Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
Segui la storia  |       
Autore: Ackerbitch    27/11/2019    0 recensioni
COMPLETA
ModernAU - MiniLong /// EreRi-RiRen
"Credo che tutti siamo bersaglio di una componente di sistemi infinitamente più grande di noi, che non siamo altro che piccoli e insignificanti ammassi di carbonio organico agli occhi dell'Universo. Siamo sottoposti alle sue leggi e invischiati nei suoi meccanismi, vittime della ruota della sua casualità, spaventosa e ingiusta. E lo sa cosa rende questa cosa ancora più spaventosa? Il fatto che siamo esonerati da niente, anche se tendiamo a conferirci una sorta di immunità di fronte alle eventualità negative che sappiamo esistere, ma che non associamo mai a noi e alla nostra vita. Forse lo facciamo per rendere l'esistenza un po' più sopportabile, o forse perché l'animo umano è animato da un disgustoso senso dell'ottimismo e tende a lasciare fuori dal proprio campo visivo e dalla propria concezione stessa tutto ciò che non è oggettivamente considerabile come positivo. Quello che voglio dire, è che non sappiamo mai come la ruota girerà. Adesso ci sei, fra cinque minuti non si sa. Ora stai bene, ma fra tre giorni potresti essere in un letto d'ospedale e combattere fra la vita e la morte [...]"
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eren Jaeger, Hanji Zoe, Isabel Magnolia, Kuchel Ackerman, Levi Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Legge due – Corrispondenza
 
“Come sarebbe a dire che non hai intenzione di continuare ad andare in terapia?”
 
“Non c’è bisogno che te lo ripeta un’altra volta, quattr’occhi di merda: hai capito perfettamente. Non torno in quel posto neanche sotto tortura. E non tentare di convincermi, che questa volta non attacca.”
 
“Ma Levi… Ne hai-”
 
Interruppe il discorso dell’amica con un gesto di stizza della mano e facendo schioccare la lingua contro il palato per l’esasperazione. Continuò a destreggiarsi a passo veloce fra i corridoi fitti di aule, Hanji alle calcagna. Il suo sguardo nocciola pareva fuoco liquido e denso sulla pelle chiara del corvino.
 
“Ne hai bisogn-”
 
“Stronzate!”
 
Sbottò, attirando un paio di sguardi curiosi; Hanji si fece piccola di fronte alla voce autoritaria e velenosa dell’amico e abbassò il capo quando venne bruciata dal suo sguardo in fiamme. Se Levi si impuntava su qualcosa, sapeva essere davvero irremovibile; ciò non toglieva però che alla castana si stringesse il cuore nel vederlo gettare via i suoi anni migliori per nascondersi all’interno di una gabbia dorata di cui aveva egli stesso gettato la chiave. Il corvino non viveva; sopravviveva, portando avanti un’esistenza vuota e respirandone i fumi neri e densi, intossicanti di paura e presagio. Lo paralizzavano, contaminavano ogni singola fibra del suo essere della sola colpa di essere nato, di essere vivo e avvolto da un corpo tiepido per il sangue caldo che gli scorreva nelle vene.
 
Si privava di troppo, di tutto. Per paura, per senso di colpa, per terrore, per svogliatezza di affrontare il mondo che tanto si ostinava a non voler guardare e ad ovattare sotto le solite cuffiette infilate nelle orecchie e i cappucci delle sue felpe calati sul volto e sugli occhi. Erano anni, quattro per l’esattezza, che andava avanti così. Non che prima della morte di Isabel, Levi potesse essere definito la persona più affabile e gentile del che conoscesse, ma era comunque… Diverso. Non aveva mai amato il contatto umano, eppure non lo ripudiava; ed erano belle le uscite che Hanji condivideva con lui, Petra ed Erwin, serate che ormai sembravano appartenere ad un tempo passato, quasi fossero troppo lontane nel tempo e avvolte da una patina sbiadita dalla consistenza quasi onirica. Un tempo in cui Levi sorrideva.
 
Labbra piegate appena all’insù in maniera quasi impercettibile per essere notata; i muscoli d’espressione del suo viso che si rilassavano e la tempesta nelle iridi che si spegneva, per lasciare posto a delle sfumature cristalline dal sapore di spensieratezza. Non erano sorrisi veri e propri quelli del corvino, ma erano tanto rari quanto inestimabili, sentiti nella loro vera essenza. Quanto tempo era, che quella bufera senza precedenti imperversava negli occhi di Levi? Da quanto tempo si impediva di provare di nuovo quella sensazione che rendeva gli animi leggeri, quella felicità che accendeva? E se non fosse stato per lei, a quell’ora l’amico sarebbe stato completamente solo.
 
