CAPITOLO QUARANTOTTO
Ho sempre pensato che la mia storia volevo scrivermela da
sola, e così è stato.
Mia madre mi confermò l’appuntamento fissato presso la sede
locale della banca al fine di poter sbloccare definitivamente l’eredità di mio
padre, ora più che mai sempre più tangibile. A Piergiorgio raccontai la vicenda
di Irina solo durante la notte, quando tra le sua braccia mi sentii più forte.
Non seppi in un primo momento se appoggiava le mie scelte
oppure no, non si espresse. Si limitò ad ascoltarmi in silenzio, lasciandomi
sospesa durante quasi tutto il corso di quella nottata.
Giunsi al mattino successivo senza aver chiuso occhio, e
mentre cercavo di prepararmi per il lavoro squillò il mio cellulare, con la
signora Virginia che mi comunicava tempestivamente che avrei dovuto presentarmi
solo quel pomeriggio, poiché quel mattino avrebbe tentato di prendere servizio
la nuova ragazza e voleva metterla alla prova.
Non fu un male, anzi, una piacevole sorpresa che il mio
George aiutò ad amplificare.
Il mio compagno non aveva esitato un solo attimo a lasciar
perdere il suo lavoro.
Testardo come un mulo, dopo un paio di telefonate a raffica
mi fece salire sul suo fuoristrada. Destinazione? “Sorpresa” rispose a tutti i
miei interrogativi iniziali, sorridendo bonariamente.
“Dio, George, mi metterai in imbarazzo… io di sorprese non te
ne faccio mai…” mormorai, ancora abbastanza confusa da ciò che stava accadendo.
Quella che era iniziata come una giornata ordinaria sembrava volersi tramutare
in tutt’altro.
Udendo quelle mie parole, egli allungò la mano destra verso
di me e sfiorò il mio ventre.
“Esiste forse una sorpresa più bella di questa?” chiese.
“Questo è solo il frutto dell’amore, non un regalo” mi venne
spontaneo rispondere, non seppi mai se a torto o ragione.
“E allora anche ciò che sto facendo è frutto dell’amore, va
bene?” chiese ancora, mettendomi a tacere con la sua solita capacità
dialettica.
“Poi tanto ti sto portando qui vicino, non ti preoccupare,
entro due ore saremo di nuovo a casa. Stai tranquilla” aggiunse.
“Oh, per me non è un problema. Basta che entro le quattordici
mi presenti al bar”.
Il fuoristrada imboccò lo stradone principale che tagliava in
due il nostro borghetto.
Passammo di fronte al Mald’Est, il locale in cui Irene mi
aveva tormentato per tre sere di fila. Mi allungai a guardarne l’insegna
illuminata dal timido sole autunnale, pensando che in fondo erano passati solo
pochi mesi. Una stagione e poco più. E quante cose erano cambiate, così in
fretta.
“A proposito, Virginia sa che presto ti licenzierai, vero?”
tornò a domandarmi con un tono leggermente indagatore.
“Ma certo” lo rassicurai subito, “ adesso sta cercando di
mettere alla prova alcune ragazze, infatti. Vedrai che non mi rimpiangerà”.
Sogghignò.
“Chi non ti rimpiangerebbe?”.
“Be’, mi dispiace per te e per nostro figlio, che dovrete
sopportarmi a lungo…”. Trasportata dalla sua leggera ma profonda ironia, mi
ritrovai a mia volta a sciogliermi un pochino.
Mi scoccò un bacio a distanza, senza mai smettere di
sorridere al di sotto della barba, come potevo vedere distintamente dal suo
profilo.
“Sai che io ti amo e che per me non c’è nulla di più
importante al mondo. Ci sei solo tu. E anche per nostro figlio, tu sarai la
madre che lo sosterrà sempre e che potrà seguirlo lungo il suo cammino”
proseguì, la voce che man mano si incrinava.
