ninfa campestre si affacciava tra il caprone e il pentacolo e guardava dritta verso di lui.
Strano, quel pomeriggio gli era parso che fosse ritratta di profilo. Anzi, ne era sicuro.
“Signora, qui ci vuole un rito apposta perché la legatura è di quelle cattive, mai visto un caso di malocchio come questo. Però la nostra Moira è in grado di aiutarla anche in comode rate mensili, è un’esperta a livello mondiale in questo campo.” A quel punto apparve sul teleschermo la moracciona, infagottata in un caffettano tipo carta stagnola.
Il Passerini era sul punto di alzarsi per recuperare le pizzette dal microonde, quando un’altra foto gli saltò all’occhio. Una panoramica della facciata evidenziava un dettaglio che prima gli era sfuggito. C’era un volto affacciato a una delle finestre dell’ultimo piano.
Pareva fatto di ombra e ammiccava dalle imposte leggermente socchiuse.
Un attimo prima di farsi prendere dall’angoscia, almeno due cose frullarono nella mente di Massimo Passerini detto il Ninèn: tutte le persiane della Cà D’Anime erano sprangate da anni, per ordine del Comune. La relativa delibera era contenuta nel faldone.
Quanto all’ombra che occhieggiava dagli scuri, non c’era alcun dubbio: si trattava della vecchia del ballatoio, uscita come nuova dagli incubi più foschi della sua adolescenza.
Per tutti quegli anni il Ninèn s’era convinto che si fosse trattato di un sogno, uno scherzo degli anestetici somministrati prima e dopo l’intervento con cui avevano rimesso insieme i suoi pezzi.
Osservò meglio la foto.
In effetti, quella era l’unica finestra a cui mancavano le assi inchiodate alle persiane. Il volto era poco più di un’impronta, un’area di maggiore densità luminosa dentro a cui spiccavano due occhi così vispi che a momenti pungevano.
Sarà un fotomontaggio, si disse il Ninèn, perché l’alternativa era assai più preoccupante. Se era vera la vecchia, allora erano vere anche le voci dell’Anguilla e del Secchio.
Per quel che ne sapeva, Gigi Anguillari e il Semprini erano stati centrati dal camion del Punghèn come birilli su una pista da bowling. Quel che era stato possibile raccogliere dalla strada e dal fosso era stato sepolto nel cimitero del paese.
Alla televisione, la Gisella e la sua assistente continuavano a vaticinare disgrazie alla Clotilde di Casteldebole, ormai sciolta in singulti e lacrime telefoniche.
Nel frattempo, andava in onda la sigla di chiusura. In sovraimpressione scorreva il numero che occorreva digitare per farsi togliere il sonno assieme al malocchio.
Quella sera, probabilmente, sarebbero stati in due a non dormire: la Clotilde con la fattura a morte nel materasso e il Passerini che passava per l’ennesima volta in rassegna le foto della villa. In tutte le altre immagini, le assi erano correttamente fissate alle imposte e della vecchia non c’era, per così dire, neppure l’ombra.
Quanto alla ninfa campestre, a una seconda occhiata apparve nuovamente voltata di profilo.
A quel punto, l’unica certezza per il Passerini era che quella notte l’avrebbe trascorsa in cucina come ai bei vecchi tempi. Purtroppo non ci sarebbe stata la Trifola a fargli compagnia, ad abbaiare agli autobus e al camion che a mezzanotte vuotava i cassonetti con uno sconquasso da fine del mondo. In compenso, da qualche parte nel freezer doveva esserci una vaschetta di gelato, bacio amaretto e puffo, se non ricordava male. Accanto al posacenere, c’erano due pacchetti di sigarette ancora intatti.
Il che significava che forse non tutto era ancora perduto.

 
******

 
“Guarda, secondo me il bivio l’abbiamo già passato da un pezzo.”
Mentre la moracciona procedeva abbarbicata al volante, nello sforzo di distinguere qualcosa di più del nulla nella nebbia che era calata tutt’a un tratto, l’Adalgisa Buganè s’intestardiva a dar retta a una mappa più che approssimativa, una serie di frecce per di qua e per di là che illustrava il tragitto per raggiungere la Cà D’Anime. Il tutto era appuntato su un foglio stropicciato a forza di rigirarselo tra le mani.
