CAPITOLO QUARANTASEI
Avevo timore che George si lasciasse acciecare dal rancore.
Dopo la telefonata che avevo ricevuto sul posto di lavoro,
non aveva voluto sapere altro; intendeva intervenire e mettere fine a quella
faccenda, anche al costo di denunciare Irina.
Tra noi due non c’era stato molto dialogo quella sera, di
ritorno a casa, e avvertivo una forte tensione attorno a me. La situazione
stava precipitando e probabilmente era proprio questo che la perfida domestica
desiderava.
Stavamo facendo il suo gioco? Chissà.
Restava il fatto che stavamo perdendo il controllo. Io lo
vedevo pensieroso e una vocina malvagia sussurrava nella mia mente che non era
tanto pulito come voleva farmi credere. Lui, anche se non lo avrebbe mai
ammesso, sospettava che io avessi cambiato parere sulla questione, cominciando
a credere alle accuse.
Si trattava davvero di un momento molto delicato.
“Domani pomeriggio vado a prendere le galline”, aveva
affermato il mio compagno, poco prima di dormire, “poi possiamo ristrutturare
il fienile dietro casa, così possiamo farne un ospitale pollaio”.
“Va bene”, avevo annuito io, che adoravo lasciarlo fare.
“Tu però non mi aiuti, guardi solo. Stai già facendo
tantissimo, e la fatica e lo stress non giovano a nostro figlio”, affermò con
dolcezza, e per la prima volta affrontava con impeto il tema del bimbo in
arrivo. Anche lui lo voleva, lo desiderava almeno quanto me.
“Sono ai primi mesi, amore. Sto bene. Qualcosa posso farlo”,
lo rassicurai.
“So che sei brava, ma non devi dimostrare nulla. Mi farai
solo compagnia, che ne dici?”.
Annuii di nuovo, sorridendo blandamente. Tanto era ovvio che
gli avrei fatto solo compagnia, non avevo la benché minima idea di come
sistemare un pollaio. Che poi nel retro della grande villa non c’ero nemmeno
mai andata, essendo abituata ad apprezzare il fantastico giardino che si
protraeva fino alla strada antistante.
Lui allora mi baciò e mi strinse forte, per poi lasciarmi
dormire tra le sue braccia, stretta in un abbraccio caldo e accogliente.
Il mattino successivo, prima di andare al lavoro, mi misi a
fare alcuni lavoretti mattutini. La mia mente restava costantemente turbata
dagli eventi recenti, anche se cercavo di non pensarci troppo.
Il mio compagno aveva ragione; la gente era tanto cattiva. Ma
allora perché, perché accanirsi così? Tra i tanti modi per affondarci, quello
di un’accusa così pesante e grave era tra le più terribili.
Di certo Irina doveva aspettarsi una denuncia e un seguito
legale, eppure non ci aveva pensato due volte a rimarcare il concetto e a
proseguire la sua campagna contro George. Ancora tornava quindi ad albeggiare
nella mia mente quella remota possibilità che egli fosse veramente colpevole di
qualcosa.
In fondo cosa sapevo io di lui? Piergiorgio lo conoscevo così,
nel letto, nei momenti condivisi, ma il suo passato in fondo restava un
lunghissimo binario oscuro, almeno per me. Una vita lunga quasi il triplo della
mia, che di certo doveva esser stata sottoposta a più forme di stress e anche a
bisogni carnali più o meno forti.
Restavo comunque sicura che lui le mani non le avrebbe mai
alzate per commettere abusi… almeno come lo conoscevo ora. Qualche tempo fa,
prima di conoscermi, com’era?
Ricordai improvvisamente che Virginia me ne aveva parlato, di
quella sua cupezza. Lui stesso me l’aveva detto, senza nascondermi nulla.
In ogni caso stavamo vivendo un bel momento condiviso,
eravamo in procinto di sposarci e aspettavo un figlio suo, quindi dovevo essere
dalla sua parte. Lo ero, con tutta me stessa.
Non so quindi cosa mi spinse ad andare al piano di sopra
della sua bella villa di campagna, dove ancora non mi ero mai recata. La
curiosità, forse? Il bisogno di scoprire, di sapere. Un bisogno tossico, per
certi versi.