Levi le scoccò un’occhiataccia che fece male, male da straziarle l’anima e annodarle lo stomaco dell’ennesimo rifiuto di farsi aiutare. Aveva tentato di convincerlo fino a far diventare una vera e propria missione quella di fargli mettere piede nello studio di uno psichiatra, arrivando ad assillarlo giorno e notte a tal punto che Levi aveva ceduto, pur di farle tenere la bocca chiusa. Mesi e mesi interi di tentativi e quando aveva appena ottenuto la sua piccola conquista, era stata nuovamente gettata nel baratro e diretta al punto di partenza.
 
La dilaniava vederlo consumarsi piano, essere muta testimone del pallore sempre più etereo della sua pelle, dei cerchi violacei sotto gli occhi argentei che ogni giorno scopriva più pronunciati e che gli conferivano un’aria malsana, monito dei suoi sonni tormentati da incubi di demoni e vita reale. Era straziante accorgersi del suo corpo minuto che pareva farsi sempre più fragile; scompariva all’interno di quelle felpe nere che indossava, diventando una macchia d’oscurità per contrastare la luce del giorno.
 
Giorno era vita, era calore, era Sole ed i suoi raggi tiepidi: tutte cose che Levi non si meritava, non quando lei non poteva goderne al suo fianco. Che senso aveva creare legami, se quelle stesse amicizie sarebbero servite soltanto a far soffrire, una volta che il ciclo della vita sarebbe giunto al suo termine ultimo? Li aveva visti gli occhi degli amici di sua sorella, lo aveva annientato la disperazione che aveva letto nelle iridi di Farlan, e quelle lacrime fatte d’agonia e sale gli erano parsa la cosa più ingiusta e atroce che potesse solcare il volto di ragazzini di quell’età. Avrebbero dovuto indossare espressioni gioiose, sorrisi smaglianti e sguardi ridenti, non l’ombra cupa con cui la morte gli aveva fatto assaggiare il filo tagliente della propria falce e avvertire nell’animo lo stesso freddo della tomba che avrebbe accolto Isabel.
 
Era tutto relativo, senza criterio alcuno. Il mondo andava avanti così, fatto di cicli che non tenevano conto di niente e nessuno, perpetui e beffardi. Nulla pareva avere senso, se alla fine il tempo avrebbe ripagato tutti allo stesso modo, richiamando la polvere alla polvere. Allora perché esporsi tanto, perché rischiare, perché creare qualcosa di destinato ad essere distrutto? Legami e beni materiali non avevano posto nel legno spesso della bara, non erano qualcosa che l’oltretomba – ammesso e concesso che ce ne fosse uno– avesse premura di conservare.
 
Levi andava avanti con la macabra consapevolezza che un giorno avrebbe cessato di esistere con una semplicità disarmante, che ogni respiro poteva essere l’ultimo. Eppure, il nulla assoluto che lo avrebbe accolto dall’altra parte era molto meno spaventoso di quello che si sarebbe lasciato alle spalle. Limitare i danni, così chiamava quel suo essere sempre scostante e schivo, il rifiuto per qualunque forma di contatto; voleva meno persone possibili al suo funerale, voleva permettersi di abbracciare il freddo della morte sapendo che nessuno avrebbe pianto la sua assenza e martoriato la foto sulla sua lapide fino a consumarla di sguardi, con l’anima ridotta in brandelli troppo piccoli e slabbrati per essere cuciti di nuovo assieme.
 
Niente rapporti, niente amici –eccetto la squinternata, con gli anni aveva fatto pace col fatto che di lei non si sarebbe liberato neanche se l’avesse presa a calci nel culo - e niente attività sociali: lezione in università per cinque ore al giorno, poi con la schiena china sui libri, a casa o in biblioteca. La solita routine che si ripeteva, imperturbabile e incurante proprio come i cicli dell’Universo, così perfetta e scandita da risultare quasi perfetta. C’era un che di stranamente e profondamente soddisfacente nell’esercitare quel tipo di controllo sulle sue azioni, di pianificare giornate, mesi e anni in maniera quasi maniacale, riempendo le righe delle numerose agende che possedeva con la sua grafia pulita e nitida. Studio e lezione, lezione e studio, intervallati da buona musica e da qualche ottima lettura nel poco tempo libero che gli rimaneva. Non usciva mai di casa per sua spontanea volontà anche semplicemente per fare quattro passi disinteressati e senza meta; se abbandonava quelle quattro mura, lo faceva o per necessità o perché sua madre gli chiedeva di accompagnarla da qualche parte. Lui non prendeva mai iniziative con il mondo esterno.
 
