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Autore: Fissie    01/08/2009    0 recensioni
Era inverno, ora, come allora; e lo sarebbe stato per sempre.
Era inverno – il nostro inverno. L’inverno della nostra vita. L’inverno della nostra eternità.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: James, Victoria
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
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Capitolo 4


1914, Brixham, South West England

Otto anni dopo...

La porta si chiuse alle sue spalle con un suono secco.
Inspirò.
Voci chiassose, schiamazzi ed ebbre risate provenivano dal piano inferiore. Il sottile pavimento di legno vibrava persino, sotto le suole delle sue scarpe col tacco.
La donna si ravvivò la folta chioma, passando le mani tra i capelli a mo’ di pettine. Volse gli occhi al soffitto un paio di volte, poiché le dita si impigliarono ripetutamente nella matassa intricata di boccoli, poi sistemò l’ampia scollatura e rassettò la gonna, stirando pieghe e grinze con i palmi delle mani finché non fu soddisfatta del risultato. Quindi raggiunse la scala a chiocciola e discese al pianterreno, accompagnata dallo scricchiolio gutturale degli scalini invecchiati.
L’angusto locale era intriso dell’odore di alcol e fumo, che aleggiava nell’aria come una nebbiolina viscosa. C’era molta folla, quella notte, e i tavoli erano già tutti occupati. Scorse delle facce nuove, dietro le gote arrossate e le espressioni deformi, segno che la clientela si era rinnovata in quei quarti d’ora in cui non era stata presente. L’atmosfera era molto più ubriaca di come l’avesse lasciata e senza sosta i boccali vuoti battevano d’impazienza sui tavoli producendo secchi rintocchi che scandivano il vociare assordante. Vide Maud sfrecciare da un capo all’altro della stanza - per quanto la sua grossa stazza le permettesse di muoversi velocemente -, richiamata dalle turpi grida dei clienti. Somigliava ad una grassa oca col muso da toro, un incrocio aberrante che confezionava adeguatamente una personalità gretta e meschina.
Si diresse al banco degli alcolici, occupato solo da Gwen, e prese elegantemente posto al suo fianco. «Brutta serata?», esordì, con la voce squillante che aveva imparato a modulare in un perenne tono di falsa innocenza.
Gwen, quasi distesa sul bancone, scrollò il capo e, con la mano che lo sorreggeva, arruffò la chioma di capelli biondi. Era stata eloquente.
«Ancora imbrigliata nella struggente trama dell’amore eterno? »
«Come sei cinica, Scarlett», mugugnò lei, di rimando.
«Non sono cinica, mia cara Gwen. Sono realista, e tu sei troppo ingenua», la rimbeccò. «I sogni sono come gli amanti: i migliori si consumano in una notte sola, i peggiori ti perseguitano anche di giorno.» La sua sentenza fece sbuffare l’altra ragazza.
«Ma si può sognare anche a occhi aperti.»
«Lo fanno solo gli sciocchi.»
«Lo fanno gli innamorati.»
«Appunto», la donna dai capelli vermigli ghignò, compiacendosi di quella piccola ma soddisfacente vittoria. Che stupido vaneggiamento, l’amore. Molto decorativo nei libri o nelle poesie, ma decisamente ingombrante nella vita vera, pensava.
«Io non ti capisco», mormorò Gwen, scuotendo il capo.
«Per questo siamo amiche.»
«Non ti sei mai innamorata?» disse, ignorando il suo ultimo commento.
La giovane donna chiamata Scarlett piegò le labbra in una smorfia disgustata. «No, mai.»
«Bugiarda», replicò l’amica. Scarlett arcuò le sopracciglia e volse lo sguardo altrove, come chi voglia ignorare un’ignominia, indegna persino di ricevere una risposta.
«Passami quella bottiglia», disse, indicando il whiskey con un cenno della mano. Gwen obbedì, rassegnata, mentre Scarlett allungava il braccio dietro il bancone per recuperare due bicchieri di vetro. Li poggiò sul tavolo producendo due secchi rintocchi, poi versò il liquido ambrato in entrambi e ne fece scorrere uno verso l’amica.
