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Autore: yonoi    23/10/2019    8 recensioni
Un'antica villa abbandonata, attorno a cui ruotano inquietanti leggende.
Una campagna avvolta, per molti mesi all'anno, da una fitta coltre di nebbia.
Un pomeriggio d'estate e tre ragazzini in cerca di emozioni forti.
Un agente immobiliare alle prese con un difficile incarico: concludere la vendita della Cà D'Anime e affrontare i propri incubi del passato.
Prima classificata al contest "Tattoo Studio" indetto da Wurags e valutato da Juriaka sul Forum di EFP. Terza classificata al contest "Siglaaa..." indetto da Milla4 sempre sul Forum di EFP.
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ca’ D’Anime è in vendita
 

“E chi li vede strilla
oh mamma mia!
Gambe in spalla
e vola via!”
(“Carletto il principe dei mostri”, sigla finale)
 
 

1. Fȏl di fantèsmi[1]

 
In un paese nella campagna dell’Emilia, circa a metà degli anni Ottanta.
 

“C’è un buco in una delle inferriate del primo piano. Proviamo a entrare e a dare un’occhiata in giro.” Tra tutti, Gigi Anguillari detto l’Anguilla era quello che conosceva meglio il posto. C’era stato più volte, anche di notte quando nella campagna non si vedeva a un metro, d’inverno per la nebbia e d’estate perché dal fiume saliva una caligine rasoterra, che serpeggiava a guizzi e spirali come le bisce. L’unico lampione, piantato di recente all’ingresso del viale, era stato preso a sassate ancor prima che l’Enel si facesse due conti, realizzando che alla Cà D’Anime la corrente non arrivava né valeva la pena di tirar su due pali per farcela arrivare, perché la villa era abbandonata da secoli e pipistrelli e civette ci vedono anche al buio, anzi di più e meglio. Eppure, da qualche parte esisteva perfino un proprietario: secondo alcuni l’era il dièvel in persona, per altri, semplicemente, qualcuno che non aveva nessun interesse ad accollarsi quel rudere, che dai tempi dei tempi stava in piedi appoggiato ai pioppi e a quattro assi piazzate là dal Comune.
Di lì a poco anche il lampione, forse per la tristezza di ritrovarsi solo o perché si era adeguato all’andazzo del posto, aveva cominciato a pencolare storto. L’unica compagnia era una comitiva di pipistrelli che in estate passava le ferie nei solai, in fila a testa in giù ad attendere il crepuscolo come ombrelli richiusi. In autunno migravano in qualche grotta più riparata, così il nostro restava di nuovo triste e storto in compagnia della pioggia, di un nebbione che si tagliava col coltello e degli inverni di neve che, col passare degli anni, l’avevano piegato ancor più verso il basso.
In quel pomeriggio di fine estate alla Cà d’Anime arrivarono in tre, quattordici anni a testa e un tempo di vacanza che era ormai agli sgoccioli ma bisognava pure impegnare in qualche modo: l’Anguilla in motoretta e il Secchio seduto dietro, con le zampe da trampoliere che tagliavano l’aria.
Il Ninèn[2] arrancava sulla Graziella di sua madre e ce la metteva tutta per non restare indietro e ingoiare la polvere che il compare levava su smarmittando.
Per arrivare alla villa, occorreva attraversare il viale di cipressi che un tempo era stato padronale. Due pilastri reggevano ancora i cardini di un cancello inesistente. Quello che c’era prima, di ferro battuto con lo stemma della casata, era stato recuperato da qualcuno del posto e ora se ne andava a passeggio lungo gli argini sotto forma di pezzi di ricambio per biciclette.
Forse anche la Graziella che in quel momento il Ninèn arrestava coi piedi, montava qualche reliquia della fu cancellata dei conti D’Anime.
Tinteggiato di bianco con cornici di rosso attorno alle finestre, l’edificio incombeva sbucando dai cespugli coi cornicioni sbreccati, lunghe crepe sui muri e qua e là i cartelli con la scritta pericolo di crollo.
Mentre l’Anguilla faceva scattare il cavalletto e il Ninèn controllava le suole delle scarpe, Semprini il Secchione, detto anche il Secchio per esigenze di abbreviazione, mise a fuoco dietro ai fondi di bottiglia la villa e diede voce a una legittima perplessità: “Siamo sicuri che regge? Qua rischiamo di fare la fine del topo.”
Un nastro bianco e rosso girava attorno a due pioppi e si perdeva nel folto dei cespugli. Era stato messo là dal Comune nel tentativo di impedire l’accesso a vagabondi, cultori di messe nere e quattordicenni impiccioni: o quanto meno per avvertirli del fatto che un eventuale cornicione caduto sulla testa non avrebbe fruttato nessun risarcimento.
