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Autore: Fabio Brusa    28/11/2019    1 recensioni
"Fenrir Greyback è un mostro. Un assassino. Un selvaggio licantropo. Approcciare con cautela."
Quello che il mondo vede è solo il prodotto di ciò che mi è stato fatto.
La paura li ha portati a ritenerci delle bestie, dei pericolosi predatori da abbattere. E la vergogna per non averci aiutati li spinge a tentare di cancellare la mia stessa esistenza.
Forse finirò ad Azkaban. Più probabilmente, qualcuno riuscirà a uccidermi, prima o poi.
Non mi importa.
Non mi importa, fintanto che sopravvivrà la verità su come tutto è iniziato e sulla nostra gente.
Sui crimini del Ministero e sull'omertà di uomini come Albus Silente.
Su come il piccolo H. sia morto e, dalle sue ceneri, sia venuto al mondo Fenrir Greyback.
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GREYBACK segue la storia del famoso mago-licantropo. Attraverso vari stili narrativi, dai ricordi di bambino ad articoli di giornale, dagli avvenimenti post ritorno di Voldemort a memorie del mannaro a Hogwarts, in 50 capitoli le vicende dietro il mistero verranno finalmente portate alla luce.
Genere: Dark, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Fenrir Greyback
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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25/50

***

28 Febbraio 2010

Spinner's End - Cokeworth

Inghilterra

Salvador Arcan salutò con un rispettoso cenno del capo la signora Mallory, chiedendosi se mai fosse possibile che, dietro quel barile di grasso e lentiggini, si celasse un altro Auror in incognito. Sembrava non avesse null'altro da fare se non raccogliere le rape, in particolar modo la domenica. Probabilmente era più sensato estrarle dalla terra alla fine della settimana, invece che all'inizio. Chi vorrebbe mai incappare nella propria fine mentre principia una nuova, piccola, avventura?

Attraversando la strada grigia e sporca, Salvador si affacciò oltre la staccionata dell'orticello.

«Quelle rape sono davvero orripilanti, signora Mallory.» Cercò nel cesto se ce ne fosse almeno una non guasta, senza successo. Le foglie erano verde marcio, mollemente inchinate al gramo destino.

«Cosa vuole che cresca, in una terra così?» rispose la donna con un sorriso obeso. «L'aria è di fumo e nebbia, l'acqua piena di rifiuti. La terra dovrebbe essere diversa?»

«Perché coltivare, allora?» domandò Salvador inarcando le sopracciglia.

«Dovrò pur mangiare. Non crede?»

Da quando si era trasferito a Cokeworth, su espresso e ostinato consiglio di un amico fedele, Salvador aveva lentamente cominciato a percepire la cancerosa mano della prigionia afferrarlo per la collottola. Senza poter più frequentare i vecchi circoli, le vecchie compagnie, stava perdendo di vista il senso di affidarsi completamente al Ministero. "Forse," pensava ogni tanto "e solo forse, quella bestia non aveva tutti i torti". La casa assegnatali era piccola, angusta, costruita con opprimenti e smunti mattoni accatastati l'uno sull'altro, ma secondo il capo dell'Ufficio Auror era un luogo sicuro. Salvador aveva riempito la libreria con ciò che era riuscito a portarsi dalla vita precedente. Ben poca cosa, se paragonata al lustro guadagnato in tanti anni di duro lavoro.

Da quando aveva messo piede nel salottino, uno squittio stridulo si era alzato per accoglierlo. Dietro a una bassa rete di fortuna, che regalava a una famiglia di Purvincoli metà della stanza, proveniva quel richiamo capace di sciogliergli la tensione nel cuore.

«Almeno voi mi riconoscete anche con questa orrenda barba.» Sollevò Jenkin con attenzione: era il suo preferito. L'unico che mostrasse qualche interesse anche dopo essersi riempito la pancia. «Guardami un po' come sono ridotto» disse al Purvincolo eccitato. Quello alzò il musetto e, senza esitare, cominciò a rosicchiargli la punta della barba grigia e arruffata.

Il pomeriggio passò e Salvador si prese cura delle proprie bestiole. Nella dispensa, mezzo pasticcio di zucca stava cambiando colore in un verde inquietante.