Da quando mi ero trasferita da lui non avevamo fatto altro
che occupare il piano terra della nostra dimora condivisa, con George che aveva
preparato appositamente la stanza in cui avevamo fatto l’amore per la prima
volta in casa sua, sicuramente in precedenza adibita per i possibili ospiti.
Il nostro territorio quindi si era stabilito lì, e non ero
mai andata alla ricerca di altri spazi, probabilmente per il semplice fatto che
non avevo mai avuto tempo e che in un primo momento Irina mi tampinava e mi
teneva d’occhio. Non volevo recare offesa a George in nessun modo.
Quella mattina però prima di recarmi al lavoro affrontai la
fatidica scala di pallido marmo, e, furtiva come un felino, approfittai
dell’essere sola.
Il piano superiore in effetti non era nulla di che, a un
primo sguardo era solo una sorta di appartamento ormai abbandonato, con un
corridoio ampio e illuminato da una grande vetrata, tuttavia ai margini erano
presente molti rotolini di polvere e sporco. Pensai subito avrei potuto dare
una spazzata, se il mio compagno avesse acconsentito.
Tutte le porte erano aperte e le stanze erano stranamente
vuote. Se ero alla ricerca di qualcosa su George, avevo fatto un bel buco
nell’acqua.
Mi mossi con più disinvoltura lungo il corridoio, continuando
a gettare rapidi sguardi dentro a ciascuna stanza che man mano si affacciava ai
miei fianchi. Niente, tutte sgombre e poco pulite.
Giunta in fondo al corridoio, distolsi lo sguardo dalle
ragnatele che infestavano la vetrata per concentrarmi sull’ultima porta, e
quella volta si trattava dell’unica chiusa.
Spinta dalla frenesia e dalla curiosità del momento, allungai la mano e
spinsi in giù la maniglia, scoprendo che era chiusa a chiave. Problema da poco,
poiché la chiave stessa era inserita da fuori.
Mi limitai quindi a girarla piano, con il cuore che mi
batteva forte nel petto. Avevo come la sensazione di essere vicina a scoprire
qualcosa di più sul mio compagno, qualcosa che mi aveva celato relegandolo
nella stanza più remota della sua ampia dimora.
Entrai quasi di soppiatto; era tutto buio, gli scuri erano
chiusi.
Accesi la luce, lasciando che quell’ambiente ingombro fosse
illuminato all’improvviso. Contrariamente alle altre stanze, quella conteneva
un’infinità di roba. Forse tutto ciò che era nelle altre era poi stato spostato
lì.
Addossati a una parete, un armadio copriva un altro,
compresso alle sue spalle. Sul pavimento oggetti di ogni genere, da una strana
bigiotteria fino a vestiti. Al centro troneggiava un letto mezzo sfatto, a sua
volta parzialmente occupato da colorate riviste.
I miei occhi erano frastornati da così tanta pienezza,
correvano da una parte all’altra senza focalizzarsi su nessun punto specifico.
Coglievo solo i dettagli, almeno inizialmente.
Man mano che la prima tensione passava, sorgeva di nuovo
quella strana curiosità che mi aveva pervaso fino a poco prima e che mi aveva
portato fin lì. Dapprima timidamente e poi con frenesia mi misi a osservare ciò
che mi circondava, con quegli abiti sparsi e quei mobili spinti l’uno contro
l’altro, nell’impeto di addossarli il più possibile alle pareti.
La camera in sé appariva come una grande stanza da letto
coniugale, solo che tutti quei mobili la riducevano a tal punto da sembrare un
semplice ripostiglio. C’era giusto lo spazio per camminare. Il livello di
sporco diminuiva rispetto al resto del piano superiore, sembrava che fino a
poco tempo prima fosse stata utilizzata per davvero. Era stata quella, forse,
la stanza da letto del mio compagno, almeno fino al mio arrivo.
Con le mani sfiorai numerose fotografie incorniciate e di
varia grandezza, alcune che ritraevano la distinta signora che avevo visto
altre volte in altri scatti al piano inferiore, altri ancora con un bambino,
poi ragazzino. Il figlio.
George si assomigliava molto al figlio, per quanto riguardava
l’aspetto fisico, da quanto potevo dedurre dalle fotografie ingiallite che
vedevo attorno a me. Chissà però come era ora.