Gettò un rapido sguardo al suo orologio da polso, infastidito dal modo in cui la castana dischiudeva appena le labbra come a voler parlare, per poi serrarle in una linea dritta l’istante dopo. Che seccatura…!
 
“Le mie lezioni inizieranno fra dieci minuti, vado in aula. Ci vediamo.”
 
Non le diede neanche il tempo di salutare, troppo irritato per sopportare anche solo un “ciao” oppure le scuse gentili che Hanji si ostinava a rifilargli anche quando quello a doversi scusare era lui. La osservò allontanarsi a capo chino con un’espressione mesta in volto, che tentò di camuffare fra le ciocche disordinate che sfuggivano alla sua classica coda di cavallo. Più di qualche spillo gli punse il petto a quella vista, ma tentò di ignorare quella sensazione sgradevole e di lenirla portando la mano a massaggiare delicatamente all’altezza del cuore. L’amica salì le scale, diretta forse in uno di quei laboratori pieni di batteri disgustosi e chissà quali altre diavolerie che diedero il voltastomaco al corvino al solo pensiero.
 
La Shiganshina University era un grosso polo di studio e ricerca che abbracciava tutte le discipline scientifiche e ne permetteva l’intercomunicazione, per questo si trovava ogni giorno la quattr’occhi al piano superiore. Hanji viveva per la complessità della biologia, per quelle regolazioni chimiche precise e complesse, invisibili ma così perfettamente orchestrate da essere capaci di muovere un organismo e di farlo funzionare a regime, donandogli il miracolo – o la maledizione, secondo Levi, ma quello era un suo misero ed insignificante punto di vista– della vita.
 
Il corvino pensava a quanto avesse sempre trovato simili i loro corsi di studi e le loro aspirazioni, mentre camminava a capo chino e a passo svelto verso la propria aula, così diversi eppure uniti da un filo conduttore sottilissimo e comune. Infinitamente grande e infinitamente piccolo nelle loro leggi e definizioni, nelle loro regolazioni tanto complicate quanto affascinanti. Spinse il maniglione antipanico della grossa porta grigia esalando un sospiro, e si diresse verso il suo solito posto stringendosi nel giaccone in pelle e tentando di passare inosservato al mondo intero come fosse un’ombra nella notte.
 
Ormai, i suoi compagni di corso nemmeno si degnavano più di gettargli occhiate incuriosite come accadeva quando era solo una matricola; erano pochi – una trentina, in totale – a frequentare il suo anno, e tutti si conoscevano. Eppure, sebbene Levi avesse memoria dei volti della maggior parte dei suoi colleghi e ad alcuni di questi fosse in grado di associare anche un nome, era sicuro di non essere mai stato realmente visto. Andava bene così, in fondo era quello che voleva.
 
Si sedeva sempre da solo in una delle ultime file, senza timore che qualche altro studente potesse prendere posto vicino a lui o tentare di socializzare. Sembravano tutti paralizzati da una sorta di timore reverenziale nei suoi confronti, e fra quelle quattro mura ingiallite aleggiava la regola silente di non disturbare quello strambo ragazzo che evitava tutti e tutto come fosse una sorta di essere mistico, qualcosa di troppo superiore per mischiarsi con il sudiciume della quotidianità. Levi Ackerman era quello strambo e asociale, quello solitario che tutti evitavano.
 
E decisamente non era troppo; lui era troppo poco.
 
Il corvino si sedette, intento ad ignorare la vita attorno a lui e le risate concitate dei suoi coetanei. Tirò fuori dallo zaino il suo fidato portatile – compagno di appunti trascritti con una precisione maniacale- e recuperò il file della lezione precedente per un ripasso veloce; tentò di silenziare il mondo immergendosi negli ingranaggi che muovevano le galassie, per questo lo spiazzò la naturalezza con cui vide con la coda dell’occhio un ragazzo camminare nella sua direzione.
 
Era alto, forse troppo; doveva sicuramente superarlo di una quindicina di centimetri abbondante. I suoi capelli erano tenuti legati all’altezza della nuca da una specie di codino disordinato, da cui sfuggivano alcune ciocche che baciavano appena la fronte; l’incarnato aveva lo stesso colore brunito e dolce del caramello, il volto dai tratti mascolini era un insieme di lineamenti armonici che definivano la mascella pronunciata e gli zigomi alti, delicati. Le labbra erano piene e carnose, perfettamente rosee.
 
Si avvicinò ancora e poggiò – anzi, lanciò - con poca grazia il suo zaino di tela rossa e imbrattata di scritte sul banco adiacente a quello di Levi; il corvino si irrigidì, e per un attimo gli parve di essere preda di qualche allucinazione. Nessuno gli si avvicinava in quel modo così sicuro e spavaldo da anni; l’aura scura che pareva emanare era diventata col tempo un ottimo repellente per qualunque tipo di contatto o confidenza.
 