“Devi cercare il bivio per la trattoria I Grilli, dopo di che svolti a destra.”
“Io finora non ho visto nessun bivio,” si limitò a osservare la moracciona, gli occhi fissi alla strada. Pareva che il mondo intero fosse stato cancellato da una gigantesca gomma color latte.
Mo vai più piano, no? Che non si vede gnente e rischiamo di prendere un fosso.”
“Se vado ancora più piano, mi fermo.”
“Ecco, appunto: accosta e vediamo di capire a che punto siamo.”
Vediamo era decisamente una parola grossa.
L’appuntamento col Beppe Mondaini della Cooperativa Muratori & Restauri era stato fissato per le quindici e trenta alla villa, a patto di riuscire a rintracciare la Cà D’Anime in quella coltre che non s’era mai vista così spessa, una lastra fulgente che tagliava la strada appena un metro più in là.
Dopo avere sfiancato il consulente Passerini sulla questione prezzo, l’Adalgisa Buganè s’era decisa a concludere l’affare per diciottomila euro. Il titolare Draghetti non s’era fatto trovare né al telefono né in agenzia, e quanto al fantomatico conte D’Anime, la maga era arrivata persino a dubitare che esistesse sul serio. L’unica cosa certa era l’assegno di caparra che di lì a poche ore avrebbe consegnato all’Immobiliare Reno, ammesso di riuscire ad arrivare in tempo per la firma del compromesso.
Col Mondaini, la Gisella era stata irremovibile: “La avverto: la villa è d’epoca e intendo mantenerla il più possibile conforme allo stato originale”. Il che significava spendere il necessario per evitare che la Cà D’Anime crollasse e chiudere i cordoni della borsa su tutto il resto. “Se vogliamo organizzare un centro come si deve, occorrerà mantenere un ambiente adatto. Altrimenti le entità potrebbero avvertire delle interferenze e non riusciremo a stabilire un contatto.”
Il Mondaini non s’era lasciato impressionare: “Se l’immobile è d’epoca, bisognerà sentire la Soprintendenza. Poi occorre valutare la stabilità, visto che c’è un’ordinanza che dichiara il rischio di crollo. Di lavoro da fare ce ne sarà parecchio.”
“Quella villa sta su da più di trecento anni, qualcosa vorrà ben dire,” aveva replicato la Gisella, testarda.
“Anche il casolare di mio cognato stava là da ottant’anni, ma era così marcio che appena abbiamo montato l’impalcatura è venuto giù tutto e addio agriturismo.” 
La Gisella aveva fretta. Sicuramente, a quell’ora il titolare della Muratori & Restauri era già sul posto e soltanto guardando la villa da lontano si era fatto un’idea di quanto avrebbe potuto spremerle dalle tasche.
“Ma siamo passate di qua, l’altra volta? Io proprio non ricordo.” Ormai una cosa sola col volante dell’auto, la moracciona era in evidente difficoltà. Dopo il bivio che indicava la direzione per I Grilli, la strada aveva iniziato a stringersi sempre più, fino a ridursi a un viottolo tra i poderi. Come se non bastasse, oltre alla nebbia stava calando anche il buio.
“Sei sicura che questa sia la direzione giusta?” riprese la moracciona, al secolo Moira Fabbri. “Ho l’impressione che non stiamo andando proprio da nessuna parte.”
 “Che ora abbiamo fatto?”  domandò a quel punto la maga. “Quello dei restauri sarà già là da un pezzo.” Non aveva neppure finito di dirlo che l’auto iniziò a sbandare in maniera sempre più incontrollabile. La moracciona al volante fece appena in tempo ad accostare. “Abbiamo forato,” disse in un soffio, non appena riuscì a riprendersi dallo spavento. “Ci mancava solo questo. E adesso che facciamo?”
Scesero entrambe dall’auto, ma tra il buio che in campagna è fitto sul serio, la nebbia ancora più fitta, il freddo che pungeva e l’inesperienza, fu già molto se riuscirono a capire qual era la gomma a terra. A quel punto, non trovarono niente di meglio da fare che mettersi a litigare.
“Chiama qualcuno, no? Prendi su quel telefono e chiama un carro attrezzi!” In men che non si dica, la voce della Gisella aveva già raggiunto i toni perforanti che usava in televisione. Una comitiva di cornacchie sciamò da un castagno, visibilmente infastidita.
