Morto…
di nuovo
“Pronto?”
No.
“Iniziamo.”
No.
La voce del
padre gli arrivò quasi ovattata, ma non era stato
sedato quindi avrebbe dovuto sentirla benissimo, visto che
l’uomo era in piedi
vicino al suo letto.
Una scarica
elettrica gli attraversò il corpo quando i sette aghi
sottili ma lunghi gli penetrarono la carne.
Urlò. Lo sguardo del padre lo trapassava tanto
quanto gli aghi.
“Concentrati, concentrati. Ci siamo
quasi…”
Quando la vista
si offuscò e il viso del padre sparì nel
buio, si ritrovò nella nebbia. Quando la nebbia si
diradò intorno si fece tutto
rosso sangue. Cercò di attivare i sensi. Non poteva vedere
niente, ma cercò di
ascoltare, come gli aveva ordinato il padre.
Le voci gli
arrivavano attutite, ma lo sapeva già, perché non
era la prima volta che le ascoltava:
“Ciao, entra pure.”
La voce
femminile che parlava gli trasmetteva calma e
serenità, perché sapeva a chi appartenesse.
“Dobbiamo parlare, noi
due.”
L’altra
non riusciva mai a capirla bene. Era di un uomo? O Di
una donna? Sembrava di una donna, ma non poteva esserne sicuro. Era
tutto
confuso.
“Di cosa?”
La prima voce
era ancora ignara di ciò che sarebbe successo. Lo
percepiva benissimo. Ma lui no. Sapeva come sarebbe finita. Ma doveva
concentrarsi su quel momento, non doveva pensare a come sarebbe finita.
“Di
lui.”
Di chi? Era la
prima volta che riusciva a captare quella
frase. Non l’aveva mai sentita. Si sentì nervoso. Lei era nervosa.
“Cosa
vuol dire?”
Mentre la voce
femminile faceva questa domanda lui si sentì
intrappolato e poi scosso. Iniziò a percepire le ben
conosciute sensazioni.
Paura, sgomento e terrore tutto insieme. Iniziò a tremare e
capì che presto
sarebbe stata la fine…
La luce lo
accecò quando aprì gli occhi e
spalancò la bocca
perché gli mancò il respiro. Si
ritrovò seduto sul letto, ma ricadde subito a
peso morto sul cuscino. I fili attaccati al suo petto erano collegati
alle macchine,
proprio come un minuto prima.
Prima di morire.
Perché era effettivamente morto. Per un
minuto soltanto.
Voltò
la testa verso il padre, che lo guardava con
aspettativa e il fiato sospeso. Scosse la testa. La delusione nei suoi
occhi
gli fece più male della scossa che gli provocava la morte.
“Ancora
niente?” Scosse ancora la testa, ma il padre non lo
stava più guardando. Aveva alzato le mani al soffitto in un
gesto tormentato e
aveva gridato senza contenersi. Quando si passò la mano nei
pochi capelli, tornò
a guardarlo.
Sapeva che era
importante. Lo sapeva. Ma non poteva farci
niente. “Ho sentito solo due parole, che non avevo mai
sentito…” l’uomo si
avvicinò al letto con gli occhi sgranati, desideroso di
ascoltarlo.
Gli piaceva
quando sentiva di avere la sua attenzione e sperò
di non deluderlo. Respirò a fatica e si tirò un
po’ più su sul cuscino.
“Quando
ha chiesto di cosa dovevano parlare, la risposta è
stata ‘Di lui’”
disse, non senza
sforzo e fermandosi ad ogni parola. Smanioso di farlo contento, ebbe
paura
quando la sua fronte si corrugò.
“Di
chi dovevano parlare?” Scosse la testa. Non riusciva
più
a parlare, non aveva più forza. E aveva freddo.
Iniziò a tremare ancora.
“Basta.
Ha le labbra blu. Lo lasci stare”, la loro governante
si avvicinò e spostò il dottore dal letto del
figlio. Lo coprì con una coperta
e sorrise. “Per oggi basta”. Poi si
voltò verso l’uomo. “Lui deve
riposare…”
Il padre
annuì “Sì, certo. Riposati, dopo ti
porto qualcosa” e
mentre usciva dalla porta, scrisse su una lavagnetta sul muro: -7
Guardò
il numero rabbrividendo. Sette. Sette giorni e lo
avrebbero rifatto. Sette giorni e sarebbe morto ancora. Da quando aveva
compiuto quindici anni il padre lo uccideva ogni settimana. Sembrava
irreale,
ma era proprio quello che succedeva.
