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Autore: Lost In Donbass    12/12/2019    1 recensioni
Eleanora è selvaggia, distrutta, è una marionetta persa nel suo inferno.
Demian soffre di stress post traumatico, e quando dice che vuole morire non lo dice per scherzo.
Denis è un eroe generazionale, ma nasconde segreti che non sono per tutti.
Yurij è la disperazione allo stato puro.
Sono angeli dell'underground siberiano, si incontrano, si amano, si lasciano, in un'escalation di distruzione, alcol, pastiglie, sesso, musica e letteratura russa. Sono arrabbiati, sono violenti, sono persi, sono distrutti.
Sono i mostri dai quali le madri vi tengono a distanza.
Sono i ragazzi di Krasnojarsk, e questo gioco al massacro è appena cominciato.
Genere: Angst, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Threesome | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO QUARTO: GUNS

We all carry these things inside that no one else can see.
They hold us down like anchors. They drown us out at sea.
I look up to the sky, there may be nothing there to see.
But if I don't believe in him, why would he believe in me?

[Bring Me The Horizon – Chelsea Smile]
 
Demian stringeva la pistola gelida in mano e la guardava affascinato, un sorriso stanco dipinto sul viso angoloso. Non avrebbe dovuto essere armato, lui, il soldato traumatizzato da una guerra che lo aveva lasciato distrutto dentro. Non avrebbe dovuto, ma quella pistola gli faceva compagnia da ormai tre anni. La sua migliore amica, quella che in un battito di ciglia avrebbe potuto farlo finire in un mondo migliore. Quella che lo avrebbe salvato dal dolore che covava dietro a occhi più chiari del cielo del meriggio.
Si passò una mano tra i capelli scuri, e si poggiò la pistola sulla tempia. Lo faceva ogni mese da quel giorno. Tentava la sorte, la sorte che aveva ammazzato loro ma che aveva lasciato in vita l’assassino, il bastardo, il mostro. Lui, Demian Nikolaevich Shaforostov. Deglutì rumorosamente – di nuovo, avrebbe visto la morte in faccia. Non la temeva più, però, era già morto infinite volte. Sorrise appena, al nulla e fece scattare la sicura della pistola, girando il caricatore. Era familiare ormai quel sordo rumore, esattamente come era familiare il click quando premette il grilletto. Per un secondo, rimase tutto sospeso nel tempo, in un limbo. Come tutti i mesi. Da tre anni a quella parte. Il click, il ricordo lancinante di quel giorno, la speranza folle di morire e poter finire in cielo ad abbracciare le sue vittime.
E poi, come tutti i mesi da tre anni a quella parte, spalancava gli occhi e si ritrovava sempre nel suo appartamento cadente.
Soffocò una bestemmia, e si alzò barcollando, la pistola ancora saldamente stretta in mano e un forte senso di nausea e vertigine. Di nuovo, loro non c’erano e lui c’era. Lui, che non meritava niente, lui, che era un demonio, lui, che stava impazzendo per il senso di colpa che lo schiacciava a terra e lo voleva morto.
Si mise su il caffè e gettò la pistola sul letto, guardandola con desiderio. Non ci voleva niente, per farsi fuori. Avrebbe benissimo potuto farlo in qualunque momento ma c’era ancora qualcosa che lo teneva ancorato alla vita, il Raskol’nikov che era in lui e che anelava alla sofferenza, la disperazione che aveva superato il punto di non ritorno. Doveva vivere e soffrire per quello che aveva fatto.
-Scusate.- sussurrò, mentre il caffè veniva su e lui se ne versava una tazza – Ma non l’ho fatto apposta. Erano gli ordini, capitemi.
Lo diceva ogni volta, nel blando tentativo di convincersi che in fondo non avrebbe potuto fare altro, era destinato a quell’omicidio ma più cercava di convincersi più sprofondava nell’orrore e nella depressione che lo divoravano da anni.
Perché tu hai ammazzato dei bambini, soldato Shaforostov, e per questo tuo crimine non c’è redenzione.
Sentì un forte conato di vomito scuoterlo e si lasciò cadere sul pavimento ansimando. Non voleva ricordare quel giorno. Non voleva pensare al momento in cui aveva ricevuto l’ordine schiacciante “spara”. Lui non avrebbe voluto farlo. Li aveva visti, quei bambini. Gli ricordavano lui da piccolo, quando scorrazzava per le strade della sua Donetsk, quando non avrebbe mai pensato di diventare un reietto, di trasferirsi in Siberia per fuggire dai demoni. Eppure, li aveva uccisi. Aveva sparato ed erano morti dei bambini innocenti. Non si sarebbe mai perdonato per una cosa del genere. Si svegliava ancora la notte urlando, perseguitato da quell’immagine, dai fantasmi di quei piccoletti morti invano in una guerra inutile. Stava impazzendo, Demian, e lo sapeva, ma non era in grado di fermare la discesa della sua follia. Aveva fatto troppo per poter essere perdonato. Aveva compiuto il più disgustoso dei crimini. Aveva ucciso dei bambini.
