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Autore: _Lightning_    07/11/2019    5 recensioni
[INCOMPIUTA]
«Mi sembrava che ne avessi bisogno,» sussurra Natasha, con voce velata, e Tony sorride appena a quello sfoggio di spavalderia che sanno entrambi essere inutile.
«Decisamente,» non la contraddice, ma aumenta un poco la stretta e sente la sua farsi quasi disperata a sottolineare quanto ne avesse bisogno anche lei.
Come se quell’abbraccio potesse alleggerire il dolore di entrambi, o fonderlo in modo da renderlo più comprensibile, meno oscuro.
Non sa se Natasha lo stia trascinando verso il basso per piantare un ormeggio sicuro, o verso l’alto, a fluttuare incerto a mezz’aria. Ma sfiora la terra con la punta dei piedi e rimane lì, in equilibrio, in bilico con lei.

In un universo in cui lo schiocco ha reciso e distrutto legami, chi è rimasto è costretto a ricostruirli, ritrovarli, o crearne di nuovi, con il costante interrogativo di quanto sia giusto andare avanti quando ci si è lasciati così tanto dietro.
[pre-Endgame // Hurt-comfort // IronWidow + Pepperony // PoV Tony]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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.4.

Inferno
I
 
 

“Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte
fino al punto di non vederlo più.”
I. Calvino
 
 


Gennaio 2019, Avengers Tower, New York
 
«Ma che cazzo…?» esordisce poco elegantemente Tony dopo il primo istante di stordimento, incapace di trovare le energie per sollevare di nuovo la testa da terra.

«Molto poetico, Stark,» commenta lei, facendosi più vicina.

La vede sfocata, adesso, come se fosse sott’acqua.

«Mh… stai ferma lì dove sei, mi fai venire la nausea,» bofonchia, cercando di scollarsi dal pavimento e facendolo solo diventare un piano inclinato grazie al suo disorientamento mentale alcolico.

Il cervello gli rimbalza nella scatola cranica come un pallone da calcio, e forse non è solo a causa dello scotch. Si porta le dita alla tempia e trattiene una smorfia per il dolore acuto che la colpisce, unita alla sensazione di caldo gonfiore che avverte sotto ai polpastrelli.

«Hai un bel bernoccolo,» osserva serafica Natasha, scostandogli la mano e premendovi il suo palmo più fresco a valutare i danni.

Tony riesce solo a modulare un lamento prolungato, perdendo la facoltà di parola mentre cerca di ricomporre i pezzi scomposti della propria visuale – oltre che di quello che sta succedendo, perché è ubriaco marcio, ma è comunque piuttosto sicuro che Natasha non dovrebbe essere qui. Né qui nel suo attico, né a New York, né negli Stati Uniti, né probabilmente in questa parte del globo.

«Rhodey…» esala, strascicando le sillabe, «… non doveva venire lui?»

«Non rispondi al telefono da cinque giorni: Rhodes aveva troppa paura di trovarti impiccato a una cravatta o sfracellato ai piedi della Tower per presentarsi di persona qui,» ribatte lei, asciutta.

«Ho… perso il telefono,» biascica Tony, vagamente cosciente di averlo scagliato sotto al divano in preda a un delirio alcolico. «E no, non…» prende un grosso respiro cercando di ossigenare il cervello e causandosi solo un capogiro, «non… c’è il blocco di sicurezza alle finestre, ci pensa FRIDAY, a non farmi volare di sotto…» bofonchia, e realizza di essersi di nuovo spalmato per terra, con la guancia che aderisce al parquet e una mano premuta inutilmente a far leva sul legno senza riuscire a imprimervi alcuna forza.

«Che sollievo,» è la cinica risposta della donna, e la sente muoversi svelta attorno a sé.

Avverte una spinta improvvisa verso l’alto, comprendendo in ritardo che lo sta sollevando, cingendogli il busto da dietro per farlo mettere seduto contro l’armadio. Compie il gesto con fin troppa facilità, considerando che è praticamente abbandonato a peso morto, e trova un riflesso della propria considerazione nel modo in cui la sente tastargli di sfuggita le costole, ben percepibili anche attraverso la maglietta.

