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Autore: Persej Combe    24/11/2019    3 recensioni
Augustine deve certamente aver pensato di trovarsi dinnanzi a uno spettro, quando Elisio, altrettanto incredulo, ha mosso i primi passi verso di lui e si è inginocchiato ai suoi piedi con le lacrime agli occhi.
[Perfectworldshipping]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Elisio, Professor Platan
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Prima di iniziare la lettura vorrei segnalare nuovamente la presenza di contenuti forti e tematiche delicate. Raccomando i lettori più sensibili di fare attenzione. Buon proseguimento!

 
 

2
 
Come Augustine tornò ad Elisio


 

 
 «Cosa è mai questa strana tristezza che t’assale
– dicevi – come il flutto lo scoglio ignudo e nero?»
– Fatto ch’abbia vendemmia il nostro cuore, è male vivere!
Questo, ormai, per nessuno è un mistero;
 
è un semplice dolore, di cui ciascun s’avvede,
e che, come il tuo giubilo, aperto si sprigiona.
Smetti, bella curiosa, smetti dunque di chiedere,
e taci, anche se dolce la tua voce risuona!
 
Taci, anima ignara: tu in estasi rapita,
tu dal riso di bimba! Non sai? Più che alla Vita,
alla Morte legati siamo invisibilmente.
 
Oh, lascia ch’io m’inebri d’una mentita forma,
e anneghi nei tuoi occhi come in un sogno, e dorma
all’ombra delle belle tue ciglia, lungamente.
 
Charles Baudelaire, SEMPER EADEM

 

 
   Al principio dell’alba, la neve si è ormai sciolta quasi del tutto, e per le strade non resta altro che questa fanghiglia acquosa e cristallina su cui a tratti si riflettono le prime luci del mattino, insieme al bagliore dei lampioni ancora accesi.
   Elisio adesso può ripartire senza temere di lasciare impronte a segnalare la sua presenza, e il compagno lo ha condotto di fuori, sono fermi di fronte al portone a scambiarsi le ultime raccomandazioni. Poi all’improvviso Augustine tira fuori le braccia dalla vestaglia pesante con cui è uscito, le getta al collo dell’altro con gesto repentino sollevandosi sulle punte dei piedi, e prima che Elisio possa rendersene conto sono già legati l’uno all’altro in un bacio. In realtà, forse, nessuno dei due lo vorrebbe davvero dopo ciò che è successo questa sera, eppure non riescono a fare a meno di stringersi, di riversarsi l’uno contro la bocca dell’altro, uniti insieme in quel labile lasso di tempo in bilico fra la notte ed il giorno, perché poi non ci sarà più modo di farlo.
   Elisio si scosta dalle labbra di Augustine, si trattiene ancora qualche secondo per guardarlo, per rasserenarsi nel calore del suo abbraccio inaspettato.
   «Tornerò nella data prestabilita».
   «Sì. Sarò qui ad attenderti».
   Elisio annuisce, poi si allontana avviandosi verso il marciapiede. Augustine, però, lo richiama un’ultima volta.
   «Fa’ attenzione», dice. L’altro sorride, solleva la mano in cenno di saluto e si accinge ad andare.
   Luminopoli è ancora immersa nel sonno, ed egli può concedersi di respirare a pieni polmoni l’aria fredda che soffia tra le vie, di accogliere dentro di sé il silenzio che lo circonda, e infine di godere della propria ritrovata solitudine – quest’ultima, tuttavia, comincia ben presto a venirgli stretta: le sue labbra pulsano ancora al pensiero della bocca di Augustine, di quel suo bacio dettato dall’istinto, dal dolore della separazione. Immediatamente riaffiorano le visioni della notte precedente, non si riescono a scacciare, e insieme ad esse torna prepotente il suo desiderio inappagato, il grido primordiale dei sensi che ululano sconsolati dai recessi dell’animo. Quindi si succedono uno di seguito all’altro suoni, impressioni, odori, e sopra a tutto quanto campeggia l’icona di Augustine seduto sul letto, e tra i capelli ha un fiocco bianco. Ma Augustine non ha mai indossato qualcosa del genere, e allora i ricordi e le fantasie si mischiano e si intrecciano, sfumano nella sua mente deformandosi e riassemblandosi tra loro secondo un ordine che non gli appartiene, al punto che Elisio non riesce più a distinguere fin dove si spinga la memoria e dove l’immaginazione, che cosa sia attuale e che cosa sia passato. Stordito dall’ansia, inizia a vagare senza meta, percorre strade e piazze, ma ovunque si volga non ha modo di sfuggire a quello stato d’animo. Gli manca il respiro, e il battito del cuore rimbomba nelle orecchie con violenza.
   Ad un tratto scorge l’insegna di un locale. Dalla gola secca e assetata risuona un mugolio rauco. Premendosi la sciarpa contro il mento, Elisio entra nel bar, si siede a un tavolo, in tono brusco e torvo chiede che gli si porti un bicchiere d’assenzio. Poi si calca il cappello sugli occhi, si ritrae dal giovanotto che è venuto a prendere l’ordinazione e che vorrebbe guardarlo più attentamente in viso; lo incalza con un gesto del braccio e una volta solo rimane a scrutare al di là della vetrina, pensoso, ancora un po’ assonnato seppure in preda a quell’irrefrenabile angoscia.
   Sul bancone, intanto, goccia dopo goccia l’acqua scivola giù dal becco della fontana ricadendo sulla zolla di zucchero adagiata sopra il bicchiere – sono le lacrime che egli ha versato quella notte.
   Quando il ragazzo ritorna, Elisio sente le mani tremare febbrilmente dentro le tasche nell’impazienza di afferrare presto il calice, di riversare in bocca il liquido giallastro e lattiginoso. Non desidera altro che lasciarsi tramortire e dimenticarsi di tutto quanto il resto che lo circonda. Nello stesso momento, tuttavia, non può fare a meno di provare pietà e miseria verso sé stesso.
   Ringrazia il giovane con voce bassa, attende che si allontani quel tanto che serve per potersi accanire sul bicchiere senza essere visto. Eppure basta un sorso appena che già sente l’alcol salirgli alla testa. Allora si ferma, beve lentamente a piccole sorsate. La bevanda è troppo forte, ma mai quanto il dolore che lo assilla dall’interno.
   Nella sala sono soltanto lui e il ragazzo. Elisio lo osserva mentre attraversa il locale da una parte all’altra e apparecchia le tavole e dispone i croissant usciti dal forno nella vetrina assieme alle paste generosamente farcite di crema. Si ritrova ad apprezzare la dedizione che traspare dai suoi gesti, l’impegno che versa in ogni comando che il proprietario chiuso di là nell’altra stanza gli impartisce.
   Gli ritorna alla mente un’immagine sfocata, un tassello dei suoi ricordi. Cos’è? Fatica a metterla a fuoco, e un po’ è anche colpa dell’alcol, ma non appena vi riesce un’espressione di malinconia s’imprime sul suo volto: è Xante, dopo l’orario di chiusura del Caffè, mentre asciuga i bicchieri puliti col panno. I pensieri allora si rivolgono a lui, ed Elisio spontaneamente si chiede come possa stare adesso. Che ne è del suo Xante? Non riesce a figurarsi cosa potrebbe aver fatto dopo la sua scomparsa. Ha sentito dire che almeno qui, da queste parti, in qualche modo è riuscito a cavarsela. Ma non sa. In effetti non l’ha mai incontrato, non ancora.
   La discrepanza tra il passato e il presente torna a farsi più pressante man mano che si sofferma a confrontarli e a tesserne i legami inconciliabili. Anche se sente che potrebbe vomitare, Elisio si affretta a bere un altro sorso dal bicchiere.
   Passano una ventina di minuti. Il bar inizia ad accogliere i primi clienti. Dopo aver finito la consumazione, Elisio si alza, controlla dentro il borsellino, lascia sul tavolo qualche moneta e cerca di racimolare un po’ di mancia per il ragazzo. Barcollando leggermente sui propri passi esce verso il mattino ormai in piena luce e rimane a osservare i passanti che si avviano alla fermata del metrò poco lontano. Gli viene da pensare che sarebbe il posto ideale dove accamparsi a elemosinare qualcosa, ma in questo momento non ne ha voglia. In tasca c’è ancora abbastanza denaro per cavarsela un giorno o due, e quando stamattina Augustine ha provato a offrirgli dei soldi, Elisio si è rifiutato di prenderli. Così s’incammina a passeggiare per le strade, senza una destinazione precisa, fino a quando non raggiunge la piazza e sollevando gli occhi sulla grande scultura leonina che campeggia nel centro si sente in dovere di recarsi in un luogo poco lontano.
   Imbocca la via per il cimitero di Montparnasse. Man mano che vi si avvicina, le mura del camposanto cominciano a riempirsi di edere e rampicanti che strabordano dall’interno: le foglie sono avvizzite, in parte ancora intrappolate nel ghiaccio. Giunto all’entrata, il lungo viale lo accoglie sotto le fronde degli alberi, le loro ombre paiono ripararlo con cautela da un lato all’altro. Qui è rimasta ancora della neve, agli angoli della strada, tra le radici massicce e nodose, e sulle ali di quell’angelo grazioso che s’innalza tra i fusti d’erba e i fiori appassiti dell’aiuola in mezzo alla rotonda. Elisio si sofferma sulle forme virili del suo petto bronzeo, ma non appena il pensiero minaccia di ritornare con il ricordo ad Augustine distoglie lo sguardo e si allontana.
   C’è già chi tra le viuzze cerca le tombe degli uomini del passato: gente venuta da ogni dove per onorare la memoria dei grandi artisti e dei poeti o semplicemente i propri cari abbandonati in un tempo distante. Elisio sa, però, che dove deve andare lui non ci sarà nessuno a versare una lacrima o a lasciare un fiore, un piccolo pensiero. In silenzio si avvia, in quegli anfratti invisibili e distaccati dal resto, dove sono relegati coloro che devono essere dimenticati.
   Ed è qui che si trova una lapide, seminascosta tra gli arbusti, senza nome né scritte. Elisio si ferma davanti ad essa, con sguardo assorto ne fissa intensamente la superficie muta e spoglia.
   In quel momento, una sagoma bianca si avvicina dalla fine del viale ombroso. Ne osserva per un po’ l’incedere lento, la riconosce: è Absol. Il Pokémon ha tutta l’aria di averlo cercato a lungo, e nell’istante in cui i suoi occhi ferini si posano sul suo viso inizia ad agitare insistentemente la coda. Elisio lo accoglie con un sorriso mentre si accuccia a poggiare la testa contro le sue gambe. Passa una mano ad accarezzargli il pelo candido, strofina le dita sotto il suo muso.
   «Il disastro imminente che tu hai percepito nell’aria era il mio arrivo, non è vero? È per me che tu sei venuto», dice, e nel farlo sente il verso compiaciuto di Absol che gode delle sue carezze. Gli si serra improvvisamente la gola e per la prima volta si ritrova ad ammettere a sé stesso quanto davvero gli manchi il suo Pyroar. Scoppierebbe in lacrime se soltanto questo Pokémon lo lasciasse da solo, ma Absol ha tutta l’intenzione di voler restare, ed Elisio non può far altro che trattenersi.
   Rialza gli occhi sulla lapide bianca. Non senza sforzo reprime gradualmente la memoria di Pyroar; c’è un altro passato, adesso, che sente il bisogno di ricordare.
 