“Là dentro ci sono i fantasmi,” osservò il Ninèn, a mero titolo informativo. L’impaccio con cui cercava di ricacciare dentro i calzoni i rotolini di ciccia fuoriusciti nella corsa era chiaro segnale di una fifa galoppante.
“E grazie al caz, siamo qui per questo!” intervenne l’Anguilla. “Bona lè cincischiare, sul retro c’è la breccia che il sottoscritto ha scovato apposta per voi.”
Io non sto cincischiando,” ci tenne a dire il Secchio, “dico solo che la struttura è a rischio di crollo e che non mi piacerebbe affatto restarci sotto.”
“La verità è che voialtri vi state cagando in mano,” insistette l’Anguilla inoltrandosi a gambe larghe in mezzo alle felci, scostando le ramaglie fitte dei rovi, sicuro come se stesse entrando in casa sua. Il Secchio gli tenne dietro, seguito dal Ninèn in posizione di retroguardia. Che poi voleva dire essere il primo a filarsela nel caso in cui la faccenda prendesse una brutta piega.
Solo quando si trattò di passare sotto a un cornicione pieno di ombre, il Ninèn passò sfrecciando davanti a tutti gli altri, con le mani levate a riparo della zucca e la paura che gli metteva le ali ai piedi: “I palpastrèl”, brontolò quando fu a distanza di sicurezza. “A me fanno senso, quegli uccellacci.”
“Sei il solito ‘gnurànt. I pipistrelli son brisa uccelli, sono mamifferi.”
L’Anguilla s’insinuò nella breccia e in un attimo fu dentro, seguito a ruota dal Secchio.
Mentre il Ninèn cercava d’intrufolarsi a sua volta, le mani gli sudavano per la strizza di rimanere infilzato in uno degli spuntoni della grata, nonché di trovarsi faccia a faccia con uno spettro. D’un tratto si sentì strattonare all’indietro: senza dubbio, una mano di morto l’aveva acchiappato al volo e lo teneva ben stretto, a mo’ di coniglio tirato su per le orecchie.
Appeso per la giacca rossa e blu del Bologna a un ferro sporgente, sentendosi già sul bancone del macellaio tra la mannaia e il ceppo dei coltellacci, il Ninèn cacciò uno strillo da maialino da latte, che conteneva tutto il terrore del mondo e rimbalzò contro i muri facendoli sussultare. I calzini degli altri due che erano già dentro scesero precipitosamente a cagarella.
Un altro rimbombo echeggiò fino ai ballatoi dell’ultimo piano e anche stavolta era il Ninèn che ruzzolava a capofitto sul pavimento, la giacca del Bologna strappata proprio nel punto in cui i calciatori ci avevano scritto sopra gli autografi, con l’Uniposca indelebile. Lo sbrego era tale che hai voglia ago e filo per rimetterlo insieme. Quando si avvide del sacrilegio, il Ninèn guaì di nuovo, con un acuto così pieno di sentimento che pareva gli avessero spezzato tutte le ossa, una alla volta.
“Oh, ma bona lé, vuoi far venir giù il mondo?” mormorò il Secchio, già grigio in faccia per il semplice fatto d’essere lì a fare qualcosa di proibito.
“Fate poco bordello,” disse l’Anguilla, secco. “Avanti, per di qua.”
Non che l’Anguilla avesse meno strizza degli altri: molto semplicemente, era più bravo a evitare che gli si leggesse in faccia. Era stato lui a insistere per andare a curiosare alla Cà D’Anime, tanto per far passare la noia di un pomeriggio in cui la bocciofila era piena di anziani intenti a giocare a briscola e a compilare la schedina, con la massima concentrazione dietro agli occhiali divisi in mezzelune – una metà per vederci da lontano e l’altra per leggere da vicino. Chi non era completamente assorbito nell’impresa di azzeccare i risultati della prossima domenica, era immerso in fumose questioni di politica: fumose in senso stretto, perché nell’angolo riservato ai compagni, tutti in tuta blu col Manifesto che spuntava dalle tasche, le esalazioni delle Nazionali senza filtro formavano una cappa ancor più persistente della nebbia che calava sul paese a novembre.
“Andiamo a fare un giro alla Ca’ D’Anime,” aveva proposto a quel punto l’Anguilla. Gli altri non se l’erano sentita di rifiutare, un po’ perché non avevano altre idee da proporre e un po’ per non farci la figura dei cacasotto.
“La strada l’è ardott mel[3]. Se mi scoppia una gomma poi me la paghi te,” aveva provato a dire il Ninèn che a conti fatti, più degli spettri, temeva le cioccate di sua madre.
“Che poi, là non c’è niente,” aveva aggiunto il Secchio, “ai fantasmi ci credono soltanto i vecchi e i cinni.[4]
Che i cinni ci credessero, lo dimostrava il fatto che in quel preciso momento i tre avanzavano tra i mucchi di calcinacci e le scritte a spray sui muri – pentacoli rovesciati, frasi di innamorati, organi genitali affrescati con dovizia di particolari – tenendosi stretti come i rondinini nei nidi. Di quando in quando, inciampavano l’uno nelle scarpe dell’altro. 