«Nuova dieta,» bofonchia anticipando i suoi possibili commenti, e riesce a mettere a fuoco il suo cipiglio contrariato.

«A base d’alcol?» sbuffa lei, di nuovo seduta sui talloni di fronte a lui, e da questa posizione riesce a distinguere un po’ meglio i suoi lineamenti.

Non è l’unico ad essere dimagrito, e i suoi occhi verdi hanno una sfumatura quasi grigia. Ma quello, sospetta, è solo frutto della sua immaginazione soffocata dalla cenere.

«Quando sei… no, meglio,» si corregge, sollevando una mano e trovandosi a sventolarla in modo del tutto scoordinato rispetto alle sue intenzioni, «dove sei stata fino a…»

«Non adesso, Stark,» lo tronca lei, stringendo le labbra severamente. «Sei così sbronzo che non so neanche come fai a parlare. Non ho voglia di spiegarti tutto da capo quando sarai sobrio.»

«Per quello potrebbe volerci un po’,» biascica Tony, chiudendo gli occhi e riaprendoli di scatto quando il buio si trasforma in una trottola nauseante. «Stai meglio quasi rossa,» osserva poi, cogliendo solo ora suoi capelli che adesso sono lunghi fino alle spalle e hanno perso buona parte della tinta alle radici.

Si rende poi conto che quello non è esattamente un commento coerente, ma ritiene un successo il riuscire a frenare anche solo un decimo delle stronzate che gli arrivano alla bocca, e non ha le facoltà sufficienti ad approntare un bypass mentale funzionante. Natasha sospira dal naso, profondamente, e presume si sta trattenendo a stento dal farlo rinsavire con metodi poco ortodossi.

«Lo so,» risponde comunque, pacata ma con un sottotono metallico. «È più facile rinunciare alla tinta, quando non devo nascondermi e non sono ricercata,» conclude seccamente, con uno spillo di rimprovero che gli si conficca alla base della nuca.

«Okay, okay, sei ancora incazzata per Lipsia e tutto il teatrino,» deduce lui, ripiegando un ginocchio al petto e poggiandovi il mento, senza però commettere di nuovo l’errore di chiudere le palpebre, che sono comunque pericolosamente a mezz’asta. «Hai qualche buon motivo per essere qui, visto che sei… comprensibilmente astiosa verso di me?» chiede poi, impantanandosi nelle sue stesse parole senza la certezza di averle pronunciate tutte e in modo comprensibile.

«I buoni motivi sono risparmiare a Rhodes e Happy lo sporco compito di venire a raccattarti – di nuovo. E mandare qui Steve o Banner non mi sembrava esattamente una mossa sensata, ma forse mi sbaglio io,» continua lei, su un’onda di tagliente sarcasmo, e Tony quasi la preferisce al velo di compassione costante che irradiano appunto Rhodey e Happy.

«Non sbagli,» mormora, scollando la lingua dal palato, impastato del retrogusto acidulo dello scotch. «Però non mi schiodo comunque da qui,» conclude poi, spalmandosi una mano sulla fronte a coprirsi gli occhi, lasciando filtrare quel poco di luce sufficiente a non fargli venire le vertigini.

«Avevi detto di voler tornare,» lo rimbecca prontamente, e Tony sbuffa sciogliendosi poi in un sospiro esausto.

«Ero troppo sobrio, quando l’ho detto,» ridacchia, senza riuscire a frenare quella reazione inconsulta che, decisamente, non versa in favore della propria lucidità.

Di lucido, adesso, sente solo gli occhi, e ormai non sa più a cosa attribuire quella reazione fisica che sfugge al proprio controllo senza mai donargli il sollievo di un pianto vero. Forse avrebbe dovuto disattivare il blocco alle finestre di FRIDAY. Solo che non può farlo, perché ha impostato come chiave vocale la voce di Pepper. Per sicurezza, a tagliarsi definitivamente qualsiasi via di fuga troppo estrema. Almeno una delle tante. Quella misura preventiva gli sembra ancora una pugnalata autoinflitta, ma ha funzionato.

«Non voglio tornare,» mormora ancora sconnessamente, senza neanche aver avuto l’intenzione di dirlo ad alta voce.