«La bottiglia andrà bene» disse fra sé, andando a sistemarsi sulla poltrona. A ogni sorsata non riusciva a far altro che fissarsi le mani, ormai prive di qualsiasi macchia d'inchiostro. Stava maturando l'idea di eliminare gli specchi, in casa. Davano troppo disturbo e lo costringevano a porsi domande ogni volta che incrociava l'uomo che viveva dall'altra parte. Al giornale avevano creduto davvero alla storia della pensione? O forse le inimicizie negli anni erano cresciute abbastanza da far semplicemente alzare le spalle ai colleghi, pronti a voltargli le spalle e a litigarsi i resti dello spazio lasciato vuoto?

Un altro sorso e si sentì stanco. Fissò la bacchetta, abbandonata sul tavolo come una comune posata. "Ho fatto bene" si ripeteva. "Ma non ho idea del prezzo che mi toccherà pagare."

Un nuovo sorso e si addormentò.

Al calar delle tenebre, lo strillo soffocato dei Purvincoli lo svegliò di soprassalto. Le imposte scricchiolavano sotto la spinta bruta del vento: nell'aria c'era l'odore della tempesta. Filtravano sospiri di fantasmi attraverso i passaggi aperti nella vecchia e brutta casa, incapace di tenersi le cose dentro... così come di tenerne altre fuori.

«Salve, Cornelius.» C'era un uomo nella stanza, appoggiato alla libreria, ricurvo sulle pagine aperte di un volume impolverato.

Salvador strofinò gli occhi, indeciso se ancora stesse sognando. «Chi?»

«Suvvia,» rispose l'ombra dalle spalle larghe «non mi prendere per il culo.» Lanciò il libro come fosse spazzatura e il tonfo risvegliò del tutto Salvador.

«Mi chiamo Salvador Arcan. Cosa ci fate in casa mia? Chi siete?»

Il gorgoglio minaccioso dell'uomo, intento a perquisire distrattamente la stanza, mise a Salvador i brividi. Gli rivolgeva la parola, ma agiva come se non ci fosse nessun'altro. Tra le ombre, appariva come un energumeno brutale, animalesco. «Come preferisci, Cornelius. Ma puoi risparmiarti la farsa. Pensi che basti un nome farlocco e farti crescere la barba, per sparire nel nulla?» Scostò il quadro di un'impaurito giovinetto dalla parete, prima di lasciarlo cadere per la delusione di averci trovato dietro solo altri mattoni. «Per i fessi della Gazzetta del Profeta, forse.»

L'artiglio gelido del terrore prese alla schiena Salvador (che non era mai stato bravo a mentire sotto pressione). Si lanciò in corridoio, rinunciando a ogni senso che non fosse adatto alla fuga. "Non è qui, non può avermi trovato" sussurrava da solo, ripetendo ossessivamente lo stesso pensiero.

Il corridoio portava alla porta di casa. Una casa piccola, facile da controllare, dove una sola donna, alta e dalla pelle ramata, poteva impedirgli di abbandonare la nave. Cornelius allora si gettò nella stanza a fianco, sperando di arrivare a una finestra. Il sudicio vicolo sul lato occidentale della costruzione sarebbe bastato a portarlo lontano, almeno fino al rifugio sicuro. Dove diavolo erano finiti gli Auror? Dov'era Garrick, che doveva piantonare Spinner's End notte e giorno?

Cornelius si ritrovò a immaginare dove potesse essere finito. Non avendone qualche certezza, ma basandosi esclusivamente sul modo in cui un ragazzo sovrappeso lo guardò negli occhi, quando ci sbatté contro. Stava distendendo l'ultimo Purvincolo sul tavolo, con una luce verde che scemava rapidamente dalla punta della bacchetta.

«Keziah...» bofonchiò Cornelius, nello scorgere il vuoto nell'occhio spento della matriarca. Il roditore teneva la bocca spalancata, con uno spasmo di terrore innocente, totalmente ignara di quale destino la stesse attendendo oltre l'angolo. Per un istante, a Cornelius venne in mente l'anziana madre e si domandò se l'avesse salutata prima di partire.