Quanto ai vecchi del paese, fingevano di non crederci ma quando gli toccava passare dalla Cà D’Anime per andare al podere, acceleravano con tali sgambate in bicicletta che pareva che tra le buche della sterrata corresse il Giro d’Italia.
In paese si raccontava ancora la storiella di un medium d’altri tempi, un certo Pickmann che si era esibito in teatro a Bologna, in pieno Ottocento. Era l’epoca in cui furoreggiava la moda dello spiritismo, delle sedute al buio con le mani sul tavolino e delle dame che voltavano gli occhi in su e cominciavano a farfugliare stramberie da indiavolate. Quella sera, il presentatore aveva annunciato che il professor Pickmann si apprestava a evocare un’anima trapassata, alla quale il gentile pubblico in sala avrebbe potuto porre delle domande. Era seguito un silenzio di piombo, dopo di che una voce era echeggiata dal loggione: “Di ban sό, fantèsma, l’èt mai ciapè int al cul?”
Non si seppe mai chi fu l’ardito loggionista. Quel che è certo è la colorita espressione divenne proverbiale e che il professor Pickmann non fu più visto a Bologna.
Ma quelli erano altri tempi, storie di una città che scambiava per nebbia quel velo di foschia che si asciugava appeso ai tetti alla mattina. Poi subito spariva alla stessa maniera con cui le donne di casa ritirano i lenzuoli dopo che han preso aria.
La nebbia, quella vera, era tutt’altra cosa. La gente della campagna, che se la sentiva pesare sulle spalle per buona parte dell’anno, sapeva che in quella caligine che cancellava le strade quattro passi più in là si nascondevano voci, suggestioni e ricordi: le impronte delle cose che erano andate perdute, gli spiriti dei morti che vagavano lungo gli argini perché avevano perso la strada per il camposanto o perché gli era rimasto qualche cosa da fare, prima di dedicarsi all’eterno riposo nella muffa dei loro loculi. C’era chi aveva visto in quella bruma fuggevole la faccia di un parente e si era ricordato che c’era ancora da mettere in ordine la casa, raccogliere la roba prima di darla via: puntualmente, dal cassetto di un comò saltavano fuori quelle due banconote che facevano comodo, un libretto postale, una serie di numeri che fruttavano un ambo, se non proprio un terno secco, sulla ruota di Bologna.
Anche quando in paese era arrivata la radio, poi la televisiàn dapprima alla bocciofila e poi su tutti i centrini dei casolari, le storie di fantasmi avevano continuato ad andarsene a spasso indisturbate, cariche di fruscii e sospiri come la nebbia. Quanto alla Cà D’Anime, c’era chi raccontava di un misterioso violino che suonava in pieno giorno e forse anche di notte, ma col buio nessuno aveva fegato e voglia di avventurarsi da quelle parti, neppure per imboscarsi con la morosa.
Si diceva che quel viulèn fosse appartenuto a uno degli ultimi conti D’Anime, un giovane macilento che s’era impiccato per un amore tragico o più semplicemente perché era matto duro. Di certo, la morte non gli aveva dato sollievo: lo dimostrava il fatto che il viulèn fantèsma continuava a suonare, levando dalle corde un lamento così tormentoso da andare via di testa. Infatti, c’era stato chi aveva saltato l’argine per non sentirlo più. Ma in quei casi era tutta gente a cui già da prima mancava qualche rotella: sicché non si poteva dar la colpa al fantèsma se gli era venuto il ghiribizzo di affogarsi senza lasciare neppure una lettera in riva al fiume. O almeno così dicevano il giudice, il medico legale e un sacco di altra gente venuta dalla città apposta per ripescarli dal groviglio di rami e cespugli dell’argine.
Altri se l’erano cavata con un bello spavento. Qualcuno sosteneva di essersi perso nei campi e di avere vagato a lume di naso per un tempo che non si poteva misurare. Uno di questi era Pinèn dla Marìa, più noto come la spânga[5] o, quando era proprio fradicio, lo stindèn, lo stendibiancheria. C’era però da dire che Pinèn era solito iniziare la giornata col giro delle osterie. Già alle otto e mezza gli si poteva spillare dalla pancia la Vecchia Romagna solo a metterci il rubinetto, sicché non era il caso di dargli retta più di tanto.
Di storie che giravano attorno alla Cà D’Anime l’Anguilla e il Ninèn ne avevano sentite raccontare parecchie, dalle nonne e bisnonne che volevano solo tenerli lontani da quei muri pericolanti. Tuttavia e alla faccia delle buone intenzioni, alle orecchie dei cinni quei fȏl suonavano esattamente come musica di violini: erano zolfanelli che accendevano la voglia di andare a curiosare per scoprire se nei racconti c’era qualcosa di vero.