“Il telefono qui non prende, e poi non so nemmeno dove siamo andate a finire! Cosa ci dico, a quelli dell’ACI?”
“Siamo sulla strada per la Cà D’Anime!” s’infuriò una volta di più la Gisella, strappando con un’unghiata il cellulare dalle mani dell’assistente. “Io sono socia ACI, il carro attrezzi me lo devono gratis!”
Fu in quel momento che entrambe notarono un bagliore poco lontano, molto probabilmente una finestra accesa. “Là c’è qualcuno, andiamo,” decise la Gisella, mettendosi subito in marcia in direzione di quel quadrato di luce. “Sarà una casa di contadini. Quelli sanno far tutto, cambiare una gomma, per loro, è roba da ridere.”
Alla Moira Fabbri non restò altro che trotterellare accanto alla Gisa, perché fra le altre cose aveva paura del buio e a rimanere là a vegliare l’auto in panne non ci pensava proprio.
Avevano percorso soltanto pochi metri quando la luce si spense. La campagna piombò in un’oscurità così impenetrabile che persino le voci si udivano a stento.
“E adesso che facciamo?” tremò la moracciona, afferrando l’unico appiglio che sentiva vicino, ossia il braccio dell’Adalgisa.
Adès si va avanti sempre dritto. Ora che ci penso, quella dovrebbe essere proprio la trattoria dei Grilli.”
“Ma secondo te, a quest’ora, un locale può avere tutte le luci spente?”
“Sarà giorno di chiusura”, tirò dritto la maga, imperturbabile finché non centrò una pozzanghera e sprofondò con tacchi, caviglie e almeno cinque centimetri di calze. Per cavarsene fuori, si aggrappò alla Moira finendo per trascinarla nella stessa acqua fangosa.
Mo che fai, mo che schifo!” Nel tentativo di svincolarsi, la moracciona perse una scarpa e non riuscì più a recuperarla. Per un lunghissimo istante le due donne si guardarono, sperimentando la stessa, stranissima sensazione: pareva che dal fondo una mano le stesse afferrando, stringendo le caviglie e tirandole verso il basso.    
“Non lasciamoci suggestionare,” brontolò l’Adalgisa, con un tono che voleva essere combattivo e invece uscì incerto. “È solo una pozzanghera.” Uscì scalciando e si tirò dietro la moracciona, che prese a seguirla a zoppo galletto.   
Di lì a poco si fermarono di nuovo. Da una direzione ch’era impossibile stabilire proveniva un tintinnio prolungato, qualcosa che ricordava lo scampanellio di un passaggio a livello.  
Fu un attimo e dal buio spuntarono due fari che puntavano decisamente verso di loro, diventando ogni secondo più grandi e fendendo la nebbia con fasci di una fosforescenza spettrale.
Un fischio perforante cancellò il tintinnio che ancora rimaneva sospeso nell’aria, proveniente da chissà dove.
“Ma il treno passa di qua?” fu l’ultima cosa che riuscì a dire la Moira Fabbri. Di fronte a lei, la faccia dell’Adalgisa spiccava illuminata come dai riflettori dello studio televisivo, con l’unica differenza che stavolta la maga se ne stava impalata e solo il labbro inferiore continuava a tremare, senza lasciare uscire nemmeno una parola.

 
******

 
Presso gli uffici dell’Immobiliare Reno, Massimo Passerini era concentratissimo nell’impresa di scartare sottobanco un vassoio di pasticcini alle mandorle, di quelli con la ciliegia candita nel mezzo. La seconda mossa consisteva nel cacciarseli in bocca cercando di non farsi notare dai presenti, che poi erano la collega Granella della scrivania a fianco e una coppia di piccioncini ferma sul marciapiedi, intenta a consultare gli avvisi di affittasi esposti in vetrina.
China sulle carte da compilare, alcune delle quali pendevano dal tavolo cercando una via di fuga verso il cestino, la Granella stava ultimando le pratiche per la cessione di un capannone a un’impresa di pompe funebri. Il volantino pubblicitario della ditta, “il più tardi possibile… ma sempre con Scanabissi”, era la cosa più sinistra che il Passerini avesse mai visto, dopo la vecchia della Cà D’Anime. La collega Granella ci vedeva pochissimo, rifiutava gli occhiali per ragioni di estetica e compensava infilando il lungo naso dentro ai fascicoli, al punto che pareva che li stesse sfogliando proprio in punta di becco.   
