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Autore: alessandroago_94    13/12/2019    4 recensioni
Isabella è una ragazza come tante altre, senza alcuna pretesa di troppo dalla vita.
Tuttavia, da quando la relazione con il suo ragazzo è entrata in crisi, la felicità ha lasciato spazio alla più profonda tristezza.
Quello che non sa è che, a volte, la vita sa donarci piacevoli sorprese. E l’amore può annidarsi dove neppure lei avrebbe mai creduto di poterlo trovare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo quarantotto

CAPITOLO QUARANTOTTO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho sempre pensato che la mia storia volevo scrivermela da sola, e così è stato.

Mia madre mi confermò l’appuntamento fissato presso la sede locale della banca al fine di poter sbloccare definitivamente l’eredità di mio padre, ora più che mai sempre più tangibile. A Piergiorgio raccontai la vicenda di Irina solo durante la notte, quando tra le sua braccia mi sentii più forte.

Non seppi in un primo momento se appoggiava le mie scelte oppure no, non si espresse. Si limitò ad ascoltarmi in silenzio, lasciandomi sospesa durante quasi tutto il corso di quella nottata.

Giunsi al mattino successivo senza aver chiuso occhio, e mentre cercavo di prepararmi per il lavoro squillò il mio cellulare, con la signora Virginia che mi comunicava tempestivamente che avrei dovuto presentarmi solo quel pomeriggio, poiché quel mattino avrebbe tentato di prendere servizio la nuova ragazza e voleva metterla alla prova.

Non fu un male, anzi, una piacevole sorpresa che il mio George aiutò ad amplificare.

 

Il mio compagno non aveva esitato un solo attimo a lasciar perdere il suo lavoro.

Testardo come un mulo, dopo un paio di telefonate a raffica mi fece salire sul suo fuoristrada. Destinazione? “Sorpresa” rispose a tutti i miei interrogativi iniziali, sorridendo bonariamente.

“Dio, George, mi metterai in imbarazzo… io di sorprese non te ne faccio mai…” mormorai, ancora abbastanza confusa da ciò che stava accadendo. Quella che era iniziata come una giornata ordinaria sembrava volersi tramutare in tutt’altro.

Udendo quelle mie parole, egli allungò la mano destra verso di me e sfiorò il mio ventre.

“Esiste forse una sorpresa più bella di questa?” chiese.

“Questo è solo il frutto dell’amore, non un regalo” mi venne spontaneo rispondere, non seppi mai se a torto o ragione.

“E allora anche ciò che sto facendo è frutto dell’amore, va bene?” chiese ancora, mettendomi a tacere con la sua solita capacità dialettica.

“Poi tanto ti sto portando qui vicino, non ti preoccupare, entro due ore saremo di nuovo a casa. Stai tranquilla” aggiunse.

“Oh, per me non è un problema. Basta che entro le quattordici mi presenti al bar”.

Il fuoristrada imboccò lo stradone principale che tagliava in due il nostro borghetto.

Passammo di fronte al Mald’Est, il locale in cui Irene mi aveva tormentato per tre sere di fila. Mi allungai a guardarne l’insegna illuminata dal timido sole autunnale, pensando che in fondo erano passati solo pochi mesi. Una stagione e poco più. E quante cose erano cambiate, così in fretta.

“A proposito, Virginia sa che presto ti licenzierai, vero?” tornò a domandarmi con un tono leggermente indagatore.

“Ma certo” lo rassicurai subito, “ adesso sta cercando di mettere alla prova alcune ragazze, infatti. Vedrai che non mi rimpiangerà”.

Sogghignò.

“Chi non ti rimpiangerebbe?”.

“Be’, mi dispiace per te e per nostro figlio, che dovrete sopportarmi a lungo…”. Trasportata dalla sua leggera ma profonda ironia, mi ritrovai a mia volta a sciogliermi un pochino.