Di fȏl di fantèsmi Semprini detto il Secchio ne aveva sentiti meno, perché i suoi avevano la laurea, la farmacia in piazza e venivano dalla città: tuttavia, in quel pomeriggio in cui la luce iniziava lentamente a declinare e la campagna intorno era una pennellata di oro e di bigio, mentre si avventurava per le sale della Cà D’Anime, il Secchio era lì lì per farsela sotto esattamente come gli altri.
In quel momento e a suon di cucci e spintoni, nascondendosi dietro alle spalle dell’Anguilla che a sua volta cacciava avanti gli altri due, i cinni erano giunti fino alla scalinata che saliva a volute ai piani superiori. Incerti se proseguire, si limitarono a guardar su verso i ballatoi. Fin lì, dei presunti concerti di violini della Cà D’Anime, non avevano sentito neppure una nota.
L’Anguilla accese una torcia, perché ormai imbruniva e dalle sale vicine filtrava solo un filo di pulviscolo lattiginoso. Il fascio di luce rischiarò appena l’ombra che spioveva dall’alto, qualche battito d’ala di colombi o palpastrèl che fuggivano a ripararsi in qualche anfratto. Una passatoia che un tempo era stata vermiglia scoloriva sulla polvere dei gradini, nascondendo probabili insidie rovinose.
“Io lassù non ci vado,” disse subito il Secchio. “C’è da rompersi l’oss dal cȏl.”
“Neppure io, sia chiaro,” si accodò il Ninèn. “Ci ho già rimesso la giacca del Bulagna, am pèr che basta e avanza.”
“Torniamo indietro. Io ve l’avevo detto, che qui non c’è niente,” riprese il Secchio, dopo essersi assicurato che tra gli stucchi e i brandelli di ragnatele, che penzolavano lunghe e spesse come tende, non ci fosse davvero niente.
 “Te ti aspetti che i fantasmi vengan fòra coi lenzuoli,” disse l’Anguilla, che per pura cautela continuava anche lui a guardarsi bene attorno. “Invece il fantèsma è semplicemente una presenza. Qualcosa che ti viene vicino e ti soffia sul collo.”
Fu allora che l’Anguilla, per render meglio l’idea, soffiò davvero sulla collottola del Ninèn.
In quel preciso istante si udì un urlo venir giù a capofitto, acuto e perforante come quando si ammazza il maiale a Natale: uno strepito che dire assatanato era dir niente.
Mo dai, che scherzo!” disse l’Anguilla con la faccia che sbiadiva in un color carta da zucchero. Lì per lì aveva pensato che a strillare fosse stato di nuovo il Ninèn. Però il Ninèn e il Secchio guardavano verso l’alto, imbambolati come se avessero veduto chissà che apparizione. E infatti l’apparizione c’era sul serio: ritta sul ballatoio dell’ultimo piano, là dove nessuno poteva arrivare perché la scala era crollata giusto a metà, c’era una vecchia scarmigliata e feroce che strepitava insulti e pareva venuta dritta su dall’inferno, per quanto era cattiva e faceva tremare i muri con urla da indemoniata. Addirittura la polvere veniva giù crepitando come se fosse pioggia.
Pareva che l’intera Cà D’Anime fosse sul punto di crollare sulla testa dei tre in un fortunale di calcinacci.
Caràggne! Delinquenti! Adès, scendo e v’amazzo!” imperversava la vecchia e in un attimo era in fondo al ballatoio, in procinto di scendere quelle scale inesistenti.  
Sotto a quella gragnuola e ancor più alla sola idea di trovarsela di fronte, i cinni se la diedero a gambe senza pensarci sopra un momento di più. Corsero per le stanze spintonandosi a vicenda con mani sudaticce che parevano già le grinfie della vecchia, persero l’orientamento nei saloni tutti ugualmente vetusti, ingombri di pietrame, rovine e marciume. Ritrovarono infine la via della breccia e stavolta il Ninèn si fiondò dentro per primo, superando l’ostacolo con un guizzo da acciuga. Col fiato che bruciava, continuarono a correre inciampando nelle radici che affioravano ovunque. I cespugli strapparono al Ninèn un altro pezzo di giacca del Bulagna.
Raggiunsero bici e moto e solamente quando furono a debita distanza si concessero una sosta, un sospiro di sollievo e uno scambio di opinioni.
“Che brόtta veciaza,” esalò il Secchio con la faccia che pareva un burazzo tirato su dalla varechina[6]. “Chissà chi diavolo era.”
“Forse una zingara che è andata a stare lì,” disse l’Anguilla ostentando una finta calma. I garretti gli tremavano ai due lati del Ciao come se stesse ballando.
I zengher mica scorr an bulgnais[7], osservò ancora il Secchio, “quelli girano le giostrine dei luna park e parlano in turco.”