«Gliel’hai promesso, Stark,» insiste lei, con brusca durezza, e vede i suoi occhi farsi minacciosi, un’eco di quelli di Rhodey meno il velo di pianto, perché Natasha non ha mai tempo, per piangere: è sempre in missione.

«Sono fatti miei, quello che decido di fare,» ribatte lui, incupendosi. «Non voglio tornare… un posto vale l’altro, ormai, e ho deciso di rimanere qui,» continua, ripetendosi.

Vorrebbe davvero smettere di parlare, ma è partito per la tangente e non sta neanche dicendo quelle frasi come vorrebbe dirle, riesce solo a suonare patetico e terribilmente alticcio.

«No, tu hai scelto di crearti il tuo inferno personale,» gli fa notare lei, con calma inumana.

Tony si ritrae un poco, incontrando la superficie dura dell’armadio con la testa ancora dolorante.

Creiamo i nostri demoni e rendiamo il mondo il nostro inferno. [1] Gli rimbomba in testa quella frase, letta o forse sentita un giorno di troppo tempo fa, quando sbirciava i libri che leggeva sua madre non perché gli interessassero davvero, ma per stare in sua compagnia, accoccolato a lei sul divano con gli occhi curiosi che facevano capolino sulle pagine da sopra la sua spalla accogliente. Alcune l’hanno accompagnato per una vita intera: immagini di corone pesanti e anime spazzate via da venti impetuosi, di mari in tempesta dominati da mostri fantastici e voli impossibili e folli troppo vicini al sole e alla luna. Un affastellarsi immaginifico che di tanto in tanto pungola il suo ingegno, o la sua coscienza, o i suoi mondi onirici.

Ora però tutto ciò che popola la sua mente sono frammenti distorti di scene già vissute e irrecuperabili. Niente lieto fine, niente poeticità o viaggi favolosi. Solo un buco al centro del cuore, con quell’organo vitale che continua a battere cercando inutilmente di richiuderlo.

«Cosa ne sai, tu?» sputa fuori, tremante, non sa se per l’alcol o per tutte le emozioni che si dibattono nel suo petto spento, ma che adesso sembra ripiegarsi su se stesso e fare attrito, destando qualche fievole favilla.

«Io l’ho già visto, l’inferno,» replica lei, glaciale. «È un posto da cui fuggire, non in cui crogiolarti perché hai scelto di lasciarti andare.»

Tony scuote la testa, testardo, e medita se dirle delle voci. Ha come l’impressione che lei potrebbe capirlo meglio di chiunque altro… a parte quel maledetto di Barnes, e quel fatto è così paradossale e beffardo che sente la rabbia montare all’istante. Serra i pugni sulla stoffa dei pantaloni e scaccia il freddo e la Siberia: ci riesce con fin troppa facilità, perché quello è un abisso molto meno profondo di quello in cui sta sprofondando adesso.

Si fissa le mani contratte e le parole continuano a solleticargli la lingua, senza che lui si decida a spingerle fuori. Non può tornare, in nessun senso: rinunciare a quell’intontimento alcolico vuol dire rischiare di ritrovarsi fantasmi in testa. E chissà cosa succederebbe, poi, chissà se allora il suo senno decollerà per rifugiarsi tra gli astri, troppo lontano per essere recuperato. [2] Cerca di tornare presente a se stesso, di remare contro quelle fantasie romanzesche che dirottano le sue sinapsi.

«È comunque meglio dell’alternativa,» si lascia scappare infine, e vorrebbe suonare fermo e risentito, ma la sua voce è troppo stanca, troppo filtrata dai pensieri che si interpongono tra testa e bocca.

Ha l’impressione di sentire una scossa elettrica provenire da Natasha. Quando solleva il volto, la sua espressione è granitica.

«Io ho un’altra valida alternativa,» dichiara, muovendo appena le labbra rigide e piene nel parlare.

Sparisce dalla sua visuale e Tony quasi crede che quell’alternativa sia lasciarlo a marcire lì. Poi si sente strattonare di peso per le spalle della maglietta, così bruscamente che quasi si strappano le cuciture e la stoffa gli affonda nella pelle.