Mi scoccò un bacio a distanza, senza mai smettere di sorridere al di sotto della barba, come potevo vedere distintamente dal suo profilo.

“Sai che io ti amo e che per me non c’è nulla di più importante al mondo. Ci sei solo tu. E anche per nostro figlio, tu sarai la madre che lo sosterrà sempre e che potrà seguirlo lungo il suo cammino” proseguì, la voce che man mano si incrinava.

“Ehi” lo ripresi gentilmente, “non dire così. Tu sarai il padre che amerà e che prenderà come esempio nelle sue imprese…”.

Mi interruppi solo quando lo vidi troppo commosso per ascoltare altro.

“Sai benissimo che non ci sarò per sempre”.

Le sue parole lapidarie per la prima volta mi parvero un losco preambolo, un’anticipazione di un futuro incerto per la nostra famiglia.

Socchiusi gli occhi e lasciai che un attimo di profondo silenzio seppellisse il nostro ultimo dialogo. Non volevo nemmeno pensare a ciò che mi aveva appena detto, anche se mi rendevo conto che tutto ciò poteva essere verosimile. Ma ora che stavo davvero mettendo tutta me stessa in questa storia, non mi sembrava possibile che potesse infrangersi così banalmente.

“Ti trovi bene in casa mia? Ne facciamo la nostra residenza matrimoniale?” mi chiese George, tornando a sfoggiare il bel vocione che lo caratterizzava, anche se sapevo che dentro di sé era ancora in subbuglio e che stava solo cercando di strappare via quel velo di amarezza che si era calato in fretta su di noi.

“Sì, va tutto bene…” annuii.

“Che ne dici se chiamo i muratori e gli imbianchini e faccio mettere a posto il piano superiore? Tanto è sgombro. Lo facciamo sistemare poi andiamo a dormire su”.

Quelle frasi rassicuranti mi fecero invece sentire a disagio. Avevo visto con i miei occhi che di sopra non era proprio così come lo stava descrivendo lui, e che una camera da letto ben ingombra c’era già.

Non riuscendo a trattenermi, affrontai istintivamente la vicenda.

“In realtà c’è già una stanza da letto ben piena di mobilia…” la mia voce che si spense da sola quando mi resi conto di aver azzardato. George in effetti parve colto davvero alla sprovvista dalle mie parole e sbiancò in viso, prima di decelerare senza quasi accorgersene.

“Sei andata di sopra, allora” constatò a mo’ di affermazione, rivolgendomi per la prima volta uno sguardo diretto, seppur breve. Era all’improvviso serio.

“Sì” fui costretta ad ammettere, molto candidamente.

“Immagino che avrai visto… tutto, ecco, se sei entrata in quella stanza e hai controllato sul letto, o a terra…” balbettò un po’, titubante. Lo vidi quasi in procinto di fermarsi sul ciglio della strada, mentre gli altri automobilisti ci sorpassavano tutti.

Mi ritrovai allora costretta a cercare di mettere una pezza al mezzo pasticcio che avevo combinato.

“No, amore, non devi scusarti di nulla. Davvero, sei a casa tua, è colpa mia che non mi sono fatta gli affari miei” spiegai, però io volevo davvero scusarmi, mentre lui invece avvampò e si lasciò cogliere da un imbarazzo ancora maggiore.

“Ero rimasto solo, senza nessuno, devi capirmi” continuò a spiegarmi a valanga, senza lasciarmi più parlare, “sai che noi uomini non siamo forti come voi. Avevo i miei bisogni, i miei ricordi. Le foto della mia vita precedente, i mobili comprati da giovane, tutto ciò che mi ricordava i momenti passati io l’ho raccolto lì. Anche… avrai visto quelle riviste, ti giuro che sono cose comprate prima che stessimo assieme…”.

