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Autore: Loscrittoremediobis    11/12/2019    0 recensioni
Avete mai visto uno specchio?
Quell‘oggetto così comune, così solito ma anche così misterioso.
Avete mai provato a toccarlo?
Avete mai tastato quella superfice così liscia da sembrare un lago pronto a incresparsi? Avete mai immaginato di immergersi dentro o vedere qualcosa emergere?
È una pazzia, direte, una sciocchezza; eppure è quello che è capitato a me, Aurore Lumiene: ragazza catapultata in una realtà senza niente di logico, impegnata in una ricerca più grande di lei con compagni tutto fuorché eroici. Una ragazza che dovrà giocare bene le sue carte per sopravvivere in un mondo dove bianco e nero non sono ben distinti e dove, con mille lacrime, tradimenti e legami, riuscirà a voltarsi e a fronteggiare le ombre del futuro.
Se vuoi iniziare quest‘avventura, equivalente a un thè con il Cappellaio Matto, non ti fermeremo...a tuo rischio e pericolo.
Genere: Commedia, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Una delle cose che avevo imparato all’orfanotrofio era che dietro a ogni famiglia c’era una casa che li rispecchiava totalmente. In tutte le famiglie a cui sono stata affidata vedevo come la loro abitazione riproduceva esattamente il loro pensiero, educazione e cultura. Una persona semplice avrà una casa semplice, una persona eccentrica ne avrà una eccentrica e così via, pensavo, in un eterno copia incolla. Almeno fino ad ora. Perché, guardando gli interni datati della casa in cui eravamo state accolte, mi resi conto di come cozzasse con l’immagine del proprietario, che mi sarei immaginata stare in un appartamento e non in una rustica casa famiglia. Ogni dettaglio sembrava fuori posto: le mura color crema, il pavimento di legno e il tappeto che, coi suoi motivi astratti e floreali, decorava quel impiantito troppo lucido per essere stato lavato solo ieri. A sinistra della sala piccole teche di vetro ospitavano i tipi più vasti di libri: tomi voluminosi rilegati in cuoio, piccoli volumetti incastrati fra gli spazi mancanti che si notavano per miracolo. Sembravano quasi mostrare un interesse smodato per la cultura, ritrovandomi a essere curiosa sui contenuti di quei libri dall’aspetto così inusuale e vecchio che persone come me ne avrebbero capito solo un terzo. All’estrema destra ,invece, un caminetto stava penando la solitudine di un mese in cui il freddo non era sovrano. Un tavolino di legno rotondo e due poltrone erano posizionate davanti a quest’ultimo, creando un perfetto angolo di lettura. La televisione al muro sembrava l’unico elemento idoneo al proprietario, risaltando per le sue forme minime e regolari. In fondo alla stanza delle piante erano ordinatamente disposte; sembrava quasi che il sole avesse deciso di illuminare solo loro, passando dalle ampie finestre e rischiarando, quindi, la stanza con la luce fugace d’Aprile. Un piano nero, situato in fondo a destra, sembrava quasi essere stato il re di quelle piccole serate intime fra amici, accompagnati da musica, voci e tanto alcool. Posai lo sguardo sulla tazzina da the che tenevo tra le mani: il bianco e il rosso sembravano giocare, in un mosaico reso coeso solo da piccole linee dorate. Osservai il liquido scuro, così simile al colore dei due divani in cui eravamo seduti, dondolare pigramente. E senza ulteriori ripensamenti, presi un biscotto dal piattino sopra il tavolo di legno bislungo, e me lo mangiai, gustandone il sapore. Inutile dire che mi stavo ingozzando peggio di un porco. Bevvi un sorso della bevanda, sopprimendo l’istinto di arretrare per il calore. La conversazione, che a detta della signora Brunetti sarebbe durata solo qualche minuto, si stava allungando a una buona mezzora, ovviamente non integrandomi per nulla. “Tipico degli adulti. Quando parlano non si fermano più” pensai rassegnata, bevendo più cautamente un altro sorso. -Allora Aurore. Questo non è il tuo primo colloquio, vero?