Capitolo
17
Un
treno per Auschwitz
Seconda parte
- “Nessuno ti condannerà, né la storia né gli uomini.”
-
“Non sono mai
riuscito a prendere in braccio un neonato, nemmeno i miei figli, perché ad
Auschwitz i nazisti ci facevano tirare in aria bambini di pochi mesi e si
divertivano a ucciderli, come nel tiro a piattello… Non sono mai riuscito a
entrare in una piscina, perché ho visto un prete ortodosso massacrato e
annegato dai carnefici.”
Alberto Sed (1928
- 2 novembre 2019), reduce della Shoah e Commendatore dell’Ordine al merito
della Repubblica italiana.
Immagine dal web
“Sei
ancora qui? Non avrai mica già deciso?” fece il tenente, rivolgendole un ghigno
ironico, mentre si versava un bicchiere di vodka.
Sarah
non riusciva a muoversi. I suoi piedi erano come incollati al pavimento e la
sua mente, in preda al terrore, non faceva altro che ripetere quel terribile
nome. Auschwitz.
La
domanda del tenente, cinica e allusiva, la riportò alla realtà e, in un
sussulto di paura, rispose: “No, signore.”
In
fretta, uscì dall’ufficio, mentre Hermann, riposando la bottiglia di vodka sul
mobiletto, alzò gli occhi al soffitto.
“Es
ist wirklich absurd”[1],
la derise, per non ridere di se stesso, di quei brividi che si rincorrevano
lungo la sua schiena.
Sarah
camminava velocemente verso la sua baracca, con un nodo alla gola che si
sarebbe sciolto presto in lacrime, con la testa che quasi sembrava esploderle
ripensando al vile ricatto del tenente. Dodici ore di tempo non erano
sufficienti per fare i conti con se stessa, con i propri valori morali. La
Polonia era una nazione fredda e lontana, chissà quanti giorni di viaggio, da
affrontare in un treno sporco, maleodorante e fatiscente; Auschwitz un luogo
terribile e ignoto, dove forse i suoi genitori, suo fratello e i suoi cari si
trovavano già a soffrirne le pene. Più della morte, Sarah aveva sempre temuto
la sofferenza. Entrata nella baracca, si ritrovò davanti Maria, con
un’espressione apprensiva e disperata sul viso, e le si gettò al collo,
esplodendo in un pianto convulso. Tra quei singhiozzi disperati, avrebbe voluto
urlare, a lei e a tutti, la verità sui “trasferimenti” e l’angoscia nella quale
il tenente l’aveva fatta sprofondare. Non voleva salire su quel treno, che
l’avrebbe condotta sicuramente verso una tragica fine, e nemmeno cedere al
compromesso dell’ufficiale nazista.
Tra
le braccia di Maria e con la testa poggiata sulla sua spalla, Sarah aveva
smesso di piangere. Sedute sul letto, rannicchiate in quell’angusto angolo
della baracca illuminato dalla fioca luce di una candela smorta, entrambe
fissavano il vuoto nello scorrere silenzioso di una notte insonne, breve e
infinita per Sarah.
Maria
emise un sospiro e, accarezzandole la testa, iniziò a parlarle: “Io e Davide ci
siamo sposati che avevamo all’incirca la tua età.” Ridusse la voce quasi a un
sussurro, attenta a non svegliare nessuno. “A quei tempi, si respirava già il
clima di odio che ci ha poi condotti qui ma, quando dissi ai miei genitori
delle origini ebraiche di Davide, loro non batterono ciglio. Non temevano i
giudizi e i pregiudizi della gente. Ci sposammo con rito cattolico. Davide
volle convertirsi al cristianesimo per proteggermi, per proteggere la famiglia
che avremmo costruito. Dopo neanche un anno di matrimonio, stringevamo già tra
le braccia la nostra piccola Rosa, il nostro piccolo fiore, la nostra unica
figlia, la gioia del nostro cuore.” Fece una pausa, lasciandosi andare a un
sorriso malinconico. “Tu le assomigli moltissimo. Aveva i tuoi stessi occhi e,
negli ultimi tempi, il tuo stesso sguardo un po’ perso. Era una ragazza solare
e piena di vita, allegra e riflessiva. Le piaceva scrivere e studiava per
diventare maestra di scuola materna. Un pomeriggio, subito dopo lo scoppio del
conflitto in Italia, la trovammo riversa sul pavimento della sua stanzetta e,
dopo tanti accertamenti, i medici ci diedero la notizia che nessun genitore
dovrebbe mai sentire. Rosa si era ammalata di un male incurabile.” La voce di
Maria divenne più rauca e spezzata. “Iniziò la sua guerra contro la malattia.
Lottava con tutte le sue forze per restare aggrappata alla vita e continuò a
lottare, anche quando la malattia la costrinse in un letto. Si aggravò, proprio
nei giorni in cui a Bologna iniziarono gli arresti[2]
e, alla nostra disperazione, si aggiunse altra disperazione. Per troppo tempo
ci eravamo illusi che ci fosse qualche speranza per gli ebrei convertiti e i
loro figli e non avevamo mai preso in considerazione l’idea di andare via e
mettere al sicuro la nostra Rosa. Ormai era tardi e non potevamo spostarla dal
suo letto. Lo avrebbero fatto i tedeschi.” Maria si fermò un attimo per
asciugarsi una lacrima. “La sua vita era ormai appesa a un
sottilissimo filo, pronto a spezzarsi da un momento all’altro, nel giro di
qualche settimana o di pochi giorni, e farla soffrire durante l’arresto sarebbe
stato inutile e crudele. Così ci disse il dottore, l’unico che era rimasto al nostro
fianco, e ci raccontò anche dei violenti interrogatori nella caserma e dei
treni che partivano verso ipotetici campi di lavoro. Tutto questo l’avrebbe
uccisa e ci convinse a farla andare via in modo sereno. La chiamò «la dolce
morte». Io e Davide non avremmo mai pensato di dover prendere una decisione
simile, spezzare la vita alla nostra unica e amata figlia, farle del male per
il suo bene.”