“Ma tu non devi scusarti di nulla” mi allungai per accarezzargli i capelli con rassicurante dolcezza, “io ti capisco, non mi fraintendere. Capisco, davvero. Il tuo comportamento è stato comunque comprensibile”. Inoltre ero anche convinta che George non avesse molto altro da offrire dopo i nostri incontri nel letto, poiché facevamo l’amore spesso e volentieri, quindi il desiderio doveva essere praticamente sempre placato. E capivo per davvero, mi dispiaceva per ciò che aveva dovuto vivere.

Perché non osavo nemmeno immaginare come fosse vivere dopo aver perso una compagna, anche se non si era più legati si aveva comunque convissuto per tantissimi anni. Un vuoto enorme, alla fine, trovarsi soli e lontani da ogni altro affetto.

Lo comprendevo con tutta me stessa e non gli facevo una colpa di nulla.

Piergiorgio parve rassicurato dalle mie parole e si rasserenò, con la guida che tornò a essere regolare.

“So che tu mi capiresti sempre. Sei la parte mancante di me, assieme ci completiamo” mi disse con dolcezza, e da quelle sue parole intesi quanto desiderasse cambiare argomento.

“E’ che tu sai fare tutto e io niente”. Rise sommessamente.

“Ognuno di noi sa i fatti suoi. Non si può saper fare tutto, io stesso non ne sono capace, e non dirmi che non è così. Però l’importante è tirare avanti, ma soprattutto saper farsi amare dalle persone che conosciamo e da chi ci circonda” si spiegò con serietà.

“Io non so farmi amare. Per fortuna ho te, amore” gli dissi, sfiorandogli la mano appoggiata sul cambio. Avvertii un rapidissimo brivido di passione e di stupore che s’irradiava nei muscoli del suo arto.

“Tutti ti vogliono bene, Isa” si limitò a rispondermi.

“Non è vero” aggiunsi, ripensando a ciò che era accaduto con quei due mostri con i quali avevo condiviso numerosi momenti importanti della mia vita. Anche il mio compagno comprese subito a chi mi riferivo e si limitò a sbuffare, prima di tornare a dire la sua.

“Non si può sempre andare d’accordo con chiunque, è normale. Poi ci saranno sempre i coglioni che proveranno a rovinarci la vita, ma l’importante è pensare che in fondo tutto scorre. Il male torna indietro e non si deve andare in fissa per queste cose. Pensa positivo e pensa soprattutto a noi due, che così diversi abbiamo fatto tanto e tanto abbiamo ancora da fare. Pensa a ciò che abbiamo costruito in questi mesi, proprio dopo aver toccato il fondo.

Ci siamo curati e guariti a vicenda, abbiamo formato una famiglia. Ci può essere qualcosa di più bello di ciò? Direi proprio di no. E così non puoi nemmeno affermare che non sai farti amare, perché io ti amo più della mia stessa vita”.

Lo osservavo con gli occhi inumiditi dalla commozione. Quando mi parlava in quel modo ispirato percepivo il suo amore nel modo più intenso possibile, oltre la carne e la semplice materia. Era il suo spirito ad avere voce ed era quello l’importante per me.

Avrei tanto voluto baciarlo, stringerlo a me e lasciarmi andare alla passione, ma non potevo. Mi limitai ad assaporare la sua essenza antica, lo spirito di chi sapeva ancora amare in un mondo ormai in rovina a livello di sentimenti.

“Anche io ti voglio bene, e ti amo alla follia. Senza di te, non so chi sarei diventata” affermai con la voce incrinata.

Era la verità; ricordavo bene la mia fine con Marco e tutto quel turbinio spiacevole che mi aveva quasi condotta alla follia. Senza George la mia esistenza sarebbe stata un profondo buco nero da cui non sarei riemersa mai più.

“Senza di me, saresti stata una persona migliore… avresti avuto la felicità, magari con qualche tuo coetaneo…”. A quel punto quasi sussultai, e con decisione lo frenai di colpo.