«Bevici su, vecchia rimbecillita», le disse, pizzicandola su un fianco e concedendole un mezzo sorriso, prima di portare il bicchiere alle labbra carnose. Gwen si accomodò meglio sullo sgabello, sospirò e infine si arrese a seguire l’esempio dell’altra ragazza.
Bevvero entrambe.
«Come sta andando a te?», chiese Gwen, quando si fu un po’ ripresa dallo scoramento. Gettò un’occhiata al locale, gremito dei marinai che in quel tugurio trovavano ristoro e compagnia. La taverna di Maud era un locale malfamato nei pressi del porto. Era la meta turistica più gettonata degli uomini di mare appena sbarcati sulla terraferma, in cerca di alcol, fumo e sesso. Loro erano le sirene, come amava definirle Maud, millantando una finezza poetica che, su di lei, suscitava solo ribrezzo.
«Alla grande», bisbigliò complice, facendosi più vicina all’amica e sollevando discretamente la gonna sulla coscia per mostrarle il mazzetto di banconote infilato nella giarrettiera.
«Ma queste devi darle a Maud!» la rimproverò, sottovoce.
«Oggi è troppo impegnata a gestire i clienti per contare il numero di quelli che salgono con me», ghignò. «Gliene darò un po’, ma gli altri voglio tenerli.»
«Non è la prima volta che lo fai, dico bene?», chiese Gwen, tra l'allarmato e il severo.
Scarlett si drizzò nuovamente sullo sgabello e tornò a bere. «No, infatti», le rispose.
Ah, il vecchio Magpie! Così tanto tempo prima le aveva insegnato l’arte dell’astuzia. Nella sua vita aveva trovato diversi modi di farla fruttare. Ma quel pensiero le attraversò la mente trainando l’ombra sbiadita di un vecchio ricordo.
Si adombrò.
«Cosa vuoi fartene?», chiese Gwen. L’aria improvvisamente più cupa dell’amica la preoccupò, ma, come spesso accadeva, decise di ignorarla. Scarlett la inquietava, a volte. I suoi sbalzi d’umore si susseguivano repentini, ma il suo sguardo era impenetrabile, una serratura ermetica che negava l’accesso all’anima.
«Mi serviranno quando deciderò di andarmene», rispose.
Gwen osservò il suo umore diradarsi e tornare sereno, e scosse la testa, confusa. «Beh, dove andrai?»
«Non lo so. Lo saprò solo quando me ne sarò andata», concluse Scarlett, con l’aria di chi non avrebbe continuato il discorso. Gwen decise di gettare la spugna. Talvolta sospettava davvero che la considerasse sua amica solo perché non sarebbe mai stata in grado di capirla.
«Ehi, guarda», bisbigliò Gwen d’un tratto, indicando qualcosa dietro le spalle di Scarlett. Quel pretesto per cambiare argomento la sollevava. «Sta entrando un nuovo cliente», Gwen aggrottò le sopracciglia chiare, «…ed è anche molto bello!», esclamò a voce alta.
Scarlett reclinò il capo, nel gesto insofferente dell’esasperato che pensa “ci risiamo”, e si girò sullo sgabello per dare un’occhiata al nuovo arrivato. Ma quando scorse fugacemente la figura ammantata di nero, benché non le ricordasse nessuno di conosciuto, non riuscì a distogliere lo sguardo. Come se fili invisibili la legassero intimamente a quell’uomo: era un magnete irresistibile per la sua anima interamente di ferro. Scosse il capo, sbigottita, e batté le palpebre un paio di volte; scoprì di recidere quei lacci ogni volta che interrompeva il contatto visivo.
Gwen al suo fianco si era già messa d’impegno, ricominciando la procedura: si era piegata distrattamente in avanti per mettere in mostra il contenuto della scollatura prosperosa ed aveva sollevato il capo, fingendo di osservare il soffitto per esporre la pelle del collo. Sebbene fosse ancora basita, Scarlett archiviò l’accaduto, e imitò l’esempio della collega. Accavallò le gambe e distese la schiena all’indietro, per appoggiarsi alla costa del bancone, mentre sorseggiava voluttuosamente il suo whiskey. Evitò, tuttavia, di posare nuovamente lo sguardo sull’affascinante cliente. La tozza Maud passò davanti a loro, reggendo un vassoio colmo di bicchieri vuoti in equilibrio, dietro cui si nascondeva la sua espressione compiaciuta. Lanciò un’occhiata eloquente alle due ragazze, prima di posare il vassoio e rotolare verso il nuovo arrivato, con un sorriso lezioso sul volto squadrato.
