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Autore: Fissie    06/08/2009    1 recensioni
Era inverno, ora, come allora; e lo sarebbe stato per sempre.
Era inverno – il nostro inverno. L’inverno della nostra vita. L’inverno della nostra eternità.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: James, Victoria
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
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Capitolo 5


Riordinare le idee non era stato facile. Restai immobile circa tre minuti prima che il principio di congelamento ai piedi, infilati nelle scarpe dallo scollo ampio, mi esortasse perlomeno a tornare sul marciapiede. E lì ripiombai nel turbamento, trascinata dal ricordo di quanto era appena accaduto. Chi era quell’uomo? Era James?
Otto anni potevano stravolgere la fisionomia di una persona a tal punto? James poteva essere cambiato tanto da rendersi irriconoscibile persino a me? Il suo viso era scolpito nella mia mente; potevo percepire la scanalatura dell’incisione solo accarezzando il suo ricordo col pensiero, in ogni momento.
Non poteva essere James.
Eppure… almeno quell’attrazione inspiegabile avrebbe trovato un senso, se lo fosse stato. Si sa, il passato esercita sempre un certo fascino malinconico sul presente, specie quando risorge dalle macerie di ieri per incarnarsi di nuovo nell’oggi. Era una delle ragioni per cui lasciavo sempre terra bruciata alle mie spalle – sempre, eccetto per quell’inverno di otto anni prima, una chiazza bianca in mezzo alla cenere della mia memoria.
Mi aggrappai alla ringhiera del cancello, quando tornai a poggiare i piedi all’asciutto del lastricato stradale. Il corpo era scosso da brividi secchi e il vestito troppo succinto non mi copriva a sufficienza. Serrai i pugni e, così facendo, mi accorsi di stringere ancora l’anello tra le dita. Aprii il palmo e rimasi a guardarlo, in un misto di confusione e angoscia, come se quel cerchio di metallo potesse darmi le risposte che cercavo.
Se non era James, come faceva quell’uomo ad averlo?
Lo aveva rubato? Gli era stato donato? E mi stava cercando di proposito o era stato un caso? Il modo in cui aveva reagito alla mia presenza mi faceva propendere più per la seconda ipotesi. Sembrava sorpreso di vedermi e, al contempo, terribilmente afflitto. D’altra parte, ero sicura di non averlo mai incontrato prima – aveva un certo aspetto inquietante che difficilmente la mia inclinazione al riconoscimento del pericolo si sarebbe lasciata sfuggire. Quindi, ammesso che James gli avesse dato l’anello per chissà quale ragione, com’era riuscito a riconoscere in me la pseudo-moglie di James?
O, forse, non mi aveva riconosciuta affatto, e c’era qualcos’altro che non riuscivo a cogliere. Forse, James, l’anello, il nostro inverno, e tutto ciò che concerneva me e lui non c’entravano assolutamente nulla con l’uomo misterioso. Eppure aveva lasciato l’anello sulla neve – come monito? come indizio? – e questo non potevo ignorarlo.
Ancor più dell’anello, però, non potevo ignorare la scritta.

Scappa.
Me lo avevano detto anche i miei sensi, e quelli non si sbagliavano mai. L’istinto di autoconservazione, in me, era un’insopprimibile forza che predominava sul resto, o, almeno, lo era stata prima che quell’inspiegabile attrazione sovvertisse le naturali leggi di gravitazione universale, attirandomi direttamente verso la tela del ragno che intendeva mangiarmi.
Le mie idee obnubilate non aiutavano affatto. Avrei voluto avere una visione chiara della situazione, per dedurre da me come comportarmi. Odiavo non avere il controllo, specie quando si trattava del controllo della mia vita.