“Non dirlo nemmeno per scherzo. Io sono felice così, questa è la vita migliore che avrei mai potuto desiderare” ma lui non apparve molto convinto. Con la fronte corrugata, mi rispose in modo molto neutro.

“Io non potrò esserci per sempre per te, per voi…”.

“Perché me lo ricordi sempre, George? Perché fai così?” gli chiesi con impeto.

Fu in quel preciso istante che intuii che forse il mio compagno mi stava nascondendo qualcosa. Ma cosa? Un qualcosa di brutto, che non voleva che io sapessi. D’altronde immaginavo che chi stesse bene non pensasse continuamente a quando non ci sarebbe più stato.

“Io non mi pento di ciò che ho costruito con te, sei stata la mia fortuna più grande” precisò.

“Mi rattristi, però”.

Lo riconobbe tramite un semplice, breve cenno del capo, quasi impercettibile.

Prima che la nostra discussione potesse diventare ancora più greve, ci venne incontro la sorte.

“Siamo quasi arrivati” disse George, distogliendomi dai loschi pensieri.

Il mio sguardo scivolò fuori dal finestrino, lasciandosi incantare dal turbinio di case che circondava il nostro mezzo in movimento. La via Emilia si snodava davanti a noi con piccole curve e semafori, di tanto in tanto.

Stavo capendo dove mi aveva portato, dove eravamo in quel momento, ma perché quella sorta di improvvisata gita fuori porta? Non capivo, ancora.

Quando meno me l’aspettavo l’auto sterzò e imbucammo una delle tante viuzze centrali del borgo. Conduceva alla piazza principale. E infatti George parcheggiò il fuoristrada a una ventina di metri dal distributore di carburante, ad altrettanto dal centro cittadino.

“Perché a Santarcangelo?” riuscii finalmente a chiedergli. Santarcangelo di Romagna era una radiosa cittadina a poca distanza dal nostro paese, tuttavia non era mai stata di mio gradimento e l’avevo frequentata relativamente poco. Durante l’adolescenza, i miei compagni di classe ci andavano spesso grazie ai sicuri bus di linea, però a me non era mai piaciuta come meta.

Piergiorgio non mi rispose, enigmatico come suo solito, e sorridendomi mi fece cenno di scendere.

“Andiamo in piazza, su” si limitò ad affermare.

Senza tentennare oltre scesi a mia volta dal fuoristrada, con il mio compagno che lo chiuse a chiave e che poi mi prese dolcemente a braccetto, da vero gentiluomo.

Camminammo assieme e in silenzio per tutta la durata del breve tragitto, nemmeno dieci minuti a piedi. Attorno a me murales e muri scoloriti di un centro storico mal custodito si avvicendavano con scene di vita quotidiana di chi abitava la zona centrale della città. Donne con i sacchetti della spesa, ragazzi in giro con il cane al guinzaglio.

Poca gente e tutta silenziosa e seria; Santarcangelo era rimasta come me la ricordavo, identica a un paio d’anni prima. Sapendo che le botteghe e i negozi erano tutti concentrati sotto il lungo loggiato che si affacciava sulla piazza, non mi stupii più di tanto di quel mortorio assoluto.

Piazza Ganganelli ci accolse all’improvviso, facendo capolino tra le case e i vicoli stretti e maleodoranti.

Piergiorgio proseguì spedito verso quel largo spiazzo.

“Da quant’è che non ci sei venuta?” mi chiese, rompendo il silenzio che aleggiava su di noi da un po’.

“Santarcangelo non mi ha mai fatta impazzire” non gli nascosi, “saranno almeno tre o quattro anni che non ci sono venuta”.

“Adesso vuoi ancora sapere perché siamo qui?” tornò a interloquirmi, restando impassibile al cospetto della mia pesante sincerità.

Annuii.

Tornò in silenzio, ma la sua espressione era molto tranquilla, quasi sorridente. Non riuscivo a scorgere con chiarezza le labbra, ma ero più che certa che fossero leggermente increspate sotto la barba. Appariva soddisfatto.