“Ehi” lo ripresi gentilmente, “non dire così. Tu sarai il
padre che amerà e che prenderà come esempio nelle sue imprese…”.
Mi interruppi solo quando lo vidi troppo commosso per
ascoltare altro.
“Sai benissimo che non ci sarò per sempre”.
Le sue parole lapidarie per la prima volta mi parvero un
losco preambolo, un’anticipazione di un futuro incerto per la nostra famiglia.
Socchiusi gli occhi e lasciai che un attimo di profondo
silenzio seppellisse il nostro ultimo dialogo. Non volevo nemmeno pensare a ciò
che mi aveva appena detto, anche se mi rendevo conto che tutto ciò poteva
essere verosimile. Ma ora che stavo davvero mettendo tutta me stessa in questa
storia, non mi sembrava possibile che potesse infrangersi così banalmente.
“Ti trovi bene in casa mia? Ne facciamo la nostra residenza
matrimoniale?” mi chiese George, tornando a sfoggiare il bel vocione che lo
caratterizzava, anche se sapevo che dentro di sé era ancora in subbuglio e che
stava solo cercando di strappare via quel velo di amarezza che si era calato in
fretta su di noi.
“Sì, va tutto bene…” annuii.
“Che ne dici se chiamo i muratori e gli imbianchini e faccio
mettere a posto il piano superiore? Tanto è sgombro. Lo facciamo sistemare poi
andiamo a dormire su”.
Quelle frasi rassicuranti mi fecero invece sentire a disagio.
Avevo visto con i miei occhi che di sopra non era proprio così come lo stava
descrivendo lui, e che una camera da letto ben ingombra c’era già.
Non riuscendo a trattenermi, affrontai istintivamente la
vicenda.
“In realtà c’è già una stanza da letto ben piena di mobilia…”
la mia voce che si spense da sola quando mi resi conto di aver azzardato.
George in effetti parve colto davvero alla sprovvista dalle mie parole e
sbiancò in viso, prima di decelerare senza quasi accorgersene.
“Sei andata di sopra, allora” constatò a mo’ di affermazione,
rivolgendomi per la prima volta uno sguardo diretto, seppur breve. Era
all’improvviso serio.
“Sì” fui costretta ad ammettere, molto candidamente.
“Immagino che avrai visto… tutto, ecco, se sei entrata in
quella stanza e hai controllato sul letto, o a terra…” balbettò un po’,
titubante. Lo vidi quasi in procinto di fermarsi sul ciglio della strada,
mentre gli altri automobilisti ci sorpassavano tutti.
Mi ritrovai allora costretta a cercare di mettere una pezza
al mezzo pasticcio che avevo combinato.
“No, amore, non devi scusarti di nulla. Davvero, sei a casa
tua, è colpa mia che non mi sono fatta gli affari miei” spiegai, però io volevo
davvero scusarmi, mentre lui invece avvampò e si lasciò cogliere da un imbarazzo
ancora maggiore.
“Ero rimasto solo, senza nessuno, devi capirmi” continuò a
spiegarmi a valanga, senza lasciarmi più parlare, “sai che noi uomini non siamo
forti come voi. Avevo i miei bisogni, i miei ricordi. Le foto della mia vita
precedente, i mobili comprati da giovane, tutto ciò che mi ricordava i momenti
passati io l’ho raccolto lì. Anche… avrai visto quelle riviste, ti giuro che
sono cose comprate prima che stessimo assieme…”.
“Ma tu non devi scusarti di nulla” mi allungai per
accarezzargli i capelli con rassicurante dolcezza, “io ti capisco, non mi
fraintendere. Capisco, davvero. Il tuo comportamento è stato comunque
comprensibile”. Inoltre ero anche convinta che George non avesse molto altro da
offrire dopo i nostri incontri nel letto, poiché facevamo l’amore spesso e
volentieri, quindi il desiderio doveva essere praticamente sempre placato. E
capivo per davvero, mi dispiaceva per ciò che aveva dovuto vivere.
