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Autore: Phronesis    15/11/2019    1 recensioni
Gabriel, nato e cresciuto nel quartiere parigino di Montmartre, personalità variegata, complessa e dalle mille misteriose sfaccettature. Raffinato, attraente, esigente professore universitario, con la passione smisurata per l’arte.
Clio, nata e cresciuta a Roma, ragazza semplice e riservata, studentessa diligente e caparbia nel perseguire i propri obiettivi.
Tuttavia, l’immagine che ognuno ha creato di sé non è mai immutabile, quello che crediamo di essere può in qualsiasi momento essere messo in discussione, all’improvviso, portando alla decostruzione del proprio io nel più totale sconcerto.
Gabriel e Clio dovranno imparare a fare i conti con queste nuove emozioni, ad accettare una versione di loro stessi che non avevano mai conosciuto prima di allora, a spingersi oltre i propri limiti per assecondare e scoprire i loro desideri più reconditi.
Ma per due persone che hanno sempre raggiunto i propri obiettivi con costanza e sacrificio, calcolando anche il più minimo imprevisto, sarà difficile accettare che a volte la vita ha in serbo altri programmi.
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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Buonasera a tutti. In questo primo capitolo conoscerete Gabriel, il bello e misterioso Professore. Non vogliamo dirvi molto, lasciamo a voi il piacere della scoperta. A fine capitolo troverete delle note con la traduzione delle parole, o frasi in francese. In attesa di sapere cosa ne pensate, vi mandiamo un bacio grande. Phronesis.

Capitolo I

Gabriel Pov. 

“Come a nozze di morte vesti la tua fanciulla ed esponila, o re, su un'alta cima brulla. Non aspettarti un genero da umana stirpe nato, ma un feroce, terribile, malvagio drago alato che volando per l'aria ogni cosa funesta e col ferro e col fuoco ogni essere molesta. Giove stesso lo teme, treman gli dei di lui, orrore ne hanno i fiumi d'Averno e i regni bui.”
 