Percorremmo ancora diversi passi, giungendo nel mezzo della piazza. Attorno a noi c’era ancora una notevole quiete, forse complice la nuvolosità autunnale. La poca gente che era in giro camminava tutta sotto il complesso loggiato, comunque ancora abbastanza distante.

George, continuando a tenermi a braccetto, mi condusse presso la grande fontana centrale, dove l’acqua ruscellava in modo continuo e producendo un piacevole rumore di sottofondo. Il bianco del suo marmo sembrava riuscire a risplendere nonostante i colori grigi e cupi che ci circondavano.

Lì al suo cospetto non fece altro che inchinarsi leggermente, e come la prima volta a cui mi ero concessa a una sua grazia, egli estrasse una scatolina dal taschino della camicia.

“Oh, non dovevi…” mormorai subito, immaginando si trattasse di un altro anello. Me ne aveva già regalato uno ed io nonostante le sue iniziali e pacate insistenze mi ero limitata a lasciarlo a languire in un cassetto. Mi sentivo quasi in colpa, anzi, avrei potuto sentirmi così se non fossi stata troppo rapita dal momento.

“Non sai nemmeno cosa contiene” affermò, porgendomi la scatolina troneggiata da un bel fiocchettino di stoffa.

La presi tra le mani e la rigirai un po’, trovandola abbastanza pesante. Troppo per contenere un anello.

“Io… faccio fatica a indossare gioielli, lo sai. Così… mi fai davvero arrossire e vergognare…” balbettai, senza sapere cosa dire. Detestavo indossare monili e non l’avevo mai fatto. Abiti, borsette, trucchi e rossetti erano ben accetti, anelli e catene meno.

Non volevo ferire il mio compagno, d’altronde il mio comportamento reticente era alquanto maleducato e fuori luogo, poiché mi stava facendo un dono nel modo più galante possibile.

Piergiorgio si rialzò e riassettò gli abiti con una decisiva strofinata di mani, poi unì le sue dita alle mie.

“Non ti devi preoccupare di nulla, non è niente che tu debba indossare obbligatoriamente. Apri, dai” mi volle rassicurare, sereno.

Il calore delle sue mani strette attorno alle mie parve darmi fiducia e forza. Non attesi oltre e sciolsi a malincuore lo splendido fiocchetto, poi aprii la scatolina con la dovuta delicatezza.

Il mio compagno tolse le mani e mi concesse ulteriore libertà d’azione, mentre i miei occhi visionavano diversi oggettini d’oro luccicante. Si trattava di due nodi nuziali, una catenina con un crocefisso, una piccola immagine della Vergine Maria. E alcune strane monete d’argento, di certo non italiane.

Alzai lo sguardo e lo fissai su George, che a quel punto si concesse di aggiungere altro, notando la mia perplessità.

“Sono i gioielli di famiglia, oggetti a cui tengo tantissimo. I due nodi dei miei genitori, la catenina e i due ciondoli di mia madre. Anche le monete d’argento. Sono tutto ciò che mi resta della mia famiglia e vorrei che li custodissi tu” spiegò.

Sul momento non seppi cosa aggiungere, da un lato ero molto colpita ed emozionata da quel gesto, dall’altro però ero titubante. Che diritti avevo su quegli oggetti di valore, che in effetti a osservarli bene mostravano i segni del tempo e dell’usura del passato? Non volevo, non potevo prenderli in custodia. Erano troppo importanti per il mio compagno.

Scossi la testa e lui lo notò subito, ma probabilmente se l’aspettava, poiché sorrise e si accinse ad ascoltare la mia pronta replica.

“Non posso tenerli io” gli allungai la scatolina dopo averla richiusa, “non posso davvero. Sono i tuoi, sono le tue origini…”.

La prese tra le mani e la rigirò, poi tornò ad aprirla e a guardarne il contenuto con visibile curiosità.