Si alzò dal pavimento tremando, aveva freddo, un freddo terribile. Si drappeggiò una coperta sulle spalle e bevve il caffè, fissando con astio fuori dalla finestra la neve che cominciava a cadere lentamente, bellissima. Chissà che rapporto avevano avuto quei bambini con la neve. A lui piaceva moltissimo, perché gli ricordava di quando era bambino, un allegro e spensierato bambino del Donbass. Quello stesso Donbass per il quale si era ritrovato a combattere. E poi la Cecenia, e l’Afghanistan. Le sue guerre, le sue battaglie prima di venire congedato per inabilità al servizio. Prima di impazzire del tutto e di ritrovarsi a combattere contro fantasmi che non l’avrebbero mai perdonato.
Appoggiò la fronte al vetro della finestra e mormorò una preghiera rivolta a un dio che troppo spesso lo aveva abbandonato. Voleva scappare via di nuovo. Lasciare anche Krasnojarsk. Magari andare in America, anche se il suo inglese non era dei migliori. O forse tornare in Europa. Magari a Berlino. Magari a Dublino. Bastava lasciarsi alle spalle i mostri notturni.
Sentì la porta aprirsi lentamente e si voltò solo per vedere Eleanora entrare, avvolta in una pesante pelliccia di astrakan, infreddolita e meravigliosa.
-Ciao, tesoro.- disse lei, sorridendogli e cominciando a togliersi scarpe e cappotto.
-Hey dolcezza.
Posò la tazza di caffè sul tavolo e la raggiunse, tirandole affettuosamente una ciocca di capelli sfuggita all’acconciatura.
-Non dovevi essere fuori col ragazzo ucraino?
-E’ matto, Dyoma. Ma lo adoro.- rispose pacificamente lei, alzandosi sulle punte dei piedi e baciandolo. Aveva le labbra freddissime. – Tu che fai?
-Pensavo alla guerra.
Lei annuì, chinando appena il capo e indicò col dito la pistola abbandonata sul letto.
-Perché hai una pistola?
-E’ la mia migliore amica.
-Presentamela allora.
Lei si mosse ancheggiando verso l’arma e la prese in mano, soppesandola. Gli occhi violetti brillavano di una luce sbagliata, desiderosa di conoscenza mentre toccava il metallo gelido. Lui gliela strappò di mano, con un’urgenza che gli era nuova. Non poteva nemmeno processare il fatto che lei toccasse la pistola che tutti i mesi rischiava di prendersi la sua vita.
-Non toccarla.
-Perché no, Dyoma?
-Ti sparo, Eleanora.
Le puntò la pistola alla fronte e per un attimo il sangue gli rombò nelle vene, per un attimo non sentì altro che sapore della polvere in bocca e il rumore delle bombe in sottofondo. Era come tornare di nuovo in guerra. Era come essere di nuovo nel Donbass, in Cecenia, in Afghanistan. Stava puntando un’arma alla fronte della sua donna, ma in quel momento non stava ragionando lucidamente. C’erano solamente lui e i mostri che lei riportava alla luce con la sua bellezza sbagliata.
-Spara, tesoro.- lei sorrise e si lasciò cadere sul letto, con quel suo sorriso morto sulla bocca sporca di rossetto color sangue. – Spara, Demian.
Lui le fu sopra, la schiacciava sul materasso col suo peso e le teneva sempre la pistola puntata contro la fronte. Poteva sparare. Poteva farlo. Aveva già ucciso troppe persone per sconvolgersi di fronte all’ennesima morte. Aveva già visto troppi orrori per pensare di poter continuare a vivere normalmente e quindi stava lì e sudava freddo e gli tremavano le mani e vedeva solamente un mostro e non la bella Elya e …
-Non ce la faccio.
Si tolse da lei come se ne fosse stato scottato, fece scattare la sicura alla pistola e la chiuse in un cassetto, gli occhi allucinati, la schiena madida di sudore.
Lei lo guardava dal letto, languida, mentre cominciava a togliersi il vestito da lolita.
-Non fartene una colpa, tesoro.
Non c’era disprezzo né compassione nella sua voce. C’era solo un infinito stupore verso cose che lei, la ballerina, non avrebbe mai potuto comprendere.
-Vuoi che ti uccida, Elya?
-Voglio che combatti i tuoi demoni, Dyoma.
-Non ce la faccio.
-Ce la farai. Te lo prometto.
Lei si alzò e gli posò le mani sulle spalle, posandogli un bacio delicato sulle labbra.
-Amami, adesso.
E lasciò il suo corpo bianco alla mercé del soldato che voleva solamente scappare da sé stesso.
  
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