Scappa.
Benché lo dicessero anche i miei sensi, la mia mente non sapeva razionalmente rispondere alla domanda martellante che mi pulsava nella testa.
Da cosa?
Non riuscivo ad immaginare cosa potesse volere quell’uomo da me, quale fosse la mia relazione con lui, e quale la sua relazione con James. Avvertivo chiaramente il pericolo scorrere da lui a me come un fiume da una sorgente alla foce, eppure mi aveva esortato a scappare.
La prudenza, e quel sesto senso privo di razionalità che mi aveva permesso di compiere ventitré anni di vita condotta in balia di me stessa, mi spinsero a seguire il consiglio.
Fuggii.


***


1914, Upleadon, Gloucestershire


Due mesi dopo…

La neve formava una spessa coltre che ricopriva la campagna del Gloucestershire. Quell’anno aveva nevicato molto, come nell’inverno del 1906. Il cielo di quel tardo pomeriggio era di un tenue color malva e il sole, poco più in alto dell’orizzonte, filtrava i suoi raggi attraverso la nebbia lattiginosa delle nuvole, emanando una luce cristallina che si rifletteva sul manto bianco sottostante. Qualche fiocco sporadico danzava leggiadro nell’aria, come senza peso.
Avvolta in una pesante casacca di lana grezza, Victoria avanzava a rilento, con le gambe che affondavano nella neve fin quasi al ginocchio.
Nulla era cambiato. Tutto era rimasto lo stesso.
Eccetto lei.
Ad ogni passo, le sembrava di calpestare un ricordo. La campagna, abbandonata al volere della natura e ai capricci del tempo, era ancora la distesa desolata della sua memoria, abitata solo dagli arbusti raggrinziti e sempre più curvi, e dal fatiscente edificio che dominava la bassa collina. Erano passati otto anni, ma lì il tempo sembrava essersi arrestato, cristallizzato nell’inverno del 1906 come in una piccola parentesi di eternità.
Per un breve istante, un pensiero le balenò in mente e si immaginò ancora quindicenne, più impaurita e meno arida, compiere quello stesso tragitto, calcare quelle stesse orme. Immaginò, come una spettatrice esterna, Victoria e Scarlett, la ragazzina di allora e la donna di oggi, fondersi insieme, mescolare l’incertezza all’intraprendenza, l’ingenua diffidenza all’asprezza, il timore al crudo cinismo.
Gettò un lembo della sciarpa all’indietro, per riavvolgerla attorno al collo, ormai prossima a raggiungere la chiesupola.
Alla fine, aveva ceduto. L’ansia del non conoscere cosa stesse accadendo e da cosa stesse scappando l’aveva condotta a prendere quella decisione; avventata, forse, e rischiosa, sicuramente. Ma aveva smesso da un pezzo di farsi soggiogare dalla paura del pericolo.
Doveva sapere.
E non aveva altro modo di rintracciare lo sconosciuto che l’aveva incitata a scappare, se non lasciando che fosse lui stesso a trovarla. Aveva l’anello, e questo significava che, in qualche modo, sapeva di lei e James. Inoltre, restituendoglielo aveva voluto dirle qualcosa e, sebbene non sapesse cosa, le aveva fatto intendere che era legato a lui. Le aveva lasciato due messaggi, uno esplicito ed uno implicito: la scritta sulla neve – scappa -, e l’anello. La sua traduzione immediata era: scappa da James. Ma non sapeva interpretare se quel “da” fosse un “lontano da” o, al contrario, un… “verso”. L’unico modo per scoprirlo era tornare nell’unico luogo che la legava a lui.
Perché, in verità, una parte di lei sperava ancora che la soluzione fosse la seconda e perché, in verità, una parte di lei non aveva mai voluto fuggire da James.
Il portone cigolò schiudendosi dietro la spinta delle sue braccia. Lo aprì appena quel tanto che le servì per sgattaiolare dentro la chiesa, dopodiché lo richiuse, con un tonfo sordo che fece accelerare il suo battito cardiaco. Si guardò intorno, scrutando nella penombra della navata centrale e constatò - non seppe se con delusione o con sollievo – che era vuota, perlomeno in apparenza.