Si voltò, deciso ad incenerirlo con un’occhiataccia torva se solo avesse provato a sedersi accanto a lui. Si trovò spiazzato quando il suo sguardo si posò su un sorriso talmente luminoso da far impallidire il Sole stesso a distendere i lineamenti di quel bel volto, impreziosito da un paio di occhi che lo lasciarono destabilizzato.
 
Verde intenso di prezioso smeraldo screziato da un azzurro marino, un gioco di colori così unici e particolari che il corvino non credeva che la natura fosse in grado persino di concepire. E quei giochi di luce erano pagliuzze dorate o solo frutto della sua immaginazione?
 
“Ehi, ciao. Sono Eren.”
 
La voce del ragazzo era miele colato, eppure Levi la trovò la cosa più irritante del Cosmo, al pari di uno stridore capace di far tremare e stringere i denti. Quel tizio - Eren, a quanto pareva – aveva appena fatto breccia nella sua bolla di solitudine, rotto la sua quotidianità fatta di un eterno e silenzioso camuffarsi fra le ombre per non essere notato. E nonostante distolse lo sguardo da quegli occhi impossibili nel primo istante in cui quelle parole lasciarono le labbra piene del castano, fu sicuro che stringersi un po’ di più nella sua giacca di pelle, nel misero tentativo di farla diventare uno scudo dalla realtà e di scomparirvi all’interno, non ebbe alcun effetto. Bruciava, quel verde impossibile su di lui.
 
Lo ignorò, così come finse di non sentire risuonargli cupo nei timpani il rombo profondo del silenzio che li avvolse e in cui tentò di annegare; lo ignorò nello stesso modo in cui tentava di cancellare l’imprevedibilità, compagna di spiacevoli imprevisti. Non si fece prendere dal panico; uno sconosciuto gli aveva rivolto la parola – era più unico che raro che accadesse, ma comunque non impossibile – e come tutti gli altri malcapitati che avevano avuto la sfortuna di incrociare lo sguardo di Levi, avrebbe dovuto vedersela con l’indifferenza. Eren non avrebbe ottenuto una risposta, né una presentazione e neppure un insulto; solo cinica e fredda indifferenza nella sua semplice crudezza. Sarebbe stato sicuramente scalfito nel suo orgoglio e indispettito dal non ricevere una risposta e lo avrebbe lasciato stare, probabilmente considerandolo un gran maleducato. Era quello che facevano tutti, e a Levi non importava.
 
Eppure, la sua pelle non smise di bruciare lì dove sentiva quello sguardo di prezioso smeraldo puntato addosso, così come quella sensazione di essere stranamente esposto e vulnerabile non gli abbandonò l’anima. Lo sentì muoversi accanto a lui, ma non si azzardò a lanciare un’occhiata nella sua direzione neanche con la coda dell’occhio; probabilmente stava raccattando le sue cose per andarsene. Il cuore gli mancò uno, due battiti quando quella voce melliflua gli carezzò di nuovo le orecchie con uno stridore che parve rimbombargli nella cassa toracica.
 
“Ciao Eren, mi fa tanto piacere conoscerti.”
 
Quel moccioso arrogante gli aveva appena fatto il verso. Si voltò di scatto, percependo la sua solita espressione insondabile incrinarsi di incredulità e paura. Non andava bene, Eren non andava bene.
 
Non andava bene che si fosse seduto e che si stesse togliendo svogliatamente la grossa sciarpa bordeaux che gli avvolgeva il collo, non andava bene il fatto che avesse tirato fuori un bloc-notes piuttosto malmesso e una penna dal cappuccio disgustosamente rosicchiato e li avesse poggiati sul banco. Non andava bene che l’indifferenza di Levi non gli avesse fatto niente, perché quello lo rendeva davvero imprevedibile. Un comportamento fuori dagli schemi, diverso quello scialbo della maggior parte delle persone. Pareva addirittura divertito dal corvino e dai suoi modi di fare schivi e bruschi.
 
Eren dovette in qualche modo riuscire a percepire il tumulto di emozioni – allarme, paura, ansia – che scossero il petto del ragazzo, perché il suo sguardo si addolcì. E Levi odiò il non riuscire a trovare neanche una minima traccia d’indignazione su quel volto.
 
“Mi piacerebbe sapere il vostro nome, di grazia, se questo non le reca disturbo.”
 