- Sobbalzai per la domanda, tossendo il the così forte da sembrare che stessi per morire di soffocamento. Alzai gli occhi lacrimanti, incrociando quelli bruni del proprietario che mi guardava con un misto di riguardo e preoccupazione. Eccolo, lui. Lo stesso uomo che ha avuto la malaugurata idea di scegliere proprio me fra i tanti, nonostante fosse stato informato dei miei “incidenti”. Lo stesso uomo che si era presentato al colloquio con un sorriso solare, nonostante la sua stazza che avrebbe intimorito chiunque. Con la bocca piena di cibo lo osservai: gli occhi nocciola erano pieni di apparente curiosità. I capelli neri tirati all’indietro e la camicia di un rosa pallido creavano un immagine contrastante e completamente diversa dal minaccioso bodyguard che la prima volta, anche se per un momento, mi era balenata in testa. L’espressione tirata in un sincero sorriso, il tipico riso della prima volta. Rimasi per vari secondi zitta; ancora presa dal metabolizzare la domanda e dallo sgranocchiare rumorosamente i chili di dolci che la mia bocca stava contenendo, facendomi assomigliare a uno scoiattolo. L’espressione dell’uomo cambiò, passando dalla contentezza al puro dubbio, come incredulo del mio comportamento. Anche la signora Brunetti notò il mio inusuale silenzio, voltandosi e puntandomi il suo sguardo da pesce. Il panico prese il sopravvento: cosa avrei dovuto rispondere? Non avevo sentito la domanda. E se avessi detto la cosa sbagliata? Non potevo già trovarmi sulla via di ritorno. Forse era troppo tardi? Forse mi stava prendendo per pazza? Rimasi a fissare gli sguardi dei due, finché non trovai la forza di inghiottire quell’enorme ammasso di resti che avevo ancora la forza di chiamare cibo. -Tutto a posto?- Chiesi con un fil di voce, maledicendomi per la domanda cretina che la mia mente aveva partorito. L’uomo continuò a fissarmi, l’espressione mutata in celato divertimento. -Sì, è solo che ti sono rimaste delle briciole sulla faccia- rispose, porgendomi un fazzoletto. La signora Brunetti non resistette più e scoppiò in una fragorosa risata. Presi imbarazzata il fazzoletto e me lo strofinai energicamente su tutto il viso, per sicurezza. Ormai avevo capito: quando facevo una figura di merda mi davano un fazzoletto, sempre. -Sì! Come dice? Se è la mia prima volta? No, in realtà è la terz…no! Quarta! È la quarta volta, sì- urlai imbarazzata, aumentando solo l’ilarità generale. Abbassai il viso rossa in volto, certa che quella figura sarebbe stata l’ultima figura che avrei fatto lì. L’uomo rise, grattandosi il mento sbarbato. –Molto bene Aurore. Senti, io e la signora Brunetti dobbiamo parlare degli ultimi dettagli. Se vuoi, intanto, puoi fare un giro della casa-. Annuii e, dopo essermi alzata, mi diressi velocemente verso il corridoio, emozionata dallo scoprire ogni angolo di quella dimora così inusuale. -Grazie mille, signor…- rimasi in sospeso per qualche secondo, producendo solo un fastidioso rumore. Mi ero completamente scordata il suo nome. -Lucas. Lucas Harris- rispose l’uomo, con un sorriso a trentadue denti. Le mie sopracciglia si alzarono all’udire quel nome così insolito per questo paese. Magari era straniero, proprio come me. -Mi scusi?- Strinsi il pugno, nella paura di fare una domanda inopportuna. –Ma lei è inglese?- La signora Brunetti sgranò gli occhi, presa alla sprovvista per la domanda inadeguata. Lucas, invece, non sembrava preoccuparsene, allargando il suo sorriso e negando con la testa. –No, no. Sono americano. Comunque ho capito la tua domanda: non sono nato qui, mi ci sono trasferito da un po’ di anni-. Incrociò le braccia sotto all’ampio petto. –Non preoccuparti per le domande. Non mi sono mai piaciuti i tipi troppo remissivi-. Arrossii ancora, sciogliendo le dita dalla morsa che mi ero creata. Con un grazie mi congedai, imboccando il corridoio. C’erano due porte, una davanti e una a destra, che sembravano chiamarmi. Ma il mio sguardo si posò sulle scale di un legno talmente scuro da sembrare nero. Cercando di fare meno rumore possibile salii, ritrovandomi in un corridoio simile a quello di un albergo: lungo, moquette di un rosso scuro e pareti beje rendevano l’atmosfera tranquilla. Varie porte di legno erano chiuse e continuavano fino alla svolta del corridoio. Le guardai curiosa: sapevo abitassero l’uomo e un altro ragazzo, non capivo la necessità di tutte quelle porte. Che fossi capitata