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Autore: Loscrittoremediobis    18/12/2019    0 recensioni
Avete mai visto uno specchio?
Quell‘oggetto così comune, così solito ma anche così misterioso.
Avete mai provato a toccarlo?
Avete mai tastato quella superfice così liscia da sembrare un lago pronto a incresparsi? Avete mai immaginato di immergersi dentro o vedere qualcosa emergere?
È una pazzia, direte, una sciocchezza; eppure è quello che è capitato a me, Aurore Lumiene: ragazza catapultata in una realtà senza niente di logico, impegnata in una ricerca più grande di lei con compagni tutto fuorché eroici. Una ragazza che dovrà giocare bene le sue carte per sopravvivere in un mondo dove bianco e nero non sono ben distinti e dove, con mille lacrime, tradimenti e legami, riuscirà a voltarsi e a fronteggiare le ombre del futuro.
Se vuoi iniziare quest‘avventura, equivalente a un thè con il Cappellaio Matto, non ti fermeremo...a tuo rischio e pericolo.
Genere: Commedia, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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-Allora, ti piace?- Annuii vigorosamente, continuando a osservare la stanza che Lucas mi aveva dato. Mi voltai verso l’uomo, sorridendo. -È fantastica, grazie-. -Sono felice che ti piaccia-. L’uomo emise una grassa risata che si espanse per tutta la sala. -È ancora molto spoglia, lo so, ma vedrai che col tempo ti ci abituerai-. Mi sedetti sul materasso del letto, affondando leggermente per la sua morbidezza. Mi ritrovai a sorridere ancora di più, cosa che non passò inosservata all’uomo. -Sì, suppongo di sì- dissi, giocherellando col lembo delle coperte canute. Lucas si voltò soddisfatto, aprendo la porta per uscire. –Se hai bisogno di qualunque cosa non esitare a chiamarmi, va bene?- Annuii ancora una volta, e dopo che Lucas mi disse l’orario della cena, uscì, lasciandomi da sola. Mi sdraiai sul letto, buttando fuori l’aria che inconsciamente avevo trattenuto. I miei occhi si posarono sul soffitto bianco che, come una tela nuova, segnava l’inizio di qualcosa, un qualcosa che avrei dovuto dipingere io. Mi rialzai, osservando la mia nuova stanza: il pavimento di legno si intonava a tutta la semplice mobilia, che copriva a malapena il vuoto della stanza. Un letto alla parete destra, un comodino di legno con un piccolo abajour bianco. Una scrivania lignea di fronte, un armadio legnaceo un po’ più a sinistra e una finestra bianca chiusa. Basta, solo questo. Mi alzai dal letto, aprendo la finestra per far passare un po’ d’aria. Nonostante la camera avesse arieggiato fino ad ora avevo bisogno di un contatto con l’esterno, un elemento che rompesse quel silenzio tombale. Il soffio del vento sembrò calmarmi, anche se di poco. Mi voltai verso la porta, come se aspettassi un ospite che non sarebbe arrivato. Tornai a guardare il paesaggio, cercando di placare quelle emozioni contrastanti: era una camera splendida, nella sua semplicità, ma era la prima camera in cui ero da sola. Ho sempre vissuto in stanze piene di persone, ragazze come me che non avevano una famiglia. Un luogo in cui potevo entrarci a qualsiasi ora ma ci avrei trovato qualcuno, amato o odiato. Un posto che man mano si svuotava, dando spazio a nuove persone che sostituivano parzialmente la perdita. Qui ero sola. Chiusi la finestra, iniziando a venirmi a noi l’aria campagnola. Nelle altre famiglie avevo sempre avuto un compagno di stanza, qui invece gli unici compagni erano il letto, la scrivania e possibili insetti che sarebbero potuti entrare. Quest’ultimo pensiero mi diede un brivido. Chiusi la finestra: l’ultima cosa che volevo era una di quelle bestiacce in giro per casa, non avrei retto. A passi lenti mi avvicinai alla valigia che avevo lasciato vicino alla porta. Senza troppe cerimonie la buttai sul letto, aprendola e iniziando a smistare la roba. Mettere le cose al loro posto aveva un che di rilassante, ero talmente