Non andava bene, non andava bene, non andava bene. Facevano lezione in un’aula con una capienza di cento persone ed erano a malapena in trenta: proprio vicino a lui doveva sedersi, di tanta gente che poteva andare ad importunare col suo squallido sarcasmo? Levi percepì le sue labbra secche dischiudersi appena in sorpresa a quella replica, mentre forse per la prima volta lo osservava davvero. Non si ricordava di averlo visto altre volte a lezione, ma in ogni caso non aveva mai prestato particolare attenzione ai suoi colleghi.
 
Aveva minato alla sua routine fatta di solitudine e silenzio, era diventato una variabile che non era riuscito a gestire e ad eliminare al primo tentativo e che gli aveva già causato più di qualche imprevisto in meno di due minuti. Gli aveva fatto galoppare cuore in petto fino a sentirlo chiudergli la gola per l’ansia, gli aveva impedito di riguardare gli appunti della lezione precedente, lo aveva destabilizzato così profondamente da spaventarlo. E probabilmente agli occhi di tutti quel tentativo di approccio sarebbe stato del tutto normale, ma per Levi era tossico, velenoso, proibito. Se Eren cercava compagnia, doveva trovarla in qualcun altro. Il corvino invece doveva soltanto usare le maniere forti per scollarselo di torno e assicurarsi che non tentasse nuovamente di iniziare una conversazione. Si costrinse a parlare, scoprendo la bocca e la gola talmente secche da far quasi male.
 
“Non t’interessa, moccioso. E a me invece non interessa fare una chiacchierata né con te né con qualcun altro, quindi smamma.”
 
Era pronto a sentirsi sibilare più di qualche insulto, a vedere quegli occhi spegnersi di rassegnazione e caricarsi di rabbia, così come si aspettava che un cipiglio indispettito comparisse sul viso armonico di Eren. Non si aspettava di udire il suono cristallino e melodioso della sua risata, – Dio, se lo odiava!- di vederlo coprirsi le labbra piene col dorso della mano per tentare di camuffare il divertimento che Levi vide riflesso nelle sue iridi smeraldine. Non ebbe neanche il tempo di metabolizzare lo sbigottimento per quella reazione che il castano lo sorprese ancora. Si portò una mano al petto con fare teatrale, e parlò con una smorfia giocosa in volto.
 
“Oh, così mi ferisci!”
 
Quel tono scherzoso e divertito gli diede alla testa. Lo aveva ignorato e trattato male, eppure non aveva ottenuto l’odio e il risentimento che si aspettava, a cui anelava con tutto sé stesso. Non andava bene, doveva allontanarsi; quel ragazzo era una minaccia.
 
Un sorriso sornione indugiava ancora sulle labbra rosee e piene del ragazzo quando Levi raccolse velocemente le sue cose e le infilò alla rinfusa nello zaino, tentando di scacciare la sensazione di panico che già gli attanagliava le viscere. Si diresse a passi veloci dall’altro lato dell’aula, intenzionato a mettere quanta più distanza possibile fra lui ed Eren e a scollarsi quella sensazione di disagio di dosso. Raggiunse il posto più lontano e scaraventò le sue cose poco vicino, sedendosi col cuore che gli martellava ritmico e pesante nelle orecchie e tentando di regolarizzare il suo respiro accelerato. Doveva riprendere il controllo del suo corpo e del mondo prima che l’ansia l’avrebbe consumato e inghiottito vivo fra le sue spire viscide; aveva dato il suo ultimatum a quel moccioso, e quello sarebbe sicuramente bastato a scollarselo di dosso. Tuttavia, pessimo modo di concludere la settimana universitaria e di iniziare il week-end.
 
Non appena alzò lo sguardo dalle mani chiuse a pugno che teneva poggiate sulle ginocchia, il grigio lunare delle sue iridi non si scontò con il bianco sporco e ingiallito delle pareti dell’aula come si era aspettato. La sua anima tremò alla vista di quel maglione blu che gli chiudeva la visuale, e risalì con lo sguardo sul corpo del proprietario per rimanere invischiato nel colore assurdo degli occhi di Eren, che se ne stava piedi davanti a lui ostentando una nonchalance che lo fece rabbrividire. Sentì il proprio sangue ghiacciarsi nelle vene e gli sembrò che l’intero Universo gli puntasse improvvisamente il dito contro.
 
No. No, no, no. Non va bene.
 
Le sue mani grandi e delicate erano strette appena attorno al rivestimento in pelle nera della sua agenda personale, e il suo sguardo curioso aveva un che di prepotente quando la aprì sulla prima pagina davanti a lui, mentre continuava a gettargli dall’alto occhiate divertite.
 
“Beh, Levi Ackerman…. Piacere di conoscerti.”
 