Con la mano infilata dentro al cassetto e l’aria di chi pensa a tutt’altro, Massimo Passerini riuscì a grattare fuori altri tre pasticcini, gli ultimi con la ciliegia color verde: rispetto a quelli rossi non c’era praticamente nessuna differenza, in entrambi i casi la pasta si appiccicava ai denti e là restava a sciogliersi, diffondendo una gratificante dolcezza amarognola. Ma per il Passerini il verde possedeva il valore aggiunto della stranezza e di quelle piccole eccentricità lui ci viveva: canditi verde mare, spirali di liquirizia da srotolare coi denti, biscotti da aprire in due per leccare la striscia di vaniglia all’interno.
Lanciò un’occhiata al cassetto, constatando che anche le ciliegine rosse ormai scarseggiavano e intanto dei clienti non s’era fatto vivo nessuno. Non erano arrivati né la maga Gisella e neppure il conte Filippetto D’Anime, di professione burattinaio nonché proprietario dell’augusta dimora in vendita. 
L’ufficio galleggiava in una bolla tiepida mentre fuori la pioggia imperversava a tratti più fitta, a tratti come semplice umidità di novembre.
Sulla scrivania del Ninèn giacevano due copie del preliminare di vendita per la Cà D’Anime, uscite di fresco dall’ufficio del notaio Porsei. Alcune penne col logo dell’Immobiliare erano ordinatamente disposte accanto alla cartellina, già pronte per la firma.
Sul marciapiedi continuavano a sfilare figure chiuse dentro agli impermeabili, chine sotto agli ombrelli, fradice sulle bici. Di tanto in tanto qualcuno procedeva ingobbito in direzione dell’agenzia salvo fermarsi sotto alla pensilina, ad attendere l’autobus con le sporte della spesa, la borsa da lavoro, la sacca della palestra. Per quanto il Passerini si ostinasse a tenere d’occhio la strada, nessuno dei passanti somigliava alla Gisella e alla sua assistente coi cavatappi.
Quanto al conte D’Anime, il Passerini non sapeva neppure che faccia avesse.
Si erano sentiti solo un paio di volte al telefono: la prima quando il maestro aveva accettato l’offerta, la seconda per stabilire la data del compromesso. Un rapido controllo agli appuntamenti in agenda confermò che l’incontro era stato fissato per le diciotto e trenta di quella sera piovosa in cui, sicuramente, anche i fantèsmi al paese se ne stavano rintanati al calduccio.
Forse era un fantèsma anche il conte Filippetto.
Strani presentimenti cominciavano a vorticare nella testa del Passerini. Non poteva fare a meno di pensare che il conte Filippetto, la medium di Tele Savena e l’intera faccenda fossero solo un parto della sua immaginazione.
In cerca di conforto, interpellò la collega: “Non è che non vengono perché oggi piove?”
“Prova a telefonare,” fu la risposta che emerse dall’antro della Granella. Immersa nelle scartoffie, una matita attorcigliata tra le ciocche un po’ nere e un po’ grigie, la collega pareva più che mai un uccello arruffato, col becco a caccia di briciole tra le carte.
“Li ho chiamati un sacco di volte e tra poco si chiude. Che faccio, aspetto ancora?”
“Ci avranno ripensato. Magari hanno voluto concludere tra di loro, senza mettere di mezzo l’agenzia. A volte succede.”
Questa era sicuramente una possibilità.
Il Passerini provò a ricontattare il conte, ma la chiamata correva sulla linea senza che nessuno si decidesse a rispondere. Al numero della maga, dopo un paio di squilli scattava una voce preregistrata: messaggio gratuito, l’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile.
Il pensiero della vecchia sul ballatoio, delle voci dell’Anguilla e del Secchio che lo inseguivano per i quattro cantoni della Cà D’Anime continuava a riaffacciarsi a intervalli. Il fruscio della pioggia che veniva da fuori gli dava l’impressione che di nuovo la villa si fosse sollevata su zampette di ragno e si stesse aggirando per le vie del quartiere.