«Ehi!» protesta debolmente, e fa per divincolarsi, ma Natasha lo blocca da dietro facendo leva sul suo collo, in quella che è abbastanza sicuro sia una presa potenzialmente letale, lo strattona via ed è forte, molto più forte di quanto abbia mai sospettato. «Romanov, mollami, maledi–» viene interrotto quando impatta con la tempia già ammaccata contro quello che crede sia uno stipite.

Vede le stelle, vere e non, che gli esplodono dietro le palpebre. Per un istante pensa di richiamare l’armatura, per poi realizzare di non avere l’alloggio nel petto da mesi, e di aver disattivato i micro-trasmettitori che costellano il proprio corpo. Lo realizza solo dopo essersi stupidamente assestato due ridicoli colpetti sullo sterno, e sente Natasha emettere un verso di derisione, aumentando la stretta sul suo collo e immobilizzandogli anche l’altro braccio, l’altra mano ad arpionargli i capelli sulla nuca per non fargli opporre resistenza.

«Sul serio, Stark?» sibila, e lo sta ancora trascinando con una facilità imbarazzante, anche considerando le sue condizioni malmesse.

Poi annulla i suoi tentativi di puntare i piedi per terra con un colpo di tallone ben assestato dietro le ginocchia, e lui fa appena in tempo a mettere a fuoco le piastrelle del bagno, troppo vicine alla sua faccia, che si ritrova scaraventato dentro la vasca da bagno – di nuovo. Soffoca una bestemmia tra i denti, avvertendo le proteste del proprio corpo per l’impatto contro la ceramica dura, ed è stato decisamente più irruento di quello subito qualche giorno fa per colpa di Rhodey.

«Romanov, porca putt–» inizia a ringhiare, ma il getto congelato della doccia in pieno volto gli spezza le parole in bocca, facendogli trattenere rumorosamente il respiro per lo shock termico.

Annaspa e inghiotte un respiro acquoso che gli si incastra in gola – e all’improvviso è buio, è buio e fa troppo freddo – sta annegando, è sott’acqua, sente mani rudi che gli strappano i capelli e gli torcono il collo per tenerlo sotto la superficie e privarlo dell’aria, della luce – e gli sfugge un grido involontario di puro panico, mentre il petto gli si contrae in modi che dovrebbero essere fisicamente impossibili. Trema e para le mani avanti, incurante di sembrare patetico, con lo stomaco che si dimena e si avvita a spirale strizzandogli fuori un gemito; il getto d’acqua si interrompe di colpo, lasciandolo rannicchiato contro il bordo della vasca, il volto premuto nell'angolo del muro ad amplificare la cacofonia del suo respiro erratico.

«Tony?» sente la voce di Natasha, distante, che lo chiama insolitamente per nome, e per la prima volta da quando la conosce c’è una sfumatura d’incertezza a farla tentennare.

«Sono sobrio, cazzo!» grida lui, stridulo, mentendo in parte e cercando di controllare i brividi di freddo, di terrore, di momenti che a volte lo sorprendono ancora come pugni a tradimento ben assestati in pieno petto. «Sono sobrio! Ora piantala di annaffiarmi e fammi respirare!» continua tra i denti con la voce pericolosamente vicina a rompersi in un singhiozzo, decidendosi poi a voltarsi verso di lei per fulminarla.

Natasha ha ancora il doccino in mano e lo fissa con quella che è indubbiamente un’espressione spaesata, una nota stonata sul suo volto di solito illeggibile. Tony rilascia un respiro spezzato e si scosta i capelli fradici appiccicati al volto, col cuore che sfarfalla in ritmi incomprensibili come quando dipendeva ancora da un reattore di fortuna. Chiude gli occhi, venendo assalito dalla nausea, e si artiglia il centro del petto cercando di stabilizzare quei respiri convulsi, con l'impressione di avere una mannaia piantata nello sterno.

La sente ancorare la testa della doccia al suo sostegno, per poi sistemarsi in ginocchio accanto al bordo della vasca. Sa anche senza guardarla che non era quella, la reazione che voleva scatenare in lui. Anche se in effetti si sente decisamente più sobrio, almeno a livello mentale. Il mondo è ancora una massa viscosa di una consistenza variabile tra la melassa e un materasso troppo morbido, ma ha un velo d’alcol in meno ad occludergli la mente, seppur per i motivi sbagliati.