Il Ninèn, che al posto del fiato aveva una fornace per via della corsa, riuscì a dire una cosa sola: “E poi, non aveva le gambe.”
Gli altri due lo guardarono con la faccia del prete che vede entrare in chiesa il Pinèn dla Marìa con la Vecchia Romagna nel sacchetto di carta e in bocca certe bestemmie da tirar giù il campanile.
C’sa dit,” intervenne l’Anguilla, “ti sei bevuto il zervèl?”
“Io l’ho vista bene”, insistette il Ninèn, sicuro al cento per cento. “Non aveva le gambe, ma solo la sottana che spenzolava in aria. Quella l’era un fantèsma e ci voleva fèr fòra. Altro che musica di viulèn.”
Già si erano lasciati alle spalle il viale dei cipressi, che nel crepuscolo esalava un tepore dolce insieme ai primi versi cupi della civetta. Più lontano rispondeva un singhiozzo monotono, un rospo che si godeva la frescura di un fosso. Quei richiami che si perdevano nel silenzio dei campi e nel vapore che saliva dalle zolle, suscitavano un’impressione di lontananza e mistero.
Mentre il sole calava, il mondo intero era fermo.
Ancora con la paura attaccata ai garretti, anzi aumentata perché il buio iniziava a venire giù svelto, i cinni ripresero la strada, col motorino al minimo e il Ninèn che arrancava sulla Graziella a testa bassa. Dopo un ragionevole tempo di riflessione, si fece sentire di nuovo la voce del Secchio: “Forse i pi ce li aveva sotto alla gonna.”
“Io ho visto solo un pezzo, quello che sporgeva giù dalla balaustra,” tornò a dire il Ninèn. “Sotto, non c’era gnente.”
“Mia nonna al dìs che il fantèsma era uno che suonava il violino,” insistette l’Anguilla, che aveva ancora la forza e la tigna d’esser poco convinto.
Cla dona il viulèn se l’è mangiato per colazione,” disse tetro il Ninèn. “E per cena voleva noi, e tu non dir di no perché c’eri e hai visto.”
Continuarono ad andare avanti per un po’, tenendosi vicini e in silenzio per riprendersi dallo spavento. Mancava poco al paese, da quelle parti non girava mai nessuno.
Non sapevano, i cinni, che a un paio di chilometri da lì il tratto di autostrada sopra al cavalcavia era stato interrotto per via di un incidente che aveva accartocciato motori e lamiere come fossero scatolette. Sopra c’era andato a finire un rimorchio che s’era rovesciato e pareva un burdigone[8] con le zampe per aria.
Mentre si tentava di salvare il salvabile, il traffico era stato deviato sulla statale che attraversava il paese per quanto era lungo: pochi metri dalla bocciofila fino alla chiesa, passando per la piazzetta con la farmacia dei Semprini e poco più in là l’emporio dove si vendeva di tutto, dai sacchi di granaglie ai quaderni di scuola. Chi aveva fretta e conosceva bene il posto, poteva prendere la scorciatoia che passava per la Cà D’Anime.
Quella geniale idea era venuta in mente a un certo Maurizio Tovoli detto il Punghèn, perché era smilzo e aveva il musetto da sorcio ma soprattutto perché, alla maniera dei topolini di campagna, conosceva tutte le strade e riusciva a intrufolarsi col camion della Cooperativa Arredi d’Arte fin giù per le cavedagne.
Reduce da quasi venti ore di viaggio tra l’andata e il ritorno, proveniente dall’Austria e diretto a Bologna insieme a una fornitura di orologi a cucù, il Punghèn non vedeva l’ora di consegnare e concedersi finalmente una notte di sonno. Per questo, lanciò il camion di corsa giù per quella stradina sperduta tra i campi, dove di solito giravano soltanto civette e palpastrèl.  
Il Punghèn confidava che i sobbalzi della sterrata e il baracchino da radioamatore, tramite il quale era in corso un’interessante conversazione con una certa Mariangela, gli avrebbero impedito di addormentarsi al volante. Si sbagliava di grosso, perché un colpo di sonno lo colse tutt’a un tratto. Il camion proseguì a rotta di collo fin quando non si accorse che alla guida, di fatto, non c’era nessuno. Allora prese ad andare a casaccio, pelò qualche ramo ed era sul punto d’infilarsi dritto in un fosso, quando incappò in una buca e l’autista si svegliò giusto in tempo per non finirci dentro.
Il camion si trovava a pochi metri dalla Cà D’Anime. Fu a quel punto che il Punghèn si accorse della vecchia ferma in mezzo alla strada come fanno le galline cinque secondi prima di essere investite. Spuntata da chissà dove, mostrava i pugni e gridava senza far caso ai fari che la puntavano dritta e a tutto il resto del camion, in procinto di travolgerla con tonnellate di ferro e orologi a cucù.