“I miei genitori erano molto poveri. Alla morte di mio padre, mia madre mi ha cresciuto senza farmi mancare nulla, a patto di rompersi la schiena. Ed era una straniera in queste terre, eppure questa terra l’ha accettata come se fosse stata una figlia. Ciò che mi ha lasciato è stato questo, me l’ha consegnato una sera e mi ha detto di tenerli con me, questi unici pezzi di valore presenti in casa. Temeva che un giorno li avrebbe barattati per del pane. Preferiva morire di fatica, pur di non perderli” e così dicendo mi rimise tra le mani la scatolina, dopo averla chiusa. Era molto commosso e lo vedevo veramente segnato dalle emozioni, temevo stesse per piangere.

“Non merito tale fiducia” tornai a replicare, ormai comunque decisa a tenere con me quei ricordi suoi.

“Tu sei stata la mia salvatrice. Ciò che mi ha donato la luce quando il buio stava per vincermi. So che li custodirai come se fossero il tuo più importante tesoro, così come lo era per la mia mamma”.

Abbassai lo sguardo per nascondergli gli occhi lucidi.

“Lo farò. Te lo giuro”. Il mio giuramento fu lesto e risucchiato dal gorgoglio dell’acqua della vicina fontana ornamentale, costante nel suo movimento turbinoso.

“Non ne dubito” sancì il mio compagno, con grande decisione.

Tornò a stringere le mani attorno alle mie, ancora a coppa attorno alla scatolina, come a cingerla in una sorta di abbraccio. Fu in quell’istante che provai una forte voglia di abbracciarlo, di stringerlo a me con forza.

Come durante i primi giorni del nostro amore.

Sciolsi il contatto e misi in borsa la scatolina, fiondandomi poi tra le sue braccia. Il tutto in un modo così naturale e spontaneo da lasciar basito il mio amante, che poi si affrettò a sua volta a stringermi forte al suo corpo.

Al cospetto della fontana centrale di piazza Ganganelli, in una Santarcangelo avvolta da un autunno che la rendeva più grigia e solitaria del solito, il nostro amore si evolse ancora di più. Oltre la carne, oltre il dialogo, oltre la comprensione. Oltre alla convivenza e al matrimonio imminente. Oltre alla condivisione.

Adesso eravamo veramente uniti, più uniti che mai.

Avvertii i suoi singhiozzi e mi commossi ancor di più. Per un solo secondo fui in procinto di sciogliere l’abbraccio e di lasciarlo libero di sfogarsi, ma poi compresi che nella nostra stretta aveva trovato la pace interiore. Era come se l’avesse bramata.

Avvertii le sue braccia che mi stringevano ancora più forte e le lacrime che gli solcavano le guance ispide, ma strinse la guancia sinistra contro la mia senza preoccuparsi di lasciarmi notare che stava piangendo ed era a sua volta molto commosso.

“George?” gli chiesi, quasi a voler aggiungere se era tutto a posto. Ma egli continuò a stringermi e a infossare il viso sulla mia spalla, raggiunta quasi a fatica.

“Adesso sono felice, amore mio” affermò “tienimi ancora stretto a te, per un poco”.

Socchiusi quasi totalmente gli occhi e mi lasciai avvolgere dalla romantica magia del momento.

Attorno a noi era come se tutto si fosse fermato; come se fossimo rimasti soli, come se la piazza fosse solo e soltanto nostra. Invece c’era gente che ci guardava, i rari passanti sembravano attratti come calamite da quel romanticismo che pareva ormai scomparso in quella grigia e monotona città.

Forse apparivamo come due turisti, chissà, ma le persone che transitavano in bici o a piedi ci lanciavano occhiate rapide e furtive. Sbigottite. Chi sapeva più amare come noi, andando oltre a ogni individuale differenza? Forse per alcuni dei pochi passanti potevamo sembrare un padre e una figlia, oppure uno zio molto commosso e una nipote che lo riabbraccia dopo tanto tempo. O una semplice coppia diversa dalle altre, non omologata alla massa.