Ogni sabato,
alle 17.05, ora in cui sua madre era stata
uccisa, il ragazzo riceveva una scarica della potenza giusta da
fermargli il
cuore e moriva. Un minuto soltanto. Il padre, il dottore, lo preparava
con un
cocktail di farmaci in grado di stimolare nel modo migliore
l’amigdala e
l’ippocampo e permettergli così di rivivere un
ricordo passato. Aveva sperimentato
che, con l’assenza di stimoli e il corpo poco impegnato,
poteva rivivere un
ricordo risalente addirittura a prima della nascita.
Era stata una
grande scoperta, ma il padre, invece di
condividere con altri dottori i suoi appunti aveva deciso di testare
sul figlio
le sue teorie, per capire cosa fosse successo all’amata
moglie, morta poco
prima che nascesse. Ogni settimana dosava le sostanze che gli
somministrava in
maniera diversa, per poter trovare il giusto equilibrio e riuscire a
fargli
ricordare l’avvenimento.
Potevano farlo
al massimo una volta ogni sette giorni, per
non rischiare di ucciderlo, così lui ogni sette giorni
riviveva l’omicidio
irrisolto della madre.
La paura che
aveva sentito lei, il frastuono del colpo,
l’ansia e il cambiamento , lui poteva sentire tutto e una
volta aveva ricordato
anche la sua travagliata nascita. Subirlo era devastante e il ricordo
lo
lasciava scosso e debilitato, oltre che pieno di sensi di colpa per non
riuscire a scoprire chi fosse l’assassino.
Chiuse gli occhi
e si addormentò.
***
Il sabato
mattina venne svegliato dalla governante. Lei lo
aveva cresciuto al posto della madre. L’unica che lo curasse
veramente. “Alzati,
abbiamo poco tempo”.
Il ragazzo si
mise seduto e la guardò. “Per cosa?”
Lo stava
aiutando a vestirsi. “Per farti scappare. Oggi ti
ucciderà. Ho visto il suo sguardo, non è
più lucido”. Pensò di non avere
abbastanza forza per alzarsi dal letto e, invece, riuscì
perfino a camminare
verso la porta d’entrata.
“Dove
vado?” le chiese, prima di uscire. Lei gli diede una
busta con parecchi soldi e uno zaino. “Qui ci sono cibo e
vestiti. Non posso
fare di più, ma posso rallentarlo. Prendi un treno, un
autobus, vai lontano”.
Il ragazzo non
se lo fece ripetere. Per quanto desiderasse
scoprire l’assassino della madre, voleva anche sopravvivere.
No, voleva vivere.
Si
tirò il cappuccio della felpa sul capo e uscì
dalla casa
dove era cresciuto. Camminò lungo la strada con lo sguardo
basso; la luce gli
dava fastidio, il freddo gli artigliava le ossa e sentiva rumori
dappertutto. Aveva
paura, non conosceva nessuno lì fuori, non riusciva a non
spaventarsi. La gente
gli passava accanto, qualcuno lo schivava, qualcuno gli prendeva colpo
senza scusarsi.
Nessuno gli parlava. Si sentiva isolato. Più isolato che a
casa sua. Si guardò
intorno e imboccò un vicolo laterale. Si appoggiò
tremando contro il muro.
Respirava a fatica. Stava male fisicamente. Possibile che il suo
fisico, troppo
debilitato, non fosse più abituato all’aria
aperta? Sobbalzò quando un gatto
gli soffiò da dietro un cassonetto e scappò di
nuovo in strada.
Aveva appena
attraversato un isolato, quando un gruppo di
ragazzini fece scoppiare un petardo. Il frastuono lo colpì
al petto con una
forte vibrazione, appoggiò una mano al muro e vide tutto
nero. Non si accorse
di accasciarsi al suolo.
Quando, un
minuto dopo, rinvenne, diverse persone lo avevano
circondato. “Ti senti bene?” gli chiese una
signora. Si alzò di scatto e annuì,
prima di scappare via.
Non seppe mai
come riuscì a trovare la forza di ritornare
verso casa.
“Sei
stata tu!”
esclamò quando la governante aprì la porta.