Più mi avvicinavo al letto e più avevo ansia; sembrava che
esso fosse il fulcro, il cuore di quell’ambiente che odorava di chiuso, di
ricordi di una vita precedente. Un posto in cui l’unica a essere fuori luogo
ero io.
Abbandonai l’osservazione della mobilia per abbassarmi a
raccogliere una delle camicie a terra, in perfetto stile George, elegante e
soffice al tatto. Non lavata, in quel caso, e lasciata così sul pavimento come
se l’era sfilata. L’annusai; aveva ancora il suo odore. Non era stata
abbandonata da molto.
Appoggiai una mano sul letto e finii per venire a contatto
con il freddo liscio di una pagina di una delle tante riviste. Osservandola non
ebbi difficoltà a notare una bella ragazza nuda ben impressa sulla carta.
Giornalini erotici per uomini.
Con la bocca mezza spalancata mi sedetti a sfogliarla un po’,
sembrava che fosse stata molto utilizzata. Non credevo che il mio compagno
avesse una pulsione così forte, soprattutto perché non solo aveva già una
discreta età, ma noi il sesso lo praticavamo molto spesso. Che non gli
bastasse?
Lasciai la rivista e scostai le altre con grande fastidio,
accorgendomi che avevo ormai irreparabilmente lasciato il marchio del mio
passaggio in quella stanza.
Innervosita, preferii non peggiorare la situazione e
abbandonarla alla svelta, spegnendo poi la luce e richiudendo tutto a chiave,
così come l’avevo trovata.
Mi ritrovai a ripercorrere il corridoio e le successive scale
con il fiatone e il cuore che mi batteva forte nel petto, non sapendo cosa
pensare di preciso. Quella sorta di esplorazione mi aveva portato ad avere
tanti altri dubbi a cui non sapevo far fronte.
Confusa e nervosa, riuscii ad accorgermi che era ora di
andare a lavoro e che dovevo pure spicciarmi se non volevo giungere in ritardo.
Feci la consueta chiamata a mia madre mentre guidavo,
ascoltando quello che aveva da dirmi e cercando di non perdere di vista la
strada di fronte a me.
“Signora Virginia”.
Mi avvicinai alla mia datrice di lavoro quasi di soppiatto,
tremando un po’. Come potevo affrontare un argomento tanto delicato? Aspettavo
la convocazione dalla banca a giorni, come si era premurata la direttrice con
mia madre. Servivano un paio di firme, i miei documenti e naturalmente la mia
presenza, per riuscire a sbloccare il denaro ereditato da mio padre.
Prestissimo avrei avuto a disposizione una discreta sommetta,
ed essendo incinta e in procinto di sposarmi non volevo strafare. In poche
parole, desideravo licenziarmi.
La donna mi squadrò con attenzione, dopo aver consegnato
l’ennesimo scontrino a un cliente abituale.
“Dimmi tutto, Isabella”.
“Ehm, in realtà è un argomento delicato”, mormorai, e intanto
mi guardavo attorno. Avevo creduto di poter affrontare la questione in modo
rapido e indolore, in verità però sul momento ero molto imbarazzata e credevo
che dirle certe cose nel bel mezzo di un locale pieno di gente sarebbe stato
decisamente fastidioso.
Virginia allora si guardò un attimo attorno, e notando che
nessuno era in procinto di pagare mi prese a braccetto e si allontanò di
qualche passo, verso il silenzioso sgabuzzino a disposizione dei dipendenti.
“Non dirmi che i ragazzi ne hanno combinate delle altre
contro di te”, bofonchiò nervosa.
“Oh, no”, mi affrettai a rassicurarla, forte dell’esserci
appartate un po’, lontane dagli sguardi indagatori di colleghi e avventori, “in
realtà dovevo parlarle del fatto che… ecco, vorrei licenziarmi”.
Forse non ero stava brava a spiegarmi ed ero andata troppo
presto al punto, infatti la signora rimase interdetta.
“Ah”.
“Non è una questione personale, qui mi trovo bene”, precisai,
addolcendo un po’ la situazione. E mentendo anche quel tanto che bastava per
non rendere tutto ancora più teso.
“Allora qual è il problema?”, m’interloquì, diffidente.