abituata a quella procedura da farla quasi meccanicamente, diventando un’esperta nel fare e disfare le valige. Aprì l’armadio, trovando anche tanti piccoli scomparti. Sistemai ogni cosa al suo posto: biancheria intima, magliette, pantaloni e qualsiasi altra cosa fosse dentro la valigia. Come tanti pezzi di un puzzle che avevano un posto specifico, ogni cosa veniva sistemata attentamente. Quando ritrovai la valigia vuota osservai il mio operato: l’armadio, parzialmente pieno, sembrava dare già un tocco di personalità alla stanza. Posai la valigia sotto al letto, buttandomi sopra esso, sospirando. Mi lasciai avvolgere dal calore del letto, potendo finalmente scaricare tutto lo stress accumulato in questa giornata. Ripensai a tutto: alla partenza, al viaggio, alla signora Brunetti. Chissà quando potrò rivederla, se fra un paio di mesi o mai più. Sentii una fitta allo stomaco, il pensiero di rinunciare a lei era ancora difficilmente concepibile. Era sempre stata come una seconda madre per me. Ripensai a Lucas: non sembrava male, anzi, mi stava già simpatico. Nonostante il suo aspetto minaccioso sembrava un uomo di gran cuore. Stessa cosa non potevo dire del ragazzo, che mi aveva beatamente ignorata. Sospirai rassegnata, dovevo mettermi l’anima in pace: avrei dovuto conviverci, quindi che mi piacesse o no dovevo stabilire qualche legame. Mi voltai, ritrovandomi a fissare il soffitto: niente era perfetto dopo tutto, c’era sempre quell’elemento fastidioso. Mi alzai, ignara di che ore fossero. Guardai il cielo: il suo colore rosato fece intendere che era tardi. Aprii la porta, ritrovandomi il corridoio deserto. Sentendo borbottare al piano di sotto scesi le scale, sentendo un delizioso profumo invadermi le narici. Lo seguii, con la saliva in bocca: non avevo toccato cibo per tutto il viaggio, avrei ucciso per un pezzo di cibo. O forse era meglio di no: non volevo aggiungere al mio già pesante curriculum “killer della famiglia adottiva che ha conosciuto da qualche ora”. Entrai in cucina, aspirando a pieni polmoni quell’aroma delizioso che, fortunatamente, non cessava. Le piastrelle bianche, insieme alle pareti di un giallo chiaro, spezzavano l’atmosfera antica e leggermente lugubre della casa, dandole un tocco di vita. Lucas stava finendo gli ultimi preparativi ai fornelli: indossava un grembiule nero sopra la camicia, evidentemente per non sporcarsi. Kyle era seduto al tavolo di legno a sinistra della stanza, giocherellando annoiato con una forchetta. Mi rivolse uno sguardo veloce, prima di ritornare a giocare con la sua nuova amica. Strinsi i pugni, osservando la porta finestra alle sue spalle e considerando l’idea di scappare non così scema. Il pasto era sempre un momento imbarazzante: tutti seduti, in silenzio, a mangiare e chiederti, ogni morte di papa, come fosse andata la giornata. Ma il primo pasto era ancora peggio: nessuno ti conosce, tu non conosci niente e nessuno, e soprattutto, cosa più importante, non hai la più pallida idea di come sarà la qualità culinaria, ritrovandoti con la possibilità di mangiare un piatto potenzialmente tossico, com’era accaduto nella seconda famiglia. Soppressi un brivido, cercando di ignorare quell’insalata russa che era tutto fuorché insalata. Osservai il tavolo: la tovaglia, di un verde mela, e le varie stoviglie avrebbero rilassato chiunque, tranne me. Continuavo a pensare che l’idea di scappare dalla finestra non fosse così brutta. Vedendo che era l’unico posto libero, mi sedetti accanto al ragazzo, che continuò a ignorarmi. Lo guardai, cercando di cogliere qualcosa che mi aiutasse a capire che tipo fosse, ma ricevetti solo il nulla. Un cafone quindi. Sospirai, trattenendo il proposito di lanciargli il piatto in faccia. -Ah Aurore, sei arrivata-. Lucas si sedette al tavolo con in mano una pentola fumante di pasta. –Spero che la cena sia di tuo gradimento. Non conoscendo i tuoi gusti ho provato a fare un classico-. Sorrisi, trattenendo