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Autore: ONLYKORINE    09/12/2019    3 recensioni
Lui/lei è morto/a. Più e più volte.
Ogni settimana il suo cuore diminuisce i battiti, e poi, i seguenti sei
giorni, sta chiuso/a nella sua stanza da letto, con profonde occhiaie
dipinte in viso e gli occhi vuoti, a fissare il nulla.
Lui/lei è speciale, o almeno così lo pensa il dottore che lo/la tiene
sott'occhio da non più di un mese.
Diverse cicatrici sono sparse sul suo corpo, diverse modalità per
suicidarsi. Lui/lei vede ciò che un qualsiasi altro umano non è in potere
di vedere, scorge gli attimi della sua vita passata e scorge il declino,
l'oscurità mai rivelata. Raccontaci il perché in non più di 1200 parole.
Genere: Generale, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Morto… di nuovo

 

“Pronto?”

No.

“Iniziamo.”

No.

La voce del padre gli arrivò quasi ovattata, ma non era stato sedato quindi avrebbe dovuto sentirla benissimo, visto che l’uomo era in piedi vicino al suo letto.

Una scarica elettrica gli attraversò il corpo quando i sette aghi sottili ma lunghi gli penetrarono la carne. Urlò. Lo sguardo del padre lo trapassava tanto quanto gli aghi. “Concentrati, concentrati. Ci siamo quasi…”

Quando la vista si offuscò e il viso del padre sparì nel buio, si ritrovò nella nebbia. Quando la nebbia si diradò intorno si fece tutto rosso sangue. Cercò di attivare i sensi. Non poteva vedere niente, ma cercò di ascoltare, come gli aveva ordinato il padre.

Le voci gli arrivavano attutite, ma lo sapeva già, perché non era la prima volta che le ascoltava:

Ciao, entra pure.

La voce femminile che parlava gli trasmetteva calma e serenità, perché sapeva a chi appartenesse.

Dobbiamo parlare, noi due.

L’altra non riusciva mai a capirla bene. Era di un uomo? O Di una donna? Sembrava di una donna, ma non poteva esserne sicuro. Era tutto confuso.

Di cosa?”

La prima voce era ancora ignara di ciò che sarebbe successo. Lo percepiva benissimo. Ma lui no. Sapeva come sarebbe finita. Ma doveva concentrarsi su quel momento, non doveva pensare a come sarebbe finita.

“Di lui.”

Di chi? Era la prima volta che riusciva a captare quella frase. Non l’aveva mai sentita. Si sentì nervoso. Lei era nervosa.

“Cosa vuol dire?”

Mentre la voce femminile faceva questa domanda lui si sentì intrappolato e poi scosso. Iniziò a percepire le ben conosciute sensazioni. Paura, sgomento e terrore tutto insieme. Iniziò a tremare e capì che presto sarebbe stata la fine…

La luce lo accecò quando aprì gli occhi e spalancò la bocca perché gli mancò il respiro. Si ritrovò seduto sul letto, ma ricadde subito a peso morto sul cuscino. I fili attaccati al suo petto erano collegati alle macchine, proprio come un minuto prima.

Prima di morire. Perché era effettivamente morto. Per un minuto soltanto.

Voltò la testa verso il padre, che lo guardava con aspettativa e il fiato sospeso. Scosse la testa. La delusione nei suoi occhi gli fece più male della scossa che gli provocava la morte.

“Ancora niente?” Scosse ancora la testa, ma il padre non lo stava più guardando. Aveva alzato le mani al soffitto in un gesto tormentato e aveva gridato senza contenersi. Quando si passò la mano nei pochi capelli, tornò a guardarlo.

Sapeva che era importante. Lo sapeva. Ma non poteva farci niente. “Ho sentito solo due parole, che non avevo mai sentito…” l’uomo si avvicinò al letto con gli occhi sgranati, desideroso di ascoltarlo.

Gli piaceva quando sentiva di avere la sua attenzione e sperò di non deluderlo. Respirò a fatica e si tirò un po’ più su sul cuscino.

“Quando ha chiesto di cosa dovevano parlare, la risposta è stata ‘Di lui’” disse, non senza sforzo e fermandosi ad ogni parola. Smanioso di farlo contento, ebbe paura quando la sua fronte si corrugò.

“Di chi dovevano parlare?” Scosse la testa. Non riusciva più a parlare, non aveva più forza. E aveva freddo. Iniziò a tremare ancora.