Rhodey l’aveva spinto sotto la doccia senza troppa delicatezza, è vero, ma l’aveva tenuto in piedi, non gli aveva bagnato subito il volto né aveva usato acqua gelida, e soprattutto l’aveva lasciato respirare a pieni polmoni. Perché lui sa, anche se Tony non ricorda di averglielo mai raccontato. Lo sa e basta, gliel'ha letto negli occhi nel momento in cui l'ha riabbracciato mezzo morto in Afghanistan. Natasha ha sbirciato il suo file, ne è certo, ma dubita che vi sia una sezione dedicata nel dettaglio alla sua prigionia, né tanto meno al waterboarding. [3] Forse lei sta mettendo insieme i pezzi adesso, perché crede di scorgere un lampo di colpevolezza nel modo in cui lo guarda, e sente che gli stringe appena la spalla attraverso la maglietta fradicia.

«Non lo sapevo,» gli dà conferma, quasi in un sussurro che sembra una scusa, e Tony scuote la testa a scacciarla, facendo così ondeggiare il mondo attorno a sé.

«Rhodes se la cava decisamente meglio, con i rimedi da doposbornia» dice soltanto, tremante, riprendendo a fatica il controllo.


Soffoca un’imprecazione tra i denti e si tira su dal fondo della vasca, respirando a intermittenza e ruotando la spalla per svicolare alla sua stretta. La fissa con occhi stralunati, fradicio, col petto che ancora si alza e si abbassa frenetico senza incamerare abbastanza aria. Continua a fissarla e non gli riesce di parlare, si trova solo a inghiottire parole troppo sensibili per essere pronunciate da Tony Stark, anche se ubriaco. Ringrazia solo ora di avere il volto bagnato, perché sente delle lacrime sfuggirgli dagli occhi, silenziose, calde sulla patina gelida che lo bagna. Le prime coscienti da mesi, e non sono nemmeno per loro, ma per se stesso e i ricordi che lo inseguono. Percepisce una parte di sé intrappolata in un luogo buio e umido, sottoterra, col fantasma di una mano aspra premuto sulla nuca che gli intacca lo scalpo. Gli sembra quasi di avere le iridi penetranti di Yinsen appuntate addosso, e sente qualcosa attorcigliarsi nel proprio petto, forse quel poco d’anima che è rimasto intatto e che si dibatte nella sua gabbia d’ossa.

Formula lo stesso pensiero di dieci anni prima: non vuole morire così. Neanche fisicamente, no, ma non vuole vivere così, non vuole non vivere come un’ombra di se stesso alimentata da alcool e buoni propositi altrui. Lui dovrebbe essere il primo a tenersi in vita, visto che c’è gente che è morta per permetterglielo. E adesso ce n’è fin troppa che non è riuscito a salvare. Natasha sembra conscia della battaglia inconcludente che sta avendo luogo nella sua testa, perché rimane ad osservarlo in silenzio, gli occhi chiari che lo scrutano in attesa di una reazione, pazienti.

«Tirami fuori di qui,» mormora infine lui, espirando lentamente. «Per favore,» aggiunge a mitigare la sua voce brusca.

Non è con lei, che ce l’ha. Non ce l’ha mai con gli altri – quasi mai – perché in qualche modo è sempre lui a dare loro motivo di fargli del male, volontariamente o meno.

«E poi?» chiede lei senza muoversi, piano, con una voce soffice che le sente usare di rado.

«Poi dormo, smaltisco la sbronza, mi do una sistemata e torniamo al Complesso,» si costringe a dire, ogni parola tirata fuori con le pinze, quasi a collaudare il suo reale significato.

«Sei serio?» indaga lei, comprensibilmente restia a credergli.

Lui alza il volto, ancora inondato di pianto silenzioso che sembra impossibile da frenare. Un meccanismo di difesa inutile, che odia con tutto se stesso. Alza un sopracciglio tremante.

«È un’ottima alternativa all’inferno, no?» afferma sarcastico, sapendo di non essere molto credibile in quelle condizioni.