“Sto per sposarmi e sono in dolce attesa”. Lei sorrise,
sciogliendosi.
“Sono avvenimenti bellissimi, congratulazioni! Ma non capisco
perché devi mollare il tuo lavoro. Non ti pago abbastanza?”.
“Non è questione di soldi. È che tanto poi dovrei andare in
maternità, e comunque penso di aver bisogno di un bel po’ di tempo per me e per
il mio compagno…”.
“Questi eventi sono i più lieti della vita, naturalmente
potrai andare in maternità e avere tempo per te e per il matrimonio. Non mi
permetterei mai di fare scrupoli su cose così, lo sai, vero?”. La signora era
motivatissima.
“No, lo so che lei è estremamente gentile e corretta, e di
questo la ringrazio di tutto cuore. Però gradirei prendermi davvero un periodo
di tempo indeterminato per gestire meglio la mia vita, che sta cambiando in
fretta”, aggiunsi, a mia volta decisa.
Virginia non smise un attimo di sorridere e al cospetto di
così tanta motivazione mi squadrò attentamente, come se fosse soddisfatta da
me.
“Sei una bravissima ragazza e apprezzo la tua scelta, se
questa è la tua decisione definitiva. George è fortunato ad aver trovato una
compagna come te”, mi disse, poi mi donò un abbraccio molto forte, che a mia
volta ricambiai in modo impacciato.
“Allora la prossima settimana mi piacerebbe parlarne, a
riguardo dei dettagli…”, aggiunsi quando la stretta si sciolse. Di sicuro
allora avrei saputo quando avrei avuto a disposizione quel denaro. Non avrei
mai voluto campare sulle spalle di George un solo giorno.
“Va bene”. Virginia aveva accolto senza difficoltà la mia
richiesta. “Ricorda che sei una brava ragazza e che qui hai lavorato tanto e al
meglio. Nel qual caso tu dovessi tornare a cercare un lavoro, ricordati che qui
le porte sono sempre aperte, intesi? Anzi, se chiedi ad altri me la lego al
dito…”, e così dicendo, la mia datrice di lavoro rise, ed io con lei.
“Lo terrò presente, grazie ancora”, la rassicurai, rinfrancata
del fatto che, comunque, l’aveva presa bene. Questo in fondo era l’importante.
Passai il resto del mio tempo a lavorare alacremente, a parte
la sosta pomeridiana, che comunque trascorsi al bar. Almeno quella era stata
una giornata tutto sommato tranquilla.
Non appena varcai i grandi cancelli della villa di campagna
di George, notai subito che la sua auto era già parcheggiata davanti a casa.
Aveva previsto di riuscire ad avere più tempo libero e a quanto pareva c’era riuscito.
Parcheggiai a mia volta a fianco del suo fuoristrada e
abbandonai la mia auto con mille pensieri che mi vorticavano nella mente, uniti
alla scarsa voglia di mettermi attorno ai fornelli. Già pensavo alla cena, in
effetti.
A riscuotermi dal turbinio che avevo per la testa fu un
distinto smartellare proveniente dal retro di casa. Fu a quel punto che mi
ricordai della promessa del mio compagno.
Curiosa, percorsi il lungo marciapiede che mi separava dal
rumore. Piergiorgio in effetti era proprio là, nel retro, intento a fissare
alcune assi a un capanno dall’aspetto abbastanza trascurato.
“Oh, mia cara! Bentornata”, mi accolse con la solita grinta,
notandomi immediatamente. Mi venne spontaneo donargli un sorriso. Tutte le
ombre che aleggiavano su di me, comprese le più recenti, svanirono velocissime
e lasciarono spazio a un momento sereno.
“Grazie”, mormorai. Un acuto starnazzare distolse entrambi
dal nostro monotono dialogo.
“Non dirmi che…”. Ero rimasta a bocca semi aperta e avevo
indicato la cassetta dalla quale era provenuto il chiasso.
“Oh sì, sono arrivate. Le ho portate a casa da poco”, mi
assicurò George, sorridente.
“Oddio, posso vederle?”, chiesi con entusiasmo. In teoria non
mi erano mai piaciuti gli animali, anzi, non mi era mai importato troppo del
mondo degli altri esseri viventi. Mi erano bastate le persone e tutte le
delusioni che avevano portato con loro. Sul momento però ero rimasta come
folgorata dall’idea di avere delle nuove creature attorno a casa nostra.
