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Autore: Emmastory    30/11/2019    5 recensioni
Dopo essersi unita al suo Christopher nel sacro vincolo del matrimonio, Kaleia è felice. La cerimonia è stata per lei un vero sogno, e ancora incredula, è ancora in viaggio verso un nuovo bosco. Lascia indietro la vecchia vita, per uscire nuovamente dalla propria crisalide ed evolvere, abituandosi lentamente a quella nuova. Memore delle tempeste che ha affrontato, sa che le ci vorrà tempo, e mentre il suo legame con l'amato protettore complica le cose, forse una speranza è nascosta nell'accogliente Giardino di Eltaria. Se avrà fortuna, la pace l'accompagnerà ancora, ma in ogni caso, seguitela nell'avventura che la condurrà alla libertà.
(Seguito di: Luce e ombra: Essere o non essere)
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Luce e ombra'
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Luce-e-ombra-III-mod
 
 
Capitolo XXXIV

Segni di vita e d’inchiostro

E così, quel viaggio era iniziato. Nascosta nel buio e nel silenzio della notte, mi muovevo lentamente, con cautela, come se ogni battito d’ali avesse un valore. In circostanze normali non ci avrei pensato, ma ora era tutto diverso. Spiccare il volo era un rischio, e se una parte di me lo sapeva, e il mio corpo quasi rifiutava di obbedire, un’altra dissentiva. Ancora una volta, parte umana e parte magica lottavano affinché una vincesse sull’altra, così da avere sudi me il totale controllo. Grazie al cielo, avevo ancora al collo il mio ciondolo, unico strumento magico capace di sedare quell’eterna lite e permettermi di vivere serenamente. Strano potere o meno, era prima di tutto un regalo di Christopher, che sempre stretto a me mentre esploravo il cielo tinto di nero e punteggiato di piccole stelle, non mancava di scambiarsi con me sguardi e occhiate d’intesa. “Stai andando benissimo.” Sembrava dire, quando il suo abbraccio si faceva più forte. “Ce la faremo.” Pareva aggiungere, ogni volta che le nostre mani si sfioravano e l’azzurro dei miei occhi incontrava il verde dei suoi. Così, con una nuova speranza nel cuore, continuavo quel viaggio senza fermarmi, ricevendo a mia insaputa aiuto proprio dall’alto. Impegnate come me in un volo tutto loro, alcune lucciole danzavano nella notte facendomi da guida, e fidandomi, le seguivo. Il tempo scorreva lento, e fra un attimo e l’altro, lasciavo che il mio sguardo si posasse sul sentiero appena sotto di me, non sentendo altro che i latrati del mio piccolo Arylu, spesso accompagnati dalla luce che il suo corpo era apparentemente in grado di sprigionare ogni volta che usava i suoi poteri. Era quella la ragione per cui le focature sul suo pelo ne acquistavano una propria, e sempre quella la caratteristica grazie alla quale aveva ottenuto il suo nome. Cosmo. L’avevo scelto rifacendomi al cielo e alla sua immensità, agli astri e alle stelle che osservavo quotidianamente, ogni volta che il sole scendeva. Era così che la luna faceva capolino fra le nuvole, che le sue minuscole e fulgide compagne l’affiancavano, e che l’intero bosco si preparava a riposare, per poi risvegliarsi e affrontare il giorno successivo. Ora come ora, Christopher ed io siamo forse gli unici a non dormire, eccezione fatta per alcuni gufi che volano nella quiete di questa notte, disturbata soltanto dal loro bubolare. Stando a ciò che mi è successo, sono in volo per una causa nobile e un motivo ben preciso, ovvero proteggere i miei figli, ma nonostante tutto, se lo spirito è forte, la carne è debole, e il vento che ha iniziato a soffiare non mi è d’aiuto. Dovrebbe sostenermi, ma è tiranno, mi ostacola, e stanca come mai prima d’ora, rallento, sentendo il corpo e le ali deboli. Attenta nonostante l’oscurità che mi avvolge, riesco a fermarmi attimi prima del peggio, sicura che perfino oltre il freddo vento, la tetra oscurità e la bianca e pallida luna, qualcuno sia dalla nostra parte. Lenta, mi preparo a tornare sulla terraferma, e non appena ci riesco, le ginocchia quasi non mi reggono. Per il vento e per la stanchezza, barcollo e quasi cado, ma per mia fortuna, Chris è lì per sorreggermi. “Piano, piano, sta tranquilla.” Sussurra, con una vena di preoccupazione nella