Perché non osavo nemmeno immaginare come fosse vivere dopo
aver perso una compagna, anche se non si era più legati si aveva comunque
convissuto per tantissimi anni. Un vuoto enorme, alla fine, trovarsi soli e
lontani da ogni altro affetto.
Lo comprendevo con tutta me stessa e non gli facevo una colpa
di nulla.
Piergiorgio parve rassicurato dalle mie parole e si
rasserenò, con la guida che tornò a essere regolare.
“So che tu mi capiresti sempre. Sei la parte mancante di me,
assieme ci completiamo” mi disse con dolcezza, e da quelle sue parole intesi
quanto desiderasse cambiare argomento.
“E’ che tu sai fare tutto e io niente”. Rise sommessamente.
“Ognuno di noi sa i fatti suoi. Non si può saper fare tutto,
io stesso non ne sono capace, e non dirmi che non è così. Però l’importante è
tirare avanti, ma soprattutto saper farsi amare dalle persone che conosciamo e
da chi ci circonda” si spiegò con serietà.
“Io non so farmi amare. Per fortuna ho te, amore” gli dissi,
sfiorandogli la mano appoggiata sul cambio. Avvertii un rapidissimo brivido di
passione e di stupore che s’irradiava nei muscoli del suo arto.
“Tutti ti vogliono bene, Isa” si limitò a rispondermi.
“Non è vero” aggiunsi, ripensando a ciò che era accaduto con
quei due mostri con i quali avevo condiviso numerosi momenti importanti della
mia vita. Anche il mio compagno comprese subito a chi mi riferivo e si limitò a
sbuffare, prima di tornare a dire la sua.
“Non si può sempre andare d’accordo con chiunque, è normale.
Poi ci saranno sempre i coglioni che proveranno a rovinarci la vita, ma
l’importante è pensare che in fondo tutto scorre. Il male torna indietro e non
si deve andare in fissa per queste cose. Pensa positivo e pensa soprattutto a
noi due, che così diversi abbiamo fatto tanto e tanto abbiamo ancora da fare.
Pensa a ciò che abbiamo costruito in questi mesi, proprio dopo aver toccato il
fondo.
Ci siamo curati e guariti a vicenda, abbiamo formato una
famiglia. Ci può essere qualcosa di più bello di ciò? Direi proprio di no. E
così non puoi nemmeno affermare che non sai farti amare, perché io ti amo più
della mia stessa vita”.
Lo osservavo con gli occhi inumiditi dalla commozione. Quando
mi parlava in quel modo ispirato percepivo il suo amore nel modo più intenso
possibile, oltre la carne e la semplice materia. Era il suo spirito ad avere
voce ed era quello l’importante per me.
Avrei tanto voluto baciarlo, stringerlo a me e lasciarmi
andare alla passione, ma non potevo. Mi limitai ad assaporare la sua essenza antica,
lo spirito di chi sapeva ancora amare in un mondo ormai in rovina a livello di
sentimenti.
“Anche io ti voglio bene, e ti amo alla follia. Senza di te,
non so chi sarei diventata” affermai con la voce incrinata.
Era la verità; ricordavo bene la mia fine con Marco e tutto
quel turbinio spiacevole che mi aveva quasi condotta alla follia. Senza George
la mia esistenza sarebbe stata un profondo buco nero da cui non sarei riemersa
mai più.
“Senza di me, saresti stata una persona migliore… avresti
avuto la felicità, magari con qualche tuo coetaneo…”. A quel punto quasi
sussultai, e con decisione lo frenai di colpo.
“Non dirlo nemmeno per scherzo. Io sono felice così, questa è
la vita migliore che avrei mai potuto desiderare” ma lui non apparve molto convinto.
Con la fronte corrugata, mi rispose in modo molto neutro.
“Io non potrò esserci per sempre per te, per voi…”.
“Perché me lo ricordi sempre, George? Perché fai così?” gli
chiesi con impeto.