Il Punghèn sterzò di colpo per non tirarla sotto e fu così che il fosso lo beccò per davvero, e mica solo quello. Prima che il camion si rovesciasse lungo disteso, fece appena in tempo a sentire delle urla di ragazzini. Voci terrorizzate che forse erano vere o forse solo un sogno, come la vecchia che era comparsa all’improvviso e che il Punghèn, prima di chiudere gli occhi in anticipo sulla tabella di marcia, fece appena in tempo a pensare che era ben strana: perché pur restando ferma in mezzo alla strada, non aveva le gambe ma solo la sottana che svolazzava a mezzo metro da terra.  
Dal baracchino, la voce della Mariangela, sfoglina per passione, continuò a raccontare delle quantità di tigelle che aveva sfornato alla festa dell’Unità di San Lazzaro, precisando che quella era l’ultima sera e magari il Punghèn poteva fare un salto, così tanto per conoscersi.
Quando si accorse che su quella banda nessuno le rispondeva, la Mariangela terminò il suo monologo con un passo e chiudo e si mise a preparare l’impasto per la serata. 

 
******

 
Cà D’Anime, quasi trent’anni dopo

 
“Prego signore, se volete seguirmi vi mostro i vari ambienti.” Mungendosi la faccia nel fazzoletto dove aveva spremuto il sudore delle ultime ventiquattr’ore, Massimo Passerini, di professione agente immobiliare, si fece da parte, cedendo il passo a due donne che entrarono scodinzolando sui tacchi, il naso dritto per aria.
“Ma quanta polvere c’è!” osservò la più giovane, come se fosse capitata in un qualunque appartamento un po’ in disordine. “Ci saranno mica i ragni, io proprio non li sopporto,” aggiunse, scuotendo qua e là una capigliatura di ricci a cavatappi così esuberante che tutti i ragni e i burdigoni del mondo potevano farci il nido e ci sarebbe avanzato ancora dello spazio.
Mo siamo sicuri che sta in piedi?” intervenne l’altra, più pratica. L’Adalgisa Buganè, in arte maga Gisella, picchiò con le nocche sul primo muro che le capitò a tiro, col risultato di far piovere una manciata di pulviscolo: “A me, sembra poco solido.”
“Naturalmente, lo stabile necessita di restauri,” intervenne il Passerini, temendo un improvviso cedimento strutturale ma cercando di mantenersi professionale. “Questo, sia chiaro, incide sul prezzo che vi ricordo è estremamente favorevole.”
“Di questo dobbiamo ancora discutere,” lo fulminò secca la maga Gisella, con la voce tonante con cui leggeva le carte su Tele Savena, in genere annunciando malocchi e altre disgrazie. Un altro po’ di polvere venne giù dagli antichi decori del soffitto, forse per lo spavento.
Il Passerini cercò nuovamente riparo tra le pieghe del fazzoletto. Anche se nei saloni regnava l’umidità fredda delle cantine, il consulente sudava non solo perché portava a spasso, strizzati dentro alla giacca, centododici chili tondi, ma anche perché era reduce da giorni interi di rinvii e dibattimenti proprio sulla questione prezzo. D’un tratto capì perché il gran capo gli avesse appioppato proprio quella cliente: avere a che fare con la maga Gisella era come scalare l’Everest in braghini e infradito e questo, il signor Draghetti della Immobiliare Reno doveva averlo indovinato all’istante, col suo intuito da mediatore di lungo corso.
“Volevo solo dire che le condizioni dell’edificio… nelle stanze più interne vi sono stucchi di pregio e anche degli affreschi,” provò a dire il Passerini.
“Io vedo solamente dei muri rovinati,” lo interruppe la maga, contemplando la sequenza di graffiti e genitali che qualche buontempone aveva realizzato scaricando dozzine di bombolette spray. “Non li tenete mica poi tanto bene, i vostri immobili.”
“Come vi dicevo in agenzia,” e come vi ho ripetuto fino all’esaurimento per settimane di seguito, “la villa risale alla metà del Settecento ed è rimasta chiusa per molto tempo, finché l’ultimo erede dei conti D’Anime non si è deciso a vendere.”
“Piuttosto, dicono che qua ci sono i fantasmi,” s’intromise la moracciona coi cavatappi.
“Quelle son vecchie storie di contadini. È un pezzo ormai che non se ne sentono più.”
Il Passerini avvertì una punta di nostalgia. Da anni non capitava da quelle parti e nel frattempo il paese era cambiato al punto da non riuscire a riconoscerlo: era diventato un sobborgo della città, circondato da agriturismi con l’orticello biologico, le tavolate per i matrimoni e i battesimi e il maneggio dei pony per divertire i bambini. Insieme alla bocciofila e le partite a briscola, anche i fȏl di fantèsmi dovevano essere andati in pensione.