 
 
 
   Non avrebbe saputo dire in che giorno esattamente fosse avvenuto, né in effetti era sicuro che si fosse trattato di un giorno soltanto. Gli era sembrato di essere rimasto a guardare il cielo sopra di sé per un tempo interminabile, e l’unica cosa che sapeva di aver pensato per tutto quel tempo interminabile era stato chiedersi chi fosse. Oltre i profili dei palazzi, il manto notturno si era tinto di volta in volta delle sfumature degli astri, ed egli non aveva avuto davanti agli occhi altra immagine che quella, fin quando alla fine non era giunto il mattino con le sue lumeggiature rosee e aveva sentito l’urgenza di smuovere le membra intorpidite, come si fosse appena svegliato da un lungo sonno. Si era sollevato dal suo giaciglio e con stupore si era accorto di trovarsi in una strada buia, di quelle nascoste tra i vicoli della capitale, dove in genere vanno a rifugiarsi i teppisti e gli Allenatori più ostili. Vi era un’unica uscita che si dispiegava dinnanzi a lui. Elisio la raggiunse: non appena l’ebbe oltrepassata riconobbe le insegne dei negozi e delle caffetterie che si susseguivano lungo il viale. Si domandò in che modo fosse arrivato lì e perché, e tuttavia più si sforzava di ricordare, più la testa doleva nello sforzo di lacerare la nebbia che offuscava i suoi pensieri.
   C’era una carrozzina, sul marciapiede, ma nessuno accanto ad essa che vi badasse. Elisio si avvicinò in silenzio, ricercando un qualche contatto, una presenza che potesse placare il senso di solitudine che man mano lo stringeva sempre più crudelmente nella confusione di quelle memorie che non volevano tornare alla luce. Si aggrappò con le dita al bordo della culla e chinò piano la testa sui vellutini e le crine di quel passeggino grazioso, scorgendo dei morbidi ciuffi biondi sbucare oltre le pieghe di un lenzuolo, il viso di un bimbo addormentato. S’intenerì a quella vista, e lasciando cadere il palmo sussurrò: «Ma dov’è la tua mamma?». Non appena però si allungò a carezzarlo, il bimbo aprì lentamente gli occhi e lo guardò con questi due cerchi azzurri e liquidi, severi, in cui egli rivide il proprio riflesso sformato provandone inspiegabilmente terrore. Il piccolo eruppe in un pianto inconsolabile – Elisio più tardi pensò fosse perché dovesse aver sentito su di sé l’odore della morte, lui che era appena nato –, subito accorse una madre, egli la vide, vide il volto di una madre, e senza sapere per quale motivo ne fosse tanto impressionato fuggì.
   Si accorse che nel frattempo qualcuno lo seguiva, delle voci gridavano allarmate e delle dita lo indicavano. Elisio si rintanò di nuovo nell’anfratto buio da dove era uscito e aspettò che la furia si calmasse. Quando più tardi provò a sporgere un poco il viso all’esterno, udì il parlottio dei passanti che camminavano guardinghi e in gruppo, perché all’improvviso si era fatto troppo pericoloso stare da soli in quei luoghi. Elisio scoprì allora di essere ricercato e la ragione era perché aveva attivato l’Arma Suprema. I ricordi ripresero a fluire debolmente, rivide il cristallo rosso della macchina scintillare nella notte e le divise che si chiudevano sui petti dei suoi sottoposti.
   Arretrò fino ad essere avvolto completamente da un’ombra pesante. Vinto dallo sconforto si riaccasciò a terra con la testa sollevata al cielo. Rimase a guardarlo così insistentemente al punto da nutrire la convinzione di essere giunto da lì, poiché non c’era altra immagine che riuscisse a rievocare prima di essa e successivamente a quella dell’Arma. Per un attimo provò il desiderio che quel cielo lo riprendesse con sé: non vi era decisione che fosse capace di compiere nell’incertezza in cui versava ogni sua singola memoria. Ma poi una fitta al petto lo colse nel momento in cui di fronte a sé posò lo sguardo sulla porta di un condominio che dalla strada opposta dava verso l’uscita del vicolo. Si sentì di colpo minacciato, eppure nello stesso istante un altro ricordo era riemerso, con una vividezza languida, provocandogli un senso d’intimità di cui tuttavia, ancora una volta, non poteva definire l’origine. Doveva esserci un portone, da qualche parte, a cui si sentiva legato. Nell’ansia di sottrarsi al rischio di essere visto da un possibile condomino, Elisio decise di affidarsi al tepore che gli suscitava quell’immagine appena riapparsa e si avviò; che dopotutto, non avrebbe avuto altro modo di uscire dalla sua condizione se non andando avanti.  
   Quindi avanzò, camminando rasente i muri, nei tratti dove era certo che sarebbe passato inosservato, finché la stanchezza non lo costrinse a fermarsi. In lontananza, in fondo alla strada, si stagliava un edificio dalle forme familiari, che d’improvviso lo gettarono in uno strano sentimento di nostalgia; eppure, egli aveva l’impressione che non si trattasse del palazzo di cui stava cercando con tanto affanno il portone. Nonostante questo, vi si diresse, come ipnotizzato dalla sensazione che il vago ricordo di quelle sembianze gli evocavano nell’animo: perché qualcosa, laggiù, doveva pur esserci. Percorse il Viale Primavera illuminato dal sole rosso del tramonto che lentamente lasciava il posto alla notte, disegnando ombre lunghe e inquietanti sull’asfalto dalle quali Elisio un passo alla volta venne inghiottito. Si arrestò di fronte al cancello. Si accorse che era socchiuso. Si domandò allora se fosse il caso di entrare, ma la curiosità che quel portone più avanti suscitava in lui si faceva ad ogni minuto più pressante, ne era come richiamato in maniera inoppugnabile, e dunque non si poté trattenere. Andò, guardingo, stando accorto a non farsi notare. Salì la scalinata. La porta era aperta.
   Le alte pareti azzurre lo accolsero freddamente all’interno, tra le lesene in marmo bianco dal dorso scanalato, coi capitelli decorati d’oro. Non c’era nessuno. Le luci erano quasi tutte spente, soltanto una lampada era stata lasciata accesa, a ridosso dell’arcone che dava verso il corridoio. Provò ad allungarvi lo sguardo dentro e lo vide illuminato. Pensò laggiù dovesse esserci qualcuno. Non avendo però il coraggio di addentrarsi oltre, rimase nell’ingresso, tentando di capire che cosa di tutto ciò lo avesse spinto fin lì.
   Poi si udì un suono d’interruttore. La luce nel corridoio si spense. Vennero dei passi, e questi passi si fermarono in modo incerto in mezzo alla stanza.
   «Mi scusi, il Laboratorio è in chiusura. Posso aiutarla in qualche modo?».
   Egli si volse in direzione di quella voce, e lo vide. Sebbene non riuscisse a riconoscere a chi effettivamente appartenesse quel volto, d’improvviso i suoi occhi cominciarono a inumidirsi, percepì una grande agonia nel petto che non sapeva spiegarsi, e sentì le proprie labbra muoversi meccanicamente, come l’avessero già fatto centinaia, migliaia di volte, per scandire il suo nome: «Augustine».
   Poco a poco, quelle lettere che fiorivano una dopo l’altra sopra la sua lingua presero ad acquisire un senso nella mente. Elisio allora avanzò di un passo, allargando le braccia in preda al sollievo e alla commozione – e tuttavia quel primo dolore che aveva avvertito nello scorgere la sua figura ancora non se ne andava, non se ne andava.
   Augustine stava immobile a scrutarlo da lontano, senza accennare alcun gesto. Il suo sguardo fisso e inquieto tremava nel posarsi su di quelle fattezze, allo stesso modo di quando ci si ritrova a indagare profondamente i più tremendi timori che si celano nel cuore, finché essi diventano reali e palpabili e non gli si può più sfuggire. Una bestemmia mai pronunciata prima scivolò via dalla sua bocca mentre il camice e le chiavi e la cartella cadevano a terra dalle sue dita fiacche, incapaci di forza.
   Elisio tentennò dinnanzi alla sua reazione. Le lacrime scivolavano ormai inarrestabili oltre le ciglia, deformandogli la vista, e tuttavia la sagoma sottile di Augustine continuava a risplendere nei suoi occhi di una dolce chiarezza. Egli si avvicinò, lo osservò intensamente in ogni dettaglio che riusciva a carpire e che di volta in volta gettava luce su nuovi ricordi e sentimenti dimenticati, permanendo in quello stato di malinconia agrodolce che ancora non l’abbandonava. Mormorò di nuovo il suo nome, unica certezza che era in grado di afferrare nel buio della memoria corrotta.
   Si lasciò cadere in silenzio ai suoi piedi, stringendosi disperato contro le sue gambe, trattenendo il proprio pianto sopra il pantalone.
   «Sei ancora vivo», sussurrò Augustine. Elisio si accorse della voce spezzata che a tratti tentava di nascondere, ed ebbe l’impressione che in questo suo celarsi vi fosse una sorta di asprezza, di ritrosia nei suoi confronti.
   «Non ricordo nulla», disse. «Non ricordo più nulla».
   Per un istante che pareva non aver fine, Elisio temette che per quanto si sarebbe accanito su quelle ginocchia magre non sarebbe mai riuscito ad attirare a sé l’altro – come che vi fosse una barriera invisibile a separarli, un’inspiegabile differenza che non aveva mai percepito tra le loro persone. Ma poi Augustine abbassò la mano ad accarezzargli la testa, passò le dita tra i suoi capelli e lungo una guancia, gli sollevò delicatamente il viso: i suoi occhi scintillavano di compassione, le labbra distese in un’espressione di pietà, ed Elisio si sentì come stretto nel più puro e tenero abbraccio semplicemente da quel suo sguardo.
   «Vieni con me. Ti porto a casa e parliamo».
 