Fu in quel preciso istante che intuii che forse il mio compagno
mi stava nascondendo qualcosa. Ma cosa? Un qualcosa di brutto, che non voleva
che io sapessi. D’altronde immaginavo che chi stesse bene non pensasse
continuamente a quando non ci sarebbe più stato.
“Io non mi pento di ciò che ho costruito con te, sei stata la
mia fortuna più grande” precisò.
“Mi rattristi, però”.
Lo riconobbe tramite un semplice, breve cenno del capo, quasi
impercettibile.
Prima che la nostra discussione potesse diventare ancora più
greve, ci venne incontro la sorte.
“Siamo quasi arrivati” disse George, distogliendomi dai
loschi pensieri.
Il mio sguardo scivolò fuori dal finestrino, lasciandosi
incantare dal turbinio di case che circondava il nostro mezzo in movimento. La
via Emilia si snodava davanti a noi con piccole curve e semafori, di tanto in
tanto.
Stavo capendo dove mi aveva portato, dove eravamo in quel
momento, ma perché quella sorta di improvvisata gita fuori porta? Non capivo,
ancora.
Quando meno me l’aspettavo l’auto sterzò e imbucammo una
delle tante viuzze centrali del borgo. Conduceva alla piazza principale. E
infatti George parcheggiò il fuoristrada a una ventina di metri dal
distributore di carburante, ad altrettanto dal centro cittadino.
“Perché a Santarcangelo?” riuscii finalmente a chiedergli.
Santarcangelo di Romagna era una radiosa cittadina a poca distanza dal nostro
paese, tuttavia non era mai stata di mio gradimento e l’avevo frequentata
relativamente poco. Durante l’adolescenza, i miei compagni di classe ci
andavano spesso grazie ai sicuri bus di linea, però a me non era mai piaciuta
come meta.
Piergiorgio non mi rispose, enigmatico come suo solito, e
sorridendomi mi fece cenno di scendere.
“Andiamo in piazza, su” si limitò ad affermare.
Senza tentennare oltre scesi a mia volta dal fuoristrada, con
il mio compagno che lo chiuse a chiave e che poi mi prese dolcemente a
braccetto, da vero gentiluomo.
Camminammo assieme e in silenzio per tutta la durata del
breve tragitto, nemmeno dieci minuti a piedi. Attorno a me murales e muri
scoloriti di un centro storico mal custodito si avvicendavano con scene di vita
quotidiana di chi abitava la zona centrale della città. Donne con i sacchetti
della spesa, ragazzi in giro con il cane al guinzaglio.
Poca gente e tutta silenziosa e seria; Santarcangelo era
rimasta come me la ricordavo, identica a un paio d’anni prima. Sapendo che le
botteghe e i negozi erano tutti concentrati sotto il lungo loggiato che si
affacciava sulla piazza, non mi stupii più di tanto di quel mortorio assoluto.
Piazza Ganganelli ci accolse all’improvviso, facendo capolino
tra le case e i vicoli stretti e maleodoranti.
Piergiorgio proseguì spedito verso quel largo spiazzo.
“Da quant’è che non ci sei venuta?” mi chiese, rompendo il
silenzio che aleggiava su di noi da un po’.
“Santarcangelo non mi ha mai fatta impazzire” non gli
nascosi, “saranno almeno tre o quattro anni che non ci sono venuta”.
“Adesso vuoi ancora sapere perché siamo qui?” tornò a
interloquirmi, restando impassibile al cospetto della mia pesante sincerità.
Annuii.
Tornò in silenzio, ma la sua espressione era molto
tranquilla, quasi sorridente. Non riuscivo a scorgere con chiarezza le labbra,
ma ero più che certa che fossero leggermente increspate sotto la barba.
Appariva soddisfatto.
Percorremmo ancora diversi passi, giungendo nel mezzo della
piazza. Attorno a noi c’era ancora una notevole quiete, forse complice la
nuvolosità autunnale. La poca gente che era in giro camminava tutta sotto il
complesso loggiato, comunque ancora abbastanza distante.
