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Autore: Nadine_Rose    22/11/2019    2 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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Capitolo 17

 

Un treno per Auschwitz

 

Seconda parte

 

- “Nessuno ti condannerà, né la storia né gli uomini.” -

 

“Non sono mai riuscito a prendere in braccio un neonato, nemmeno i miei figli, perché ad Auschwitz i nazisti ci facevano tirare in aria bambini di pochi mesi e si divertivano a ucciderli, come nel tiro a piattello… Non sono mai riuscito a entrare in una piscina, perché ho visto un prete ortodosso massacrato e annegato dai carnefici.”

Alberto Sed (1928 - 2 novembre 2019), reduce della Shoah e Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.

 


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Immagine dal web

 

“Sei ancora qui? Non avrai mica già deciso?” fece il tenente, rivolgendole un ghigno ironico, mentre si versava un bicchiere di vodka.

Sarah non riusciva a muoversi. I suoi piedi erano come incollati al pavimento e la sua mente, in preda al terrore, non faceva altro che ripetere quel terribile nome. Auschwitz.

La domanda del tenente, cinica e allusiva, la riportò alla realtà e, in un sussulto di paura, rispose: “No, signore.”

In fretta, uscì dall’ufficio, mentre Hermann, riposando la bottiglia di vodka sul mobiletto, alzò gli occhi al soffitto.

“Es ist wirklich absurd”[1], la derise, per non ridere di se stesso, di quei brividi che si rincorrevano lungo la sua schiena.

Sarah camminava velocemente verso la sua baracca, con un nodo alla gola che si sarebbe sciolto presto in lacrime, con la testa che quasi sembrava esploderle ripensando al vile ricatto del tenente. Dodici ore di tempo non erano sufficienti per fare i conti con se stessa, con i propri valori morali. La Polonia era una nazione fredda e lontana, chissà quanti giorni di viaggio, da affrontare in un treno sporco, maleodorante e fatiscente; Auschwitz un luogo terribile e ignoto, dove forse i suoi genitori, suo fratello e i suoi cari si trovavano già a soffrirne le pene. Più della morte, Sarah aveva sempre temuto la sofferenza. Entrata nella baracca, si ritrovò davanti Maria, con un’espressione apprensiva e disperata sul viso, e le si gettò al collo, esplodendo in un pianto convulso. Tra quei singhiozzi disperati, avrebbe voluto urlare, a lei e a tutti, la verità sui “trasferimenti” e l’angoscia nella quale il tenente l’aveva fatta sprofondare. Non voleva salire su quel treno, che l’avrebbe condotta sicuramente verso una tragica fine, e nemmeno cedere al compromesso dell’ufficiale nazista.

Tra le braccia di Maria e con la testa poggiata sulla sua spalla, Sarah aveva smesso di piangere. Sedute sul letto, rannicchiate in quell’angusto angolo della baracca illuminato dalla fioca luce di una candela smorta, entrambe fissavano il vuoto nello scorrere silenzioso di una notte insonne, breve e infinita per Sarah.

Maria emise un sospiro e, accarezzandole la testa, iniziò a parlarle: “Io e Davide ci siamo sposati che avevamo all’incirca la tua età.” Ridusse la voce quasi a un sussurro, attenta a non svegliare nessuno. “A quei tempi, si respirava già il clima di odio che ci ha poi condotti qui ma, quando dissi ai miei genitori delle origini ebraiche di Davide, loro non batterono ciglio. Non temevano i giudizi e i pregiudizi della gente. Ci sposammo con rito cattolico. Davide volle convertirsi al cristianesimo per proteggermi, per proteggere la famiglia che avremmo costruito. Dopo neanche un anno di matrimonio, stringevamo già tra le braccia la nostra piccola Rosa, il nostro piccolo fiore, la nostra unica figlia, la gioia del nostro cuore.” Fece una pausa, lasciandosi andare a un sorriso malinconico. “Tu le assomigli moltissimo. Aveva i tuoi stessi occhi e, negli ultimi tempi, il tuo stesso sguardo un po’ perso. Era una ragazza solare e piena di vita, allegra e riflessiva. Le piaceva scrivere e studiava per diventare maestra di scuola materna. Un pomeriggio, subito dopo lo scoppio del conflitto in Italia, la trovammo riversa sul pavimento della sua stanzetta e, dopo tanti accertamenti, i medici ci diedero la notizia che nessun genitore dovrebbe mai sentire. Rosa si era ammalata di un male incurabile.” La voce di Maria divenne più rauca e spezzata. “Iniziò la sua guerra contro la malattia. Lottava con tutte le sue forze per restare aggrappata alla vita e continuò a lottare, anche quando la malattia la costrinse in un letto. Si aggravò, proprio nei giorni in cui a Bologna iniziarono gli arresti[2] e, alla nostra disperazione, si aggiunse altra disperazione. Per troppo tempo ci eravamo illusi che ci fosse qualche speranza per gli ebrei convertiti e i loro figli e non avevamo mai preso in considerazione l’idea di andare via e mettere al sicuro la nostra Rosa. Ormai era tardi e non potevamo spostarla dal suo letto. Lo avrebbero fatto i tedeschi.” Maria si fermò un attimo per asciugarsi una lacrima. “La sua vita era ormai appesa a un sottilissimo filo, pronto a spezzarsi da un momento all’altro, nel giro di qualche settimana o di pochi giorni, e farla soffrire durante l’arresto sarebbe stato inutile e crudele. Così ci disse il dottore, l’unico che era rimasto al nostro fianco, e ci raccontò anche dei violenti interrogatori nella caserma e dei treni che partivano verso ipotetici campi di lavoro. Tutto questo l’avrebbe uccisa e ci convinse a farla andare via in modo sereno. La chiamò «la dolce morte». Io e Davide non avremmo mai pensato di dover prendere una decisione simile, spezzare la vita alla nostra unica e amata figlia, farle del male per il suo bene.”