Ancora un poco e sarebbe arrivata fino a lui.
“Esco a prendere qualcosa per cena,” annunciò il Passerini, non riuscendo più a sopportare l’attesa.  
“Non hai già cenato abbastanza?” La Granella sollevò appena un’occhiata dagli appunti del commendator Scanabissi, esequie e arte funeraria dal 1940. “E poi non posso mica star qui al posto tuo. Stasera ho un appuntamento.”
Come no. Figurarsi. 
In un attimo il Passerini era già sulla porta, le falde del cappotto che prendevano il volo investite da una raffica di pioggia e umidità. In men che non si dica raggiunse il kebabbaro all’angolo e ordinò due pizze da asporto con funghi, carciofini e un’altra decina di ingredienti a casaccio.
Era il primo cliente della serata.
Le due donne velate che gestivano il locale assieme a un monumentale pakistano in grembiule, marito o padre che fosse, presero nota fissandolo appena con grandi occhi bordati di kajal.  
Avvolto dagli odori di spezie e carne arrosto, il Passerini si rilassò. Gli piaceva quel posto, col pavimento appiccicoso come la cucina di casa sua e le pareti decorate da manifesti che invitavano a viaggiare in paesi lontani. Sulla mensola c’erano biglietti da visita, studenti che insegnavano a suonare la chitarra, ripetizioni e dog sitter. C’erano vecchie riviste e copie di quotidiani di almeno tre giorni prima. Per il Passerini, che non era mai al corrente di niente, quei fogli stropicciati rappresentavano pur sempre una novità. 
Mentre era intento a sfogliare la Gazzetta dello Sport – ultimamente non s’interessava più nemmeno al Bologna – un vecchio televisore mandava in onda le ultime notizie della giornata. Le due velate presidiavano la cassa come statue di sale, il kebabbaro strapazzava l’impasto, schizzava cucchiaiate di pomodoro e infornava.
Quella della tivù era l’unica voce presente nel locale.
Dopo dieci minuti di pubblicità a base di panettoni e alberi decorati, anche se mancava più di un mese a Natale, il telegiornale riprese. Fu a quel punto che il Passerini lasciò perdere la Gazzetta e drizzò decisamente le orecchie.  
Il servizio riguardava uno strano incidente avvenuto al paese in località I Grilli, a meno di un chilometro dalla Cà D’Anime.
“Sciagura in campagna, due morti su una linea ferroviaria da tempo inutilizzata,” recitavano i titoli in sovraimpressione. In primo piano uno del posto, ripreso al limitare di una stradicciola, continuava a ripetere che era roba da matti, perché lungo quel viottolo c’era sì un binario, o meglio c’era stato in tempo di guerra, ma poi la ferrovia era stata deviata e i campi avevano ricoperto ogni cosa.
Secondo Trenitalia, rappresentata da un tizio che pareva appena ripescato dal fiume, non risultava che la linea fosse ancora operativa. Tuttavia i primi rilievi parlavano chiaro: un mezzo a dir poco pesante aveva investito la famosa medium di Tele Savena, tale Adalgisa Buganè, una certa Moira Fabbri e la loro Punto color argento, tranciandole in pezzettini così precisi che neppure col tritacarne si poteva far meglio.
Quelli dell’ambulanza avevano continuato a raccogliere i resti arrivando fino al viale che conduceva alla Cà D’Anime. La fila dei cipressi s’intravedeva cupa e nebbiosa sullo sfondo.  
Mentre le riprese dei campi in panoramica sfilavano davanti agli occhi del Passerini, la sua faccia scoloriva nella stessa tinta grigio topo del tavolino.
Una delle velate, sopraggiunta con i cartoni delle pizze e un forte aroma di curry, si premurò di chiedere se andava tutto bene.
“Devo telefonare,” disse il Ninèn, in un soffio. La donna posò i cartoni e si defilò in fretta, richiamata dietro al banco dal padre o marito.
Il Passerini chiamò in ufficio, dove la collega Granella confermò che non s’era fatto vivo nessuno, che doveva scappare perché aveva un impegno urgente e che non era giusto che toccasse sempre a lei passare lo straccio prima della chiusura.