l’istinto di saltare addosso alla pentola e divorarne il contenuto. Lucas servì la pasta a tutti. Il ragazzo iniziò a mangiare senza troppe cerimonie. Assaggiai un boccone di quel piatto verde, trattenendo la sorpresa: era buonissima! Molto meglio di quella dell’orfanotrofio. Anche se non ci voleva molto, in effetti. Divorai la pasta, riempiendomi le papille di quel succulento sapore. Continuai a guardare il ragazzo: mangiava come se nulla fosse, evidentemente abituato al sapore. -Vedo che ti è piaciuta-. Lucas si pulì la bocca col tovagliolo. –Ora dimmi. Il tuo nome non è italiano: sei nata qui?- -Sì e no- risposi, arrotolando gli ultimi resti di pasta. –La mia famiglia era francese, ma sono cresciuta in Italia-. L’uomo annuì interessato, per poi spostare lo sguardo verso il ragazzo che ancora era a metà del piatto. Lucas sospirò e con una mano indicò il bruno. –Se non vi siete ancora presentati, lui è Kyle, mio figlio-. Il ragazzo non parve accorgersi di nulla e servì il tossire di Lucas per risvegliarlo. Si voltò verso di me con sguardo vuoto, per poi tendermi svogliatamente la mano. -Kyle, piacere-. -Piacere, Aurore- risposi, stringendogli la mano di rimando. Almeno ora conoscevo il suo nome. –Quindi sei figlio di Lucas? Da dove vieni?- Cercai di non distogliere lo sguardo, quella conversazione stava diventando troppo imbarazzante. -Benton, Kentucky- rispose secco. –E comunque non sono suo figlio, mi ha adottato-. Oh Un silenzio tombale rimbombò nella cucina. Mi torsi le mani imbarazzata, ricordandomi solo in quel momento di quell’informazione datami dalla signora Brunetti. –Ah, scusami- sussurrai. Kyle alzò le spalle, tornando a concentrarsi sul piatto. Sembrava quasi non importagli, come se tutto gli passasse attraverso. Mi ricordò una ragazza dell’orfanotrofio: diceva sempre che non le importava se l’adottassero o no, non avrebbe cambiato nulla. Fu una delle poche con cui non riuscii a rapportarmi. -E lei invece?- Chiesi a Lucas, cercando di sviare la conversazione. L’uomo si grattò la testa leggermente imbarazzato. –Io? Da Garland, in Texas- rispose con un largo sorriso, che aveva un che di strano. –Ah, non darmi del lei ti prego, mi fai sentire vecchio-. -Ok- annuii piano, tornando a concentrarmi sugli ultimi spaghetti nel piatto. Il silenzio sembrò regnare incontrastato per quelli che sembravano secoli, accompagnato solo dal tintinnare delle forchette. Kyle posò la sua e iniziò a fissarmi impassibile. -Quante volte sei stata adottata?- Chiese con una voce innaturalmente ferma. Per poco non mi cadde la forchetta dalle mani, mi voltai lentamente verso di lui. Come faceva a sapere che non era la mia prima volta se non era stato presente al colloquio? Rimasi qualche secondo in silenzio, la mano stretta attorno all’arnese metallico e la mente che non riusciva a schiodarsi quel dubbio. Aveva origliato sicuramente, ma come? Non l’avevo incontrato per le scale e soprattutto non avevo sentito il benché minimo rumore. Sentii la gola secca, come se fosse piena di bile, e, con voce vacua, risposi quattro. -E come mai?- Chiese con una leggera sfumatura di divertimento. -Piccoli problemi…particolari- risposi in un istante. Dovevo calmarmi, ma l’immagine di lui che spiava il colloquio continuava a rimanermi in testa. Continuavo a chiedermi come avesse fatto, e perché mi faceva queste domande. Il sorrisetto del bastardo si fece più evidente, come se provasse una sorta di piacere per quella situazione. -Allora non durerai tanto-. -Kyle, basta-. La voce di Lucas era velata d’irritazione. –Non dire scemenze-. -Non sono scemenze- rispose il ragazzo, sempre più divertito. –Non passerà nemmeno un mese che sarà già sulla strada del ritorno-. Fu come un pugno sullo stomaco. -Ora basta, Kyle!