Capitolo
18
L’amore
sognato
“D’un altro.
Sarà d’un altro. Come prima dei miei baci.
La sua voce, il
suo corpo chiaro. I suoi occhi infiniti.”
Pablo Neruda
Immagine dal set del film “Il club del libro e della
torta di bucce di patata di Guernsey”
La
cameriera dall’accento milanese, che l’aveva soccorsa dopo la violenza, si
chiamava Giuditta e anche lei era di origine ebraica. Fu molto paziente nel
spiegarle gli orari e lo svolgimento delle attività lavorative e nel ripeterle
lo stesso concetto più volte, quando Sarah sembrava distrarsi ed estraniarsi
dalla realtà. Era il pensiero, la paura di ciò che le sarebbe accaduto quella
sera e per chissà quante altre sere ancora. Per quanto si sforzasse di essere
più forte e di farsi coraggio, ripensando anche al triste racconto di Maria,
una parte di lei avrebbe voluto tirarsi indietro, rinunciare a quello sporco
compromesso e seguire lo stesso destino degli altri prigionieri. Ma il pensiero
di Auschwitz la terrorizzava ancor di più e la spingeva a non cedere al
ribrezzo, alla vergogna e alla paura di ciò che l’attendeva di sera con il
comandante del campo. Per distogliere la sua mente da quei pensieri fissi e
martellanti che si ingarbugliavano fra loro, Sarah lavorò sodo tutto il giorno
senza fermarsi un attimo, neanche per mangiare e svolgendo mansioni che non le
competevano, aiutando le altre cameriere e le cuoche in cucina, fino a quando
la stanchezza non la stordì e fuori si fece buio. Si avvicinava il fatidico
momento.
Sarah
sostava nella penombra del lungo corridoio, con le spalle
appoggiate alla parete e gli occhi rivolti alla porta di quell’ignobile stanza.
Iniziò a tormentarsi le mani, poi emise un sospiro tremante e portò la testa
all’indietro contro il muro. Fissò per un po’ il soffitto. Mai, nella sua
giovane vita, avrebbe immaginato di trovarsi in una situazione simile, in un
campo di concentramento, costretta a prostituirsi. Pensò che questo fosse il
termine più giusto. Un nodo le strinse la gola, ma non si sciolse in lacrime,
neanche quando sentì l’avvicinarsi del tenente. Più che impaurita, adesso era
stanca e rassegnata. Volse lo sguardo verso il corridoio, mentre udì il suono
duro della sua voce impartire, probabilmente, gli ultimi ordini della giornata
a qualche soldato che batté i tacchi, urlando “Heil Hitler!” Poi riprese il
pesante calpestio dei suoi stivali, facendosi sempre più vicino e tonante in
quel tetro silenzio, e Sarah rivolse di nuovo lo sguardo alla porta chiusa
della camera da letto. Il fatidico momento era giunto, in quella temibile ombra
silenziosa in divisa, fermatasi alla sua sinistra. Dopo averla squadrata per
alcuni interminabili secondi, il tenente aprì la porta, facendole segno di
precederlo, e ne seguì una scena già vista. Si tolse il cappello, i guanti, la
giacca e allentò il colletto della camicia, mentre Sarah, divisa tra sentimenti
di apatia e irrequietezza, non sapeva come comportarsi. Si sentiva fragile e
confusa, nella sua inesperienza di ragazza che non aveva mai conosciuto neanche
il sapore di un bacio. Dentro di sé, sperava e pregava che non fosse troppo
violento, guardando di sottecchi l’ansiosa bramosia nei suoi gesti e nelle sue
espressioni facciali e aspettando la sua prima mossa. L’avanzare lento del suo
corpo, che propagava nell’aria una scia di ambra e muschio, di vodka e
nicotina, la fece indietreggiare, come in una danza a passo di paura e
imbarazzo, e cadere inerme sul letto. La spogliò, accarezzandola con mani
frementi e, con uno scatto impetuoso e uno spasimo soffocato, l’afferrò per le