 
   Augustine parcheggiò la macchina in un angolo appartato della strada. Dopo aver spento il motore si voltò a guardare Elisio, scoprendolo assorto a scrutare la via, come se non ricordasse i luoghi che avevano appena attraversato. A quell’impressione si sentì mancare un battito, ma poi prese coraggio e disse: «Forse sarà meglio coprirti con qualcosa. A quest’ora in genere non passa mai nessuno, ma non vorrei correre il rischio che... Aspetta, adesso vengo ad aprirti».
   Scese dall’auto e andò a prendere la coperta che conservava nel portabagagli. Quando fece per avvolgerla sulle spalle di Elisio, tuttavia, egli lo guardò perplesso.
   «La tenevamo per quelle volte in cui rimanevamo a dormire qui, quando viaggiavamo insieme. Non ti ricordi?».
   Elisio dovette rispondergli che gli dispiaceva, ma che purtroppo no, non ricordava. Augustine tacque. Lo aiutò ad uscire dalla macchina, e tenendogli una mano – gli tremavano le dita – lo condusse con sé fino a quando non dovette prendere le chiavi del portone. Allora Elisio sollevò lo sguardo, e di fronte ai suoi occhi fu come un’epifania.
   Era qui, era a questo luogo che il suo animo aveva desiderato di ricongiungersi. Sentì di nuovo la gola ardere di commozione e dolore, gli occhi bagnarsi di lacrime, e dovette mordersi le labbra per soffocare un gemito nella bocca. Le due figure di uomo e di donna lo fissavano dall’alto, sopra il simbolo fallico, piegati nelle loro pose sinuose, ricurve in certe movenze morbide e accoglienti; ma non era possibile ignorare la freddezza insita nelle venature del marmo, il pallore esangue, come di cadaveri e spiriti, che risaltava sulle loro pelli alla luce dei lampioni.
   Elisio incontrò il viso del padre, e poi quello della madre. Augustine lo afferrò delicatamente sottobraccio e lo portò via.
   Salirono in ascensore. Aprendo la porta di casa, Augustine guardò con il cuore in mano Elisio entrare nell’appartamento senza potersi trattenere dal ricordare le volte in cui avevano attraversato quella soglia insieme tenendosi stretti l’uno dentro l’altro, e si domandò se egli avesse dimenticato anche questo. Ma all’improvviso un pensiero lo distolse dalle sue memorie e allarmato dovette correre in cucina a mettere le mani sulla massa di fogli che ricopriva interamente il ripiano del tavolo: giornali, volantini, sparpagliati fino a ricadere dai bordi sul pavimento sporco di briciole e macchie. Quando Elisio si affacciò oltre lo stipite per raggiungerlo, Augustine aveva già nascosto le carte dietro la schiena e le stava stracciando nelle dita in innumerevoli pezzi. Un frammento sfuggì dalla sua presa scivolando a terra. Se Elisio fosse stato abbastanza accorto, avrebbe notato una parola sottolineata con precisione in rosso – il suo nome, e subito dopo seguiva il dato che ancora il suo corpo non era stato recuperato, né ritrovato.
   «Va’ pure ad accomodarti», disse Augustine «Adesso sistemo».
   Elisio notò le stoviglie sporche impilate nel lavandino. Dal rubinetto pendeva una goccia, che ricadde poco dopo in una tazza colma d’acqua bruna.
   «Ti ringrazio», disse. Uscì.
  Mentre attraversava il corridoio, Elisio percepì di nuovo quel senso di familiarità che lo aveva abbracciato nel momento in cui aveva incontrato Augustine. Si aggirava per le stanze con sguardo tenero e nostalgico, passando le dita sopra i mobili, e toccando gli oggetti più vari che gli capitavano sotto gli occhi, come a voler togliere di dosso la polvere che la memoria vi aveva ammassato sopra. Si fermò al centro del salotto, ponendo da parte un vaso che aveva rigirato a lungo nelle dita.
   «Qui è dove volevamo andare a vivere io e te», mormorò.
   Augustine si era poggiato contro la parete con un piatto in una mano e lo straccio nell’altra per poterlo osservare. Sospirò, e con rammarico disse: «A me sarebbe piaciuto molto. Ma ogni volta che te l’ho proposto, tu hai sempre detto di no».
   Elisio rimase sorpreso, perché invece l’unica sensazione che aveva potuto ricordare con certezza quel giorno era stata proprio quella. Avrebbe voluto chiedergli perché mai avrebbe dovuto dirgli di no, ma Augustine si era accorto del disagio che traspariva dal suo viso e si era affrettato a chiudere il discorso, non volendolo destabilizzare ancora. Rientrò in cucina e si mise a preparare qualcosa da mangiare.
   Durante la cena si scambiarono poche parole. Si guardarono a lungo l’un l’altro, invece. Elisio si era fatto un bagno caldo, Augustine l’aveva aiutato a lavare la schiena e per la prima volta aveva visto sulla sua carne le tracce del gesto che aveva compiuto, gli aveva tagliato e pulito le unghie delle mani e si era accorto dei grumi di sangue seccati in profondità. In camera gli aveva mostrato i suoi abiti che ancora conservava nell’armadio e l’aveva lasciato vestirsi.
   Durante la cena si scambiarono poche parole, e questo perché in fin dei conti non trovarono nulla da dirsi. Entrambi erano in balia di una strana vertigine, distaccati dalla realtà presente. Stavano seduti uno di fronte all’altro, e appunto tutto ciò che riuscirono a fare fu semplicemente fissarsi. Augustine scrutava Elisio e aveva l’impressione di vedere uno spettro; per qualche ragione Elisio provò lo stesso nei suoi confronti.
   Sparecchiarono, si sedettero sul divano. Augustine fece accomodare il compagno con la testa sulle proprie gambe. Per un po’ rimase ad accarezzargli la testa lasciando che ogni ciocca di capelli si intrecciasse tra le dita, mentre intanto dalla televisione si susseguivano voci e volti sempre diversi, a cui loro non badavano molto. Elisio scivolò poco alla volta in un quieto dormiveglia, e si persuase che ciò che gli era accaduto quel giorno non fosse che un’illusione insensata, la farsa di un incubo. Che non aveva fatto altro che addormentarsi sulle ginocchia del suo amato e tutto quel che aveva visto altro non erano che le visioni sconnesse del sonno incipiente, del buio che lentamente lo avvolgeva. Allora avrebbe voluto voltarsi verso di lui, perdersi con lo sguardo assonnato dentro al suo sorriso e dirgli: «Ho fatto un sogno strano».
   Però, al contrario, Augustine non gli stava sorridendo, e sebbene Elisio non potesse saperlo perché non lo stava guardando, gli sembrava ugualmente di percepire un’aria mesta provenire dalla sua persona. I suoi tocchi amorevoli stonavano con quell’aura dolorosa che lo circondava.
   Sentì una goccia cadere sulla propria guancia. Soltanto dopo capì che si trattava di una lacrima e che giungeva dagli occhi di Augustine.
   «Se solo fossi stato più presente...» lo udì mormorare. Elisio intese che di ciò che stava per dire non avrebbe dovuto ascoltare una sillaba e che probabilmente egli era convinto che si fosse addormentato. Così finse di dormire, e tuttavia continuò a tendere l’orecchio.
   «Se avessi dato peso alle tue parole, forse tutto questo non sarebbe accaduto. Eppure, non immaginavo che ti saresti veramente spinto fino a questo punto. Mi sono sempre rifiutato di credere ai tuoi piani folli... E invece, suppongo di avere anch’io la mia parte di colpe. Non è così? Nonostante tutto il tempo che abbiamo passato insieme, io non ti sono mai stato davvero vicino. Perdonami. Ho aperto gli occhi solo quando ormai era troppo tardi».
   Augustine sciolse ogni nodo che gli legava le dita ai suoi capelli e alla sua barba per poter nascondere il viso nelle mani. Pianse in silenzio. Elisio udì appena qualche singhiozzo rintronare dentro la sua gola – si trattenne immobile contro le sue ginocchia, serrando ancor di più le palpebre come a volersi rendere invisibile.
   Poi Augustine sussurrò: «Dopo quello che mi hai detto l’ultima notte, io...»; s’interruppe. Non rimase che il suo ansimare caldo e umido, triste, contro l’orecchio scoperto di Elisio.
 