 “Mo dove sarebbero, questi famosi affreschi?” Dritta sui tacchi a spillo, i pugni ben piantati sui fianchi, la maga Gisella era chiaramente intenzionata a stare sul pezzo. “Mi sa che quelle foto che mi ha mostrato in ufficio erano un po’ vecchiotte, caro il mio giovanotto. Se non ci sono gli affreschi, guardi che il prezzo scende.”
Il Passerini allentò il nodo della cravatta, pescò in fondo alla tasca un altro fazzoletto e si diresse verso la scalinata che spariva nell’ombra dei piani superiori.
“La scala non è agibile,” avvertì, mentre la moracciona stava già per posare il piede sul primo gradino. “Però da qui si dipartono vari ambienti ricchi di modanature e decori ornamentali. Nel salone alla vostra destra, potete osservare pregiati affreschi in stile settecentesco.”
Da una parete, in effetti, una ninfa campestre faceva capolino tra un pentacolo rovesciato e una testa di caprone, rozzamente abbozzati a colpi di spray.
“Ovviamente, i dipinti necessitano di un’adeguata opera di ripulitura…”
Senza far caso alla ninfa e tanto meno al Passerini, la maga Gisella ispezionava il vano scale. Arrivò in breve a trarre le sue conclusioni e non aveva ancora visto né il pentacolo né il caprone: “Ma qui l’è tutto un disâster! Qui bisogna tirar giù i muri e rifarli daccapo, qui di buono ci sono solo le fondamenta!”
E che diavolo pretendi, per ventimila euro?
“Però, se i fantasmi ci sono davvero, sarebbe il posto adatto per il nostro centro esoterico,” suggerì la moracciona, che si guardava attorno con aria ispirata.
Al Passerini cominciava a mancare il respiro. Forse dipendeva dal fatto che dentro alla Cà D’Anime l’aria non circolava e l’umido pesava come un lenzuolo fradicio sulle spalle, per giunta di misura matrimoniale. Ma soprattutto c’erano ben altri pensieri, ricordi che spingevano per tornare alla luce da quell’angolo buio in cui li aveva relegati per anni. Il consulente si frugò nuovamente nelle tasche e artigliò il secondo pacchetto della giornata, constatando che su venti sigarette ne restava soltanto una.
“Vi dispiace se fumo?” chiese e ancor prima di ottenere una risposta si era già piantato la sigaretta in bocca e manovrava per far scattare l’accendino.
Quel senso di malessere, più simile a un’inquietudine che non sapeva spiegare, cominciava ad accentuarsi.
Bella, ràgaz, ma quello è il Ninèn!” saltò su di punto di bianco una voce che non era né della maga né della sua assistente. Il Passerini rimase con la fiammella dell’accendino dritta in aria, mentre con la coda dell’occhio saliva su fino all’ultimo piano, dove però non c’era nessuna sottana svolazzante dal ballatoio.
Mo ve’, l’è il Ninèn per davvero,” intervenne una seconda voce di adolescente. “Sόccia se è messo male, al pèr il Vecchione che bruciano in piazza Maggiore per Capodanno.”
“Ma quanti anni avrà?”
“Basta che fai il conto di quando sei morto.”
Seguì una serie di sghignazzi mentre il Passerini, stupefatto, non capiva se quelle voci gli parlavano nella testa – il che era già di per sé un pessimo segno – oppure se nella casa c’era davvero qualcuno. Ad ogni buon conto, sia la maga Gisella che la sua irsuta assistente continuavano a gironzolare per le sale come se fossero in centro a guardare le vetrine.
Pȏver Ninèn, è bianco come uno strâz,” riprese la prima voce. “Avrà qualche brutta malattia di sicuro. Qualcosa di incurabile.”
“Tu dici che tra poco verrà a stare da noi?”
“Non gli dò più di sei mesi. Un anno, a stare larghi.”
“E quelle là, invece? Simpatiche cόmm un gât tachè ai marόn.”[9]
Mo Ninèn, ma chi ci hai portato? Qui ci stanno i fantèsmi, mica le streghe…”
“Ohi, ma la volete piantare?” sbottò a quel punto il Passerini, suscitando il comprensibile stupore della maga Gisella. “Ma come, dottore? Dovremo pur guardare, per farci un’idea…”
“Comunque, a mio parere, l’ambiente è congeniale,” intervenne di nuovo la tipa coi cavatappi. “Ci sono delle vibrazioni molto particolari. Non le senti anche tu, Gisa?”
La maga nonché sedicente medium di Tele Savena drizzò le orecchie in ascolto.
Una solenne pernacchia seguita da una coda di altre risate fu udita solo dal consulente Passerini, il quale alzò il tono per sovrastare quel chiasso che forse era solamente nella sua testa e forse invece no. “Molto bene, signore,” disse stropicciandosi energicamente le mani, “direi che si è fatto tardi ed è ora di andare. Tra poco sarà buio e, come sapete, l’allacciamento elettrico è ancora in corso d’opera.” Con il vostro permesso, io qua non voglio restarci un minuto di più.