Natasha non risponde, ma si alza in piedi con un movimento fluido e gli tende le mani, afferrandolo per i polsi e lasciando che faccia leva sui suoi per issarsi fuori dalla vasca, rischiando pericolosamente di scivolare sul pavimento coi piedi bagnati. Lo sostiene per un gomito e gli tende un asciugamano; lui lo accetta il silenzio, tamponandosi subito il viso sfatto. Inutilmente, perché a quanto pare i suoi occhi hanno deciso di dare del loro meglio proprio adesso, così se lo preme con forza sulle palpebre, cercando di soffocare lacrime che non sente nemmeno di dover versare. Non è più triste di una giornata qualunque negli ultimi sei mesi, e ciò lo fa solo infuriare di più con se stesso. Si sente rotto, con una rotella mancante nei suoi meccanismi interni che gli fa avere reazioni insensate, e soffoca un lamento frustrato contro la stoffa.

«Cristo,» impreca poi con rabbia, la voce rotta ovattata dal panno, fin troppo consapevole di avere lo sguardo di Natasha puntato addosso.

Fa per voltarle di scatto la schiena, con l’asciugamano ancora pressato sul volto fino a farsi dolere le orbite e il gonfiore sulla tempia, ma i suoi piedi confusi rispondono al rallentatore e si aggrappa al termosifone per non cadere; sente Natasha che lo sostiene con fermezza, una mano sulla schiena e una sul petto a fargli ritrovare l’equilibrio. Gli toglie il panno dalle mani, scoprendogli il volto. Lui non si oppone – come se avesse le forze per farlo – e lascia che gli asciughi rapidamente le guance, con una delicatezza inaspettata ma ferma, metodica. Manda giù acqua e lacrime e preme d’istinto il volto contro i suoi palmi attutiti dalla stoffa morbida, lasciandosi sostenere il capo da lei per qualche istante, gli occhi semichiusi. Affonda brevemente in quel contatto, sentendosi sfinito in ogni fibra che lo tiene ancora in piedi, e la sente sospirare appena mentre gli cinge il mento, tamponandogli le goccioline d’acqua impigliate nel pizzetto. Le lacrime si fermano, addensate agli angoli delle palpebre.

«Ti senti male?» gli chiede poi, in modo diretto e puntuale, quasi stesse seguendo una procedura medica.

«Certo che sto male, che razza di domanda…» comincia lui, con voce appannata, e lei fa un piccolo sbuffo.

«Ti sto chiedendo se devi vomitare, Stark,» esplicita quindi con una punta di durezza in più.

«No, no,» si affretta a rispondere lui, scuotendo il capo e sperando che sia davvero così. «Non… non sto messo così male,» bofonchia, ed è costretto a reggersi a lei quasi a confutare le sue stesse parole. «Sono solo molto stanco, e molto, molto brillo,» continua, con uno sbuffo soffocato che fortunatamente non si completa in una risatina del tutto fuori luogo.

«Bene, pensi di riuscire a cambiarti da solo senza ucciderti?» chiede ancora lei, sempre in quel modo asettico e distaccato, tinto però da una lieve traccia d’ironia.

«Farò uno sforzo,» annuisce lui, cambiando cautamente il proprio appoggio da lei al mobiletto del bagno.

Si stacca la maglietta incollata alla schiena e realizza di essere ancora fradicio da capo a piedi. Capta l’occhiata interrogativa di Natasha.

«Uh, i miei vestiti sono in camera… da qualche parte, prendi quello che ti capita,» borbotta quindi, sopraffatto da un’ondata di vertigini che lo costringe a sedersi cautamente sul bordo della vasca.

Tiene lo sguardo fisso a terra, ma sente i passi rapidi di Natasha che si allontanano senza commentare, e sa di essere scivolato in quell’universo distorto in cui un secondo sono ore e viceversa, così non sa quanto tempo passa tra il momento in cui la sente uscire, quello in cui riesce a togliersi la maglietta senza strangolarsi e quello in cui la sente schiudere di nuovo la porta e poggiare qualcosa sul piano del lavandino.