 
   Notte. Una sfera di fuoco apparve nel cielo, in mezzo agli astri e alle galassie, e per un istante sembrò brillare come un sole che promani la luce del giorno. Poi collassò al suolo, ogni cosa fu incendiata dal suo calore rovente, al fuoco, al fuoco, al fuoco, ovunque era fuoco, e non bastavano le voci, le braccia prestanti ad estinguere le fiamme.
   Lentamene tornarono il silenzio ed il buio. I fumi si sollevavano da terra a sfiorare supplichevoli, piegati in penitenza, quel cielo che così crudelmente aveva riversato la propria condanna.
   Elisio correva nelle strade ormai deserte e piangeva, gridava al mondo il suo inconsolabile, colpevole dolore. Di fronte al portone, teneva nelle braccia il corpo seminudo di Augustine – il suo viso contratto in una smorfia di morte.
   Si svegliò di soprassalto, col cuore palpitante che martellava nel petto, gli occhi inquieti, le spalle tremati. Il sudore impregnato ovunque sulla pelle lo gettava di continuo in una sensazione alternatamente di caldo e di freddo, o entrambe assieme, e il suo respiro correva il più lontano possibile per sottrarsi a quella disperazione che gli contorceva le interiora, ma senza riuscirci. Ansimò, tossì, sentì in fondo alla gola e nel petto i conati precedenti il vomito, la saliva agglomerarsi dentro la bocca, e si premette una mano sopra le labbra mentre l’altra stringeva un lembo della coperta, con le unghie infossate nel tessuto tanto brutalmente quasi da bucarlo.
   Augustine, che dormiva accanto a lui nel lettone, percependo quel frastuono si destò, subito si girò verso Elisio e lo guardò, ma non accese la luce. Gli si accostò vicino stringendo la sua mano abbandonata sopra il materasso – egli fremette a quel contatto, ed ebbe per un attimo l’impulso di scacciarla via; fu inutile. Aspettò che si calmasse, tuttavia Elisio era fin troppo teso, allora gli chiese cosa fosse successo. Lui disse solo che aveva sognato qualcosa, qualcosa che non riusciva a esprimere a parole, che non voleva esprimere a parole. Si chiuse in sé stesso e rimase in silenzio. Augustine sospirò affranto, insopportabilmente buono: lo cinse nel proprio abbraccio.
   «Ho fatto un sogno strano», ripeté Elisio con un fil di voce, ricordando le stesse riflessioni che aveva compiuto sul divano. Sentì una frattura spaccarsi nel suo cuore.
   «Va tutto bene, va tutto bene...» bisbigliava pazientemente l’altro cercando di acquietarlo, «Ci sono io con te. Era solo un sogno, un incubo», e intanto lo accarezzava, lo stringeva nelle proprie dita, al punto che però Elisio se ne sentì soffocare.
   «Smettila di toccarmi!» gridò, dimenandosi nel suo abbraccio, avendo a nausea quel suo contatto fisico che adesso, in balia della visione che aveva avuto nel sonno, gli incuteva ribrezzo.
   Si strattonò dalla sua presa e, dopo aver fissato per un istante il suo sguardo confuso e smarrito che campeggiava oltre il ciuffo spettinato, si sollevò dal letto trattenendo un lamento tra i denti. Uscì dalla stanza e si fermò nel salone a riposare gli occhi sulle ombre che la luce notturna gettava dalla finestra del balcone. Ogni oggetto pareva assumere una forma diversa e distorta da quella che aveva avuto fino a qualche ora prima quando si erano stesi insieme sul divano, e quell’aspetto falsato rispetto ai suoi ricordi – i suoi ricordi che non riusciva a rievocare chiaramente – esalava un’aura inquietante.
   Rimase a contemplare questa sensazione d’angoscia che gli si agitava malignamente nel petto. Poi, voltandosi, scorse la propria immagine riflessa nello specchio del cassettone. Ne provò inspiegabilmente terrore, vi si avvicinò cautamente fino a quando il suo viso non si ritrovò a sfiorare la superficie del vetro.
   Le guance umide, il volto emaciato dalla paura. Perché quella visione di sogno aveva in realtà avuto la lucidità di una memoria.
 