Qualcosa dentro di Levi gridò, e dovette fare appello alle misere e insignificanti briciole del suo autocontrollo per tentare di mantenere la sua solita espressione algida e impassibile. Tutto gli urlava di scappare, di fuggire da quelle iridi assurde e da quella insistenza, da quell’imprevedibilità che lo faceva star male e gli annodava lo stomaco.
 
Era pericolo il modo in cui prese nuovamente posto accanto a lui, era pericolo la sua tranquillità, il suo essere così spontaneo, il modo in cui gli porse l’agenda e il suo zaino - che doveva aver raccolto da terra, Levi non se ne era accorto- con un sorriso sghembo che gli piegava un angolo della bocca. Il corvino si riscoprì a guardarlo con gli occhi sgranati e ad ingoiare a vuoto un paio di volte.
 
Avevano il sapore della sfida quelle iridi impossibili, il colore della determinazione e della spensieratezza. Fu tentato di schiaffeggiare via la mano che tendeva il taccuino verso di lui, ma avvertì le membra assumere improvvisamente la stessa consistenza del piombo, farsi troppo rigide e pesanti. Rimase con il panico e la vulnerabilità cuciti sulla pelle, con un presagio viscido a infestargli l’anima. Si impedì di distogliere lo sguardo come gli comandava ogni fibra del corpo quando prese di nuovo parola, cercando di camuffare l’ansia che sentiva montargli in petto e chiudergli la gola usando tono minaccioso e rifilandogli uno sguardo gelido. Era sempre stato particolarmente capace nella sottile arte di nascondere le proprie emozioni.
 
“Che cazzo vuoi ancora? Mi pare di averti detto che voglio essere lasciato in pace.”
 
La scintilla di spavalderia che baluginava convinta negli occhi di Eren parve spegnersi alle sue parole brusche, affievolirsi per lasciare posto ad un qualcosa di affine alla timidezza e all’indecisione.
 
“È che ti vedo sempre solo… Studio Fisica e dovevo scegliere un esame opzionale da mettere nel piano di studi e Dinamica dei Sistemi Stellari mi attirava. Seguo da poco, ma ti vedo sempre sedere da solo e stare in disparte, quindi ho pensat-”
 
“Beh, hai pensato male!”
 
Neanche quando Levi sbottò quel ghigno impertinente abbandonò la bella bocca dell’altro, che continuava a scrutarlo divertito da sotto le lunghe ciglia nere. Mormorò soltanto un “che scorbutico!” con tono canzonatorio e rivolgendo quelle gemme preziose al cielo, prima di tornare ad incastrarle nelle pozze lunari di Levi nel tentativo di affogarle nel loro verde impossibile.
 
Pareva essere fatto di luce nella sua vera e più pura essenza mentre rispondeva alle sue provocazioni con la calma e col sorriso, neanche un accenno di irritazione o stizza sul volto. Levi lanciò un’occhiata veloce al suo orologio da polso, maledicendo i minuti che lo separavano dall’inizio della lezione. Non conosceva Eren neanche da cinque minuti e già lo detestava di un odio amaro e marcio. Era confusionario, caotico, imprevedibile; ed era proprio quella stessa imprevedibilità a portare a nulla di buono. Odiava il suo corpo tonico, gli faceva ribollire il sangue il fatto che fosse più alto di lui, ce l’aveva a morte con quel suo essere intraprendente e con quelle labbra dai bordi sempre piegati all’insù.
 
Sembrava che niente potesse scalfirlo, neanche le leggi dell’Universo che spaventavano tanto Levi. Il castano era padrone del suo mondo e della sua dimensione, un perfetto burattinaio che manovrava le sue emozioni in un’armonia che pareva trasudare e infondere positività soltanto per la sua presenza. Lo disgustava a tal punto che sentì il sapore amaro della bile mordergli lingua e palato.
 
Strattonò via il suo zaino e l’agenda dalle mani di Eren in maniera forse un po’ troppo brusca e violenta, ma non se ne curò. Tutto quello che gli importava era fare in modo che il ragazzo ricambiasse il proprio odio, che Levi sentiva nascere da quello che doveva essere un istinto di protezione primordiale che teneva ben saldato all’anima.
 
Fermo, non ti avvicinare. Stammi lontano, sei pericoloso.
 
Il castano non parlò, si limitò a rivolgere l’attenzione al suo orribile e disordinatissimo bloc-notes dai margini consumati e spiegazzati e il corvino tirò un sospiro di sollievo, rilassando di poco i muscoli delle spalle e della schiena, così terribilmente contratti da dolere. Attese l’ingresso del professore con la stessa ansia frenetica di un bambino che attende la mezzanotte a Natale per fiondarsi sui doni, raggiungendo il suo pc all’interno dello zaino e portandolo sul banco. Cercò di sembrare il più impegnato possibile, di assumere un’espressione di concentrazione per far desistere Eren dal rivolgergli nuovamente la parola.
 