«Se cadi, urla,» le sente dire, strizzandogli il braccio per riscuoterlo e lasciandolo poi solo in bagno.

Lui annuisce in ritardo, e cerca di prendere i vestiti senza farseli sfuggire dalle dita scoordinate. Realizza che forse Natasha ci ha messo più impegno di quanto pensasse, a cercarli, perché oltre a un paio di boxer e pantaloncini del tutto anonimi, piegata in cima al mucchio c’è la sua maglietta dei Black Sabbath. Sente un sorriso sfuggirgli dalle labbra, malinconico. Stringe appena la stoffa ormai scolorita e se la preme sul naso, traendo un sospiro calmante e obbligandosi a riempire del tutto i polmoni col profumo di pulito. C'è un'orma di quello dolce di Pepper, se inspira abbastanza a fondo; non sa se sia suggestione o meno ma continua a cercarlo, riprendendo infine un ritmo di respirazione normale.

Riesce a spogliarsi, asciugarsi e rivestirsi senza rompersi l’osso del collo, e ci impiega così tanto che alla fine si sente abbastanza sobrio da mettere ulteriormente alla prova la propria coordinazione motoria per lavarsi i denti e asciugarsi i capelli. Natasha lo trova chissà quanto tempo dopo, poggiato col palmo al mobile del lavandino col fon puntato contro la nuca, intento a godersi il suono continuo e ipnotico e la carezza dell’aria bollente addosso. È restio ad abbandonarla: ha l’impressione fasulla che riesca a scaldarlo anche un po’ dall’interno, e vuole crederci per un istante.

Le rivolge uno sguardo di sottecchi e gli sembra di intravedere una luce meno cupa sul suo volto impassibile da spia. Spegne l’apparecchio, arruffandosi i capelli scomposti, e accetta titubante il suo appoggio, per non infrangere
con una caduta fuori programma la patina di amor proprio che ha ricostruito su di sé in quel breve intervallo.

«Mi sto fidando,» sbotta quando sono a metà corridoio, incapace di trattenere oltre quel concetto, lasciato a briglia sciolta dalla sua bocca poco filtrata. «Non lo faccio spesso,» puntualizza, quasi risentendosi con se stesso per quel fatto.

«Ti fidi di una spia col doppiogioco nel DNA[4] lo rimbecca lei, riecheggiando parole note e troppo aspre, di cui in parte si pente.

«Perché no? Se riesci davvero a trovare un utilizzo persino per me, in questo stato, non me la prenderei troppo neanche se mi stessi raggirando,» ribatte, inclinando di lato la testa mentre superano la soglia. «O magari ti manco e basta. Puoi ammetterlo, agente Romanov,» conclude, tirando su un angolo delle labbra in un tentativo d’ironia fomentato dall’alcol.

Lei si limita a scrollare la testa e a sospingerlo un po’ bruscamente sul letto, dove lui si accascia all’istante, accogliendo il materasso morbido e l’abbraccio delle coperte come fossero l’Eden in terra. Nasconde il volto nel cuscino e gli sfugge un sospiro di sollievo unito a un piccolo brivido per quel tepore che gli stempera le ossa. Realizza con quelche istante di ritardo che sono nella stanza degli ospiti. Natasha non gli chiede di poter rimanere a dormire lì, né il permesso di sdraiarsi con lui sul letto: sente che lo fa e basta, e lui è troppo scombussolato per protestare e rifiutare la sua compagnia silenziosa. Non trova davvero motivi per non fidarsi, non più: sono persi negli anni in cui avevano ancora un senso. E in fondo pensa che sia una buona idea che lo tenga d’occhio per quella notte, considerando che da sdraiato il suo stomaco continua a fare capriole su capriole e che la sua testa sembra volergli stare appresso rigirandosi nella scatola cranica.

Forse dovrebbe ringraziarla, ma non è mai stato bravo con le parole, tanto meno ora che le usa così poco e ha la bocca impastata dalla sbornia. Medita se rimandare la cosa a domattina, ma non gli riesce comunque di addormentarsi, e sarebbe bene sfruttare quella parentesi alticcia che forse fungerà da copertura all’immagine inconcepibile di Tony Stark che dice “grazie” a qualcuno. Dopo potrà sempre dire che è stato l’alcol, a parlare.