  
   Passò una settimana. Augustine aveva deciso di ospitare Elisio finché le sue condizioni non si sarebbero stabilizzate. Diceva spesso che avrebbe avuto bisogno di uno specialista, ma allo stesso tempo non voleva correre il rischio di farlo uscire di casa: allo stato attuale era ancora troppo pericoloso, e alla televisione trasmettevano con cadenza ossessiva sempre più nuovi servizi sul Team Flare e sulla tragedia recente di Cromleburgo. A volte Augustine si opponeva e spengeva il televisore per nascondere al compagno quelle immagini troppo crude, ma Elisio ribatteva dicendo che per lui erano necessarie, che era l’unico modo in cui sentiva che avrebbe potuto recuperare in parte la memoria. Augustine allora si ritraeva, gli lasciava il telecomando e tornava a sedersi alla scrivania per cercare tra i propri contatti un neurologo – la verità era che nessuno sarebbe stato disposto ad aiutarli, ed Augustine in realtà lo sapeva, quindi richiudeva le proprie agende, le rubriche, si accendeva una sigaretta rimanendo a fissare con gli occhi persi il soffitto dello studiolo, poi si alzava, buttava via la cenere insieme alle cicche, e andava in cucina a preparare la cena, senza mai emettere una parola.
   Una mattina che dovette uscire per andare a lavorare, Augustine raccomandò a Elisio di non aprire la porta a nessuno, né di affacciarsi casualmente alle finestre, e di tenere basso il volume del televisore. Mentre si dirigeva verso il Laboratorio, incontrò alcuni suoi conoscenti che marciavano per strada con i ceri accesi in mano. Era lutto nazionale. Alzando gli occhi verso il portone di casa provò vergogna di sé stesso: sarebbe stata sua intenzione consegnare Elisio a chi di dovere la prima notte, se soltanto non fossero intervenute la pietà e il senso di colpa a ostacolarlo. E poi c’era questo egoismo che gli faceva ribollire il sangue ogni qualvolta lo vedeva rinchiuso solitario nell’appartamento, unicamente suo... Pensò che fosse tossico e folle, che un poco alla volta stesse impazzendo anche lui.
   Elisio trascorse le prime ore del giorno seguendo in diretta i funerali delle vittime, senza mai allontanarsi dallo schermo. Ciclicamente veniva segnalato che di recente era stato avvistato il Capo Flare e che le forze dell’ordine erano sulle sue tracce. Poi si ritornava a inquadrare le bare riunite nella cattedrale sotto la grande Madonna col Cristo nelle braccia, il volto di lei e dei cherubini tutt’intorno che piangevano commossi.
   Elisio ricordava l’Arma Suprema e ricordava di averla attivata con le proprie mani di sua sponte, ma vi era ancora il dubbio su quel sogno che aveva avuto notti prima e a cui ripensava incessantemente, senza riuscire a collocarlo in alcun ordine logico. Augustine continuava a dire che si trattava probabilmente di una semplice suggestione, ed egli dopo qualche giorno aveva iniziato a convincersi che dovesse essere così. E tuttavia ad Augustine non aveva mai raccontato nulla nel dettaglio. Gli aveva solamente detto: «Ho visto la cattedrale andare in fiamme». Il resto non ne avrebbe avuto la forza.
   Ad un tratto sentì il bisogno di andare ad assistere con i propri occhi. Frugò tra gli abiti in cerca di qualcosa che potesse coprirlo abbastanza da non essere riconosciuto e trovò un vecchio pastrano con cappuccio che gli avrebbe facilmente nascosto il viso. Guardò l’orologio: Augustine non sarebbe tornato che tra qualche ora. Per non sprecare tempo si sbrigò lo stesso a cambiarsi, e nella fretta di uscire dimenticò il televisore acceso – contava comunque di tornare al più presto.
   Giunse al cimitero di Montparnasse, l’aria quel giorno era fredda e nebulosa. Le inferriate dei cancelli lo accolsero all’interno scricchiolando di un cigolio acuto e sgraziato. Non gli ci volle molto per individuare il luogo di sepoltura delle vittime, giacché in tanti si erano presentati a rendere loro omaggio. Dovette aspettare di essere solo, prima di potersi avvicinare anch’egli. Ed ecco.
   Questo era quindi il risultato delle sue azioni. Elisio si scoprì la testa, s’inginocchiò a terra congiungendo le dita in atto di devozione, tentando di onorare in qualche modo la memoria di quei nomi che con cura scandiva nella propria mente – molti non li ricordava né era in grado di ricollegarli a dei visi, ma non avrebbe saputo dire se fosse per l’amnesia o perché di fatto non avesse mai incontrato la maggior parte di quei ragazzi che con tanto slancio avevano deciso di arruolarsi tra le sue fila. Tutti giovani, tutti belli, tutti sacrificati alla sua causa di un mondo perfetto. Elisio pregò che potesse davvero esserci altrove un luogo in cui essi avrebbero potuto godere di quella bellezza ideale da lui tanto agognata e che la loro morte non fosse stata vana. E tuttavia quei corpi sarebbero pur sempre rimasti lì, muti, esposti al fluire del tempo, a marcire nella polvere fino a quando non avrebbero perso ogni sembianza che li legasse alla propria identità, alla propria presenza in vita, fino a trasformarsi in semplici scarti della natura
   C’era un Pokémon, lungo il viale, che si aggirava solitario tra le tombe. Elisio lo scambiò per un fantasma, ma era soltanto un Absol, senza guinzaglio né collare: uno spirito indomito, protettore dei defunti. Provò a offrirgli una carezza, ma esso sgusciò via e lo abbandonò. Quindi rimase da solo, impotente, dinnanzi a quelle iscrizioni. Sentì il senso di colpa crescere nel petto e gli venne da pensare ad Augustine. Si chiese per quale motivo si fosse spinto fino a quel limite, se ce ne fosse uno valido. Perché ogni sentimento alto e trascendentale pareva disgregarsi fin troppo facilmente davanti alla realtà concreta, tangibile, brutalmente materiale dell’esistenza. Non aveva fatto altro che inseguire per anni una chimera immaginaria. E lo aveva fatto per arrivare infine a questo.
   Si sollevò in piedi. Esitò ancora a lungo prima di andare. In un certo modo, percepiva di aver già compiuto quelle riflessioni e di essere rimasto turbato da tali stesse conclusioni. Questa allora non doveva essere altro che la riprova di ciò che era già giunto a stabilire in precedenza nel proprio animo. Ma quando era successo? Con un gravoso sospiro prese commiato da quelle tombe. Sarebbe stato bene tornare a casa. Avrebbe potuto dare sfogo al proprio tormento più tardi.
   In quello stesso istante, però, un’ombra si levò improvvisamente da dietro una lapide. Elisio alzò inquieto lo sguardo, istintivamente si ritrasse e fece per afferrare le falde del cappuccio in modo da coprirsi. Ma non appena mise a fuoco la vista, un terrore ancor più viscerale dell’essere scoperto lo assalì di colpo, la testa iniziò a vorticare, tutto intorno a lui si fece instabile: solamente quella sagoma nera e slanciata permaneva immobile di fronte ai suoi occhi, ed era spaventosa nella limpidezza dei suoi tratti. Qualcosa di indicibile accadde nella mente di Elisio, allorché comprese che quella presenza era reale e solida ed era viva.
   Augustine deve certamente aver pensato di trovarsi dinnanzi a uno spettro, quando Elisio, altrettanto incredulo, ha mosso i primi passi verso di lui e si è inginocchiato ai suoi piedi con le lacrime agli occhi. Ma ciò che egli vide quel giorno, nessuno sarebbe mai stato capace di intenderlo umanamente.
   Laggiù, sotto le fronde cadenti degli alberi, si stagliava questa figura tremenda, e tale era non per la sua bruttezza – di fatto, brutta non era, ed Elisio si ritrovò inconsciamente a provarne un’attrazione malsana – ma perché quelle sembianze, quei segni lampanti erano fin troppo radicati nella sua memoria, nella sua visione, nella sua persona, al punto che neppure l’amnesia avrebbe potuto cancellarle. Un brivido maligno cominciò a scendere lentamente lungo la nuca quando per un istante incrociò i suoi occhi azzurri e vi si riflesse dentro: l’uomo che aveva davanti, altri non era che sé stesso.
   Un guizzo sorpreso deformò la bocca dell’altro, ed Elisio ebbe come l’impressione di guardarsi in uno specchio.
   «Chi sei?» chiese, perché nella confusione dei suoi pensieri non vi era altra domanda di senso compiuto che fosse in grado di formulare.
   Il suo riflesso sollevò lentamente le braccia sopra le lapidi, come a volerle inglobare tutte quante a sé. Elisio lo vide muovere le labbra, ma qualcosa gli impediva di sentirne la voce. Lo guardò portarsi le mani al petto e richiudere i pugni. Indicava la propria persona. Elisio, forse perché quell’incontro era permeato da un’aura surreale, non riuscì subito a comprendere il senso di quei gesti, né le conseguenze che l’essere presenti assieme lui e l’altro nello stesso istante doveva comportare, men che meno le cause e le premesse. Nel momento in cui però lo vide tendere il dito e indicarlo, iniziò a riflettere, provò a trovare una ragione; la trovò nell’unico tassello che fino ad allora non era stato capace di disporre.
   Perché questo voleva dire che ciò che aveva visto nel sonno, tanto lucido come una memoria, doveva necessariamente corrispondere a verità, al suo reale passato. Di fronte ai suoi occhi fu un succedersi frenetico di immagini, il suo corpo fremette sempre più terribilmente man mano che i ricordi ricominciavano a fluire, che realizzava il corretto susseguirsi degli eventi. Un fischio tremendo sibilò nelle orecchie nel momento in cui rivide il corpo morto di Augustine nelle proprie braccia, e il sangue scorrere sulla sua pelle livida. Non sentì il grido atroce che subito dopo cacciò dalla bocca, e neppure il dolore che si provocò gettandosi a terra e ferendosi i pugni contro i ciottoli che aveva preso a colpire nell’impeto della follia incipiente. Le lacrime gli rendevano la vista pressoché nulla, come se vagasse in un vuoto informe e buio, da cui non potesse fuggire poiché lo aveva creato lui stesso – lui stesso era stato l’artefice della propria agonia.
   L’arrivo di un guardiano lo costrinse a ritirarsi. Il suo doppio era già scomparso col favore della nebbia.
 