Le parole dell’Oracolo risuonarono nell’ampia aula gremita, gli studenti avevano l’aria rapita e concentrata mentre i loro occhi erano rivolti sulla mia persona.
Nella mia solita posa, poggiato contro la cattedra con il libro tenuto ben saldo nella mano sinistra mentre con la destra disegnavo grossi cerchi nell’aria per dare più enfasi alla narrazione.
Amavo questa sensazione, vedere come masse di giovani pendevano dalle mie labbra mentre dispensavo loro il mio sapere, donando un senso a tutti gli anni di studi, ricerche e sacrifici.
Guardai l’orologio che segnava le tredici, la lezione doveva terminare «D’accordo ragazzi, riprendiamo domani da questo punto»
Richiusi il libro, feci il giro della cattedra per sistemare le mie cose nella ventiquattrore in cuoio, mentre un forte chiacchiericcio si propagava nell’aula prendendo il posto delle due ore di assoluto silenzio.
«Gabriel?» mi sentii richiamare.
«Oui?» voltandomi vidi la mia collega Francesca che mi veniva incontro «Sì?» mi corressi.
Ero a Roma già da svariati mesi ormai e nonostante già masticassi un po’ la lingua faticavo ad abituarmici.
«Come stai?» si issò sulla cattedra e si sedette accavallando le gambe, l’aula si andava via via svuotando.
«Très bien, merçi»* le sorrisi, mentre continuavo a sistemare le mie cose.
Francesca era docente dell’altra cattedra di storia dell’arte, e all’inizio dei corsi mi era stata molto d’aiuto nel tradurre le mie ricerche dal francese all’italiano per farmi comprendere dai miei studenti. Nonostante negli anni in cui avevo frequentato l’università avessi già redatto alcune relazioni in italiano l’accento francese era difficile da dissimulare, e l’aiuto di Francesca era stato prezioso per migliorare la mia pronuncia.
«Ne sono contenta. Io sto andando a pranzo con alcuni colleghi, ti va di unirti a noi?»
Avrei dovuto accettare, socializzare di più, ma proprio non riuscivo a sconfiggere la mia voglia di solitudine che negli ultimi tempi la faceva da padrona.
Le sorrisi, cercando una scusa plausibile che non mi facesse apparire scortese.
«Je suis desolée** Francesca, ma ho dei compiti da correggere entro domani» sventolai una manciata di fogli che avevo tra le mani.
Fece un cipiglio offeso ma fu subito sostituito da un lampo nei suoi occhi «D’accordo. Vorrà dire che la prossima settimana sarai mio ospite alla mostra di Canova che ho organizzato in collaborazione col complesso museale di Palazzo Braschi. Non puoi dirmi di no»
Simulai un sorriso forzato, non comprendevo come gli italiani potessero essere sempre così estroversi; dopotutto Francesca mi conosceva appena, eppure era stata fin da subito cordiale nei miei confronti, disponibile non solo sul piano accademico.
«D’accord»*** esclamai, condiscendente.
Dopotutto il Canova rientrava tra i miei scultori preferiti, tant’è che proprio in quei giorni stavo trattando lo studio dell’opera di “Amore e Psiche”.
«Perfetto» girò su sé stessa senza darmi il tempo di aggiungere altro, uscì dall’aula ticchettando sul pavimento di marmo lucido.
Finii di raccogliere le mie cose e mi diressi verso l’ampio cortile della facoltà, l’aria di fine ottobre era ancora calda e piacevole e gruppi di studenti sparsi qui e là si beavano degli ultimi raggi di sole chiacchierando allegramente.
«Buongiorno Professor Lacroix»
Alcune studentesse mi salutarono in coro, rivolsi loro un breve cenno col capo prima di proseguire. Presi al volo un taxi diretto al mio appartamento, impaziente di rimanere solo con la mia unica compagna: l’arte.
Nel tragitto trafficai con il cellulare per rispondere alle mail di alcuni colleghi della Sorbona, la decisione di accettare l’incarico per un anno all’università Sapienza come professore di storia dell’arte non era stata semplice ma doverosa, ed ora cercavo come meglio potevo di dividermi tra i diversi impegni di lavoro anche a distanza.
Arrivai dinanzi l’imponente palazzo in stile rinascimentale nel cuore di Roma dove l’università mi aveva fittato un appartamento per tutta la durata dell’incarico, salii l’enorme scalinata in marmo che portava all’attico apprezzando gli intarsi che ricoprivano il corrimano.
Non appena aprii la porta di casa fui assalito dall’odore pungente delle tempere, guardai l’immenso salotto corredato di due grandi divani in velluto color panna, la libreria in mogano che prendeva l’intera parete ad ovest, l’elegante camino ad angolo e la vetrata che dava su una terrazza dove potevo vedere la città dall’alto. E poi lì, proprio al centro della stanza la mia più grande passione: il cavalletto e la tela, i colori e i pennelli.
Posai la ventiquattrore accanto ad un gruppo di schizzi abbandonati in un angolo, mi liberai della giacca e arrotolai le maniche della camicia fino ai gomiti.
Non appena le mie dita sfiorarono il pennello tirai fuori l’aria in un sospiro, come a liberarmi di tutti i pensieri accumulati per portarli sulla tela.
Iniziai a dipingere la figura di una donna, di profilo, dalle forme sinuose e burrose. I tratti erano semplici, essenziali, ispirati alla penombra senza alcun tono di colore. Rimasi davanti a quella tela per ore, fino a quando l’imbrunire non mi costrinse ad accendere le luci e a ridestarmi dal mio stato di trance.