George, continuando a tenermi a braccetto, mi condusse presso
la grande fontana centrale, dove l’acqua ruscellava in modo continuo e producendo
un piacevole rumore di sottofondo. Il bianco del suo marmo sembrava riuscire a
risplendere nonostante i colori grigi e cupi che ci circondavano.
Lì al suo cospetto non fece altro che inchinarsi leggermente,
e come la prima volta a cui mi ero concessa a una sua grazia, egli estrasse una
scatolina dal taschino della camicia.
“Oh, non dovevi…” mormorai subito, immaginando si trattasse
di un altro anello. Me ne aveva già regalato uno ed io nonostante le sue
iniziali e pacate insistenze mi ero limitata a lasciarlo a languire in un
cassetto. Mi sentivo quasi in colpa, anzi, avrei potuto sentirmi così se non
fossi stata troppo rapita dal momento.
“Non sai nemmeno cosa contiene” affermò, porgendomi la
scatolina troneggiata da un bel fiocchettino di stoffa.
La presi tra le mani e la rigirai un po’, trovandola
abbastanza pesante. Troppo per contenere un anello.
“Io… faccio fatica a indossare gioielli, lo sai. Così… mi fai
davvero arrossire e vergognare…” balbettai, senza sapere cosa dire. Detestavo
indossare monili e non l’avevo mai fatto. Abiti, borsette, trucchi e rossetti
erano ben accetti, anelli e catene meno.
Non volevo ferire il mio compagno, d’altronde il mio
comportamento reticente era alquanto maleducato e fuori luogo, poiché mi stava
facendo un dono nel modo più galante possibile.
Piergiorgio si rialzò e riassettò gli abiti con una decisiva
strofinata di mani, poi unì le sue dita alle mie.
“Non ti devi preoccupare di nulla, non è niente che tu debba
indossare obbligatoriamente. Apri, dai” mi volle rassicurare, sereno.
Il calore delle sue mani strette attorno alle mie parve darmi
fiducia e forza. Non attesi oltre e sciolsi a malincuore lo splendido
fiocchetto, poi aprii la scatolina con la dovuta delicatezza.
Il mio compagno tolse le mani e mi concesse ulteriore libertà
d’azione, mentre i miei occhi visionavano diversi oggettini d’oro luccicante.
Si trattava di due nodi nuziali, una catenina con un crocefisso, una piccola
immagine della Vergine Maria. E alcune strane monete d’argento, di certo non
italiane.
Alzai lo sguardo e lo fissai su George, che a quel punto si
concesse di aggiungere altro, notando la mia perplessità.
“Sono i gioielli di famiglia, oggetti a cui tengo tantissimo.
I due nodi dei miei genitori, la catenina e i due ciondoli di mia madre. Anche
le monete d’argento. Sono tutto ciò che mi resta della mia famiglia e vorrei
che li custodissi tu” spiegò.
Sul momento non seppi cosa aggiungere, da un lato ero molto
colpita ed emozionata da quel gesto, dall’altro però ero titubante. Che diritti
avevo su quegli oggetti di valore, che in effetti a osservarli bene mostravano
i segni del tempo e dell’usura del passato? Non volevo, non potevo prenderli in
custodia. Erano troppo importanti per il mio compagno.
Scossi la testa e lui lo notò subito, ma probabilmente se
l’aspettava, poiché sorrise e si accinse ad ascoltare la mia pronta replica.
“Non posso tenerli io” gli allungai la scatolina dopo averla
richiusa, “non posso davvero. Sono i tuoi, sono le tue origini…”.
La prese tra le mani e la rigirò, poi tornò ad aprirla e a
guardarne il contenuto con visibile curiosità.