voce. “G-Grazie.” Balbettò, così stanca da non riuscire a parlare. Stremata, mi avvicino a un albero, e per qualche arcana ragione, la corteccia è sorprendentemente morbida e non dura. A quanto pare, la natura attorno a me sta reagendo ai problemi della mia vita, e pur non potendo muoversi, gli alberi fanno quello che possono per aiutarmi. Sanno che ho bisogno di riposare, e sembrano decisi a fare la loro parte. Grata, poso la schiena contro un tronco spesso e a occhi chiusi, respiro lentamente. Innumerevoli attimi scompaiono così dalla mia vita, e distrattamente, cerco la presenza e il conforto di Christopher. È vicino, e almeno per un istante, appare sollevato. A dire il vero non riesco a vederlo, ma anche il suo respiro si è fatto più calmo. Mentre riposo, il silenzio mi avvolge ancora, e improvvisamente, una presenza al mio fianco mi fa sobbalzare. Spaventata, riapro subito gli occhi, ed è allora che lo vedo. Accucciato fra l’erba, Cosmo tiene la testa sulle mie gambe, e preoccupato a sua volta, prova a confortarmi leccandomi una mano. Dati i suoi poteri collegati al freddo, la sua lingua è ghiaccio sulla mia pelle, ma almeno ora non tremo, e anzi, lascio che quella sensazione mi scivoli sulla pelle. “Grazie, Cosmo.” Biascico, sorridendo debolmente. Tranquillo, il cucciolo agita piano la coda, e smettendo di leccarmi, si fa spazio fra le mie braccia così che possa accarezzarlo. Realizzando il suo desiderio, affondo le dita nel pelo nero e azzurro, e godendosi le mie attenzioni, lui si calma quasi istantaneamente. “Sei un bravo Arylu, Cosmo. Un bravo Arylu.” Poche parole che sussurro con convinzione, e che giunte alle sue orecchie, lo rendono orgoglioso. Giocando, gonfia il petto, assumendo proprio allora la posa più goffa che abbia mai visto. Seduto sulle zampe posteriori, si attende un premio, ma per  sua sfortuna non ho nulla da dargli, almeno finchè un ricordo non mi torna in mente. Comprendendo il mio dolore, gli alberi della foresta sono generosi, e con una mano ferma sul tronco di quello alle mie spalle, mi concentro. Decisa, sussurro qualcosa a me stessa, e quando la ritraggo, eccolo. Il risultato del mio incantesimo, ovvero una bolla di resina indurita e grande quanto una caramella, perfetta per l’occasione. “Va bene bello, sta fermo… Fermo…” gli ordino, seria eppure tranquilla. Drizzando le orecchie, il lupacchiotto non se lo fa ripetere, e in breve diventa una statua di granito. Orgogliosa, attendo solo pochi secondi, allo scadere dei quali, lo accontento. Guardandoci senza una parola, Christopher ridacchia divertito, ma proprio allora, un suono ci distrae. Di  a poco, la tensione prende il posto dell’ilarità, e più veloce e attento di noi, anche Cosmo scatta sull’attenti. Con lo sguardo rivolto verso l’ignoto, osserva e ascolta un fruscio fra i cespugli, e per un attimo, temo il peggio. Per quanto ne so, i lupi non hanno mai abitato questi boschi, ma il debole ringhio del mio piccolo compagno mi induce a ricredermi. Con l’istinto materno a parlarmi, la mia prima reazione è quella di provare a volar via, ma sono troppo debole, e agendo d’istinto, Chris afferra un ramo. Silenzioso, attende che il pericolo sgusci fuori dall’ombra, e dopo un tempo interminabile, ecco che il nostro avversario si rivela a noi. Contrariamente a ciò che pensavamo, si tratta solo di un coniglio, che alla nostra vista, non osa muoversi, annusando alternativamente l’aria e il terreno, e notando il ramo che Christopher ha con sé, e poi Cosmo, ai suoi occhi un potenziale predatore, si volta e fugge spaventato. “Grazie al cielo non era niente.” Penso, parlando con me stessa. Provando ancora a rialzarmi, barcollo solo leggermente, e sempre vicina a una quercia per evitare di cadere, tengo la mano ferma sul tronco fino a sentirmi stabile. Tornando a concentrarmi sul mio respiro, mi assicuro che sia regolare, e finalmente più calma, mi volto verso Christopher. “Primedia dovrebbe essere vicina, andiamo.” Lo esorto, sicura di non voler perdere altro tempo. Quello che avevamo visto era solo un coniglio, ma avevamo avuto fortuna, e dati i nostri trascorsi, le voci e il resto, non avevo certo intenzione di provocare il fato. Mi sento meglio, ma non è il momento