- Lucas colpì il tavolo talmente forte da far tremare tutto, spaventando il bruno. Mi alzai, non riuscendo più a stare in quella gabbia di sguardi infuocati. Corsi via, ignorando le grida di Lucas, ignorando il rumore dei miei passi e la porta sbattere. Volevo solo poter respirare, stare da sola e ascoltare il silenzio. Kyle -Aurore, aspetta!- Inutile, era già scappata via. -Kyle…- Lucas si voltò verso di me, funereo in volto e con le sopracciglia talmente vicine da riuscire quasi a toccarsi. Trattenni un brivido: non l’avevo mai fatto arrabbiare così tanto, sembrava sul punto di esplodere. -Si può sapere perché diamine l’hai fatto?!- Strinse il tavolo talmente forte che lo sentì scricchiolare. Forse avevo esagerato. -Beh, cosa ti aspettavi? Non ho mica promesso di fare il santarellino con lei. Neanche la volevo!- Strinsi i pugni, non aveva tenuto nemmeno conto della mia opinione: ero entrato e avevo ricevuto la notizia della nuova arrivata, tutto all’improvviso, tutto senza che mi fosse stato detto, solo per quella stupida forza maggiore. Aprii di nuovo la bocca, cercando di trattenermi dall’urlare, ma il fiato mi si mozzò quando vidi la sua espressione, l’errore che avevo combinato. -Non me ne frega se tu la volevi o no! È pur sempre una persona!- Lo scricchiolio del tavolo aumentò d’intensità. –Lo sai benissimo il perché è qui! E anche se è toccato a noi dobbiamo trattarla con rispetto!- -Sei stato costretto! Mi spieghi che senso ha!?- Urlai, al limite della rabbia. –Non era previsto per nessuno!- -Chiudi. Quella. Bocca!- Urlò l’uomo, al limite della furia. Un rumore secco rimbombò nell’aria, facendomi sobbalzare. Lucas osservò confuso il pezzo di legno che aveva staccato di netto, per poi respirare profondamente. Posò il pezzo dove poté e alzò lo sguardo: non c’era più furia, ma rassegnazione, quasi delusione. Avevo veramente esagerato. -Andiamo- disse, mettendosi una mano fra i capelli corvini. –Potrebbe essere ovunque, dobbiamo trovarla subito-. Aprii la bocca, tentando di ribattere, ma Lucas mi bloccò con un gesto secco. –Niente ma! Prendi il cappotto, dobbiamo trovarla prima che le succeda qualcosa- disse, avviandosi verso la porta; io ancora immobile, destabilizzato da quello che stavo vedendo. Avrei voluto scusarmi, dirgli che mi dispiaceva, ma le parole mi morirono in gola. -Zitto-. Il suo tono era calmo, quasi affranto. –Ora il nostro obbiettivo è trovarla, nient’altro. Zitto e cammina-. Fece male, più male di qualsiasi altra cosa, di qualsiasi grido o parola. Avrei preferito sentirlo urlare per un’altra ora piuttosto che sostenere quello sguardo, carico di delusione. Mi alzai a forza dalla sedia: non volevo farlo, in fondo era quello che volevo, no? Che quell’ospite improvviso si levasse dai piedi. E allora perché non festeggiavo? Perché non saltavo dalla gioia e non leggevo un libro tranquillamente, come facevo ogni volta che tutto andava bene? Seguii Lucas verso l’ingresso: prese di fretta il cappotto nero e mi lanciò il mio, che presi per poco. Quello sguardo, era per quello che non festeggiavo. Non feci in tempo a mettere il capo che Lucas aprì la finestra. Il freddo serale invase il corridoio, facendomi rabbrividire più di quanto non stessi facendo ora. E poi lo sentimmo: come il tuono che aveva squarciato quel silenzio un attimo fa, istantaneo e acuto. Un urlo. Aurore Un altro soffio di vento mi fece rabbrividire, sottolineando la mia stupidità nell’ aver dimenticato il cappotto. Mi strinsi nelle spalle, sperando che almeno il mio corpo fosse riuscito a riscaldarmi. Ma i brividi freddi non cessavano, sia esteriori che interiori. Sospirai, stropicciandomi gli occhi e sedendomi sull’ erba fredda e umida. Ero scappata più lontano che potevo, senza pensare a dove andare, avevo continuato a correre fino a che le gambe non avevano gridato pietà. Sospirai ancora, osservando il piccolo parco in cui ero approdata, la signora Brunetti aveva ragione quando diceva che Lime di notte era tranquilla: le piccole distese d’erba nera erano completamente spoglie e vuote, ad eccezione di qualche albero che spuntava