«Allora, Cornelius. Facciamo in fretta.» Il lumos dell'energumeno rischiarò i volti di tutti. «Non ho molto tempo per fare domande.»

«Non ho detto niente, lo giuro» blaterò Cornelius, tentando di mantenere un briciolo di dignità. Le ginocchia tremavano ed era pronto a piangere e implorare, pur di salvarsi la vita.

«Oh, ma lo so. Per questo siamo qui. Giusto, Mandor?»

«Giusto, Hati» rispose in automatico il ragazzo in sovrappeso. La voce limpida lo fece sembrare ancor più giovane di quanto dovesse essere.

«Allora dimmi, caro Cornelius: dov'è mio padre? Mi sta cercando?»

Una fitta alla mano e l'ex giornalista della Gazzetta del Profeta si tirò verso la parete. Dove aveva lasciato la bacchetta? «Non lo so, lo giuro. Quando gli Auror mi hanno salvato era a Liverpool. Ma è scappato. Non so altro.»

Hati ridacchiò, fissando il pavimento. Era come se gli ingranaggi nel cervello stessero elaborando una risposta. Quando finì, spinse il braccio di quercia sul petto di Cornelius e lo schiacciò contro i mattoni della sudicia casa. «Ho detto che non ho molto tempo per le domande. Preferisci il crucio

Nei mesi passati in isolamento, allontanato dalla società civile a scopo di protezione, Cornelius aveva avuto occasione di interrogarsi a fondo sulle intenzioni di Fenrir Greyback e sull'incredibile storia di che gli aveva raccontato. Un'idea, se l'era fatta. Così cominciò a parlare.

«L'Ufficio Auror mi ha messo sotto protezione, con l'esplicito patto di non divulgare quanto raccontato da tuo padre. Per questo non l'ho detto a nessuno. Mi hanno spedito qui, con l'intento di tenermi al sicuro. Ma forse non sanno esattamente fare il loro lavoro.»

«Dimmi quello che non so, veloce» ringhiò Hati.

«Si è smaterializzato davanti ai miei occhi. Non so dove sia finito, lo giuro. Ha portato con sé una mia collega.»

«Come si chiama?»

«Megan Jones» rispose Cornelius, chiedendosi se veramente non lo sapesse. Aveva cominciato a sospettare che ci fosse almeno una talpa alla Gazzetta, ma se così non fosse? Come aveva fatto il criminale a trovarlo?

«Chi c'era con lui? Burke, sicuro. E poi?»

«Non lo so. Non conosco quella gente. Mi stai soffocando!»

«Sforzati un po' di più, spremi le meningi.» Hari gli puntò la bacchetta alla gola e fece pressione.

«Ho sentito due nomi: Najata e Skoll. Non so altro su di loro e comunque non dirò niente! Non io almeno. Se vuoi mettere a tacere la cosa devi trovare la ragazza. Lei, lei è il tuo problema.»

«Tu pensi di conoscere i miei problemi? Eh, Cornelius?»

«N-no, intendevo...»

«Non è la prima volta che il grande Fenrir ci prova. Ma che sia scritto su un diario o raccontato ai giornalisti, non fa differenza. Finisce sempre tutto nelle mie mani. E questa volta non potrà impedire l'inevitabile.»

Hati, lasciata la presa, fissò intensamente Cornelius negli occhi. "Non assomigliano per nulla a quelli di Fenrir" pensò Cornelius. La bestia che si nascondeva nei panni dell'uomo rozzo che aveva di fronte era di un altro stampo, di una risma più primitiva.

«Ultima cosa. Hai scritto quello che ti ha detto? Hai messo su pergamena le storielle idiote che ti ha raccontato?»

Cornelius, naturalmente, non l'aveva fatto. Aveva seguito le istruzioni che il capo dell'Ufficio Auror, Harry Potter, gli aveva consigliato. «No. Puoi stare tranquillo.»

«Lo sarò quando avremo fatto la nostra rivoluzione. Ma ti credo.»

Alzò la bacchetta con pacata ferocia, la puntò sul vecchio giornalista e la agitò per risolvere definitivamente l'ennesima, spinosa, questione. «Avada Kedavra

 

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