Capitolo
16
Un
treno per Auschwitz
Prima parte
- “Piccolina, cosa ti hanno fatto?” -
“Nel 1944,
quando fummo deportati a Birkenau, ero una ragazza di quattordici anni, stupita
dall’orrore e dalla cattiveria. Sprofondata nella solitudine, nel freddo e nella
fame. Non capivo neanche dove mi avessero portato: nessuno allora sapeva di
Auschwitz.”
Liliana Segre
(1930 - vivente), reduce della Shoah e senatrice a vita italiana.
Immagine dal web
17
febbraio 1944
La
donna dall’accento milanese le rattoppò gli strappi della divisa da cameriera
e, con non poca difficoltà, l’aiutò a vestirsi. Come una bambola gessata, Sarah
sedeva immobile e assente sulla sedia, con lo sguardo fisso nel vuoto e il
respiro così lieve e impercettibile da farla sembrare davvero senza più vita.
Se, invece di vestirla e pettinarla, quella donna l’avesse uccisa, lei non se
ne sarebbe neanche accorta.
“Pòra
tosa”[1],
fece la cameriera più apprensiva, “come ti chiami?”
La
donna ripeté la domanda più volte, ma Sarah rimase ferma nel suo impenetrabile
silenzio. Una parte di lei era già morta.
“Fia
méa”[2],
riprese la cameriera, aiutandola ad alzarsi e finendo di sistemarle il vestito
addosso, “se fai così, è peggio.”
Poteva
esserci qualcosa di peggio? Poteva esistere un dolore più grande, più lacerante
di quello? Gli occhi di Sarah, persi nel vuoto, tornarono alla realtà,
velandosi di lacrime e guardando la donna con aria disperata.
“Va’
a riposare, cara. Per oggi, farò io il tuo lavoro”, concluse la cameriera più
comprensiva e già iniziò a rassettare la camera.
Barcollante
e con la vista offuscata per il forte stress, la stanchezza e le lacrime, Sarah
si trascinava tra le baracche del campo, sperando che nessuno facesse caso a
lei. Tremava di vergogna al solo pensiero di dover rientrare nella sua baracca,
di incrociare facce amiche e mostrare loro i segni tangibili delle botte e le
tracce invisibili dell’abuso. Allentò un po’ lo chignon, coprendosi il viso con
qualche ciocca di capelli e, a testa bassa, passò spedita accanto al gruppetto
di donne, intente a conversare fra loro e strofinare il bucato nella tinozza.
Ma Maria la vide e scattò in piedi, chiamando il suo nome con voce preoccupata
e seguendola nella baracca.
“Sarah!”
La donna la chiamò ancora e più volte, ma Sarah non si volse e andò a
rannicchiarsi nel suo letto, sotto una coperta vecchia e logora, in posizione
fetale.
La
scena richiamò l’attenzione di alcuni uomini presenti nella baracca, tra i
quali c’era anche il marito di Maria.
Sedendosi
accanto, la donna le accarezzò lievemente la guancia e, con voce spezzata, le
disse: “Piccolina, cosa ti hanno fatto?”
Sarah
scoppiò di nuovo in lacrime e, intanto, il marito di Maria, con uno scatto, si
mosse velocemente verso la porta della baracca.
“Ma
io lo ammazzo quel maiale nazista!” urlò, accentuando per rabbia la sua cadenza
bolognese.
Due
uomini napoletani, rispettivamente padre e figlio, lo fermarono.
“Ma
si’
pazzo? Vuo’
fa’ succédere
’o quìnnece diciòtte?”[3]
fece il più anziano, prendendolo di petto e, intanto, anche Maria gli andò
incontro per calmarlo.
“Davide,
per l’amor del cielo”, sussurrò la donna, come un lamento e gli prese le mani.
Ne
seguì un lungo silenzio, spezzato soltanto dai singhiozzi sommessi di Sarah,
mentre sguardi d’impotente compassione furono su di lei, che avrebbe voluto
sparire di vergogna e paura.
In
piedi, davanti alla finestra del suo ufficio, Hermann fumava una sigaretta e
osservava fuori. Come al solito, dopo pranzo, i bambini giocavano allegramente
fuori la baracca ma, questa volta, a guardarli, sull’uscio socchiuso della
porta, non era Sarah. Espirando con aria saccente, il fumo della sigaretta
appannava i vetri e sbiadiva i colori della sua visuale. Hermann non riusciva a
togliersi dalla testa quella ragazza e la immaginava ripiegata nel suo letto, rannicchiata
nella poca luce della baracca e nel buio della sua sofferenza, raggomitolata
nella sua sincera e pudica bellezza che si scontrava con il suo essere ebrea.
L’innocenza
che aveva violato gli suscitava un sentimento che non riusciva a comprendere –
o meglio, non voleva – e che assomigliava più alla tenerezza che alla
compassione. Al contempo, la ragazza aveva risvegliato in lui pulsanti e
incontenibili sensazioni, paragonabili a quelle della sua adolescenza, e la sua
bramosia non era ancora sazia. Hermann espirò l’ultimo tiro di sigaretta.