“Non fare la bambina, su”, borbottò il mio compagno,
continuando a usare il martello, “tutto a tempo debito. Prima devo finire di
sistemare la loro nuova casa, poi possiamo vederle”.
Mi chinai sulla cassetta e potei intravedere i loro occhietti
giallastri spaventati che mi osservavano attraverso gli appositi buchi nel
cartone. Provai subito un sentimento misto di pietà e di voglia di liberarle da
quello spazio troppo angusto per loro.
“Posso aiutarti in qualche modo?”, domandai, nella speranza
di poter essere utile alla causa. George scosse il capo con vigore.
“No, ho quasi finito. Non ti preoccupare”.
Rimasi a osservarlo per qualche minuto, mentre il mio sguardo
continuamente correva dalla cassetta di cartone al mio compagno, e
viceversa. Piergiorgio era abile e
pareva che sapesse bene quello che faceva, tra chiodi e strumenti vari. Mi
piaceva il fatto che sapesse anche arrangiarsi e che avesse una buona manualità.
“Va bene, adesso se vuoi puoi andare a prendere il becchime,
che è rimasto nel portabagagli della mia automobile. Poi possiamo iniziare a
pensare di liberarle”, interruppe il suo mutismo. Lieta di poter fare qualcosa,
andai subito a recuperare il sacchetto contenente il cibo delle nostre nuove
amiche pennute.
“Brava, ti ringrazio”, disse George non appena glielo porsi,
poi si mise subito a guardare l’interno del capanno.
“Adesso mettiamo il recipiente per il cibo, quello per
l’acqua e un paio di cassettine per le uova, così possiamo già far loro
conoscere la nuova dimora”.
Aveva acquistato anche quelli; il recipiente per il becchime
era in plastica, piccolo e allungato, idem quello per l’acqua, solo che era
rotondo e dai margini più alti.
“Avanti, il mangime mettiglielo tu”, m’invitò porgendomi una
palettina bianca apposita. Versai impacciatamente un po’ di quella granaglia, e
George si chinò a mettere a posto il resto. All’acqua aveva provveduto lui.
Mise dentro al capanno anche due cassettine piene di soffice
fieno secco, apposta per accogliere le uova.
“Direi che siamo pronti, non credi?”, m’interloquì, una volta
concluso il tutto. Io lo fissai con entusiasmo prima di annuire.
Il tanto atteso momento era giunto; George afferrò la
cassetta di cartone e la portò fin sull’ingresso del capanno, destinato a
diventare d’ora in poi un pollaio.
“Liberale tu”, mi disse, scostandosi e facendomi cenno di
chinarmi.
“I… io?”, balbettai. Prenderle in mano? Oddio. Non l’avevo
mai fatto prima di quel momento.
Non avevo confidenza con le galline e per quanto quelle mi
facessero pena e volessi solo renderle libere, non sapevo se avevo il coraggio
di toccarle. Alla fine George mi aprì la scatola e mi lasciai solo trasportare
dalle emozioni del momento, poiché senza tergiversare oltre mi misi in azione.
Quando afferrai la prima tra le mani, molto docile, provai un
forte brivido. Non di paura, però; la povera creatura tremava tutta, era
spaventata. I suoi occhi erano sgranati, ma soprattutto il cuore batteva
fortissimo nel petto.
“Tu che fai il cardiologo… qui il cuore batte ai mille
all’ora…”, trovai il coraggio di dire, mentre probabilmente ero sbiancata un
po’ in volto.
George rise forte.
“L’unica cura possibile, in questo caso, è calmarle. Non
appena saranno libere dal cartone, staranno meglio e il cuore tornerà a battere
normalmente. Non temere”. Le sue parole mi permisero di caricarmi ancora di più
e di prendere la faccenda molto seriamente. Adesso quello non era più soltanto
un mio desiderio, era perlopiù una missione.
Lasciai andare in fretta la prima gallina e proseguii
imperterrita senza altri tentennamenti o inutili paure. Erano sei, in tutto.