gambe, costringendola alla sua virilità. Il pensiero di
Auschwitz impediva alla bocca di Sarah di urlare, ai suoi occhi di piangere, ai
suoi piedi di scalciare, al suo corpo di dimenarsi, di ribellarsi al dolore e
all’umiliazione di essere usata per il piacere di un criminale nazista. Avrebbe
voluto sparire da quella terribile situazione e ci riuscì, fuggendo dalla
realtà per rifugiarsi in ricordi e sogni della sua vita passata. Con
espressione assente e occhi fissi tra il soffitto bianco e la fronte del
tenente imperlata di sudore e la sua capigliatura biondo grano, adesso non più
tanto perfetta, Sarah tornò adolescente; alle sue prime infatuazioni; ai primi
sguardi, timidi e furtivi, scambiati nei corridoi o nel cortile della scuola e
tra i banchi della chiesa; ai suoi primi rossori; alle risatine entusiaste con
le sue amiche, guardando assieme le fotografie dell’attore statunitense Gary
Cooper e fantasticando un giorno di incontrarlo, prima di nasconderle nei loro
diari; a un giro di lento con il suo cuscino, sulle note della canzone “Ma
l’amore no”, sorpreso e interrotto dall’ilarità di suo fratello che si meritò
una cuscinata in pieno viso; al lancio di una monetina nella Fontana di Trevi,
a occhi chiusi e di spalle, augurandosi di trovare al più presto il vero amore.
E
il tenente solcava con violenza la terra del suo corpo indifeso, sradicando i suoi
sogni – che altro non erano che aspettative di una vita normale –, senza che Sarah
ne provasse più dolore. Ma, soltanto, sentiva il forte cigolio del letto e il
respiro affannoso dell’ufficiale. I nazisti si erano presi tutto di lei: la sua
famiglia, la sua casa, la sua libertà, la sua dignità e lo stupore, la magia,
il tenero imbarazzo, la dolce paura, le parole sussurrate all’orecchio, le
timide effusioni d’affetto che, nella sua immaginazione di ragazza, avrebbero
coronato la sua prima volta, dopo aver indossato un elegantissimo vestito bianco
dalle mille sottane. Era un’intimità, un incontro poetico,
quasi sacro, di due corpi e due anime, frutto di quell’amore vero che, sin da
bambina, paragonava all’immensità del mare e alla forza delle sue onde, all’infinità
del cielo e allo splendore dei suoi astri; un’intimità sciupata, ceduta a
quell’uomo brutale che non aveva neanche il coraggio né la voglia di guardare
in faccia. Al pensiero dei suoi sogni infranti, Sarah non riuscì più a
trattenersi e, in un singhiozzo strozzato, lasciò che due grosse lacrime
scivolassero veloci dai suoi occhi, bruciando sulle tempie e perdendosi tra i
capelli.
Sorrento,
settembre 1946
La
maestosità e l’imponenza del Vesuvio e delle isole, meravigliose sagome che ritagliavano
una parte di cielo, e la vastità e il luccichio del mare si offrivano pian
piano ai colori di un tramonto indimenticabile.
“Ti amo, Sarah”, le disse Matteo
all’orecchio, in un sussurro che le arrivò dritto al cuore, accarezzandole
l’anima. Il respiro del giovane era ancora affannato per la corsa lungo la
stradina che conduceva in spiaggia, per recuperarle il cappello.
Un’altra lacrima di gioia rigò la
guancia di Sarah e Matteo gliel’asciugò, raccogliendola in un lieve bacio.
“Anche io ti amo, Matteo”, rispose Sarah
con voce spezzata dall’emozione, continuando a guardare il suggestivo panorama
del Golfo di Napoli, appoggiata alla ringhiera, mentre il suo futuro sposo
l’abbracciava da dietro. Non riusciva ancora a crederci e rivolse uno sguardo all’anulare
sinistro, dove scintillava l’anello, forse un po’ troppo grande per la sua
piccola mano.