Mi diressi verso la cucina intenzionato a prepararmi qualcosa per cena quando il suono del cellulare attirò la mia attenzione, era ancora nella giacca gettata sul divano e me ne ero totalmente dimenticato.
Non appena vidi il nome che lampeggiava sullo schermo la mia mascella ebbe uno scatto nervoso, sospirai pesantemente armandomi di tutta la pazienza possibile e risposi.
«Bonsoir Sabine» restai alcuni minuti in attesa che lo sproloquio dall’altra parte terminasse «Non, Je ne pense pas que ce soit possible ce mois-ci»****
Il tono di Sabine era risoluto, stranamente calmo. Accettò di buon grado il mio rifiuto e mi salutò.
Meglio di quanto mi aspettassi.
Lo stomaco pareva essersi chiuso su sé stesso, ma mi resi conto di aver già saltato il pranzo e non potevo permettermi di negarmi anche la cena.
“Non puoi vivere di sola arte Gabriel” mi ammonii bonariamente.
Decisi di cucinarmi un piatto di pasta, nonostante non fossi mai stato molto portato si trattava pur sempre di “arte” culinaria e potevo imparare.
Misi a bollire una pentola d’acqua sul fuoco e sbattei due uova in una scodella seguendo un tutorial su come preparare una buona carbonara. Presi la confezione di pancetta a cubetti che avevo in frigo, iniziai a soffriggerla con un filo d’olio in padella ed in quell’istante immaginai di poter fare la stessa fine se un romano mi avesse visto.
Dopo aver scaldato la pasta unii tutti gli ingredienti in un unico recipiente, un paio di girate col mestolo et voilà.
Mi accomodai a tavola ed accesi la tv per guardare un notiziario, la situazione non era tanto diversa rispetto alle serate che trascorrevo nella mia immensa casa a Parigi ad eccezione di quelle volte in cui prendevo parte a convegni, serate di gala o cene di beneficenza.
Ultimai il pasto e sistemai le stoviglie, avrei potuto tranquillamente chiedere alla domestica che la mattina si occupava del mio appartamento di trattenersi fino a sera per prepararmi anche la cena ma preferivo non avere nessuno tra i piedi quando rientravo dal lavoro.
Decisi di fare una doccia prima di dedicarmi alla correzione dei compiti degli alunni del mio corso, mi spogliai degli abiti, tolsi gli occhiali che poggiai su una mensola del bagno e mi gettai sotto il getto d’acqua bollente.
Mentre insaponavo i capelli avvertii la piccola cicatrice dietro la nuca, dove poco più sotto – nascosta dai capelli – avevo tatuato una piccola pergamena sulla quale era incisa la parola mémoire.
Era strano come a volte una sola parola potesse essere così carica di significato, avevo sempre amato, oltre l’arte, lo studio dell’etimologia della parola.
Memor -ŏris, capacità di tenere traccia di informazioni relative a eventi, immagini, sensazioni, idee di cui si sia avuto esperienza e di rievocarle quando lo stimolo originario sia cessato riconoscendole come stati di coscienza trascorsi.
Venivo spesso classificato come un tipo taciturno e riflessivo, la verità era che per me ogni parola andava soppesata con la consapevolezza del fatto che il tuo interlocutore le avrebbe sempre dato una sua personale interpretazione.
Anche se spesso avrei dato tutto per avere un tantino più di nonchalance, non riuscivo proprio a non essere me nemmeno per un secondo.
Avevo sempre seguito la mia parte preponderante, quella razionale, quella che ti fa vivere al sicuro, che non ti spinge mai oltre la siepe, che ti fa credere in una sorta di determinismo per il quale ti senti parte di un qualcosa di più grande e profondo, regolato da leggi ferree e mai casuali.
Non avevo mai spento quella rigida vocina interiore, quella continua fame di sapere, quel modus operandi improntato alla logica e a nient’altro e che mi portava a studiare attentamente, ogni volta, tutte le possibili cause, conseguenze e connessioni tra le cose.
Ma se è risaputo che non bisogna contemplare gli eccessi, in ogni cosa, io nella mia vita continuavo a non ammettere che la ragione.
Destato dalla auto-analisi serale che avevo condotto, complice anche l'atmosfera calda e avvolgente che si era creata nel bagno, mi diressi in salotto ancora in accappatoio e ancora da solo con i miei pensieri, e decisi volontariamente – forse per una volta – di stoppare il mio cervello, sgridandolo ad alta voce come si fa con un amico scapestrato e ribelle: “Cessez!”*****
Mi gettai umidiccio sul divano e provai una sensazione di ebbrezza, un sogghigno involontario si accennò sul mio viso; mi sentivo come se nel mio piccolo mi fossi concesso il lusso di infrangere una regola.
Decisi che non avrei attaccato col lavoro, quindi niente correzioni di compiti per quella sera, ma sarei andato in centro a prendere una birra, o forse due o tre, e avrei fatto le ore piccole come anni addietro.
No, non era stata l'ipotensione causata dalla camera a gas che si era creata con i vapori della doccia.
Ero io, e avevo solo voglia di leggerezza.
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* Molto bene, grazie.
** Sono desolato
*** D'accordo
**** No, non penso che sia possibile questo mese
***** Smettila!
   
 
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