Quando fu tutto finito e le creature erano libere di
muoversi, di mangiare e di bere, mi sentii molto soddisfatta nell’osservare i
loro movimenti disinvolti.
“Questo per loro è un ambiente nuovo, ci vorrà qualche giorno
per abituarsi. Per questo le terremo chiuse due giorni, poi le lasceremo andare
in cortile. Di sera torneranno qui dentro da sole, per dormire, e di giorno ci
faranno l’uovo”, mi spiegò il mio compagno, sempre gentile e preciso in tutto.
“Certo, capisco”, mi limitai a dire, e mi allungai a dargli
un bacio a sorpresa. Lui, che non se l’aspettava, l’accettò molto volentieri.
“Uh, a cosa devo questa dimostrazione improvvisa di
affetto?”, chiese, scherzoso.
“E’ perché mi hai reso felice. E hai reso felice anche loro”,
indicai le galline. Dal piumaggio rossiccio, le creature erano già intente a
banchettare con il becchime fresco.
“Oh, è il minimo che potessi fare”, mi garantì, congiungendo
le mani.
Gli sorrisi di nuovo. Con lui era sempre tutto splendido. L’aspetto
più fantastico della vicenda era che in quei minuti c’eravamo solo io, il mio
compagno e quelle creature della natura, e nessun altro; non quella donnaccia
che remava contro di noi, non il male che sembrava volerci spezzare a tutti i
costi.
George lo volevo ricordare così, sorridente e sereno
nonostante tutto, poiché in fondo eravamo assieme e questo era il vero dono
della vita.
A interrompere il momento catartico e felice fu il forte
squillo del campanello, che rimbombando tra le pareti della grande casa riuscì
a portare il suo suono fastidioso alle nostre orecchie.
“Aspettavi visite?”, mi chiese Piergiorgio, diventando subito
serio.
“No”. Corrugai la fronte, dopo aver risposto con schiettezza.
Non aspettavo nessuno.
“Vai tu a vedere, per favore”, m’incaricò allora. Non so
perché, ma accettai tacitamente.
Avevo il cuore in subbuglio e mi erano tornate in mente le
pessime vicende recenti. Non era mai venuto nessuno a trovarci da quando
convivevamo, e temevo si trattasse di Irina o di una qualche altra vipera.
Percorsi il marciapiede a ritroso rispetto a poco prima, e mi
sciolsi solo quando notai che ad attendere davanti al cancello chiuso c’era mia
madre. Incrociai le mani sotto al mento, in un moto di giubilo, quasi senza
credere ai miei occhi.
“Mamma”, affermai, quasi a non crederci. Lei non era mai
venuta a casa nostra, diceva sempre che temeva disturbare. Io credevo che in
fondo non approvasse completamente la nostra storia, tuttavia l’accettava in
modo parziale solo perché mi aveva vista contenta.
Mia madre, in risposta, mi salutò sorridente e agitando una
mano. Quasi le corsi incontro. Me la ritrovai di fronte vestita con una tuta
leggera e le scarpe da ginnastica.
“Passavo di qui a piedi ed ho pensato di fermarmi per un
saluto…”, mormorò come se volesse scusarsi. Io mi lanciai tra le sue braccia
non appena ebbi aperto il cancello.
“Grazie per esserti fermata, ci fa un grande piacere”,
l’accolsi quindi con calore, “entra pure, vieni a vedere cosa stiamo facendo io
e George…”.
Richiusi il cancello dopo il suo ingresso e zampettai davanti
a lei, che mi veniva dietro con lentezza. Appariva imbarazzata, aveva evidente
piacere che fossi io a condurla.
Le feci attraversare il vasto giardino e il successivo
marciapiede, mentre Kira abbaiava all’impazzata affacciandosi da una finestra
di casa.
Il mio compagno ci venne incontro a sua volta e parve molto
sorpreso dal trovarsi di fronte a mia madre, lui che era sempre stato un uomo
pronto a tutto. Per un istante si bloccò sul posto, senza sapere che dire, poi
si sciolse e si affrettò a bruciare la distanza e a stringerle la mano.
Si limitò a ridacchiare sornione, senza riuscire a dire
nulla.