 
   Rincasò che ormai era fuori di sé. Chiusa la porta si accasciò a terra tenendosi la testa tra le mani, gli occhi sbarrati, segnati dalla paura. Le orecchie continuavano a fischiare terribilmente, ed Elisio non avrebbe potuto sentire che dalla televisione intanto si stava pronunciando la sua condanna a morte. Augustine, invece, vi stava prestando la massima attenzione, come vi aveva prestato la massima attenzione un’ora prima e un’ora prima ancora, quando tornando dal lavoro aveva trovato il televisore acceso e l’appartamento vuoto. La sua schiena formava una massa curva e pesante al di là dello schienale del divano e a guardarla così intirizzita si avrebbe avuto l’impressione che egli non si sarebbe mosso mai più. E invece si alzò, quando sentì dall’ingresso il corpo di Elisio ricadere gravoso sul pavimento. Con uno scatto fulmineo oltrepassò il divano, le gambe gli dolevano e i piedi non l’avrebbero retto a lungo, e allora, nel momento in cui si fermò di fronte alla sagoma accasciata dell’altro, non riuscì più a sopportare il proprio peso e si piegò sulle ginocchia tremanti. Lo afferrò per i capelli, lo costrinse a sollevare il viso, e con tutta la rabbia che aveva in petto gridò che gli spiegasse dove diavolo fosse stato e che cosa avesse fatto, perché fosse uscito, perché non gli avesse detto nulla e perché, perché, perché...
   «Ma non lo capisci che se quelli ti vedono ti ammazzano?! Devi stare qui, devi stare con me...» mormorò con la voce rotta dal pianto, premendo la testa contro la sua spalla senza mai abbandonare la presa ossessiva delle dita che lentamente calavano sulle sue vesti, sopraffatte dalla stanchezza.
   Elisio di quelle parole non intese nulla. Vide soltanto i suoi occhi piccoli e arrossati su cui passava di continuo il braccio per asciugarli e pensò che questo che si struggeva per lui, per quanto simile, non era il suo vero Augustine – l’aveva ucciso lui, con le proprie stesse mani. E ciò nonostante rimase lì, tra le braccia di lui che intanto cercava di attrarlo a sé in qualche modo, ma l’animo di Elisio era fin troppo lontano per poter essere avvinto.
   Dopo quel giorno, i loro contatti si allentarono. Elisio si era chiuso nel proprio silenzio, senza mai permettere ad Augustine di penetrarvi; e Augustine da parte sua non provava nemmeno a forzarvi un ingresso, troppo sconvolto dal pensiero del destino che prima o poi avrebbe dovuto compiersi per lui. Si limitava appena a far in modo che quella sua permanenza in casa potesse protrarsi il più a lungo possibile, custodendola come un segreto.
   Intanto però, lo spettro del proprio doppio continuava ad assillare i pensieri di Elisio: non vi era momento in cui egli non lo vedesse, e poteva comparire tanto in un riflesso, alla luce del giorno, nei vetri delle finestre o di un bicchiere di vino, quanto in un’ombra nelle ore più buie e solitarie, dagli oggetti più semplici e familiari. Tanto era il terrore per quella figura, che per diverso tempo egli non ebbe neppure intenzione di guardarsi allo specchio – perché più che temere l’altro, il vero dolore stava nel fronteggiare sé stesso con la consapevolezza di essere una copia della propria persona, che non apparteneva a quel mondo. Mentre era assorto in queste riflessioni, nello sforzo di discernere qualcosa che gli rievocasse una propria identità che non era più in grado di riconoscere, spesso faceva irruzione Augustine con una parola gentile o un piccolo gesto. Elisio di colpo era sottratto a quelle preoccupazioni, come quando avendo nuotato troppo a lungo verso il fondo si venga trascinati violentemente a riva dalla corrente senza preavviso. Quindi passava da un paio di occhi azzurri a quelli grigi di Augustine – dagli altri, ai propri, ai suoi – ed era nauseante alla fine perdersi nel ricordo che subito dopo lo soffocava tutto quanto e che lo portava a respingere qualsiasi tentativo di confronto, di contatto. Vi erano anche altre volte, però, in cui egli si lasciava sedurre dalla somiglianza che legava i due Augustine, sempre in conflitto nella sua mente, e questo accadeva soprattutto quando era rimasto troppo tempo chiuso nel proprio animo e inconsciamente necessitava di un’evasione che non era in grado di trovare altrove che fuori da sé.
   Le stesse movenze, le stesse espressioni. Persino la stessa modulazione della voce. Augustine era la copia esatta del compagno che aveva amato in passato. Bastava questo ad acquietare temporaneamente ogni timore, ed Elisio in quei momenti diveniva docile e amabile, ben disposto nei confronti dell’altro. Ma durava poco, e non appena si palesava nuovamente l’evidenza che non poteva essere questo l’Augustine cui si era legato, egli tornava ad essere scontroso e sfuggente.
   Il suo doppio era sempre lì, in agguato, ed Elisio sentiva il suo sguardo addosso quando loro erano insieme e Augustine provava a piegarsi per accarezzargli una mano.
   Una sera – era a casa da solo – si era concesso di uscire qualche minuto sul balcone che dava sul cortile interno del condominio, in attesa che Augustine tornasse. Respirava il vento freddo della notte, facendo dell’ombra il proprio mantello. Nel buio riusciva a malapena a distinguere le fattezze della facciata dirimpetto, ma di tanto sollievo era per lui il profumo dell’aria, dopo aver trascorso l’intera giornata segregato nel solito appartamento, fra le solite mura, le solite finestre con le persiane abbassate. Si era poggiato sul parapetto a riposare la testa nelle mani ed era rimasto così, con gli occhi chiusi, ad ascoltare i suoni della città. Si domandò se un giorno vi avrebbe mai potuto fare ritorno, ma poi si ricordava della sentenza di morte che pendeva sulla sua testa. Quindi si risollevò, si ritrasse. Mentre si apprestava a rientrare, una sagoma scura, seduta accanto alla colonna portante, lo avvinse nel proprio sguardo – lui.
   Elisio impallidì, i pugni presero a tremare. L’altro lo fissava, perennemente in silenzio. Egli lo implorò senza voce di lasciarlo stare, che non lo poteva soffrire.
   Il suo doppio si avvicinò. La massa delle sue spalle, sebbene essi fossero della stessa altezza, pareva crescere e sovrastarlo sempre più di passo in passo. Elisio sentì le sue dita sfiorarlo e afferrargli le mani. Mentre le accostava a sé facendole scorrere sul proprio corpo, Elisio vibrò senza controllarsi di un brivido viscido, lo percepiva materialmente sotto i polpastrelli, udiva il suo respiro, avvertiva il calore che emanava oltre le vesti. Riconobbe ogni dettaglio come proprio e ne fu atterrito, perché in realtà suoi non erano. Provò a strattonarsi, ma quello lo stringeva saldamente per i polsi e non poteva sottrarsi.
   C’era un rigonfiamento che sporgeva al di sotto della giacca. Elisio lo scoprì: non appena riconobbe al contatto la superficie gelida e metallica si dimenò, e finalmente libero da quella morsa restò a fissare il punto al centro del petto dove egli stava tenendo l’oggetto funesto – la chiave dell’Arma Suprema.
   Elisio capì. Guardò l’altro sé stesso negli occhi e lo pregò di non farlo.
   «Te ne pentiresti soltanto», disse, perdendosi nel suo sguardo impassibile, tentando di bloccare i suoi passi. Ma quello riuscì a fuggire, veloce come un’ombra inseguita dal sole. Elisio uscì dall’appartamento, lo rincorse a perdifiato scendendo lungo le scale a chiocciola, che vorticavano e vorticavano, e ne ebbe nausea, gli mancò il respiro, sentiva il sangue salire al cervello pulsando nelle tempie e gonfiargli la testa che girava. Scavalcò i gradini come una bestia agonizzante che debba al più presto uccidere il proprio nemico, o forse scappare da un pericolo mortale, trattenendo la mano sul cuore come a coprire uno squarcio fatale e profondo, ansimò.
   Raggiunse il portone, lo vide chiuso, con le mani rabbiose ne saggiò ogni venatura fino ad impugnare la maniglia, l’abbassò.
   «Elisio».
   Si voltò e incontrò gli occhi severi di Augustine, che esitava sopra l’ultimo gradino. Tornando a guardare avanti, scorse il proprio riflesso distorto dentro il vetro colorato della porta. Lasciò andare la presa sulla maniglia. La sua mano ricadde lungo il fianco. Rise, mentre le lacrime gli rigavano le guance.
   «Sto impazzendo...» disse. «Sto impazzendo... Augustine...».
 