Maria non resisté più ed esplose in un pianto sommesso, mentre Sarah iniziò a capire dove volesse arrivare la donna con la sua straziante confessione. Non era soltanto lo sfogo del suo dolore.

Infatti, dopo un lungo silenzio intervallato da singhiozzi trattenuti, Maria, riprendendo ad accarezzarle i capelli, le disse: “Non sentirti giudicata per la tua eventuale scelta, Sarah. Nessuno ti condannerà, né la storia né gli uomini, complici di quest’assurda persecuzione. E, se qualcuno un giorno dovesse farlo, sarà soltanto un povero ipocrita.”

Sarah guardava la candela ridursi pian piano a un mucchietto di cera informe, mentre, nella sua testa, le parole tonanti e minacciose del tenente s’intrecciavano con quelle di Maria, di un racconto doloroso dall’epilogo tristemente accomodante. La fioca fiammella si spense alle prime luci dell’alba e, con essa, l’ultimo barlume della sua resistenza al vile ricatto dell’ufficiale nazista. Per salvarsi da Auschwitz, anche lei avrebbe scelto la morte, lasciando morire tutto ciò in cui aveva sempre creduto. A differenza di Rosa, la sua non sarebbe stata una morte dolce e immediata, accompagnata dagli affetti più cari, ma continua e violenta, per mano del nemico. Ormai già compromessa, Sarah decise di sacrificarsi al tenente per continuare a sopravvivere a Fossoli. Nessuno avrebbe potuto giudicarla, neanche la propria coscienza che, in quel momento, si dimenava e piangeva. Sistemò lo chignon e la divisa da cameriera – per lei, da condannata –, aggiustandosi la gonna sui fianchi e stirandone gli orli con le mani, e ignorò le fitte di dolore che ancora le attanagliavano il basso ventre. Rivolse uno sguardo a Maria, vinta dal sonno e dai ricordi allo spuntare del sole, e un senso di forza vibrò sulle corde della sua fragilità. Era la disperata voglia di vivere che, dentro di sé, spingeva per ergersi sulle sue paure e farla uscire da quella baracca a testa alta, con dignità.

Era il 18 febbraio e mancavano quattro giorni alla partenza per Auschwitz.

Hermann distolse lo sguardo dalla porta della baracca, dalla quale Sarah non era ancora uscita, per rivolgerlo al suo orologio da polso. Mancavano cinque minuti alle otto e iniziò a dubitare del proprio intuito. Dentro di sé, si agitò un senso di irrequietezza, al pensiero che la ragazza non avesse ceduto al suo compromesso. Che cosa avrebbe potuto più inventarsi per dissuaderla? Continuando a guardare fuori dalla finestra, prese una sigaretta e iniziò a girarla nervosamente tra le dita, senza accenderla. Come avrebbe potuto rimangiarsi la parola data e cancellare ugualmente il suo nome dalla lista dei deportati? E la ragazza ancora non usciva. Ma, in procinto di accendersi la sigaretta per stemperare la tensione, finalmente la vide e sensazioni di stupore ed eccitazione gli serpeggiarono addosso come scariche elettriche. Confuso e impietrito, si domandò cosa gli stesse accadendo, trattenendo la sigaretta spenta tra le labbra e fissando l’incedere deciso di Sarah verso l’edificio occupato dai tedeschi, verso di lui. Quando la ragazza scomparve dalla sua visuale, Hermann ritornò in sé e, con uno scatto, si allontanò dalla finestra per andare a sedersi dietro la scrivania. Sfilò la sigaretta dalla bocca e cercò di darsi un contegno, rientrando nel suo atteggiamento di sprezzante fierezza.

“Sei in ritardo”, le disse con tono severo, fingendo di guardare l’orologio e scrutandola di sottecchi: con la testa meno china e la schiena più dritta, la ragazza sembrava diversa dalla sera precedente, quasi arrabbiata. “Attenta che non succeda più.”

“Mi scusi, signore, non succederà più”, rispose con una voce indecifrabile, che non esprimeva né timore né sicurezza, come se una parte di lei fosse in quel momento assente.

“Bene, mettiti subito a lavoro”, concluse Hermann più autorevole ed emise una specie di ghigno, ripensando all’infallibilità del proprio intuito.

Sarah si dileguò, mentre lui si stiracchiò sulla poltrona, nel tentativo di scrollarsi di dosso quelle strane sensazioni che di nuovo gli percorrevano il corpo e gli confondevano la mente. Sospirò, come per liberarsene; raddrizzò le spalle sullo schienale della poltrona e riportò lo sguardo sulla scrivania, alla sigaretta che non aveva più acceso e alla lista dei deportati. Su quest’ultima trattenne lo sguardo, poi appoggiò i gomiti sulla scrivania e congiunse le mani sotto al mento. Hermann decise di non cancellare ancora il nome della ragazza dalla lista.

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

“Cambia le tue stelle, se ci provi riuscirai

e ricorda che l’amore non ti spara in faccia mai.

Figlio mio, ricorda bene che

la vita che avrai

non sarà mai distante dall’amore che dai.”

 

Ermal Meta, Vietato morire



[1]“È veramente assurdo.”

[2]A Bologna iniziarono le deportazioni il 7 novembre 1943.

   
 
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