“Perdona la cagnolina, l’ho lasciata in casa per evitare che
facesse baccano. E invece c’è riuscita ugualmente…”, ruppe comunque il
ghiaccio, sfruttando il continuo abbaiare di Kira, che aveva notato subito
l’intrusa e non aveva intenzione di smettere di segnalare la sua presenza.
“Ma figurati”. Mia madre sorrise e sciolse la leggera
stretta.
“Mamma, vieni con me”, le dissi con entusiasmo, prendendola
per mano e quasi trascinandola nel retro, dove il nuovo pollaio sembrava
funzionare a meraviglia. La feci affacciare al suo interno, e quando notò le
galline tornò a guardarmi con sincero stupore.
“Pensavo non ti piacessero gli animali”, mi disse, ed io
scossi il capo.
“In realtà è stata tutta una idea sua”, e accennai verso
George, che era rimasto alle nostre spalle a fissarci, “però non mi dispiace.
Dovevi vedere come erano ridotte, poverine! Almeno qui, adesso, hanno il posto
per muoversi e mangeranno cibo sano e all’aperto”.
“Va bene, ma Piergiorgio, per favore, non lasciarle in mano a
mia figlia! Morirebbero subito”, rise mia madre, continuando a stemperare la
situazione. Io risi con lei, ma George si limitò a sorridere, l’increspatura
delle labbra quasi totalmente nascosta al di sotto della folta barba.
“Credo sarebbero in buonissime mani, invece. Isa sa voler
bene agli animali, l’ho notato fin da subito, quando ha accettato Kira come se
fosse stata da sempre la sua cagnolina. Sì, penso che saprà presto prendersi
cura anche di queste galline”, spiegò con tono molto professionale. Lui e la
mia genitrice avevano smesso da un po’ di darsi del Lei, però restavano sempre
attenti nei dialoghi a non prendersi eccessive confidenze. Questo lo stavo
notando da ambo le parti, e non mi piaceva.
All’inizio pensavo fosse normale, però il tempo scorreva e la
situazione non migliorava molto. Capii sul momento che forse era tutta colpa
del fatto che non eravamo mai tutti insieme, e qualche momento condiviso poteva
giovare.
Per questo ebbi un’idea a mio avviso valida e interessante.
Quella di sfruttare l’evento, e come tale consideravo la presenza di mia madre,
che usciva di casa sempre più raramente.
“Mamma, ti fermi a cenare con noi?”, le chiesi, mentre lei e
George ancora dibattevano se fossi stata in grado di badare al pollame. Mi
rivolse uno sguardo smarrito, non si aspettava tale richiesta.
“Ho già qualcosa di pronto, a casa…”, mormorò con imbarazzo.
“Ma lascia stare, resta con noi! Dai, ti preparo qualcosa io!
Per una volta sarai tu a sederti a tavola e a non fare nulla”, le garantii, e
probabilmente fu solo notando il mio entusiasmo che accettò con un cenno deciso
della testa.
“Va bene, Isa, va bene”, affermò.
“Sarà un vero piacere averti al nostro tavolo”, ribadì il mio
compagno, dando il suo consenso.
“Grazie”, ringraziò mia madre, sorridente.
“E allora che stiamo aspettando? Lasciamo le galline al loro
pasto e andiamo a mangiare, no?”, chiesi retoricamente, sempre continuando a
ostentare la gioia che provavo nel mio cuore. Entrambi annuirono guardandomi
intensamente e con il sorriso sulle labbra.
In quel momento percepii quanto ero amata dal mio compagno e
da mia madre, e capii che quella sarebbe stata di certo una bellissima serata,
anche se le mie abilità culinarie erano limitate all’affettare pomodori.
Compresi che sarebbe stato fantastico in ogni caso, perché finalmente eravamo
tutti e tre assieme… tutti e quattro, compreso il bimbo che portavo in grembo.
La mia famiglia riunita.
Un istante rimasto in eterno impresso nella mia memoria.
NOTA DELL’AUTORE
I nostri due protagonisti si amano, nonostante tutto e tutti.
Quando sono assieme, sono formidabili.
Spero che anche questo capitolo sia stato un minimo di
intrattenimento. C’è ancora qualcosa da scoprire, forse, ma per ora lasciamo
spazio a un momento sereno e disteso; questa cena ci voleva proprio, penso.
Grazie per essere ancora qui a sostenere il racconto!