Però ero certa che la nostra commossa stretta parlasse un linguaggio così universale da poter entrare in ogni cuore, e senza il bisogno di parole o di altri gesti. Eravamo noi, il nostro amore e la sua semplice e naturale spontaneità.

Non ricordo bene quanto durò quella magia, comunque dopo un po’ si interruppe.

George si riscosse dal suo emozionatissimo torpore e tolse la testa dalla mia spalla, per tornare a guardarmi negli occhi e mettermi le mani sulle spalle.

“Ti amo tanto, Isa. Amore. Ti amo tanto” ripeté, una ripetizione che aveva un retrogusto d’infinito.

“Anche io” e gli sorrisi, convinta. Il mio compagno sorrise a sua volta e lasciò le mie spalle, per prendermi per mano.

“Non dobbiamo fare la prova degli anelli? O vogliamo fare gli sposi senza nodo nuziale?” provò a ironizzare. Indicò l’oreficeria sotto i portici.

Annuii, ma senza mai lasciare che il mio sguardo si distogliesse dal suo viso. Lui era il mio tutto. Con lui sarei andata ovunque, poteva fare di me ciò che desiderava, ed ero sempre felice e contenta di ogni sua scelta o affermazione.

Tempo dopo scoprii che Santarcangelo non era stata poi in fondo una scelta così casuale, ma niente è cambiato. Lo amo ancora come quel giorno.

 

Quel pomeriggio tornai al lavoro molto più rilassata rispetto al giorno prima. Le cose stavano andando al loro posto, questa volta quello giusto. Con George era stata una bellissima mattina, dapprima il momento romantico e poi le faccende riguardanti la nostra imminente unione. Avevo telefonato anche alla mamma, dicendole che doveva aiutarmi con l’abito da sposa.

Le faccende burocratiche erano ormai tutte a posto.

Presto mi sarei licenziata e avrei dedicato la mia vita alla mia famiglia. Non sopportavo più le facce dei miei colleghi, quindi quei pensieri positivi mi permettevano di non essere troppo triste sul lavoro.

Al locale la signora Virginia era continuamente attratta da quell’uomo suo coetaneo che ormai era una presenza costante al bar e che la sua compagnia l’allietava così tanto da non essere più così aggressiva con il personale. Buon per lei, che finalmente a sua volta appariva davvero molto serena. Io stessa non l’avevo mai vista così tranquilla.

Insomma, davvero, per una volta la mia vita si stava mettendo a posto e speravo anche in un modo definitivo.

Mentre lavoravo di buona lena, però, feci fatica ad accorgermi che un avventore dall’aria familiare mi stava fissando.

Quando avvertii gli occhi di qualcuno addosso a me, mi affrettai ad abbandonare la scopa e ad alzare gli occhi.

“Mi dica pure” affermai, muovendomi rapidamente verso il bancone. Per quanto ormai fossi abituata ad avere un buon ritmo lavorativo, mi ritrovai a bloccarmi sul posto e a fissare a mia volta il ragazzo che probabilmente mi stava cercando. Anzi, non probabilmente; di sicuro.

Il giovane palestrato mi sorrideva, e anche se era vestito alla moda e non era in tenuta da spiaggia, non mi fu troppo difficile riconoscerlo.

“Riccardo” sussurrai, dopo un attimo di sbigottimento.

“In carne e ossa, Isabella” e mi porse la mano destra, continuando a sorridere.

Gliela strinsi ma ero ancora preda della sorpresa. Non mi sciolsi troppo.

“Non ti ho mai visto qui al bar” riuscii solo a sentenziare, in modo un po’ sciocco.

Riccardo, il ragazzone che avevo conosciuto in spiaggia durante l’estate, non smise un attimo di sorridere. Non aveva perso la sua gentilezza.