Kate, un’altra sirena, scese nel frattempo le scale a chiocciola che conducevano al piano superiore e alle stanze private. Le raggiunse, poggiando i gomiti sul bancone.
«Chi è quel pezzo d’uomo lì?», chiese, alludendo al nuovo cliente.
«Non lo sappiamo, ma Gwen sta sfoderando tutto il suo armamentario per farselo», rispose caustica Scarlett.
«Se l’alternativa è quell’altro», disse Kate, facendo cenno ad un vecchio grasso col doppio mento che beveva da solo ad un tavolo, «me lo contendo anch’io». Come per suggellare la sfida, Kate assunse un’espressione civettuola e si appoggiò lascivamente al bancone.
Quando l'uomo posò lo sguardo sulle ragazze, però, il suo bel viso si deformò in un’espressione indecifrabile. Kate e Gwen lo videro serrare i pugni attorno ai bordi del tavolo e assottigliare gli occhi, fissi sull’unica ragazza che non lo stava guardando.
Fecero subito due più due, simultaneamente. Kate esclamò un «ah!» esasperato e levò la mano in un gesto seccato. Gwen si afflosciò, invece, sullo sgabello. «Quello vuole te, Scarlett», mormorò, affranta e un po’ amareggiata.
La rossa sorrise, simulando un blando compiacimento. Avrebbe preferito non avere nulla a che fare con quell’uomo; la strana sensazione di poco prima aveva sollecitato una corda remota dentro di lei, facendo vibrare qualcosa nella sua memoria. Tuttavia, l’orgoglio non le avrebbe permesso di tirarsi indietro. Ingollò un ultimo sorso di whiskey e ripose il bicchiere sul legno con un sonoro toc, dopodichè si alzò.
A noi due.
Seguita dagli sguardi invidiosi delle due colleghe, puntò decisa verso il nuovo arrivato, attraversando il locale con le movenze lente e sinuose di un felino. Non poté esimersi dal guardarlo e l’angustiò scoprire che la sensazione di poco prima non era stata solo una momentanea invenzione dei fumi dell’alcol. Si appellò a tutto il suo raziocinio per mantenere il controllo e si convinse che la sua fosse mera suggestione.
Nel frattempo, lo studiò.
La pelle diafana, perlacea, le ricordò una lastra di marmo, liscia e perfetta come quella di una statua. Sopra gli zigomi, però, si estendevano occhiaie profondissime che gli infossavano lo sguardo. I suoi capelli biondo scuro, inoltre, rilucevano sotto il bagliore delle lampade a gas in modo fastidiosamente familiare. Il riflesso simile di altri capelli si affacciò alla sua memoria, ma fu scacciato.
Quando lo raggiunse, si sollevò a sedere sul margine del tavolo e, con una mossa calcolata e reiterata più volte, lo spacco del vestito scivolò sulla sua coscia, mostrando la pelle lattea. L’uomo si ritrasse contro lo schienale della sedia. Scarlett arcuò le sopracciglia, sorpresa, ma continuò il suo gioco, piegando le belle labbra in un sorriso malizioso.
«Sei timido?», gli chiese.
La reazione dello sconosciuto fu del tutto inattesa e la colse impreparata. L’uomo si alzò in piedi di scatto, con una tale veemenza da rovesciare il tavolo. Scarlett fu quasi sul punto di cadere, ma recuperò l’equilibrio in tempo.
«Ehi!», strillò.
Gli occhi dell’uomo erano due pozze nere imperscrutabili nelle quali sembrava ardere un fuoco. Il suo viso era completamente deformato da un’emozione simile alla rabbia. Per un istante le era parso addirittura di udire un ringhio cavernoso sgorgare dalla sua gola.
In quel momento, la sua mente elaborò l’immagine nitida di ciò che l’attirava verso di lui: si figurò un fascio di sottilissimi fili, impalpabili come nebbia, tesi nello sforzo di vincere la distanza che li separava. Lottavano, però, contro una seconda forza, remota e dal sapore antico: delle radiazioni vibranti che dal corpo dell’uomo si propagavano nell’aria. Immaginò spirali sottili di quel fumo incorporeo simile al gas frammettersi tra loro e spingere nella direzione contraria ai fili.