“I miei genitori erano molto poveri. Alla morte di mio padre,
mia madre mi ha cresciuto senza farmi mancare nulla, a patto di rompersi la
schiena. Ed era una straniera in queste terre, eppure questa terra l’ha
accettata come se fosse stata una figlia. Ciò che mi ha lasciato è stato
questo, me l’ha consegnato una sera e mi ha detto di tenerli con me, questi
unici pezzi di valore presenti in casa. Temeva che un giorno li avrebbe
barattati per del pane. Preferiva morire di fatica, pur di non perderli” e così
dicendo mi rimise tra le mani la scatolina, dopo averla chiusa. Era molto
commosso e lo vedevo veramente segnato dalle emozioni, temevo stesse per piangere.
“Non merito tale fiducia” tornai a replicare, ormai comunque
decisa a tenere con me quei ricordi suoi.
“Tu sei stata la mia salvatrice. Ciò che mi ha donato la luce
quando il buio stava per vincermi. So che li custodirai come se fossero il tuo
più importante tesoro, così come lo era per la mia mamma”.
Abbassai lo sguardo per nascondergli gli occhi lucidi.
“Lo farò. Te lo giuro”. Il mio giuramento fu lesto e
risucchiato dal gorgoglio dell’acqua della vicina fontana ornamentale, costante
nel suo movimento turbinoso.
“Non ne dubito” sancì il mio compagno, con grande decisione.
Tornò a stringere le mani attorno alle mie, ancora a coppa
attorno alla scatolina, come a cingerla in una sorta di abbraccio. Fu in
quell’istante che provai una forte voglia di abbracciarlo, di stringerlo a me
con forza.
Come durante i primi giorni del nostro amore.
Sciolsi il contatto e misi in borsa la scatolina, fiondandomi
poi tra le sue braccia. Il tutto in un modo così naturale e spontaneo da
lasciar basito il mio amante, che poi si affrettò a sua volta a stringermi
forte al suo corpo.
Al cospetto della fontana centrale di piazza Ganganelli, in
una Santarcangelo avvolta da un autunno che la rendeva più grigia e solitaria
del solito, il nostro amore si evolse ancora di più. Oltre la carne, oltre il
dialogo, oltre la comprensione. Oltre alla convivenza e al matrimonio
imminente. Oltre alla condivisione.
Adesso eravamo veramente uniti, più uniti che mai.
Avvertii i suoi singhiozzi e mi commossi ancor di più. Per un
solo secondo fui in procinto di sciogliere l’abbraccio e di lasciarlo libero di
sfogarsi, ma poi compresi che nella nostra stretta aveva trovato la pace
interiore. Era come se l’avesse bramata.
Avvertii le sue braccia che mi stringevano ancora più forte e
le lacrime che gli solcavano le guance ispide, ma strinse la guancia sinistra
contro la mia senza preoccuparsi di lasciarmi notare che stava piangendo ed era
a sua volta molto commosso.
“George?” gli chiesi, quasi a voler aggiungere se era tutto a
posto. Ma egli continuò a stringermi e a infossare il viso sulla mia spalla,
raggiunta quasi a fatica.
“Adesso sono felice, amore mio” affermò “tienimi ancora
stretto a te, per un poco”.
Socchiusi quasi totalmente gli occhi e mi lasciai avvolgere
dalla romantica magia del momento.
Attorno a noi era come se tutto si fosse fermato; come se
fossimo rimasti soli, come se la piazza fosse solo e soltanto nostra. Invece
c’era gente che ci guardava, i rari passanti sembravano attratti come calamite
da quel romanticismo che pareva ormai scomparso in quella grigia e monotona
città.
Forse apparivamo come due turisti, chissà, ma le persone che
transitavano in bici o a piedi ci lanciavano occhiate rapide e furtive.
Sbigottite. Chi sapeva più amare come noi, andando oltre a ogni individuale
differenza? Forse per alcuni dei pochi passanti potevamo sembrare un padre e
una figlia, oppure uno zio molto commosso e una nipote che lo riabbraccia dopo
tanto tempo. O una semplice coppia diversa dalle altre, non omologata alla
massa.