Tuttavia, era ancora inquieta e l’apprensione le teneva i nervi tesi sino al punto di massima estensione, come elastici in procinto di spezzarsi. Fece qualche passo con scrupolosa circospezione, lanciando occhiate fulminee a destra e a sinistra ad ogni tremolio delle vetrate scosse dal vento.
«C’è nessuno?», chiese, dandosi contemporaneamente della stupida per la domanda. Ammesso che ci fosse stato qualcuno, se era intenzionato a nascondersi non si sarebbe certo palesato rispondendo “sì”.
Avanzò ancora nella navata, prossima ad imboccare lo stretto corridoio tra le panche. All’estremità, l’altare, illuminato da una lama sottile di luce che penetrava da una vetrata in frantumi, era vuoto. Soltanto il vago sospiro del vento aleggiava nell’aria, misto ad una diluita tensione. Procedette di un altro passo, e di un altro ancora, rilassandosi mano a mano.
«Ferma», ordinò all’improvviso una voce, tanto profonda che sembrò essersi levata dall’oltretomba. Victoria sussultò di paura ed un urlo spezzato le morì in gola. Arretrò velocemente, procedendo a tentoni all’indietro, ma, in un battito di ciglia, una scintilla baluginò in fondo alla navata ed un uomo comparve di spalle di fronte all’altare, illuminato dalla flebile luce di un candelabro.
La velocità della sua apparizione le ricordò quella dell’uomo nella taverna di Maud.
Si arrestò a pochi passi dal portone, le ginocchia leggermente piegate come un gatto sulla difensiva. «Chi sei?», gli chiese, imponendo alla voce un tono fermo e sicuro, benché tutt’altro fosse il suo stato d’animo.
L’uomo non si voltò. Rimase, anzi, tanto immobile da ricordare una statua, e per molti secondi tacque. A dispetto della staticità di tutto ciò che la circondava, lei compresa, l’ansia e l’inquietudine incalzavano sempre di più nel suo petto. Dopo quelli che sembrarono interi, lunghissimi ed interminabili minuti, repentino com’era apparso, l’uomo smise di rivolgerle le spalle e si voltò verso di lei.
Victoria sobbalzò, ancora una volta sorpresa da quella straordinaria velocità che incrementava il suo panico crescente. «Chi… chi sei?», provò di nuovo, ma con meno convinzione. Quell’uomo le ispirava tutt’altro che fiducia. Iniziava a ricordare l’allarmante sensazione di pericolo che aveva avvertito alla locanda e l’esatta ragione per cui aveva deciso di seguire il suo consiglio.
Scappa.
Allora più di prima, quell’ammonimento le pulsò nella testa con urgenza quasi dolorosa. Ma i suoi muscoli si rifiutavano ancora una volta di rispondere ai suoi comandi assennati, come pietrificati nella contesa di due forze bilanciate: quella che le urlava di fuggire, e quella che inesorabilmente la spingeva verso l’uomo. Incapace di muoversi, quindi, lo vide prendere il candelabro e avvicinarselo al viso, per farvi luce. «Non mi riconosci?», disse, con la voce strascicata e grave, che, eppure, le solleticò piacevolmente l’udito. C’era qualcosa di terribilmente ammaliante in lui.
Lo scrutò attentamente, con l’intenzione di ravvisare una somiglianza, una qualsiasi somiglianza. Forse fu per questo, o forse fu perché la domanda fece riaffiorare in lei il pensiero che potesse davvero essere lui, o forse fu perché voleva effettivamente che lo fosse. Forse fu perché non cercò di capire a chi somigliava, bensì quanto gli somigliasse, che rintracciò nei lineamenti, appena rischiarati dalla luce fioca, la vaga impressione di quelle stesse tempie larghe, di quel mento sfuggente, di quelle labbra sottili. Benché, razionalmente, non ci fosse più nulla del ragazzo non bello che lei aveva amato, nel viso perfetto dell’uomo.
Era lui?
Come poteva esserlo?