 
   Quella stessa notte, Elisio sentì di non farcela più. Si alzò tra le coperte ricercando il compagno: gli avrebbe detto tutto, tutto, pur se non avrebbe capito.
   Guardò nell’altro capo del letto, ma lo trovò vuoto. Poco dopo sentì uno sciabordare d’acqua provenire dal corridoio. L’orologio sul comodino segnava le due passate. Elisio si chiese se anche Augustine ormai non riuscisse più a dormire come lui. Si diresse verso il bagno e vide la porta aperta: la luce accesa del lampadario illuminava debolmente col suo colore asettico le stanze vicine. Si affacciò, esitando con una mano poggiata contro lo stipite.
   Sul pavimento stava qualche scatola di sigarette spacchettata e semivuota, insieme a un accendino e a un posacenere da cui era caduta della polvere. Sopra il lavandino c’erano una lametta da barba e un paio di cerotti sparsi alla rinfusa. L’aroma del bagnoschiuma non era abbastanza forte da coprire l’odore del fumo.
   Elisio osservò Augustine. Il suo corpo nudo galleggiava mollemente dentro la vasca, le braccia abbandonate lungo i fianchi, le mani aperte lasciavano fluire scie di sapone tra le dita.
   Augustine si accorse della sua presenza, volse la testa verso di lui. Per un lungo istante i suoi occhi socchiusi si posarono sulla sua persona, scrutandone sommariamente ogni dettaglio fino a quando non si fecero avanti a sostenere il suo sguardo ed Elisio se ne sentì quasi soffocare.
   Al di là della sensualità che un’immagine del genere avrebbe potuto provocargli in altre circostanze, ciò che lo turbò particolarmente di quella ciocca bagnata che ricadeva a sfiorare la sua bocca, fu la languidezza che permeava l’espressione del viso e delle labbra, come se presto Augustine sarebbe dovuto scivolare in un sonno profondo.
   L’aveva già vista una volta, quando correndo disperato tra i palazzi, in seguito alla sua estrema azione, lo aveva cercato ovunque per andargli incontro. Lo aveva scorto uscire dal portone del palazzo e compiere i suoi ultimi passi verso la strada per raggiungerlo. Si erano scambiati uno sguardo intenso e vitale, ma quel suo ardore struggente era stato di colpo spezzato dal sopraggiungere del malanno letale, che lo aveva costretto a terra senza pietà. Nello stramazzare sull’asfalto, il braccio di Augustine si era teso con un ultimo slancio verso l’alto, stagliandosi sopra la sagoma del simbolo fallico. Poi era ricaduto in basso senza forza, mollemente, e il suo intero corpo si era accasciato impietoso a ridosso dei gradini. Elisio si era spinto in avanti ad afferrarlo, ma ogni tentativo era stato inutile, poiché oramai lo stava già perdendo – lo sentiva morire nelle proprie braccia e non c’era nulla che potesse fare per contrastare il suo destino, poiché questo era quel che lui stesso aveva generato per lui. Un’espressione languida si era impressa sul viso esangue di Augustine, prima che dalla sua bocca spirasse ancora un altro sospiro.
   Elisio si era accanito su di lui, lo aveva scosso e richiamato a sé in ogni modo. Stringendolo brutalmente al ventre con una mano per sorreggerlo, gli aveva aperto la camicia scoprendo il suo petto magro e freddo. Vi aveva poggiato sopra l’orecchio e un silenzio tremendo lo aveva assalito in tutta la sua crudezza. Le sue dita si erano aggrappate alla sua carne con le unghie, per tenerselo ancora vicino, più vicino a sé. Dai graffi sulla pelle bianca e smorta, scivolavano inarrestabili rigagnoli di sangue rosso lucido.
   Alzando lo sguardo, Elisio aveva incontrato il volto della madre. Soltanto allora si era riconosciuto carnefice.
   «Mi pento, madre», aveva sussurrato, con le lacrime agli occhi «Mi pento».
   All’improvviso, una sfera luminosa era scoppiata nel cielo, tra le ombre della notte. Come una cometa dai mille colori, essa si era separata dagli altri astri per ricadere a descrivere un arco sopra le loro teste. Elisio l’aveva guardata più attentamente, e nelle sue forme gassose gli era parso di distinguere le sembianze di un Pokémon, brillante come una stella.
   Al suo passaggio, un varco di luce accecante si era squarciato nell’aria di fronte alle vetrate del portone. Egli era giunto così in quest’altro mondo, a rincontrare un’altra volta Augustine.
   «Cosa c’è?» lo sentì domandare a un tratto. Elisio allora si ridestò. Si avvicinò alla vasca.
   Il pallore della pelle di Augustine divenne sempre più impossibile da sopportare, alla luce di quei ricordi. Elisio avrebbe voluto scappare, dirgli che non era niente e andarsene come se nulla fosse stato. Tuttavia non vi riuscì. Non quando Augustine aveva sollevato la schiena per poterglisi rivolgere e l’acqua era scivolata lungo le sue membra sottili. Quindi Elisio era stato invaso dal desiderio di toccarlo, i sensi avevano preso il sopravvento sulla disperazione che la sua condizione generava in lui. Augustine doveva aver intuito quali pensieri si fossero fatti strada nella sua mente; aveva piegato leggermente la testa di lato, lasciando scoperta parte del collo, e con quel gesto l’aveva consapevolmente attirato verso di sé. Elisio si era chinato lì accanto, lasciando cadere le dita sul suo petto. Trasalì lievemente al contatto con la sua pelle bagnata.
   Poi lo colse il pulsare del suo cuore.
   Realizzò che pur non trattandosi dell’Augustine che aveva amato in passato e di cui in quei giorni aveva devotamente rievocato la memoria, tuttavia era vivo, e il calore che il suo corpo emanava era altrettanto vivido e intenso quanto quello che aveva conosciuto.
   In quell’istante Augustine allungò le dita a raggiungere le sue, le trattenne intensamente contro il proprio cuore, ed essi rimasero a guardarsi in silenzio.
 
 
   «Noi in realtà ci siamo sempre amati. Anche quando ci siamo separati anni fa da giovani, alla fine non abbiamo fatto altro che continuare a cercarci. Non è vero?».
   Augustine rigirava il cucchiaino nel tè. Sul tavolo stava aperta la scatola dei biscotti, nuova di zecca, appena comprata in pasticceria, insieme al tagliere del pane e ai barattoli di marmellata.
   Elisio gli racchiuse dolcemente il mento nelle dita, ruotò il suo viso verso di sé, lo accarezzò sulla guancia e oltre fino a sfiorargli le punte dei capelli. Con gli occhi si trattenne a lungo sopra le sue sembianze, mirandole in ogni sfumatura della pelle che la luce del giorno era in grado di accendere sulla sua carne florida. Allontanò la mano crogiolandosi nel suo sorriso. Augustine posò la tazza sul tavolo e tagliò qualche fetta di pane col coltello. Mentre ne inzuppava una farcita di confettura, Elisio senza preavviso asserì: «Dobbiamo inscenare la mia morte».
   Augustine lasciò cadere il pane nel tè, la mollica s’impregnò fino a disfarsi.
   «Come ti salta in mente una cosa del genere?».
   «Se voglio continuare a vivere, ho bisogno di morire. Non possiamo andare avanti in questo modo».
   «No, mi rifiuto», si ostinò «Non riesco a sopportarne nemmeno il pensiero... Ma come puoi... Come puoi...».
   «Augustine, è già un miracolo che la Polizia Internazionale non ti abbia ancora intercettato. Per quanto ancora pensi potremo cavarcela? Non posso rimanere qui per sempre».
   Augustine continuò a esprimere il proprio disappunto, accompagnandosi col tono severo della voce nel descrivere le sue incertezze e perplessità. Elisio ascoltò ogni sua critica con la sorpresa che man mano aumentava, perché mai il suo Augustine, quello che aveva conosciuto, si sarebbe opposto con una simile fermezza, quanto piuttosto si sarebbe lasciato andare, passivamente, al suo volere, alla sua influenza. Se ne sentì vulnerato.
   «Tu sai cosa vuol dire crederti morto e poi vederti riapparire così dal nulla? Davvero non ti rendi conto di quel che ho vissuto io, di ciò che ho provato?».
   Non c’era modo di consolarlo. Elisio si ritrovò per la prima volta a considerare l’affetto che animava quest’uomo, il sentimento che doveva avere rivolto all’altro sé stesso, probabilmente diverso da quello che aveva recepito lui, eppure ugualmente intenso e tormentato. Lo stupore si tramutò pian piano in ammirazione, si commosse, e nello stesso tempo si sentì minuscolo rispetto al dolore che egli doveva avere avvertito.
   Non potè contraddirlo. Augustine finì di parlare e di raccontarsi, di spogliarsi dei propri timori. Poi si alzò dal divano, si ritirò nello studio per terminare gli ultimi preparativi prima di andare a lavorare. Una volta nell’atrio, mise addosso il cappotto, si allisciò il colletto. Con gesto fermo delle dita prese la valigia e l’ombrello – il cielo andava a oscurarsi – e fece per uscire.
   «Fa’ come vuoi», disse «Ma io non voglio saperne».
   Elisio lo rincorse fin sulla soglia dell’ingresso, tuttavia non fece in tempo a raggiungerlo. Rimase ad ascoltare il suono dei suoi passi che rimbombavano per le scale fino a quando lo sbattere secco del portone di sotto gli fece intendere che ormai se ne era andato.
   Sul tavolo esitavano ancora le tazze della colazione. Riordinò quel che poté, chiuse la scatola dei biscotti. Mentre la riponeva nella credenza, un rumorio dietro di sé lo richiamò: Augustine era tornato indietro, forse portava le sue scuse. Elisio si voltò sorridente, che gli avrebbe perdonato qualsiasi cosa, ma dall’altra parte non c’era che lo specchio, e lui dentro il riflesso. Gli parve di vedere la propria immagine prendere vita da sola e muoversi e contorcersi oltre il vetro, finché la punta del naso non trapassò la superficie e il suo viso lentamente incominciò a fuoriuscirne. Si trattava solamente di un’allucinazione, si disse Elisio; eppure non riuscì a reprimere il terrore, né l’angoscia perenne che lo costringeva a ritirarsi e a non reagire di fronte ai sintomi della follia. Intanto la sua ombra cresceva, incombeva sopra di lui senza dargli via di fuga. Elisio sopportò quella visione violenta finché poté, si sentì disgregare dinnanzi al suo doppio che era il suo originale.
   Fu allora che per disperazione si avvicinò al tavolo, afferrò in mano il coltello e lo nascose in tasca.
   Elisio non sapeva esattamente che cosa avrebbe fatto. Con gesti meccanici e freddi indossò il pastrano e uscì. Discese le scale un gradino alla volta. I vetri del portone vibravano contro la pressione del vento che vi sbatteva sopra. Si gettò di fuori nella tempesta, le falde del mantello si scuotevano impetuose sospinte dalla furia della corrente. La pioggia che picchiava sull’asfalto gli offuscò la vista della strada di fronte a sé, ma eccolo di nuovo, l’altro, laggiù, che sorrideva, un miraggio nella notte. Elisio lo raggiunse, esso scomparve, egli lo cercò, lo rincorse, fino a quando non arrivò un’altra volta ai cancelli del cimitero e lì lo trovò.
   Si spinse tra i viali, calpestò i ciottoli dove il primo giorno si era ferito le mani e che ora nascondeva dentro i guanti. Per quanto l’altro potesse allontanarsi e farsi sfuggente, Elisio lo raggiungeva ogni volta, in un’incessante corsa verso sé stesso. Sotto le foglie degli alberi che accoglievano la pioggia sulle proprie nervature, essi finalmente furono costretti a fronteggiarsi, l’uno e l’altro separati dalla lama scintillante del coltello.
   I loro sguardi angosciati si scontrarono, e allora ebbe inizio una danza macabra tra i loro corpi che si abbracciavano e respingevano senza sosta, con le dita delle mani che andavano a combaciare insieme come in una carezza per poi scagliarsi via a vicenda. Troppo consapevoli dei reciproci gesti, si afferravano e si sfuggivano nell’intreccio dei propri passi, temendo e nello stesso tempo odiando la loro somiglianza, compatendo sé stessi nel proprio animo. Il coltello cadde improvvisamente dalle dita di Elisio, sopraffatto dalla prestanza dell’altro.
   Egli non poté che inginocchiarsi a terra nel tentativo di riprenderlo e di avere salva la vita, ma esso era scivolato troppo lontano, in mezzo al fango e alla terra, e intanto sentiva sopra la schiena l’ombra dell’altro tornare a ingigantirsi e dominarlo col suo peso insostenibile. Si volse a guardarlo. La sua sagoma imponente si ergeva sinistra stagliandosi ovunque lo sguardo potesse vagare. La chiave pendeva solitaria sopra il suo torace ampio, avvolta nelle vesti...
   Come scosso da un impeto delirante e spietato, Elisio si lanciò ad afferrarla nelle dita. Con uno strattone tirò a sé la catena che la custodiva, i suoi anelli si arpionarono al collo dell’altro. Continuò a tendere finché egli perdendo vigore nelle membra non rimase stordito per mancanza d’aria. Mentre il suo corpo si accasciava ricadendogli sul petto, Elisio, la mente ormai annebbiata, rigirò la lama della chiave e lo colpì: la conficcò più volte nelle sue carni, fino a che non lo sentì indebolirsi e ansimare senza forza. Allora lo lasciò accasciarsi a terra, ma completamente accecato da quell’ira animalesca continuò a trafiggerlo, lo sforzo di liberazione gli scaldava il sangue nelle vene – non gli avrebbe permesso di compiere il suo stesso destino, e doveva reprimerlo, doveva reprimerlo a tutti i costi.
   Lo fissò abbandonarsi morente agli ultimi vagiti soffocati; Elisio si fermò, finalmente libero dal suo tormento, assaporando la quiete ritrovata. Ma poi quelle labbra si tesero, e il suo riflesso incominciò a parlare, un’angoscia surreale lo colse nell’udire la propria stessa voce rivolgersi con disprezzo alla propria stessa persona: «Non riesci a capire che io sono te e tu sei me? Qualunque cosa tu faccia, non puoi cancellarmi».
   Soltanto adesso che l’illusione era dissolta riusciva a sentirlo concretamente nelle orecchie, a percepire la sua presenza reale e umana. Lasciò cadere la chiave sul suo corpo insanguinato. Aveva appena ucciso sé stesso.
   Ansimando, guardò le proprie mani macchiate di rosso, e di rosso erano i vestiti, e le gocce schizzate sul viso. Sulla sua pelle colava ancora caldo il proprio stesso sangue, e neppure la pioggia era forte abbastanza da sciacquarlo via. Il suo cadavere stava riverso, molle, sotto le sue ginocchia. Scrutò a lungo la propria immagine vacua, sentendosi irrimediabilmente vuoto anch’egli.
   Di fronte a lui stava Absol come un angelo della morte: aveva assistito a ogni cosa.
   Elisio abbandonò lì il suo simulacro e fuggì.
 