“Ah, non c’è neanche la luce? Mo benessum.” La maga Gisella stava ancora guardando in su. Tutto sommato, se a quel punto fosse spuntata fuori la vecchia senza gambe, al Passerini non sarebbe dispiaciuto neanche un po’. 
“Fino a pochi anni fa, anche il paese era piuttosto isolato. Comunque, ora la villa l’avete vista,” riprese, deciso a tagliar corto prima che la penombra facesse venir voglia a qualche altro spettro di uscire a sgranchirsi il lenzuolo. “Sul prezzo ci potremo naturalmente accordare, ma bisognerà sentire il parere del proprietario.”
“Quanto a questo, gradirei discuterne personalmente con il signor conte,” azzardò la Gisella, che malgrado la lunga strada percorsa dalla campagna ai tarocchi, non era riuscita a sfondare negli ambienti che contano. “Da pari a pari, riusciremmo sicuramente a intenderci.”
“La proprietà tratta solo per mezzo dell’agenzia,” la bruciò il Passerini, che di streghe e fantèsmi ne aveva piene le tasche e desiderava solo raggiungere il terzo pacchetto che giaceva intonso nel cruscotto dell’auto. Evitò di aggiungere che l’ultimo discendente dei conti D’Anime era un vecchietto che costruiva burattini e teneva spettacoli in giro per le piazze. Partiva da Bologna con un furgone adibito a teatrino, attraversava i paesi seguendo il corso del fiume, finché arrivava al mare e bivaccava in Riviera per tutta l’estate. Uno spirito libero che sotto sotto il Passerini invidiava.
Il bisavolo del conte, quello che suonava il violino nelle antiche fole di un tempo, era da un pezzo che non si sentiva più. Non l’avevano sentito neanche quei tre ragazzetti, Gigi Anguillari detto l’Anguilla, il Secchio e il Ninèn, in quel disgraziato pomeriggio in cui s’erano avventurati alla Cà D’Anime sulle orme degli antichi racconti. Per non pensarci, non appena fu in auto ed ebbe assicurato la pancia alla cintura, il Passerini alzò la radio a tutto volume. Fece appena a tempo a sentire la maga Gisella mentre si rivolgeva alla sua assistente:
“Ventimila euro per quella baracca, figuriamoci un po’. Questi dell’agenzia hanno visto un bel film. Parlerò io con il conte e se non arriviamo a ottomila prezìs, non son più l’Adalgisa.”
Io, invece, vado a san Luca a piedi se riesco a scampare il centro esoterico, si disse il Passerini e non sapeva neppure perché di punto in bianco gli fosse uscita quell’idea, a lui che possedeva soltanto un pacco di bollette da pagare e anche una percentuale su ottomila euro gli avrebbe fatto comodo. Diede gas e il pandino quattro per quattro cacciò fuori un ringhio da belva sotto la carrozzeria color sabbia, con l’adesivo forza Bologna appiccicato sul di dietro.
Mentre l’auto trottava, i pensieri si accavallavano nella testa del Passerini alla stessa velocità con cui sfilavano i cipressi del viale, i pioppi non ancora abbattuti per far spazio a mobilifici e ipermercati.
“Non potrebbe andare un poco più piano?” saltò su l’Adalgisa. Il pandino saltava da una buca all’altra con piglio da giovanotto e cigolava su sospensioni da ottantenne: messe insieme, le due cose facevano temere che viti e bulloni fossero lì per schiodarsi al prossimo urto.
 “Ho fretta, signore mie,” dichiarò il Passerini, ricorrendo a un espediente suggerito da Draghetti in persona per i casi di emergenza. “In agenzia mi attende un altro cliente interessato alla villa e disposto a pagare ventimila in contanti.”
Per un attimo sperò che questo fantomatico acquirente spuntasse fuori sul serio. O almeno che Tele Savena chiudesse i battenti e la maga Gisella si trovasse costretta a leggere le carte nella piazza del paese, al posto delle vecchine che, quando era bambino, vendevano i rametti di liquirizia e raccontavano i fȏl di fantèsmi di una volta.
Nella quiete dei campi, lontano dal fracasso del pandino e delle canzonette alla radio, come fosse il respiro stesso del fiume incominciava lenta a salire la nebbia.
 

 
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[1] Storie di fantasmi.
[2] Maialino in dialetto bolognese.
[3] Ridotta male, malmessa.
[4] Bambini, ragazzini.
[5] La spugna.
[6] “Brutta vecchiaccia” e “strofinaccio”.
[7] “Gli zingari mica parlano in bolognese.”
[8] Scarafaggio.
[9] “Simpatiche come un gatto attaccato ai marroni.”
  
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