Un fiocco di neve, trasportato dalla corrente che trapelava dallo spiffero della vetrata rotta, danzò nell’aria fino ai pressi dell’uomo, che lo accompagnò con la mano verso una fiamma del candelabro. Quando il fiocco di neve incontrò la tremolante lingua di fuoco, la fiamma sciolse la neve e la neve spense la fiamma.
«Caldo, freddo. L’uno il perfetto negativo dell’altro», lo sentì sussurrare, sommessamente. «Si estinguono a vicenda.»
Sgranò gli occhi e parole simili udite molto tempo addietro riemersero nella sua memoria come tanti spilli acuminati.
Sei come una fiamma di neve, il campo di battaglia di due forze antagoniste. Una fiamma calda e fredda al contempo che arde e si consuma in sé stessa.
«James…», rantolò, compiendo istintivamente qualche passo in avanti.
«Non ti avvicinare!», urlò bruscamente lui.
«James...». La sua voce parve una supplica. «James, sei tu?», chiese, benché ne fosse già incrollabilmente certa. Avanzò ancora, soccombendo alla forza che la esortava ad avvicinarsi a lui. La sensazione di pericolo, sebbene ancora presente, era ormai solo una flebile pressione che la spingeva debolmente in direzione contraria.
«Vattene via!»
«Perché?», mugolò, senza poter comprendere. «Io non… James… perché te ne sei andato… perché adesso…», continuò a farfugliare, confusamente, senza smettere di incedere. Era ormai a metà del tragitto tra l’ingresso e l’altare.
«Non ha importanza!», sbottò rabbiosamente lui. «Perché non mi hai ascoltato? Perché diamine sei venuta qui? Scappa, maledizione!»
La voce rauca si trasformò in un ringhio basso e gutturale che la fece rabbrividire.
«James… cosa…»
Una folata di vento si levò dal corridoio del transetto crollato, turbinando dentro la chiesa. Nel medesimo istante, un urlo dalla ferocia disumana si mescolò al boato assordante delle panche del lato sinistro, scagliate da James contro la parete.
«Scappa!», latrò ancora, mentre brutalmente distruggeva qualunque cosa gli capitasse sotto tiro. «Scappa, maledizione, scappa!», urlò. A dispetto di quelle esortazioni, impiegò secondi infiniti prima di reagire. Poi, avvenne tutto molto velocemente. James annaspava come se stesse cercando di contenere una furia violentissima e fosse sul punto di esplodere. Victoria si lanciò verso le scale dell’impalcatura che distava di pochi passi, la via più breve per uscire dalla chiesa, ma non fece in tempo a saltare oltre la breccia del transetto crollato che James le fu addosso. La schiacciò contro il telo che le impedì di precipitare oltre il bordo del ponteggio e in un baleno le lacerò la casacca. Victoria estrasse dalla tasca un coltello, nel disperato tentativo di difendersi, ma la lama non lo scalfì più di quanto potesse scalfire la pietra; sarebbe stato comunque inutile, perché in un battibaleno James le scacciò il braccio, con un gesto violento che le spezzò l’omero. All’improvviso, i suoi denti affondarono voraci sulla sua spalla e lei urlò di dolore, dibattendosi nel tentativo vano di respingere quel corpo fatto di roccia.
La sua vista cominciò ad offuscarsi, ma, inaspettatamente, Victoria lo sentì riemergere dall’incavo del suo collo ed emettere un altro verso disumano. I suoi occhi erano due tozzi di carbone ardente, e la sua espressione deformata da un’emozione che non somigliava neanche lontanamente alla rabbia, come invece aveva creduto: era dolore. L’espressione di un uomo logorato da fiamme invisibili eppure ugualmente roventi.
Mossa da un’incrollabile istinto di sopravvivenza, lacerò il telo alle sue spalle, con il coltello ancora stretto nella mano. Il loro appiglio si squarciò, Victoria si aggrappò ad un’asta acuminata di ferro per non cadere, mentre James non fece alcunché per evitarlo.