Pericolo.
L’uomo si voltò repentinamente, avviandosi verso l’uscita. Fu così veloce che quando Scarlett reagì lui era già alla porta. Il fascio di lacci allora si trasformò in ferro, dalla forza trainante violentissima. Dovette seguirlo. La sensazione di pericolo, benché intensa e asfissiante come non l’aveva mai sentita prima d’allora, non fu abbastanza. Quell’attrazione irrefrenabile piegava i dettami della sua ragione come steli di giunco.
Si precipitò fuori dal locale, mentre avvertiva i presenti accalcarsi sulla soglia, pronti a farle da scorta se Maud non avesse sbarrato loro l’uscita. L’impatto con l’aria fredda dell’esterno la fece rabbrividire. Si guardò intorno, scrutando spasmodicamente nel buio per rintracciare la figura dell’uomo. I “non è successo nulla”, “tornatevene a bere, vecchi balordi”, “guarda com'è graziosa questa signorina” di Maud spiccavano nel chiasso attutito che proveniva dalla taverna alle sue spalle.
Si strinse nelle braccia coperte solo da un sottile strato di stoffa e attraversò la strada, svoltando il vicolo che costeggiava la campagna. Al di là del basso cancello, si spiegava un’immensa distesa di neve, che, per un istante, si confuse col ricordo di un inverno di molti anni prima. Scarlett lo ignorò, scacciando quei pensieri infruttuosi, e avanzò di alcuni passi, intenzionata a proseguire. Una voce, però, si levò all’improvviso dal silenzio della notte, chiamando il suo nome.
Il suo vero nome.
«Victoria!»
Il passato affluì e proruppe nella sua memoria come un fiume dal crollo di una diga. I suoi ultimi otto anni di vita, le bugie, i compromessi, gli inganni, e tutto il marcio venne spazzato via, raschiato dalla forza distruttiva di un nome.
Victoria.
La giovane donna trasalì e si girò fulminea verso la campagna. L’uomo che aveva seguito fuori dalla taverna era lì, una figura marmorea come una statua, in piedi nel mezzo dello sconfinato letto di neve. Da quella distanza, però, poteva scorgerlo solo a malapena. Forse per questo, per un istante, all’immagine dello sconosciuto se ne sovrappose un’altra, dalle sembianze meno attraenti, ma più familiari e care.
James.
L’eco di quel nome rimbalzò tra le pareti dei suoi ricordi, assordandola come un pomeriggio di molto tempo prima. D’improvviso, si ritrovò nuovamente quindicenne, nella navata lugubre di una chiesa, orribilmente… vuota.
«Chi sei?», urlò, all’indirizzo dell’uomo.
Ma questi non rispose. Turbinò in un movimento tanto veloce da non poter essere distintamente percepito da occhi umani e poi scomparve, come dissolvendosi nel nulla.
Ebbe un solo istante, Victoria, prima che il fascio di catene che la legava inspiegabilmente a quell’uomo la strattonasse, spingendola a scavalcare il cancelletto basso che delimitava la campagna per lanciarsi in un vano inseguimento. Dovette porvi fine molto presto, però, a causa della morsa del freddo sulla pelle nuda che la costrinse a rassegnarsi.
Era sparito.
Gli anelli delle catene si sgretolarono rapidamente con un tintinnio sordo.
Victoria si chinò, poggiando le mani sulle ginocchia, per prendere fiato dopo la corsa. L’aria gelida era tagliente come cocci di vetro, che raschiavano le sue vie respiratorie facendole bruciare.
Rialzò il capo, intenzionata a tornare alla taverna di Maud, benché fosse ancora turbata dalla sparizione di quello sconosciuto. Ma qualcosa nella neve poco più in là, dove l’uomo era scomparso, catturò la sua attenzione. Avanzò a fatica verso il punto sul quale teneva fisso lo sguardo, finché non li vide. Solchi profondi che componevano una parola, intagliata nella neve:


S C A P P A .


La sensazione di pericolo, rievocata dall’avvertimento, la travolse, adesso che non incontrava più l’ostacolo dell’attrazione contraria. Trattenne il respiro, come se i polmoni fossero stati improvvisamente sigillati, quando il suo sguardo intercettò un sottile anello di metallo, accanto all’ultima A; incisivo come un punto, doloroso come una fine irrevocabile, benché fosse così piccolo. Si chinò per raccoglierlo, con una fitta al cuore, e lo riconobbe ancor prima di stringerlo tra le dita.
La finta fede nuziale del suo finto marito.
Istintivamente, le dita dell’altra mano cercarono il ciondolo appeso alla cordicella che portava sempre allacciata al collo.
Il suo gemello, seppure soltanto ideale.
Strinse il pugno attorno all’anello e accostò quest’ultimo al petto, in corrispondenza del ciondolo. Nella sua mente la confusione incalzava. Poteva distinguere nitidamente soltanto un nome, che emergeva nel groviglio dei suoi pensieri incoerenti e pulsava sincrono al battito del suo cuore.
James, James, James, James.


***


Un pomeriggio di quell’inverno di otto anni prima, tornai da un’altra spedizione di approvvigionamento al mercato. Quella volta ti avevo avvisato, prima di uscire.
Quando rientrai, però, la chiesa era vuota.
Chiamai il tuo nome, ma non ottenni risposta.
A nulla valse attenderti.
Te n’eri andato.
Sparito. Senza lasciare traccia, nemmeno di un addio.
Eri stato una fugace apparizione nella mia vita. E non mi sarebbe rimasto null’altro a testimoniare che non ti avevo sognato, se non quel piccolo ciondolo posato sul petto all’altezza del cuore.







L'angolino degli sproloqui inutili, ovvero "quello che potreste anche non leggere, ma fareste piangere l'autrice"
Siamo giunti al quarto capitolo! Il prossimo sarà l'ultimo, seguito dall'epilogo che chiuderà questa breve fanfic ^^. Bè, passo a ringraziare quell'unica creatura - da oggi destinataria di tutte le mie più appassionate benedizioni - che ha recensito... sperando che non sia anche l'unica ad aver letto T__T *sob*
Uchiha_girl: ciao, my dear! mi pento e mi dolgo per la mia velocità... è che mi piglia una sorta di raptus irrefrenabile alle mani, che si muovono da sè, capisci? Io non ne ho colpa, no, davvero. Oggi, ad esempio, credevo che fossero trascorsi ben quattro giorni dall'ultimo capitolo, e invece - toh! - mi sono accorta adesso che ne sono passati soltanto due. Eeeh. Spero tu possa perdonarmi! Scherzi a parte, tra qualche giorno dovrò sparire dalla circolazione webbiana (cos'è questo boato? sembravano urla di gioia, ohibò!) e tornerò soltanto a fine Agosto, temo. Ecco spiegata la ragione dei miei aggiornamenti da Speedy Gonzales XD Comunque, se riuscissi a trovare la scheda mi farebbe davvero molto piacere *__* d'altronde, sono o non sono la tua partecipante fuori gara preferita? *occhi che brillano d'ammmmorreh* ...non c'è bisogno di sottolineare il fatto che sono anche l'unica, però! Ahahah XD

   
 
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