“Basta. Ha le labbra blu. Lo lasci stare”, la loro governante si avvicinò e spostò il dottore dal letto del figlio. Lo coprì con una coperta e sorrise. “Per oggi basta”. Poi si voltò verso l’uomo. “Lui deve riposare…”

Il padre annuì “Sì, certo. Riposati, dopo ti porto qualcosa” e mentre usciva dalla porta, scrisse su una lavagnetta sul muro: -7

Guardò il numero rabbrividendo. Sette. Sette giorni e lo avrebbero rifatto. Sette giorni e sarebbe morto ancora. Da quando aveva compiuto quindici anni il padre lo uccideva ogni settimana. Sembrava irreale, ma era proprio quello che succedeva.

Ogni sabato, alle 17.05, ora in cui sua madre era stata uccisa, il ragazzo riceveva una scarica della potenza giusta da fermargli il cuore e moriva. Un minuto soltanto. Il padre, il dottore, lo preparava con un cocktail di farmaci in grado di stimolare nel modo migliore l’amigdala e l’ippocampo e permettergli così di rivivere un ricordo passato. Aveva sperimentato che, con l’assenza di stimoli e il corpo poco impegnato, poteva rivivere un ricordo risalente addirittura a prima della nascita.

Era stata una grande scoperta, ma il padre, invece di condividere con altri dottori i suoi appunti aveva deciso di testare sul figlio le sue teorie, per capire cosa fosse successo all’amata moglie, morta poco prima che nascesse. Ogni settimana dosava le sostanze che gli somministrava in maniera diversa, per poter trovare il giusto equilibrio e riuscire a fargli ricordare l’avvenimento.

Potevano farlo al massimo una volta ogni sette giorni, per non rischiare di ucciderlo, così lui ogni sette giorni riviveva l’omicidio irrisolto della madre.

La paura che aveva sentito lei, il frastuono del colpo, l’ansia e il cambiamento , lui poteva sentire tutto e una volta aveva ricordato anche la sua travagliata nascita. Subirlo era devastante e il ricordo lo lasciava scosso e debilitato, oltre che pieno di sensi di colpa per non riuscire a scoprire chi fosse l’assassino.

Chiuse gli occhi e si addormentò.

***

Il sabato mattina venne svegliato dalla governante. Lei lo aveva cresciuto al posto della madre. L’unica che lo curasse veramente. “Alzati, abbiamo poco tempo”.

Il ragazzo si mise seduto e la guardò. “Per cosa?”

Lo stava aiutando a vestirsi. “Per farti scappare. Oggi ti ucciderà. Ho visto il suo sguardo, non è più lucido”. Pensò di non avere abbastanza forza per alzarsi dal letto e, invece, riuscì perfino a camminare verso la porta d’entrata.

“Dove vado?” le chiese, prima di uscire. Lei gli diede una busta con parecchi soldi e uno zaino. “Qui ci sono cibo e vestiti. Non posso fare di più, ma posso rallentarlo. Prendi un treno, un autobus, vai lontano”.

Il ragazzo non se lo fece ripetere. Per quanto desiderasse scoprire l’assassino della madre, voleva anche sopravvivere. No, voleva vivere.

Si tirò il cappuccio della felpa sul capo e uscì dalla casa dove era cresciuto. Camminò lungo la strada con lo sguardo basso; la luce gli dava fastidio, il freddo gli artigliava le ossa e sentiva rumori dappertutto. Aveva paura, non conosceva nessuno lì fuori, non riusciva a non spaventarsi. La gente gli passava accanto, qualcuno lo schivava, qualcuno gli prendeva colpo senza scusarsi. Nessuno gli parlava. Si sentiva isolato. Più isolato che a casa sua. Si guardò intorno e imboccò un vicolo laterale. Si appoggiò tremando contro il muro. Respirava a fatica. Stava male fisicamente. Possibile che il suo fisico, troppo debilitato, non fosse più abituato all’aria aperta? Sobbalzò quando un gatto gli soffiò da dietro un cassonetto e scappò di nuovo in strada.

Aveva appena attraversato un isolato, quando un gruppo di ragazzini fece scoppiare un petardo. Il frastuono lo colpì al petto con una forte vibrazione, appoggiò una mano al muro e vide tutto nero. Non si accorse di accasciarsi al suolo.

Quando, un minuto dopo, rinvenne, diverse persone lo avevano circondato. “Ti senti bene?” gli chiese una signora. Si alzò di scatto e annuì, prima di scappare via.

Non seppe mai come riuscì a trovare la forza di ritornare verso casa.

 “Sei stata tu!” esclamò quando la governante aprì la porta.

   
 
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