Alla televisione, le notizie sull’incidente avevano ceduto il passo a un servizio sulle località sciistiche più in voga. Baite e paesaggi innevati, turisti sulle sdraio con le facce cotte dal sole. Il Passerini raccolse i cartoni delle pizze, si crogiolò nel tepore che gli scaldava le mani e finalmente si decise a uscire dal locale.
Fuori aveva smesso di piovere e le strade si scrollavano la gobba come i cani.
L’idea di tornare a casa, dove lo attendevano soltanto i suoi pensieri, gli provocò un senso di smarrimento. Trovò rifugio nell’auto, uno spazio ridotto dove gli incubi non potevano starci tutti o almeno si sarebbero sentiti un po’ stretti. Accese la radio in cerca di altre notizie. Girovagò tra i canali finché s’imbatté in un programma che trasmetteva sigle di cartoni animati: munito di un sottofondo rassicurante, decise di dedicarsi per il momento alle pizze. Il primo morso provocò uno smottamento di carciofini, peperoni e pomodoro che traboccò sul cappotto, rimbalzò sui calzoni e finì la sua corsa in parte sulle scarpe, in parte sul tappetino. E questi sono cinquanta euro di lavasecco, pensò il Passerini in fondo contento, perché un normale contrattempo era quello che ci voleva per tenere a bada tutto il resto.   
Stava ancora frugando in cerca di un fazzoletto quando da una tasca non meglio precisata partì la colonna sonora di Suspiria, che in un momento di puro autolesionismo aveva scelto come suoneria del telefono.
 Per un attimo ebbe il timore che a chiamare fosse la maga Gisella dall’altro mondo o magari l’Anguilla, in veste di improvvisato macchinista di un treno inesistente. Invece era il Draghetti, e guai se il gran capo avesse saputo che il Passerini aveva rubricato il suo numero alla voce Strazzamaroni.
“Allora, Massimo, abbiamo concluso? Siamo riusciti a rifilare la bicocca?”
In sottofondo si udiva un brusio di traffico godereccio, con scoppi di risate e folate di musica da qualche locale. Per riuscire a farsi sentire, il Draghetti era costretto a urlare.
“Ciao, Gianni. Diciamo che siamo ancora in fase di trattative.”
Altri suoni di festa, risate femminile e ritmi orientaleggianti. Non si capiva se era la voce del Draghetti a barcollare in preda a una sbronza coi fiocchi o se si trattava di un problema di linea.
“Massimo, ci sei? Qui a Phuket devi venirci anche tu, prima o poi. È il paradiso in terra, le donne praticamente ti corrono dietro.”
“Immagino,” rispose il Passerini a denti stretti. Nel cartone, le pizze si stavano raffreddando.
“Comunque ho un altro interessato alla Cà D’Anime, a cui darei assolutamente la precedenza. Lascia perdere l’Adalgisa Busoni e segnati questo nome,” e qui un’interferenza cancellò le parole insieme al sottofondo da notte selvaggia, “… aspettati che venga a trovarti in questi giorni.”
Perfetto, pensò il Passerini. Le parole gli uscirono dalla bocca da sole. “Stasera aspettavo i clienti per la firma del compromesso ma c’è stato un contrattempo,” disse tutto d’un fiato. “Non so cosa sia successo di preciso, fatto sta che l’Adalgisa Buganè è finita sotto a un treno.”
Detta così sembrava una barzelletta e forse lo era davvero. Al telegiornale avevano parlato di un binario e di un mezzo pesante: le somme le aveva tirate la sua immaginazione, che come al solito galoppava per conto suo. 
Restò con il telefono appiccicato all’orecchio, in attesa di qualche reazione da parte del gran capo. Gli ci volle un pezzo per rendersi conto che la linea era caduta, molto probabilmente insieme al Draghetti, travolto dall’energia delle sue notti thailandesi.
Un ticchettio di gocce sul parabrezza lo avvertì che stava ricominciando a piovere.
Accese una sigaretta e mise in moto il pandino, che rispose con un colpo di tosse e un ronfare sornione.
Se non altro, aveva un obiettivo a breve termine: riscaldare le pizze nel microonde, trascinare la solita poltrona in cucina e il sonno, prima o poi, sarebbe arrivato.    
In sottofondo, la radio mandava in onda la sigla di un vecchio cartone della sua infanzia: …E chi li vede strilla o mamma mia! Gambe in spalla e vola via!

 
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