Però ero certa che la nostra commossa stretta parlasse un
linguaggio così universale da poter entrare in ogni cuore, e senza il bisogno
di parole o di altri gesti. Eravamo noi, il nostro amore e la sua semplice e
naturale spontaneità.
Non ricordo bene quanto durò quella magia, comunque dopo un
po’ si interruppe.
George si riscosse dal suo emozionatissimo torpore e tolse la
testa dalla mia spalla, per tornare a guardarmi negli occhi e mettermi le mani
sulle spalle.
“Ti amo tanto, Isa. Amore. Ti amo tanto” ripeté, una
ripetizione che aveva un retrogusto d’infinito.
“Anche io” e gli sorrisi, convinta. Il mio compagno sorrise a
sua volta e lasciò le mie spalle, per prendermi per mano.
“Non dobbiamo fare la prova degli anelli? O vogliamo fare gli
sposi senza nodo nuziale?” provò a ironizzare. Indicò l’oreficeria sotto i
portici.
Annuii, ma senza mai lasciare che il mio sguardo si
distogliesse dal suo viso. Lui era il mio tutto. Con lui sarei andata ovunque,
poteva fare di me ciò che desiderava, ed ero sempre felice e contenta di ogni
sua scelta o affermazione.
Tempo dopo scoprii che Santarcangelo non era stata poi in
fondo una scelta così casuale, ma niente è cambiato. Lo amo ancora come quel
giorno.
Quel pomeriggio tornai al lavoro molto più rilassata rispetto
al giorno prima. Le cose stavano andando al loro posto, questa volta quello
giusto. Con George era stata una bellissima mattina, dapprima il momento
romantico e poi le faccende riguardanti la nostra imminente unione. Avevo
telefonato anche alla mamma, dicendole che doveva aiutarmi con l’abito da
sposa.
Le faccende burocratiche erano ormai tutte a posto.
Presto mi sarei licenziata e avrei dedicato la mia vita alla
mia famiglia. Non sopportavo più le facce dei miei colleghi, quindi quei
pensieri positivi mi permettevano di non essere troppo triste sul lavoro.
Al locale la signora Virginia era continuamente attratta da
quell’uomo suo coetaneo che ormai era una presenza costante al bar e che la sua
compagnia l’allietava così tanto da non essere più così aggressiva con il
personale. Buon per lei, che finalmente a sua volta appariva davvero molto
serena. Io stessa non l’avevo mai vista così tranquilla.
Insomma, davvero, per una volta la mia vita si stava mettendo
a posto e speravo anche in un modo definitivo.
Mentre lavoravo di buona lena, però, feci fatica ad
accorgermi che un avventore dall’aria familiare mi stava fissando.
Quando avvertii gli occhi di qualcuno addosso a me, mi
affrettai ad abbandonare la scopa e ad alzare gli occhi.
“Mi dica pure” affermai, muovendomi rapidamente verso il
bancone. Per quanto ormai fossi abituata ad avere un buon ritmo lavorativo, mi
ritrovai a bloccarmi sul posto e a fissare a mia volta il ragazzo che
probabilmente mi stava cercando. Anzi, non probabilmente; di sicuro.
Il giovane palestrato mi sorrideva, e anche se era vestito
alla moda e non era in tenuta da spiaggia, non mi fu troppo difficile
riconoscerlo.
“Riccardo” sussurrai, dopo un attimo di sbigottimento.
“In carne e ossa, Isabella” e mi porse la mano destra, continuando
a sorridere.
Gliela strinsi ma ero ancora preda della sorpresa. Non mi
sciolsi troppo.
“Non ti ho mai visto qui al bar” riuscii solo a sentenziare,
in modo un po’ sciocco.
Riccardo, il ragazzone che avevo conosciuto in spiaggia
durante l’estate, non smise un attimo di sorridere. Non aveva perso la sua
gentilezza.