qua e là, per dare un’aria più realistica a quel parco completamente deserto. Appoggiai la testa alle ginocchia e chiusi gli occhi, infastiditi dalla luce fioca del lampione. Presi un respiro profondo, sentendo quel misto di ansia e tensione scivolare lentamente dal mio corpo, accompagnato dal suono del battiti cardiaci. Premetti la fronte contro le ginocchia, sospirando l’ennesima volta. Ero al sicuro ora. Rialzai lo sguardo, osservando le grigie strade vuote, se fossi stata nella mia vecchia città avrei avuto più paura che altro, non si sapeva mai chi poteva esserci in un parco di notte: stupratori, drogati o clown assassini. “Idiota” pensai, alzandomi lentamente. Mi appoggiai all’albero più vicino, respirando un paio di volte. Non volevo tornare lì, non dopo quello che avevo sentito, non sarei riuscita a sopportare le provocazioni di Kyle tutti i giorni; quello che mi aveva detto…mi misi la mano sulla fronte, come se da un momento all’altro mi fossi potuta ammalare, non riuscivo a capire il perché mi avesse attaccato così: come se fossi un chissà quale grande ostacolo. “Ho lottato così tanto per questo, però. Non posso andare, non per la quarta volta”. Respirai profondamente, conscia di quel piccolo pensiero che si era annidato nella mia mente. Non potevo scappare, sarei dovuta tornare e la signora Brunetti come la prenderebbe? Dovevo ragionare con razionalità: ero scappata da una casa nella quale abitava un cafone il primo giorno in cui ci avevo messo piede, ero sola, di notte, in un parco. Al diavolo, era meglio tornare. Mi strinsi nuovamente nelle spalle, immaginando le conseguenze del mio ritorno: sarei stata sgridata da Lucas? Oppure mi avrebbe tranquillizzato? Dopotutto neanche lui era d’accordo con l’atteggiamento di Kyle, ma non toglie che sono uscita di notte da sola, in un posto sconosciuto. Mi tremarono le gambe: l’idea di entrare nella tana del lupo non mi elettrizzava. Mi sarei dovuta svegliare ogni giorno con la consapevolezza di essere la causa dell’odio di un ragazzo, che probabilmente mi avrebbe trasformato in un parafulmine col quale scatenare la propria rabbia. Mi sarei probabilmente beccata anche la rabbia di Lucas: volevo davvero essere attaccata ancora? Non era meglio mettere fine a un possibile circolo? Tagliarlo? Piccole goccioline mi risvegliarono dai miei pensieri. Iniziai a correre, sperando di evitare quella pioggia che purtroppo non tardò ad arrivare, colpendo qualsiasi cosa con i suoi piccoli proiettili. Mi nascosi in un gazebo lì vicino, aspettando che la pioggia diminuisse; passarono svariati minuti, isolata dal battere continuo dell’acqua sul legno e all’odore di umido che, insieme alla natura circostante, creavano un aroma pesante e vischioso. Grugnii, la pioggia sembrava non volersi fermare. Un tuono squarciò l’aria, facendomi sussultare. Dovevo andare via, ora. Senza pensarci due volte iniziai a correre, più veloce di prima. Le piccole gocce colpivano violentemente ogni parte del mio corpo. Il vento si alzò, abbassando ancora di più la temperatura. Continuai a correre, cercando di trovare l’uscita di quel benedetto parco che pareva un labirinto. Un fruscio. Mi bloccai, spaesata da quel suono improvviso: non ci sarebbero dovuti essere animali in quella zona, che fosse una persona? Il fruscio si fece più intenso, le gocce d’acqua scendevano lentamente lungo il mio corpo, inzuppandomi i vestiti. Cercai di calmarmi: magari era semplicemente Lucas che mi stava cercando. Sì come no. Quale persona sana di mente che cerca qualcuno lo seguirebbe nascosto fra i cespugli come un maniaco sessuale? Di certo non lui. Il fruscio aumentò sempre di più e i cespugli iniziarono a muoversi. L’adrenalina pompava nelle vene, il cuore batteva a mille, i muscoli tesi. Cosa stava succedendo? Accadde tutto in un secondo: spuntò fuori, e io non potei fare che solo una cosa. Urlare.
   
 
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