Del sangue iniziò a colare copiosamente dal pugno stretto attorno alla sbarra, ma non badò neanche al dolore. Recuperato l’equilibrio, scavalcò la breccia nel muro e si lasciò precipitare verso il suolo, attraverso l’aria sferzante. Il letto di neve ammortizzò la caduta e immediatamente si rialzò, lanciandosi in una corsa a perdifiato.
Il cuore le martellava nel petto con tale veemenza da squassarle quasi la cassa toracica. Sentiva male ovunque, ma era in grado di concentrarsi solo sul bruciore cocente che si propagava dalla ferita a mezzaluna della sua spalla e dal palmo sanguinante premuto convulsamente su di essa.
Non riusciva a pensare a nulla. Se non a quel dolore inaudito e straziante che era vetro nelle sue vene. Altre urla provenivano dalla chiesa.
Accelerò il passo, ma la neve troppo alta la faceva incespicare continuamente, benché si facesse via via meno spessa. Il profilo del suolo coperto dalla coltre bianca si alzava sempre di più e ad una trentina di metri emergeva la roccia bruna della collina che precipitava sul lago ghiacciato. Ovviamente non si sarebbe buttata, ma anelava a raggiungere il suolo privo di neve che costeggiava il precipizio per scendere il pendio più agevolmente.
Un altro latrato agghiacciante sferzò l’aria. Si voltò di scatto, ma il suo cervello non fece in tempo a registrare la figura nera alle sue spalle e a ordinare alle gambe di correre più velocemente, che James l’aveva già raggiunta.
La scaraventò violentemente in avanti, in prossimità del promontorio, e l’impatto fu meno morbido, perché la neve era ridotta quasi ad uno strato sottile. In un attimo, le fu di nuovo addosso e la inchiodò al suolo, serrando le mani attorno alle sue braccia.
«James! Ti prego!», strillò, dimenandosi inutilmente.
Come una pozza d’olio bollente, la luce del tramonto che si allungava dall’orizzonte lambì i loro corpi e tinse di rosso la neve sotto la schiena di Victoria. I riccioli rossi erano sparpagliati attorno al suo viso di opale e il corpo di James premeva sul suo come quella sera di otto anni prima. Ma un solo cuore batteva convulso stavolta, e James non emanava calore, e nel tremore incontrollabile di lei non c’era desiderio, e il suo cuore non lo implorava affatto di stringerla, ma di lasciarla andare.
James digrignò i denti, forse pensando la medesima cosa; la presa delle sue dita si fece spasmodica e le unghie, come artigli, le lacerarono la pelle delle braccia.
Gridò.
«Mi fai male! Smettila!»
Ancora una volta, James si staccò da lei con un balzo, come scottato.
Nella frazione di secondo che impiegò a rialzarsi e a ricominciare a correre lo vide annaspare in un evidente conflitto interiore, lacerato da forze che lei non poteva ancora comprendere. Eppure sapeva che in un modo o nell’altro non voleva davvero ucciderla. Allo stesso, irrazionale, modo in cui sapeva che nemmeno lei avrebbe mai voluto scappare da lui. Il predatore non voleva cacciare e la preda non voleva fuggire. Che macabro scherzo del destino.
Benché il suo corpo fosse completamente arso da un fuoco che sembrava carbonizzarla dall’interno, arrancò ancora di qualche passo, prendendo quanto più le distanze da James. Poi, il vento, traditore, si levò di nuovo, sferzandole il viso.
Fu un attimo.
Un ringhio straziato sferzò l’aria. Un contraccolpo violento la scagliò di nuovo a terra. James le fu sopra, e i loro corpi rotolarono sul bordo del precipizio. Uno scossone brutale le spezzò qualche costola e la roccia si sgretolò sotto di lei, facendo precipitare entrambi.
Seguì uno schianto assordante. Il fragore lacerante di mille specchi ridotti in frantumi misto allo sciabordio delle acque furono le ultime cose che sentì, prima di essere inghiottita dall’abisso.

Poi, il buio.



   
 
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