 
   Non appena tornò a casa, si chiuse in bagno e riempì d’acqua la vasca; eppure aveva l’impressione che per quanto lavasse e sfregasse, le sue mani rimanessero sporche.
   Si cambiò, pulì ogni traccia lasciata nei corridoi. Accese il fuoco in camera da letto e vi gettò dentro i vestiti macchiati di sangue. Restò in silenzio a veder bruciare i propri resti nel camino.
   Augustine era rincasato poco dopo, cogli abiti bagnati e l’ombrello chiuso nelle mani. La pioggia sulle sue guance era d’aspetto simile alle lacrime, ed Elisio si domandò se inconsciamente non stesse davvero piangendo per la perdita di quell’altro uomo che in realtà doveva avere amato.
   Ma Augustine venne a saperlo soltanto l’indomani. Due agenti della Polizia Internazionale avevano fatto irruzione in Laboratorio premendo di vederlo, e gli avevano comunicato il ritrovamento del corpo. Egli, confuso, una volta inteso di non esserne considerato il complice, aveva chiesto di essere portato da lui, ma scortato in obitorio non gli era stato permesso di oltrepassare il vetro – che dopotutto agli occhi degli altri era sempre stato soltanto un amico. Quindi era rimasto a scrutare quella sagoma lunga distesa sul lettino, coperta da un lenzuolo. Gli dissero che il suo viso era stato sfregiato, reso irriconoscibile, e tuttavia i test del DNA non lasciavano dubbi.
   Suicidio. Banalmente si erano ritrovate le sue stesse impronte sul coltello e si era giunti alla conclusione che l’unica eventualità dei fatti non potesse essere che quella. Quei tagli che non poteva essersi inflitto da solo vennero ignorati o in rari casi attribuiti a qualche fanatico che aveva voluto presumibilmente sfogare la propria rabbia sulla spoglia già morente. A nessuno comunque interessava approfondire la cosa e il solo fatto di aver ritrovato il corpo costituiva di per sé la conclusione adatta alla tragedia, bastava a considerare il caso chiuso, e non sarebbe stato riaperto mai più.
   Augustine non vide il corpo, ed avendo accanto Elisio in casa mai gli venne il sospetto di chi potesse trattarsi sotto il lenzuolo. Soltanto il giorno del funerale, qualcosa dentro di lui si smosse.
   Si era deciso per una cerimonia privata, celebrata in gran segreto. Vi parteciparono soltanto Augustine – per quanto lo riguardava, era stato considerato anch’egli una povera vittima del gioco perverso di Elisio, e nessuno si era sentito di ribattere alla sua richiesta accorata di un’onoranza funebre – e pochi altri intimi.
   Quando era giunto vicino alla bara e ne aveva toccato la superficie laccata, Augustine era stato inondato all’improvviso da un sentimento di malinconia, come se all’interno vi avesse percepito davvero qualcosa di caro e irrimediabilmente perduto per sempre. Era sprofondato in un pianto atroce e inconsolabile senza riuscire a trattenersi. Per il resto della funzione non aveva proferito parola, né una preghiera, paralizzato com’era da quel malessere. Una volta rientrato a casa, aveva guardato Elisio con gli occhi stanchi e provati. Si erano abbracciati in silenzio e avevano pianto assieme.
 
 
   Un giorno Augustine chiese ad Elisio di chi fosse il corpo.
   «Quel corpo è il mio», aveva risposto.
   Non ne fecero più parola.
 
 
 
 
   Elisio da allora ha sempre cercato di sovrapporsi al suo doppio, di limare ogni differenza e cancellare qualsiasi legame col suo vecchio passato, l’evidenza delle sue azioni: è questo che ancora pensa adesso, davanti alla lapide bianca su cui tuttavia sa riconoscere il proprio nome. Unirsi ad Augustine la notte prima sarebbe equivalso a sanare finalmente quella frattura dolorosa tra i loro destini. Eppure, forse, per quanto ci si sforzi di reprimere e soffocare sé stessi, non ci si può mai abbandonare del tutto. Tanto vale prenderne atto e sopravvivere al ricordo di ciò che si era un tempo.
   Con un sospiro stanco, Elisio si allontana, accompagnato da Absol ormai sua ombra e compagno. Ricordandosi per un ultimo istante dell’altro sé stesso, gli verrebbe da chiedergli se il suo Augustine abbia mai indossato un fiocco bianco nei capelli. Ma ogni domanda sarebbe vana, e allora tutto tace nel pallore vacuo e muto della pietra e della neve.


 

 
~ ~



La questione degli erranti introdotta tra i remake di terza generazione e i giochi di settima mi ha sempre affascinato molto, sebbene Game Freak non l'abbia più approfondita a dovere, probabilmente perché insieme all'esistenza di un multiverso è un elemento piuttosto complicato da gestire. Anch'io ho avuto parecchie difficoltà con la stesura di questa storia, ma in ogni caso ce l'ho messa tutta e spero che possa esservi piaciuta! Non era esattamente la trama più semplice da sviluppare, e probabilmente è la cosa più malsana e contorta che abbia mai scritto su questa coppia, ma era talmente interessante che non potevo tirarmi indietro. Da un lato il contesto è descritto in maniera più realistica rispetto al carattere fantastico/metaforico che gestisco di solito e forse il dubbio più grande che mi lascia questa storia è proprio il fatto se i due aspetti stonino assieme. Cosmog ha indubbiamente tutti i caratteri di un deus ex machina, me ne rendo conto, tuttavia anche nei giochi il funzionamento di apertura dei portali appare del tutto casuale.
Mi ha ispirato moltissimo la visione del film
Lo studente di Praga, sia la versione originale del 1913 che il remake del 1926: volevo omaggiare entrambi in qualche modo riprendendone alcuni elementi, tra cui sicuramente la scena del balcone.
Sono davvero felice di aver concluso questa storia ♥
Prima di chiudere vorrei mandare un ringraziamento speciale a Nick Wilde, Barbra e Afaneia per i commenti appassionati alla prima parte, di nuovo a Nick Wilde per aver messo la storia tra le preferite, e infine ad Akame28 e flakes per averla aggiunta alle seguite. Ringrazio comunque tutti quanti di cuore per essere passati a leggere: spero che possa avervi incuriositi!

Un abbraccio ♥
Persej



 
  
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