Quella ragazza ebrea sarebbe stata di nuovo sua, ma non come la notte
precedente.
Per
tutto il giorno, Sarah era rimasta nel suo letto, in silenzio e immobile nella
sua posizione fetale, senza toccare né cibo né acqua, nonostante la materna
insistenza di Maria.
“Saretta,
ti hanno picchiato quei soldati cattivi?” le aveva domandato innocentemente un
bambino, con aria triste e regalandole una caramella.
Ma
Sarah non rispose, non si mosse e la caramella, che il piccolo conservava da
giorni, rimase sul cuscino.
“Sarah
deve riposare. Va’ a giocare”, esordì con tono fermo Maria, facendo allontanare
il bambino, prendendolo per mano.
E,
intanto, Sarah, non riuscendo ancora a trovare un perché a ciò che le era
accaduto, iniziò a darsi delle colpe. Forse, all’arrivo a Fossoli, quando aveva
incrociato lo sguardo del tenente, i suoi occhi, invece di esprimere timoroso
stupore, si erano lasciati andare inconsapevolmente a un’espressione ammiccante;
forse, il suo vestito era troppo corto, il colore del suo cappotto troppo
appariscente o, forse, lo era lei, senza che se ne fosse mai accorta. Addosso,
sentiva ancora il peso soffocante di quel corpo, la pressione di quelle mani
che l’accarezzavano con violenza, il soffio di quel respiro affannoso e
quell’odore maschile che la sua innocenza non aveva mai conosciuto fino ad
allora. Avrebbe voluto strapparsi di dosso i vestiti, la pelle, arrivare fino
alle ossa e sradicare dalle viscere l’infamia con la quale il nazista l’aveva
marchiata per sempre. All’ennesima fitta bruciante, Sarah si raggomitolò su se
stessa, sollevando di più le ginocchia e stringendo forte le mani tra le gambe.
Come una supplica, desiderava e invocava, dentro di sé e con un linguaggio da
bambina, la confortante presenza dei suoi genitori e quasi riuscì a percepirla
in una carezza di Maria che, amorevolmente, la esortava ad assaggiare almeno un
cucchiaio di minestra prima che diventasse fredda. Era già l’ora di cena.
“Sarah,
è da ieri sera che non mangi. Prova almeno un cucchiaio, dai”, ripeté la donna
per l’ennesima volta, con il cucchiaio a mezz’aria e Sarah, arrendendosi alla
sua amorevole insistenza, si lasciò imboccare.
La
minestra, diventata ormai tiepida, le lasciò sulle labbra un sapore amaro e,
dopo pochi cucchiai, non ne volle più. Affondò di nuovo la testa nel cuscino e,
intanto, la porta della baracca fu aperta di colpo e con la stessa violenza del
giorno prima. La stessa voce che urlava il suo nome, lo stesso soldato che
l’avrebbe condotta a una seconda morte. Sarah trasalì di paura, ma non si mosse
dal letto.
“Signore,
la ragazza è molto stanca. Forse ha anche la febbre.” Davide, seguito da sua
moglie, si era avvicinato al soldato, parlandogli con tono sicuro.
“La
prego, chieda al comandante se può iniziare domani mattina a lavorare”,
intervenne Maria, la cui voce spezzata assomigliava più a un lamento che a una
protesta.
Ma
il soldato dissentì, alzando e inasprendo di più il tono della voce: “Ho
l’ordine di portarla adesso dal comandante e gli ordini non si discutono!”
“Ordini?” Davide ridacchiò sarcastico, mentre
gli animi di tutti iniziarono a scaldarsi.
Sarah
intuì la gravità della situazione e, prima che potesse accadere qualcosa di
tragico nella sua baracca, decise di alzarsi per andare incontro al suo
inevitabile destino. Tanto nessuno, pur volendo, avrebbe potuto salvarla da
quella condanna. In silenzio e a testa bassa, per la paura e la vergogna di
incrociare gli sguardi, passò lentamente in mezzo ai suoi compagni di sventura
e, varcata la porta, seguì il soldato.
Gli
stivali del soldato che affondavano nel terreno umido e il suo equipaggiamento
che sfregava sull’uniforme erano per Sarah come il suono di una marcia funebre,
la sua. Il suo cuore sembrava essersi fermato, così come il respiro, mentre,
come un automa, seguiva il soldato lungo i corridoi dell’edificio occupato dai
tedeschi. Ma la paura accelerò di nuovo i battiti del suo cuore, i respiri e i
pensieri, quando il soldato la condusse in quello che doveva essere l’ufficio
del tenente. E lui era in piedi dietro la scrivania, intento a mettere in
ordine dei fogli. Sollevò la testa e la sua impeccabile capigliatura biondo
grano e il soldato, con un battito di tacchi, andò via, lasciandola da sola in
mezzo alla stanza. Tenendo la testa bassa e attraverso la ciocca di capelli che
le copriva gli occhi, intravide il tenente sistemare l’ultimo foglio e farsi
lentamente davanti alla scrivania, appoggiarvi all’indietro le mani e
incrociare i piedi.
