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Autore: Nadine_Rose    10/12/2019    2 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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Capitolo 18

 

L’amore sognato

 

“D’un altro. Sarà d’un altro. Come prima dei miei baci.

La sua voce, il suo corpo chiaro. I suoi occhi infiniti.”

Pablo Neruda

 


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Immagine dal set del film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

La cameriera dall’accento milanese, che l’aveva soccorsa dopo la violenza, si chiamava Giuditta e anche lei era di origine ebraica. Fu molto paziente nel spiegarle gli orari e lo svolgimento delle attività lavorative e nel ripeterle lo stesso concetto più volte, quando Sarah sembrava distrarsi ed estraniarsi dalla realtà. Era il pensiero, la paura di ciò che le sarebbe accaduto quella sera e per chissà quante altre sere ancora. Per quanto si sforzasse di essere più forte e di farsi coraggio, ripensando anche al triste racconto di Maria, una parte di lei avrebbe voluto tirarsi indietro, rinunciare a quello sporco compromesso e seguire lo stesso destino degli altri prigionieri. Ma il pensiero di Auschwitz la terrorizzava ancor di più e la spingeva a non cedere al ribrezzo, alla vergogna e alla paura di ciò che l’attendeva di sera con il comandante del campo. Per distogliere la sua mente da quei pensieri fissi e martellanti che si ingarbugliavano fra loro, Sarah lavorò sodo tutto il giorno senza fermarsi un attimo, neanche per mangiare e svolgendo mansioni che non le competevano, aiutando le altre cameriere e le cuoche in cucina, fino a quando la stanchezza non la stordì e fuori si fece buio. Si avvicinava il fatidico momento.

Sarah sostava nella penombra del lungo corridoio, con le spalle appoggiate alla parete e gli occhi rivolti alla porta di quell’ignobile stanza. Iniziò a tormentarsi le mani, poi emise un sospiro tremante e portò la testa all’indietro contro il muro. Fissò per un po’ il soffitto. Mai, nella sua giovane vita, avrebbe immaginato di trovarsi in una situazione simile, in un campo di concentramento, costretta a prostituirsi. Pensò che questo fosse il termine più giusto. Un nodo le strinse la gola, ma non si sciolse in lacrime, neanche quando sentì l’avvicinarsi del tenente. Più che impaurita, adesso era stanca e rassegnata. Volse lo sguardo verso il corridoio, mentre udì il suono duro della sua voce impartire, probabilmente, gli ultimi ordini della giornata a qualche soldato che batté i tacchi, urlando “Heil Hitler!” Poi riprese il pesante calpestio dei suoi stivali, facendosi sempre più vicino e tonante in quel tetro silenzio, e Sarah rivolse di nuovo lo sguardo alla porta chiusa della camera da letto. Il fatidico momento era giunto, in quella temibile ombra silenziosa in divisa, fermatasi alla sua sinistra. Dopo averla squadrata per alcuni interminabili secondi, il tenente aprì la porta, facendole segno di precederlo, e ne seguì una scena già vista. Si tolse il cappello, i guanti, la giacca e allentò il colletto della camicia, mentre Sarah, divisa tra sentimenti di apatia e irrequietezza, non sapeva come comportarsi. Si sentiva fragile e confusa, nella sua inesperienza di ragazza che non aveva mai conosciuto neanche il sapore di un bacio. Dentro di sé, sperava e pregava che non fosse troppo violento, guardando di sottecchi l’ansiosa bramosia nei suoi gesti e nelle sue espressioni facciali e aspettando la sua prima mossa. L’avanzare lento del suo corpo, che propagava nell’aria una scia di ambra e muschio, di vodka e nicotina, la fece indietreggiare, come in una danza a passo di paura e imbarazzo, e cadere inerme sul letto. La spogliò, accarezzandola con mani frementi e, con uno scatto impetuoso e uno spasimo soffocato, l’afferrò per le gambe, costringendola alla sua virilità. Il pensiero di Auschwitz impediva alla bocca di Sarah di urlare, ai suoi occhi di piangere, ai suoi piedi di scalciare, al suo corpo di dimenarsi, di ribellarsi al dolore e all’umiliazione di essere usata per il piacere di un criminale nazista. Avrebbe voluto sparire da quella terribile situazione e ci riuscì, fuggendo dalla realtà per rifugiarsi in ricordi e sogni della sua vita passata. Con espressione assente e occhi fissi tra il soffitto bianco e la fronte del tenente imperlata di sudore e la sua capigliatura biondo grano, adesso non più tanto perfetta, Sarah tornò adolescente; alle sue prime infatuazioni; ai primi sguardi, timidi e furtivi, scambiati nei corridoi o nel cortile della scuola e tra i banchi della chiesa; ai suoi primi rossori; alle risatine entusiaste con le sue amiche, guardando assieme le fotografie dell’attore statunitense Gary Cooper e fantasticando un giorno di incontrarlo, prima di nasconderle nei loro diari; a un giro di lento con il suo cuscino, sulle note della canzone “Ma l’amore no”, sorpreso e interrotto dall’ilarità di suo fratello che si meritò una cuscinata in pieno viso; al lancio di una monetina nella Fontana di Trevi, a occhi chiusi e di spalle, augurandosi di trovare al più presto il vero amore.