nella casa di un filantropo adottatore compulsivo? Continuai a osservare quei piccoli ingressi di legno. Se tutto fosse andato bene una di queste stanze sarebbe stata mia, avrei potuto dormire in un letto tutto mio, da sola. Sentii la bocca seccarsi; se da una parte l’idea di vivere con una famiglia mi eccitava mi spaventava anche: ogni volta mi chiedevo come avrei potuto fare a meno degli schiamazzi in camera, dei sorveglianti che ci ordinavano di tacere e delle chiacchierate notturne. Nonostante avessi cambiato famiglia tre volte, quel senso di disagio restava. Forse era quello che sotto sotto mi dava un lato positivo nel ritorno. “E se questa fosse la volta definitiva? Se veramente rimanessi qui?” Presi un respiro profondo, placando quel mare di pensieri che si agitava pericolosamente in me. Dovevo lasciarmi alle spalle tutto questo, non potevo vivere per sempre all’orfanotrofio. Un giorno sarei cresciuta, diventata grande e mi sarei dovuta adeguare al mondo esterno. Non potevo andare avanti senza qualche sacrificio; gli amici dell’orfanotrofio non li avrei persi per sempre, potevo farcela. Strinsi la maniglia della porta. Magari dare un’occhiata alla stanza mi avrebbe aiutato a calmarmi. Presi un altro respiro, spingendo lentamente la maniglia verso il basso. Il piccolo spiraglio creatosi mostrò un pavimento in legno e delle mura bianche: la luce e l’aria che faceva dondolare delicatamente un pezzo di stoffa bianca mi fecero capire che la finestra era aperta, facendo entrare la brezza di campagna. Continuai a osservare quel piccolo scorcio, come incantata. La mano continuava il suo semplice movimento, vogliosa di scoprire di più. Il rumore di una porta sbattuta mi fece trasalire, facendomi chiudere la mia con forza e voltandomi. Un ragazzo stringeva la maniglia della porta opposta, chiudendola definitivamente. Sembrava che si fosse appena alzato dal letto: capelli bruni scompigliati, occhi nocciola leggermente assonati. Con tranquillità tiro fuori dalla tasca dei jeans degli auricolari bianchi, completamente attorcigliati. Il suo fisico secco lo faceva assomigliare a una sorta di zombie. Presa alla sprovvista per poco non feci cadere un vaso appoggiato a un tavolino, dopo averlo ripreso maldestramente lo rimisi imbarazzata al suo posto, osservando il ragazzo, impegnato nel sbrogliare quell’intricatissimo nodo canuto. “Forse è lui l’altro ragazzo adottato” pensai, notando come non ci fosse nessuna somiglianza fra lui e Lucas, persino il colore degli occhi sembrava non corrispondere. Con un enorme sforzo cercai di mettere da parte l’imbarazzo, alzando la mano per salutarlo. Il ragazzo però non mi diede il tempo di spiccare una parola che si mise le cuffie, le collegò al telefono e con nochalance scese le scale fissando quest’ultimo. Rimasi per qualche secondo immobile, incapace di analizzare completamente la situazione. Quando la gabbia del criceto iniziò a girare, realizzai. Mi aveva ignorata! A meno che i maschi non abbiamo un linguaggio segreto con cui comunicare quello mi aveva snobbata completamente! Scesi le scale stizzita, mentre parole poco gradevoli uscirono dalla mia bocca. Se la signora Brunetti le avesse sentite mi avrebbe lavato la bocca con il detersivo a vita. Arrivai al piano terra. Del ragazzo cafone nessuna traccia. Spostai lo sguardo ovunque, nella speranza di trovarlo, ma quello che vidi furono solo muri, pavimenti e porte. Una voce gracchiante mi distolse dalla ricerca: sembrava chiamarmi. Decisi di rimandare la caccia all’uomo e andai verso la direzione del richiamo. La signora Brunetti e Lucas mi aspettavano in salotto, entrambi con un sorriso in volto. -Allora?- Chiesi senza troppi giri di parole. Il riso sui loro volti accese in me una piccola speranza: che mi avesse presa? Se avesse deciso di accogliermi definitivamente sotto al suo tetto? Avrei lasciato l’orfanotrofio per sempre? Oppure era solo l’ennesimo periodo? Mi torturai nervosamente le mani, che nel frattempo stavano sudando a dirotto. -Allora- la voce di Lucas suonò pacata e cristallina, per quanto bassa fosse. –Benvenuta nella tua nuova casa, Aurore-.
   
 
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