“Infatti non sono del posto, sono di Rimini. Sono passato di qui per farti un saluto, ricordo che diverse settimane fa, quando eravamo ancora in spiaggia, mi avevi detto che lavoravi qui… be’… ho pensato di farti un saluto…”si spiegò in modo un po’ confusionario, poi arrossì leggermente.

“Ti ringrazio per il pensiero. Siediti pure, ti offro un caffè” riuscii finalmente a rompere il ghiaccio, cercando di non pensare che potesse avere un qualche doppio fine.

Riccardo per me era solo una conoscenza fatta in spiaggia, e durante una bellissima e caldissima estate, niente di più. E allora perché giunto l’autunno me lo ritrovavo di nuovo di fronte?

Il giovane si sedette e attese il caffè, senza togliermi gli occhi di dosso.

Non appena glielo portai al tavolo, tornò a sorridermi.

“Non dovevi. Aspetta che te lo pago…”.

“Non se ne parla” risposi, categorica. Rimasi un attimo in piedi a fissarlo, indecisa sul da farsi.

“Come sta il babbo?” mi domandò, ancora cercando di attaccare bottone.

Rimasi perplessa per l’ennesima volta, poi ricordai che avevo presentato George come mio padre. Mi vergognai di colpo e non me la sentii più di parlargli.

“Tutto bene” affermai, genericamente, “adesso però scusami ma devo lavorare. Ti ringrazio per la visita, mi ha fatto molto piacere rivederti”. Gli rivolsi un mezzo sorriso, prima di dargli le spalle.

“Ehm… Isa… ti lascio il mio numero di telefono sul tavolino, ok? Se ti andasse… di farmi un saluto” lo sentii borbottare, ma già io ero tornata a spazzare.

Con la scopa andai al lato opposto del bar, imbarazzata e in silenzio.

Tornai a pulire il suo tavolino solo quando fui certa che lui non ci fosse più. Infatti Riccardo se n’era andato, ma sotto la tazzina del caffè aveva lasciato un numero scritto sul tovagliolino di carta liscia del locale.

L’accartocciai con stizza, ma non ci riuscii quando fu il momento di buttarlo nel cestino. Me lo infilai in tasta. Si vede che era destino che le nostre vite tornassero a incrociarsi.

Eppure in quegli istanti concitati non mi pentivo di averlo trattato male. Ero felice e il ragazzo espansivo doveva restare fuori dalla mia fragile esistenza.

Ricordo però che più tardi aggiunsi il suo numero alla rubrica, con la promessa che gli avrei scritto in prossimità delle feste, per cortesia e nulla più.

 

Nonostante tutte le difficoltà e le continue sfide, io amavo la vita. Amavo George, il nostro bimbo in arrivo, mia madre. Amavo, e da qui si sprigionava quella forza interiore che mi aveva portato a vincere diverse battaglie. Ma come spesso accade, il tempo scorre e il destino è inesorabile.

L’esistenza prosegue, e dopo una discesa c’è sempre una salita molto più ardua della precedente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Carissime lettrici, eccoci giunti al finale… ci manca solo il breve epilogo, che pubblicherò entro la fine dell’anno.

Se lo desidererete, anche prima.

Che dire… è stato un viaggio lunghissimo, durato anni! Io stesso ci ho impiegato anni per concludere la battitura. Non so ancora se ho fatto un buon lavoro, starà a voi decretarlo. Il progetto è stato più e più volte cambiato; soprattutto, infine, mi sono concentrato molto sul fatto che desideravo la speranza e l’amore fino all’ultimo capitolo. La forza d’amare, l’amore che va oltre ogni difficoltà e differenza. Questo è lo spirito di questo raccontino senza pretesa.

Le successive difficoltà dei due protagonisti, inizialmente previste nel progetto, ho preferito tagliarle. Poi nell’epilogo vi spiegherò tutto, non temete.

Ancora grazie per non aver mai abbandonato questo racconto.

   
 
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