di cantare vittoria, e con quello di allontanarsi come ultimo desiderio, sia Christopher che Cosmo mi restano accanto. Uno mi aiuta a camminare cingendomi un braccio attorno alle spalle, l’altro, piccolo ma veloce, prima ci segue, poi si mette in testa alla nostra marcia, deciso a difenderci da qualunque pericolo. Data la sua età, dubito che abbia mai dovuto lottare contro qualunque fiera e affrontato le ombre che da tempo sembrano seguirmi, ma nonostante tutto, sorrido. È bello vederlo così,  fiero e stoico, pronto a dimostrare a me e al resto del bosco che nulla lo intimidisce nonostante la sua taglia. Coraggioso, ovvio, ma in parte, anche se lui stesso si rifiuta di ammetterlo voltandosi a guardarci per infonderci il coraggio che ci manca, anche irresponsabile. È soltanto un cucciolo, i suoi poteri non sono ancora sviluppati a dovere, ma forse il tempo trascorso con la madre gli ha insegnato qualcosa. Solo il tempo e il destino conoscono la risposta, e mentre uno scorre e l’altro non cambia, già scritto fra le pagine di un metaforico libro che ogni umano sogna di leggere, io mi fermo. Non vorrei, ma sono costretta, e la causa è una sola. Dolore. Acuto, inaspettato e pungente, mi spinge a chiudere gli occhi e stringere i denti, mentre Christopher, onnipresente al mio fianco, si stringe a me, impedendomi ancora una volta di cadere. “Kaleia!” mi chiama, la sua voce un urlo strozzato dalla paura mista alla consapevolezza di non voler attirare l’attenzione. Il popolo di Eltaria e pacifico, e lo stesso si può dire degli animali che ne abitano la selva, ma se c’è qualcosa che ho imparato in passato, precisamente dall’incontro con Midnight, degenerato poi in scontro, è che per quanto calma e apparentemente addomesticata, ogni belva è imprevedibile. Spaventata, serro le labbra per non gridare, ma il dolore è troppo forte, e un suono mi sfugge dalle labbra. Agendo d’istinto, abbasso gli occhi, notando solo allora l’unica cosa che mai avrei voluto vedere. Proprio come le altre volte, una luce, che per mia, anzi nostra sfortuna, stavolta è diversa. Non è azzurra né rosea, né tantomeno rossa, ma anzi, nera. Paralizzata dal terrore, non riesco a smettere di guardare, e in quel preciso istante, altri ricordi del libro della famiglia del mio amato si fanno spazio nella mia mente. “Superstizione o meno, le lanterne sono simboli umani collegati al mondo magico, e ogni colore ha un significato ben preciso. C’è il giallo, simbolo di gioia, il verde, indice di speranza, il rosso che indica l’amore, e molti altri, ma fra i tanti, ogni creatura, di qualunque specie sia, deve sperare di non veder mai nero. ” pesanti e allo stesso tempo crudamente vere, parole che avevo letto una sera prima di dormire, quando non riuscendoci, avevo pensato di portare avanti le mie ricerche sul mio mondo, così da comprenderlo al meglio ed espandere la mia conoscenza. C’ero riuscita, e conoscere i lati negativi del mio vero essere giocava a mio favore, ma a quanto sembrava, non in questo caso. Più debole che mai, mi sentii venir meno, e determinata a non vedere il mondo intorno a me svanire come polvere nel vento, rimasi lì ad occhi chiusi, a pensare e a concentrarmi. “Non adesso, Kaleia. Non adesso. Fallo per loro.” Mi ripetevo, stoica e irremovibile. Con il volto contratto in una smorfia di dolore, Christopher mi strinse a sé con forza ancora maggiore, ma la sfortuna, regina di quella così cupa notte, sorrise maliziosamente, per poi voltarci le spalle e decidere per noi. Fu quindi questione di attimi, e sentendomi più morta che viva, per poco non cedetti. Ormai stanca di lottare, una parte di me non si dibatteva più, non facendo invece altro che urlare di dolore, ma un’altra, probabilmente la mia parte umana, continuava a combattere e andare avanti, sicura di poter affrontare e vincere anche questa battaglia. Con gli occhi appena aperti, chiamai il mio amato per nome, e reagendo prontamente, lui fu lì per sollevarmi e portarmi via da quel luogo. “Kaleia, tesoro, sono qui. Sono qui e andrà tutto bene, hai capito? Non ti lascerò andare, intesi?” disse, correndo per la foresta senza curarsi più di nulla, ignorando il pericolo e non avendo nella mente e nel cuore altro che