Non seguiva i classici schemi comportamentali delle persone che a Levi erano sempre sembrati quasi degli sterili pattern matematici, qualcosa di comune a tutti e di insito nell’uomo in quanto tale. Era spontaneo, pareva svincolato da qualunque legge e teoria, libero di una libertà che tanto sapeva di proibito, di felicità, di pericolo; era tutto quello che Levi temeva di più al mondo, tutto quello che lui non era e che non sarebbe mai stato.
 
Volare così alto, librarsi nei cieli tersi della spensieratezza, portava ad un unico e inevitabile risultato: cadere rovinosamente al suolo, frantumarsi le ossa e l’anima per aver peccato di osare tanto, uscirne talmente devastato da essere ridotto in pezzi così piccoli da non poter essere più incollati insieme. E assaporare il gusto dolce della gioia per poi venirne privato all’improvviso, era considerabile il castigo più crudo che l’uomo potesse infliggere nei confronti di sé stesso. Non valeva la pena soffrire, non dopo aver scoperto quanto fosse bello stare bene ed aver sentito tutto attorno farsi leggero, aver visto ogni colore brillare. Lo stesso dolore avrebbe fatto male cento, mille volte tanto se preceduto da quell’assaggio proibito di felicità.
 
Era per quello che Levi non osava. Non sfidava i Cieli, ma sottostava alle sue leggi a testa bassa, senza obiezioni seppur tentasse di eluderle. Era giusto che fosse così, non poteva essere altrimenti, non per lui.
 
Aveva appena tirato un sonoro sospiro di sollievo all’entrata del professore – un uomo dalle incipienti calvizie e basso e tarchiato, con un viso talmente buffo e ambiguo che la sua età sarebbe probabilmente rimasta per sempre un mistero – ma non era ancora riuscito a scrollarsi di dosso quella sensazione di disagio che gli indugiava addosso. La sentiva fra i capelli, dove ere sicuro che si fosse soffermato lo sguardo di Eren, poi l’aveva sentita percorrere il suo corpo con un lungo brivido che lo fece fremere; poi ancora, la pelle esposta e pallida del suo volto stanco era tornata a bruciare.
 
Benedì l’istante in cui il docente prese il microfono per augurare un buongiorno all’aula, e mai la sua voce stridula e cantilenante, -che di norma lo infiammava dell’impulso di strapparsi i timpani a mani nude- gli era sembrata più gradita. Era finita, ce l’aveva fatta. Il moccioso lo avrebbe lasciato in pace, si sarebbe dimenticato del tizio scorbutico e solitario che lo aveva insultato e trattato male e alla lezione successiva avrebbe cercato qualcuno di più affabile – e Levi era sicuro che ne avrebbe trovata di gente disposta ad accoglierlo, fra quei caciaroni dei suoi compagni di corso - con cui stringere amicizia. E lui sarebbe stato soltanto un’ombra sbiadita nei suoi ricordi, una macchia di nero inchiostro dai contorni indefiniti, piccola e perfettamente trascurabile.
 
Sbuffò appena quando il professore annunciò che avrebbe fatto delle domande sugli argomenti della lezione precedente; la tensione che sentì rendere l’aria elettrica e il brusio sommesso del chiacchiericcio che cessò di colpo lo catapultarono indietro nel tempo, agli anni delle medie e del liceo. Da quando i professori universitari interrogavano?
 
Era intento a far scorrere forsennatamente le dita sui tasti del suo portatile per trascrivere la domanda appena rivolta ad uno dei suoi poveri compagni malcapitati, quando qualcosa di piccolo gli piombò veloce sulla tastiera. E per la seconda volta nella giornata pensò di avere le allucinazioni quando il suo sguardo si posò su una di quelle disgustose gelèe alla frutta, dalla consistenza molliccia e completamente ricoperte di zucchero. Si girò di scatto nella direzione di Eren, fulminandolo con gli occhi mentre scartava un’altra caramella e se la ficcava fra le labbra, il cuore che era tornato a martellargli in petto quasi volesse sfondargli la cassa toracica.
 
“Sempre a sbuffare stai! Mangiala, che magari ti addolcisci un po’…!”
 