A un altro timido bacio sulla guancia,
seguirono altre dolci parole sussurrate all’orecchio: “Ho trovato già una casa,
quella con il tetto rosso, di fronte alla banchina. È da ristrutturare, ma è
spaziosa. E ci uscirà anche una stanza per i nostri figli.”
E Matteo le restituiva i sogni di
bambina, apprestandosi e affrettandosi a realizzarli, ricuciva la sua
innocenza, ricostruiva ciò che nella sua vita e nel suo intimo era stato
distrutto, e lei, felice e innamorata, tornava a essere la ragazza di un tempo,
quella prima di conoscere il tenente Hermann.
Campo di Fossoli, 18 febbraio 1944
Il tenente si fermò a mezz’aria sul
corpo inerme di Sarah e dilatò gli occhi in un’espressione adirata. La rabbia,
con la quale si sentì osservata, richiamò la ragazza alla realtà e, per una
frazione di secondo, i loro sguardi s’incrociarono. Impaurita, Sarah strizzò
gli occhi e portò le braccia in avanti, tra il petto e le guance, in un gesto
istintivo, come per proteggersi da una sua eventuale reazione violenta.
“Non tollero che mi si prenda in giro”,
proruppe severo il tenente, scandendo ogni parola e inasprendo così il suo
accento, per poi battere forte i pugni sul materasso, a pochi centimetri dai
fianchi di Sarah, la quale tremò.
“Alzati immediatamente”, proseguì
Hermann risoluto e, aggiustatosi concitatamente i pantaloni, con uno scatto,
balzò dal letto.
Prese dal comodino la confezione di sigarette e, con dita tremanti per il nervosismo, ne accese una, mentre la ragazza era già scattata in piedi, pallida e tremante nella sua sottoveste bianca e stropicciata.
Aspirò la prima boccata di fumo e si
espresse con parole di ironia e disprezzo, per non cedere alla bellezza di
quegli occhi che, come gemme dorate, luccicavano di paura e smarrimento: “Se la
mia intenzione era quella di stare con un cadavere, avrei provveduto
diversamente.” Un’ebrea non poteva avere degli occhi così belli. “Così non
andiamo proprio bene, ragazzina”, disse, in un crescendo di voce sempre più
incalzante.
Alle orecchie di Sarah, le parole
minacciose del tenente arrivavano come un suono lontano e la sua mente, come
annebbiata, non riusciva a formulare nessun pensiero, nessuna risposta con la
quale potersi giustificare.
Espirando un altro tiro di sigaretta,
Hermann mandò fuori altra cattiveria: “Non credere di poterti salvare,
comportandoti in questo modo.” Un’ebrea non poteva essere così bella, con i
capelli tutti scompigliati e la faccia mezza livida. “Sappi che non ho ancora
cancellato il tuo nome dalla lista”, confessò e la ragazza sgranò gli occhi,
guardandolo con un’espressione di terrore.
Era il pensiero di Auschwitz che le gelò
il sangue nelle vene e iniziò a farla sudare freddo, mentre le sue labbra
provavano ad aprirsi in parole spezzate, biascicate: “Signor tenente, mi
dispiace, io…”
Le palpebre si fecero pesanti, la vista
divenne sfocata e il corpo oscillò, perdendo il suo equilibrio.
“Io…” Provò ancora a esprimersi, ma si
ritrovò nel buio di un vagone diretto verso Auschwitz.
Sarah era svenuta e fu un bene per
entrambi.
Immagine dal film “Il club del
libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”
“E
lei sognava una musica dolce
e
labbra morbide da accarezzare,
chiari
di luna e onde del mare,
piccole
frasi da sussurrare.
E
lei sognava un amore profondo,
unico
e grande, più grande del mondo.
Come
un fiore che è stato spezzato,
così
l’amore le avevan rubato.”
Luca
Barbarossa, L’amore rubato