E il tenente solcava con violenza la terra del suo corpo indifeso, sradicando i suoi sogni – che altro non erano che aspettative di una vita normale –, senza che Sarah ne provasse più dolore. Ma, soltanto, sentiva il forte cigolio del letto e il respiro affannoso dell’ufficiale. I nazisti si erano presi tutto di lei: la sua famiglia, la sua casa, la sua libertà, la sua dignità e lo stupore, la magia, il tenero imbarazzo, la dolce paura, le parole sussurrate all’orecchio, le timide effusioni d’affetto che, nella sua immaginazione di ragazza, avrebbero coronato la sua prima volta, dopo aver indossato un elegantissimo vestito bianco dalle mille sottane. Era un’intimità, un incontro poetico, quasi sacro, di due corpi e due anime, frutto di quell’amore vero che, sin da bambina, paragonava all’immensità del mare e alla forza delle sue onde, all’infinità del cielo e allo splendore dei suoi astri; un’intimità sciupata, ceduta a quell’uomo brutale che non aveva neanche il coraggio né la voglia di guardare in faccia. Al pensiero dei suoi sogni infranti, Sarah non riuscì più a trattenersi e, in un singhiozzo strozzato, lasciò che due grosse lacrime scivolassero veloci dai suoi occhi, bruciando sulle tempie e perdendosi tra i capelli.

 

Sorrento, settembre 1946

 

La maestosità e l’imponenza del Vesuvio e delle isole, meravigliose sagome che ritagliavano una parte di cielo, e la vastità e il luccichio del mare si offrivano pian piano ai colori di un tramonto indimenticabile.

“Ti amo, Sarah”, le disse Matteo all’orecchio, in un sussurro che le arrivò dritto al cuore, accarezzandole l’anima. Il respiro del giovane era ancora affannato per la corsa lungo la stradina che conduceva in spiaggia, per recuperarle il cappello.

Un’altra lacrima di gioia rigò la guancia di Sarah e Matteo gliel’asciugò, raccogliendola in un lieve bacio.

“Anche io ti amo, Matteo”, rispose Sarah con voce spezzata dall’emozione, continuando a guardare il suggestivo panorama del Golfo di Napoli, appoggiata alla ringhiera, mentre il suo futuro sposo l’abbracciava da dietro. Non riusciva ancora a crederci e rivolse uno sguardo all’anulare sinistro, dove scintillava l’anello, forse un po’ troppo grande per la sua piccola mano.

A un altro timido bacio sulla guancia, seguirono altre dolci parole sussurrate all’orecchio: “Ho trovato già una casa, quella con il tetto rosso, di fronte alla banchina. È da ristrutturare, ma è spaziosa. E ci uscirà anche una stanza per i nostri figli.”

E Matteo le restituiva i sogni di bambina, apprestandosi e affrettandosi a realizzarli, ricuciva la sua innocenza, ricostruiva ciò che nella sua vita e nel suo intimo era stato distrutto, e lei, felice e innamorata, tornava a essere la ragazza di un tempo, quella prima di conoscere il tenente Hermann.

 

Campo di Fossoli, 18 febbraio 1944

 

Il tenente si fermò a mezz’aria sul corpo inerme di Sarah e dilatò gli occhi in un’espressione adirata. La rabbia, con la quale si sentì osservata, richiamò la ragazza alla realtà e, per una frazione di secondo, i loro sguardi s’incrociarono. Impaurita, Sarah strizzò gli occhi e portò le braccia in avanti, tra il petto e le guance, in un gesto istintivo, come per proteggersi da una sua eventuale reazione violenta.

“Non tollero che mi si prenda in giro”, proruppe severo il tenente, scandendo ogni parola e inasprendo così il suo accento, per poi battere forte i pugni sul materasso, a pochi centimetri dai fianchi di Sarah, la quale tremò.

“Alzati immediatamente”, proseguì Hermann risoluto e, aggiustatosi concitatamente i pantaloni, con uno scatto, balzò dal letto.

Prese dal comodino la confezione di sigarette e, con dita tremanti per il nervosismo, ne accese una, mentre la ragazza era già scattata in piedi, pallida e tremante nella sua sottoveste bianca e stropicciata.

Aspirò la prima boccata di fumo e si espresse con parole di ironia e disprezzo, per non cedere alla bellezza di quegli occhi che, come gemme dorate, luccicavano di paura e smarrimento: “Se la mia intenzione era quella di stare con un cadavere, avrei provveduto diversamente.” Un’ebrea non poteva avere degli occhi così belli. “Così non andiamo proprio bene, ragazzina”, disse, in un crescendo di voce sempre più incalzante.

Alle orecchie di Sarah, le parole minacciose del tenente arrivavano come un suono lontano e la sua mente, come annebbiata, non riusciva a formulare nessun pensiero, nessuna risposta con la quale potersi giustificare.

Espirando un altro tiro di sigaretta, Hermann mandò fuori altra cattiveria: “Non credere di poterti salvare, comportandoti in questo modo.” Un’ebrea non poteva essere così bella, con i capelli tutti scompigliati e la faccia mezza livida. “Sappi che non ho ancora cancellato il tuo nome dalla lista”, confessò e la ragazza sgranò gli occhi, guardandolo con un’espressione di terrore.

Era il pensiero di Auschwitz che le gelò il sangue nelle vene e iniziò a farla sudare freddo, mentre le sue labbra provavano ad aprirsi in parole spezzate, biascicate: “Signor tenente, mi dispiace, io…”

Le palpebre si fecero pesanti, la vista divenne sfocata e il corpo oscillò, perdendo il suo equilibrio.

“Io…” Provò ancora a esprimersi, ma si ritrovò nel buio di un vagone diretto verso Auschwitz.

Sarah era svenuta e fu un bene per entrambi.


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Immagine dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

“E lei sognava una musica dolce

e labbra morbide da accarezzare,

chiari di luna e onde del mare,

piccole frasi da sussurrare.

E lei sognava un amore profondo,

unico e grande, più grande del mondo.

Come un fiore che è stato spezzato,

così l’amore le avevan rubato.”

 

Luca Barbarossa, L’amore rubato

 

   
 
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