Maria
non resisté più ed esplose in un pianto sommesso, mentre Sarah iniziò a capire
dove volesse arrivare la donna con la sua straziante confessione. Non era
soltanto lo sfogo del suo dolore.
Infatti,
dopo un lungo silenzio intervallato da singhiozzi trattenuti, Maria, riprendendo
ad accarezzarle i capelli, le disse: “Non sentirti giudicata per la tua
eventuale scelta, Sarah. Nessuno ti condannerà, né la storia né gli uomini,
complici di quest’assurda persecuzione. E, se qualcuno un giorno dovesse farlo,
sarà soltanto un povero ipocrita.”
Sarah
guardava la candela ridursi pian piano a un mucchietto di cera informe, mentre,
nella sua testa, le parole tonanti e minacciose del tenente s’intrecciavano con
quelle di Maria, di un racconto doloroso dall’epilogo tristemente accomodante.
La fioca fiammella si spense alle prime luci dell’alba e, con essa, l’ultimo
barlume della sua resistenza al vile ricatto dell’ufficiale nazista. Per
salvarsi da Auschwitz, anche lei avrebbe scelto la morte, lasciando morire
tutto ciò in cui aveva sempre creduto. A differenza di Rosa, la sua non sarebbe
stata una morte dolce e immediata, accompagnata dagli affetti più cari, ma
continua e violenta, per mano del nemico. Ormai già compromessa, Sarah decise
di sacrificarsi al tenente per continuare a sopravvivere a Fossoli. Nessuno
avrebbe potuto giudicarla, neanche la propria coscienza che, in quel momento,
si dimenava e piangeva. Sistemò lo chignon e la divisa da cameriera – per lei,
da condannata –, aggiustandosi la gonna sui fianchi e stirandone gli orli con
le mani, e ignorò le fitte di dolore che ancora le attanagliavano il basso
ventre. Rivolse uno sguardo a Maria, vinta dal sonno e dai ricordi allo
spuntare del sole, e un senso di forza vibrò sulle corde della sua fragilità.
Era la disperata voglia di vivere che, dentro di sé, spingeva per ergersi sulle
sue paure e farla uscire da quella baracca a testa alta, con dignità.
Era
il 18 febbraio e mancavano quattro giorni alla partenza per Auschwitz.
Hermann
distolse lo sguardo dalla porta della baracca, dalla quale Sarah non era ancora
uscita, per rivolgerlo al suo orologio da polso. Mancavano cinque minuti alle
otto e iniziò a dubitare del proprio intuito. Dentro di sé, si agitò un senso
di irrequietezza, al pensiero che la ragazza non avesse ceduto al suo
compromesso. Che cosa avrebbe potuto più inventarsi per dissuaderla?
Continuando a guardare fuori dalla finestra, prese una sigaretta e iniziò a
girarla nervosamente tra le dita, senza accenderla. Come avrebbe potuto
rimangiarsi la parola data e cancellare ugualmente il suo nome dalla lista dei
deportati? E la ragazza ancora non usciva. Ma, in procinto di accendersi la
sigaretta per stemperare la tensione, finalmente la vide e sensazioni di
stupore ed eccitazione gli serpeggiarono addosso come scariche elettriche.
Confuso e impietrito, si domandò cosa gli stesse accadendo, trattenendo la
sigaretta spenta tra le labbra e fissando l’incedere deciso di Sarah verso
l’edificio occupato dai tedeschi, verso di lui. Quando la ragazza scomparve
dalla sua visuale, Hermann ritornò in sé e, con uno scatto, si allontanò dalla
finestra per andare a sedersi dietro la scrivania. Sfilò la sigaretta dalla
bocca e cercò di darsi un contegno, rientrando nel suo atteggiamento di
sprezzante fierezza.
“Sei
in ritardo”, le disse con tono severo, fingendo di guardare l’orologio e
scrutandola di sottecchi: con la testa meno china e la schiena più dritta, la
ragazza sembrava diversa dalla sera precedente, quasi arrabbiata. “Attenta che
non succeda più.”
“Mi
scusi, signore, non succederà più”, rispose con una voce indecifrabile, che non
esprimeva né timore né sicurezza, come se una parte di lei fosse in quel
momento assente.
“Bene,
mettiti subito a lavoro”, concluse Hermann più autorevole ed emise una specie
di ghigno, ripensando all’infallibilità del proprio intuito.
Sarah
si dileguò, mentre lui si stiracchiò sulla poltrona, nel tentativo di scrollarsi
di dosso quelle strane sensazioni che di nuovo gli percorrevano il corpo e gli
confondevano la mente. Sospirò, come per liberarsene; raddrizzò le spalle sullo
schienale della poltrona e riportò lo sguardo sulla scrivania, alla sigaretta
che non aveva più acceso e alla lista dei deportati. Su quest’ultima trattenne
lo sguardo, poi appoggiò i gomiti sulla scrivania e congiunse le mani sotto al
mento. Hermann decise di non cancellare ancora il nome della ragazza dalla
lista.
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
“Cambia le tue
stelle, se ci provi riuscirai
e ricorda che
l’amore non ti spara in faccia mai.
Figlio mio,
ricorda bene che
la vita che
avrai
non sarà mai
distante dall’amore che dai.”
Ermal Meta,
Vietato morire