Gira infine del tutto la testa con un cigolio di vertebre e la vede distesa sopra le coperte, rivolta verso di lui, mezza addossata al cuscino appallottolato e alla testiera. Ha il volto illuminato dal telefono ed è intenta a scorrere apaticamente qualche schermata col pollice. I contorni degli oggetti sono ancora sbilenchi, e ha l’impressione che lei galleggi su un materassino ad acqua, ma ora ha abbastanza percezione dello spazio attorno a sé per allungare un braccio e stringerle cautamente la mano libera adagiata sulle coperte. A suo rischio e pericolo, visto che neanche Natasha è mai stata una grande fan del contatto fisico, e forse per stasera ha già largamente superato il suo limite giornaliero.

Mette in conto di potersi ritrovare con le dita fuori uso nel giro di un nanosecondo, ma lei si limita a rivolgergli brevemente gli occhi e ad accarezzargli appena il palmo col pollice, soffermandosi sul rilievo della cicatrice che ancora gli segna l’incavo del polso. Gli sembra quasi un messaggio muto, ma non gli riesce di decifrarlo e batte solo con stolidità le palpebre. Lei lascia la mano adagiata nella sua stretta e torna a concentrarsi sullo schermo senza una parola, concedendogli quel tenue contatto. Tony socchiude gli occhi, infastidito dal lieve riverbero elettronico, e cerca qualcosa da dire.

Serra brevemente le palpebre, affonda nel buio con l’intenzione di raccogliere un poco di concentrazione per riuscire a sillabare quel grazie, ma quando le riapre si scontra con la luce soffusa del mattino e con la sponda del letto vuota, la mano ancora tesa davanti a sé, vuota anch’essa.



 


Note:

[1] Qui cito ovviamente l'incipit di Iron Man 3, oltre ad alcune immagini ricorrenti/citate nel corso del MCU, come cadute, voli e corone troppo pesanti. 

[2] Riferimento esplicito all'Orlando Furioso e all'episodio di Astolfo sulla Luna.
[3] Il waterboarding non è esattamente ciò che viene inflitto a Tony nel primo Iron Man. Mi astengo da fornire link diretti a pagine trattanti di tortura, ma il fatto che Tony subisca questa tipologia specifica è un mio headcanon che verrà approfondito nel corso della storia. Rhodey intuisce cosa gli sia accaduto perché è un militare e, purtroppo, era una tecnica utilizzata in modo più o meno legale dai servizi segreti e dall'esercito statunitense ufficialmente fino al 2008-2009 (sic), oltre a essere largamente impiegata dai terroristi.
[4] Citazione testuale da Civil War.


Note dell'Autrice:

Carissimi!
Torno dall'oblio ed ecco che si entra nel vivo, in un certo senso, anche se la strada è ancora lunga sia per Tony che per Natasha... ma come si poteva dubitarne?
Colgo l'occasione per focalizzare un po' meglio l'intento della storia, adesso che siamo a una sorta di punto di svolta: a dispetto del titolo, l'amore rappresenta solo una minima parte dei temi che verranno affrontati; o meglio, ne rappresenta il substrato costante nelle sue diverse declinazioni, ma non la definirei prettamente una storia "romantica", anzi. Tony e Natasha sono a parer mio anime affini, ma ciò prescinde dal lato romantico della faccenda, soprattutto in un contesto in cui hanno entrambi subìto perdite devastanti. Spero che apprezzerete gli sviluppi che ho in serbo per loro :)

Ringrazio infinitamente
_Atlas_, Miryel, shilyss e T612 (se volete approfondire la backstory di Natasha fate un giro sul suo profilo!) per aver recensito gli scorsi capitoli, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite <3
Alla prossima, spero al più presto,

-Light-


P.S. I capitoli bipartiti non saranno una rarità, in quanto ho preferito mantenerli piuttosto brevi e condensati rispetto ai miei standard. Inoltre, la presenza di citazioni all'inizio sarà altalenante, in quanto preferisco metterne di meno, ma incisive e ben ricollegabili al testo/tema, piuttosto che strafare e far loro perdere senso e scopo.

 
   
 
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