Era troppo, era dannatamente troppo. Troppo sfrontato, troppo imprevedibile, troppo calmo. Erano troppo luminosi i suoi sorrisi, troppo verdi i suoi occhi, troppa l’ansia che di nuovo tornava a farsi sentire. Gli gettò la gelèe addosso – e fu proprio una sfortuna il non colpirlo in un occhio – e lo vide prenderla al volo e liberarla velocemente dell’involucro, per poi cacciarsela in bocca alzando di poco le spalle, per nulla scalfito dal suo gesto.
 
E fu allora che Levi arrivò alla conclusione che Eren fosse come l’Universo. Andava avanti con una cinica e fredda noncuranza, del tutto indifferente a quello che accadeva attorno a lui; niente lo intaccava. Non desisteva davanti agli insulti, il suo sguardo non si accendeva d’ira davanti ai modi bruschi del corvino. Rimaneva immutato quasi fosse perfettamente incorruttibile, fatto di una sostanza troppo pura e resiliente per piegarsi sotto il peso di piccolezze del genere. Seguiva la stessa dialettica del Cosmo, fatta di beffardo menefreghismo.
 
E non c’era scenario peggiore per Levi, neanche nelle truci visioni oniriche che accompagnavano le sue notti insonni, della manifestazione dell’Universo stesso in un corpo umano, quasi il Cielo si stesse prendendo nuovamente gioco di lui. Si sentì scoperto, messo a nudo, incapace di nascondersi dalla vita e dal suo perpetuarsi; non importava quanto avesse tentato di passare inosservato, di ovattare i suoni e i colori della realtà con un paio di cuffiette ed un cappuccio calato sul volto stanco: era stato trovato.
 
Non seppe neanche lui come si sentì quando quella realizzazione gli carezzò i pensieri, spinosa. Avvertì l’esistenza pesargli nel petto e ancorarlo alla realtà, invadergli l’anima con un tumulto di emozioni intermittenti e dalla stessa forza distruttiva di uno tsunami. Lo inondarono dall’interno, investirono ogni singola fibra del suo corpo per farla tremare; poi quell’onda si ritirò all’improvviso, lasciando dietro di sé devastazione ed un glaciale sentimento di vuoto cronico.
 
Il sapore della sconfitta era lo stesso del sale sulla terra bruciata, aveva lo stesso colore nerastro della sua anima. La rassegnazione lo avvolse nelle sue spire strette, facendolo soffocare e sfocandogli la vista umida.
 
“Sta zitto, taci, non parlare. Non rivolgermi la parola, stammi lontano.”
 
E al suono della sua voce fioca e appena udibile gli parve di sentire il rombo di trionfo dei Cieli.
 
________
 
Alla fine aveva almeno avuto la fortuna di non essere il destinatario di una di quelle improbabili domande a sorpresa; Eren invece era stato chiamato, e di certo non si poteva dire che non sapesse il fatto suo. Era stato breve e conciso nella sua risposta, e perfino il professore, da sempre scarso con i compimenti, si trovò a tessere le sue lodi. In cambio, il ragazzo si guadagnò più di qualche occhiata inviperita e colma d’invidia da parte degli altri studenti. Tutta quella folle competizione fra compagni di corso, che pareva spingerli a gareggiare per il voto più alto e per le attenzioni dei docenti neanche fossero alle Olimpiadi a contendersi l’oro, Levi non l’aveva mai capita.
 
Eren non gli aveva più parlato, ma non per quello il senso nauseabondo di vulnerabilità gli si era scucito dalla pelle. Gli era pure parso di coglierlo a scoccargli un’occhiata preoccupata, ma non ne era sicuro; non avrebbe rivolto lo sguardo nella sua direzione neanche se lo avessero pagato. Quel moccioso sembrava essere fatto della stessa viscida consistenza dei suoi incubi, doveva liberarsi di lui a tutti i costi. Non erano ammessi fallimenti.
 
Eppure, nonostante lo avesse ignorato per quelle cinque ore che lo privarono di ogni briciolo di energia in corpo, prima di andare via aveva Eren era comunque riuscito a catturare la sua attenzione e lo aveva salutato con un cenno della mano e un sorriso luminoso a riverberargli nelle iridi di smeraldo.
 
SPAZIO AUTRICE
I miei capitoli stanno diventando eterni e la cosa mi sta sfuggendo di mano, aiuto. Sono troppo lunghi? Fatemi sapere.
 
Ce l'ho fatta ad aggiornare, finalmente! Ho avuto un lungo periodo di meditazione su questa storia (e mi fa ancora meditare, in realtà) per questo ci ho messo un po' a tornare a scrivere. Sento di doverla pensare bene, quindi la aggiornerò a sentimento, diciamo😂 e non vi preoccupate che aggiorno!
Alla prossima!❤️✨
 
 
 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti / Vai alla pagina dell'autore: Ackerbitch