“Infatti non sono del posto, sono di Rimini. Sono passato di
qui per farti un saluto, ricordo che diverse settimane fa, quando eravamo
ancora in spiaggia, mi avevi detto che lavoravi qui… be’… ho pensato di farti
un saluto…”si spiegò in modo un po’ confusionario, poi arrossì leggermente.
“Ti ringrazio per il pensiero. Siediti pure, ti offro un
caffè” riuscii finalmente a rompere il ghiaccio, cercando di non pensare che
potesse avere un qualche doppio fine.
Riccardo per me era solo una conoscenza fatta in spiaggia, e
durante una bellissima e caldissima estate, niente di più. E allora perché
giunto l’autunno me lo ritrovavo di nuovo di fronte?
Il giovane si sedette e attese il caffè, senza togliermi gli
occhi di dosso.
Non appena glielo portai al tavolo, tornò a sorridermi.
“Non dovevi. Aspetta che te lo pago…”.
“Non se ne parla” risposi, categorica. Rimasi un attimo in
piedi a fissarlo, indecisa sul da farsi.
“Come sta il babbo?” mi domandò, ancora cercando di attaccare
bottone.
Rimasi perplessa per l’ennesima volta, poi ricordai che avevo
presentato George come mio padre. Mi vergognai di colpo e non me la sentii più
di parlargli.
“Tutto bene” affermai, genericamente, “adesso però scusami ma
devo lavorare. Ti ringrazio per la visita, mi ha fatto molto piacere
rivederti”. Gli rivolsi un mezzo sorriso, prima di dargli le spalle.
“Ehm… Isa… ti lascio il mio numero di telefono sul tavolino,
ok? Se ti andasse… di farmi un saluto” lo sentii borbottare, ma già io ero
tornata a spazzare.
Con la scopa andai al lato opposto del bar, imbarazzata e in
silenzio.
Tornai a pulire il suo tavolino solo quando fui certa che lui
non ci fosse più. Infatti Riccardo se n’era andato, ma sotto la tazzina del
caffè aveva lasciato un numero scritto sul tovagliolino di carta liscia del
locale.
L’accartocciai con stizza, ma non ci riuscii quando fu il
momento di buttarlo nel cestino. Me lo infilai in tasta. Si vede che era
destino che le nostre vite tornassero a incrociarsi.
Eppure in quegli istanti concitati non mi pentivo di averlo
trattato male. Ero felice e il ragazzo espansivo doveva restare fuori dalla mia
fragile esistenza.
Ricordo però che più tardi aggiunsi il suo numero alla
rubrica, con la promessa che gli avrei scritto in prossimità delle feste, per
cortesia e nulla più.
Nonostante tutte le difficoltà e le continue sfide, io amavo
la vita. Amavo George, il nostro bimbo in arrivo, mia madre. Amavo, e da qui si
sprigionava quella forza interiore che mi aveva portato a vincere diverse
battaglie. Ma come spesso accade, il tempo scorre e il destino è inesorabile.
L’esistenza prosegue, e dopo una discesa c’è sempre una
salita molto più ardua della precedente.
NOTA DELL’AUTORE
Carissime lettrici, eccoci giunti al finale… ci manca solo il
breve epilogo, che pubblicherò entro la fine dell’anno.
Se lo desidererete, anche prima.
Che dire… è stato un viaggio lunghissimo, durato anni! Io stesso
ci ho impiegato anni per concludere la battitura. Non so ancora se ho fatto un
buon lavoro, starà a voi decretarlo. Il progetto è stato più e più volte
cambiato; soprattutto, infine, mi sono concentrato molto sul fatto che
desideravo la speranza e l’amore fino all’ultimo capitolo. La forza d’amare,
l’amore che va oltre ogni difficoltà e differenza. Questo è lo spirito di
questo raccontino senza pretesa.
Le successive difficoltà dei due protagonisti, inizialmente
previste nel progetto, ho preferito tagliarle. Poi nell’epilogo vi spiegherò
tutto, non temete.
Ancora grazie per non aver mai abbandonato questo racconto.