me. Troppo debole per parlargli, cercai dentro di me la forza di trasformare pochi rantoli in parole, e quando finalmente ci riuscii, solo due abbandonarono le mie labbra. “Ti… ti amo.” Tentai, la voce sempre più bassa con ogni respiro. “Sì, ti amo anch’io, fatina, non arrenderti. Non adesso, va bene? Pensa ai bambini!” una risposta che fra una attimo di incoscienza e l’altro sentii appena, e che sorridendo debolmente, capii essere più vera di tante altre. Detta con il cuore e non solo con la bocca, contribuì a darmi la forza necessaria per andare avanti, perfino quando il buio mi avvolse e il mio battito, debolissimo, minacciò di lasciarmi. Ben presto, anche respirare divenne faticoso, e persa nel buio, attesi e pregai. Non a mani giunte, ma pregai, sperando ardentemente che qualcuno più in alto di me potesse ascoltarmi. Per tutta risposta, un’ennesima stella cadente illuminò il cielo solcandolo in silenzio, e sospesa fra il vincere e il perdere, rischiai di non sentire più nulla. Testarda e attaccata alla vita, lottai per rimanere concentrata, e vicina alla terra, percepii ogni reazione. Lo spirare del vento in quell’infinita notte, il fruscio delle foglie e dei rami degli alberi, la lenta danza di ogni singolo filo d’erba, e tante, tantissime piccole voci che cercavano di farsi sentire. “Puoi farcela, Kia, puoi farcela, avanti.” Queste le frasi pronunciate da quei piccoli miracoli, che giungendo alle mie orecchie come ovattate, mi aiutarono a perseverare, e che grata, ascoltai con il cuore pieno di letizia. Qualcuno oltre a Christopher e alla mia famiglia credeva in me, e seppur effimera, quella sola consapevolezza mi cullava, proteggendomi ogni volta da tutti i miei timori. Privata della capacità di vedere, mi affidai ai miei altri sensi, e seppur ormai appesa ad un filo, non abbandonai la speranza. Stando a ciò che ricordavo, nel tempo lei non aveva mai abbandonato me, ragion per cui voltarle le spalle sarebbe stato da codardi. Plagiato dal dolore, il mio corpo stava per arrendersi definitivamente, ma io mi rifiutavo, e sicura di me stessa e di ciò in cui credevo, insistevo ancora nonostante tutto, puntando metaforicamente i piedi come una bambina. L’oscurità mi avvolgeva, ma io sapevo di essere più forte, e proprio quando credetti di aver perso quella battaglia, eccoci. In un attimo, tutto mi fu chiaro. La corsa del mio Christopher si era arrestata, una porta era stata aperta, e poche frasi erano state scambiate, fra lui e qualcuno che stentai a riconoscere. “Santo cielo, Chris! Che è successo? Stava bene prima? Cos’ha fatto? E cos’è quel bagliore?” domande legittime data la mia condizione, alle quali il mio amato non rispose, concentrato non su cosa fosse accaduto, ma su come far tornare ogni cosa alla normalità. Come sempre, proteggermi era la sua priorità più importante, e orgogliosa, ricordai ancora una volta quanto lo amavo. Sforzandomi, finii per rantolare, e agendo d’istinto, lui mi accarezzò la guancia. “No, non sforzarti, amore mio. Sei al sicuro, adesso. Siamo da Marisa, capito?” mi sussurrò poi, la solita vena di preoccupazione a rovinargli il tono di voce. Perfino più debole di prima, non ebbi modo di esprimermi, e non riuscendo a fare altro che mugugnare parole senza senso, decisi di fidarmi. Fino ad allora il suo amore non mi aveva mai tradita, e nonostante avessimo avuto degli screzi in passato, ora nessuno contava. Volevo solo guarire, risvegliarmi e stare bene, per lui, per la mia famiglia e per la nostra, che avremmo potuto costruire o perdere in un soffio o un battito di ciglia. Di lì a poco, un minimo istante di conoscenza mi riportò alla realtà, e con la vista offuscata da un misto di dolore e stanchezza, non distinsi quasi nulla, eccezione fatta per la figura di colui che amavo affiancata da quella della mia amica, che seria e preoccupata, continuava a parlargli. Ad essere sincera, non capii cosa si dissero, ma in ultimo istante di ancora attiva presenza, la vidi consegnargli una pietra e un foglio di carta. Scivolando ancora nell’incoscienza, quella notte non fui sicura di nulla, se non di aver appena scoperto deboli segni di vita e d’inchiostro.  

 
   
 
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