“Dunque”,
iniziò con tono deciso, “credo proprio che abbiamo iniziato con il piede
sbagliato.” L’accento ruvido tradiva la sua volontà di parlarle con voce più
gentile.
Fece
una pausa, mentre Sarah tentò invano di regolare il respiro in quei pochi
secondi che le parvero lunghi un’eternità.
“Vedi”,
riprese il tenente, “io non sono un mostro e non è mia abitudine stare con una
donna, anche se tu sei un’ebrea, usando la violenza e voglio darti la
possibilità di scegliere.”
Per
un fugace istante, Sarah pensò che forse avrebbe potuto salvarsi e, intanto, il
tenente tornò dietro la scrivania, rovistando accuratamente tra i fogli e
continuando perentorio il suo discorso: “Qualcosa mi dice che posso fidarmi di
te e che quello che sto per dirti rimarrà un segreto fra di noi, che non lo
dirai agli altri prigionieri.”
Alzò
lo sguardo, aspettandosi un contraccambio da parte di Sarah, ma lei rimase
ferma e china, tremante, come un pulcino impaurito.
Trovato
il foglio che stava cercando, il tenente le si avvicinò, parlandole con tono
più solenne e autorevole: “Tra qualche giorno partirà un treno per Auschwitz
e il tuo nome è sulla lista dei deportati.”
Sotto
gli occhi di Sarah, per un attimo infinitamente lungo, passò quella lista piena
di nomi, di persone innocenti, di vite spezzate. Cos’era Auschwitz? Non aveva
mai sentito quel nome ma ebbe subito la sensazione che si trattasse di un posto
terribile, più dei campi di lavoro forzato in Germania, di cui tutti parlavano.
E
il tenente, alla sua muta domanda, non tardò a rispondere: “Auschwitz è un
campo di concentramento tedesco in Polonia. Al suo confronto, Fossoli è un
albergo di lusso.” Ridacchiò ironico. “Appena arrivi, ti fanno spogliare
davanti a tutti, anche davanti agli uomini e davanti ai soldati”, proseguì serio
e crudele, iniziando a girarle intorno e squadrandola, ripetendo così una scena
già vissuta, “poi ti tagliano i capelli.”
Le
si fermò davanti e, mettendole una mano fra i lunghi capelli neri, ne
attorcigliò una ciocca attorno al dito. Puliti, sembravano brillare di
sfumature color rame. Poi lasciò che i capelli ricadessero sul petto, vergini
colline di terre prima di lui inesplorate, che palpitavano a ogni respiro
affannoso, a ogni battito accelerato per la paura. Se lo avesse capito prima,
forse le mani di Hermann, la sera precedente, avrebbero goduto di più di quel
viaggio. Ricercò un altro contatto fisico e, con uno scatto, le prese una mano.
Era gelida.
Salì
poi sull’avambraccio, senza stringere troppo e, con tono quasi minaccioso,
continuò: “Ti incidono un numero sul braccio e quel numero diventa il tuo nome.
Ti tolgono ogni cosa e più nulla ti appartiene, neanche la tua stessa vita. E
ti costringono a lavorare, fino allo sfinimento, fino a quando di te non rimane
più niente.”
Guardandola
fissamente in viso, richiamò invano il color miele dei suoi occhi, per poi
afferrarle il mento e costringerla ad alzare lo sguardo.
“Sarebbe
un peccato”, disse con ostentato rammarico, “in fondo, sei una bella ragazza.”
Bella. Questa parola, pronunciata da un criminale nazista che aveva abusato di lei, per Sarah sapeva di sporco, di cinismo e volgarità. No, non doveva essere lui il primo uomo a dirglielo e nel mezzo di uno spaventoso discorso impregnato di odio e di morte.
Due
grosse e silenziose lacrime rigarono la guancia livida di Sarah e si posarono
sulla mano di Hermann, il cui cuore sembrò rallentare di un battito per quegli
occhi dorati, lucidi di pianto e sconvolti dalla paura, per quel viso segnato
dai suoi schiaffi. Bella.
Dicendoglielo, lo pensava realmente.
Prima
che potesse cedere a sentimenti di tenerezza e compassione, mostrandosi in
qualche modo debole, le lasciò sprezzante il mento e riprese a parlarle con
freddezza e risoluta arroganza: “A te la scelta. Se deciderai di stare con me
in maniera civile, cancellerò il tuo nome da questa lista”, disse, sventolando
un po’ il foglio sotto i suoi occhi, “in caso contrario, sarai la prima a
salire su quel treno.”
Diede
uno sguardo all’orologio da polso e, gonfio di sé, aggiunse: “Sono le otto. Hai
dodici ore di tempo per decidere, a partire da adesso.”
Hermann
era così sicuro di quale sarebbe stata la scelta della ragazza.
Immagine dal film “Schindler’s List”
“Donne piccole
come stelle,
c’è qualcuno le
vuole belle.
Donna solo per
qualche giorno,
poi ti trattano
come un porno.
Donne piccole e
violentate,
molte quelle
delle borgate.
Ma quegli uomini
sono duri,
quelli godono
come muli.”
Mia Martini,
Donna