Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Hoel    18/12/2019    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato  06. 09. 2021

***********************************************************************************************************************

 

 

 

Capitolo Quinto

2 -3 settembre 1511

 

 

 

 

Ambasciator non porta pena, tranne quella inflittagli dal suo adirato destinatario.

Seduto nel suo cantuccio, Hironimo assistette non senza apprensione al sollevamento della staffetta francese da parte di un furioso Mercurio Bua, strizzandolo a momenti quest’ultimo peggio d’un panno pronto per esser steso al sole.

“Cosa significa, che il maresciallo La Palice s’è spazientito del mio ritardo? Cosa significa, ch’è risalito per la Valle della Brenta per occupare La Scala, Feltre e Cividal di Belluno? Non era a Treviso, dov’eravamo diretti?”

“Il … il maresciallo non … o-ordini dell’Im-imperatore … un messo da T-Trento …”, balbettava ansimando il soldato, paonazzo in volto dall’ossigeno sempre più carente.

“L’Imperatore”, lo interruppe sibilando il condottiero, aumentando la presa, “deve raggiungerci qui, non certo a Feltre né a Cividal di Belluno! Come ti permetti, scalzacane, di rifilarmi codeste balle?!”

“E’ la verità! Lo giuro!”, protestò il trombetta, afferrandogli disperato i polsi. “Vi prego, capitano, lasciatemi spiegare …!”

Magnanimo seppur sbuffante, il greco-albanese concesse quella piccola grazia e il francese poté rimettere i piedi per terra.

“Monseigneur il maresciallo non desiderava mancarvi di rispetto”, esordì cauto l’uomo, massaggiandosi il collo indolenzito e arrossato. “Tuttavia, non udendo più alcune nuove da voi, ha temuto che la fortezza fosse stata riconquistata, sicché ha deciso di muovere le truppe verso La Scala, Feltre e Cividal di Belluno.”

Mercurio incrociò le braccia al petto, arcuando scettico il sopracciglio. “E per venire in mio soccorso, sua signoria il maresciallo ha scelto il percorso più lungo, che guarda caso evitava Castelnuovo di Quero?”, schioccò sardonico la lingua.

“Non … non potevamo sapere la situazione, insomma, dei cavalleggeri sono pur riusciti a scappare e …”

“E insomma, le due città sono o non sono state conquistate?”, cangiò brusco discorso il condottiere, non gradendo che gli si ricordasse la fuga di Vetor dil Pozzo da sotto il suo naso.

La staffetta di questo lo rassicurò, annuendo rapidissima. “La fortezza de La Scala e Feltre sono cadute subito, sebbene quest’ultima fosse già stata abbandonata sia dal podestà che dai suoi cittadini. Non … i Tedeschi non hanno raccolto pressoché niente di bottino …”

Il Bua, udendo ciò, con la scusa di cambiar peso da una gamba all’altra si voltò verso Hironimo, il quale gli sorrise trionfante. “E Cividal di Belluno?”, strisciò l’uomo le parole, gli occhi ben puntati sul suo prigioniero.

“Il commissario imperiale Jean d'Aubigny sta negoziando col Consiglio di reggenza, onde riscuotere un’ingente somma di danaro come punizione per l’alleanza dei Bellunesi con la Serenissima. Si parla di quasi quattromila ducati!”

“Hanno pagato?”

Il francese si schiarì la gola. “Ehm … no. Cioè, non ancora. Il Consiglio sta valutando il riscatto; inoltre, da quanto ho capito hanno protestato d’esser sempre stati neutrali e …”

“… stanno prendendo tempo, coglionando monseigneur d'Aubigny così da evitare sia il saccheggio sia di pagare una taglia troppo salata. Furbi loro”, terminò per lui la frase Mercurio, raggiungendo Hironimo e piazzandoglisi davanti, manco stesse conferendo col veneziano invece che col trombetta.

Il giovane Miani gli mostrò i denti in disfida, sostenendo lo sguardo indecifrabile del greco-albanese, il quale seguitava a fissarlo silente, il capo reclinato appena su di un lato.

“Chi fa parte della compagnia del commissario d'Aubigny?”

“Monsieur Julien du Maine; monsieur Alexander Stewart de Lorne , monsieur Georg von Rotemberg e ...”

“Non capisco”, lo interruppe bruscamente il capitano di ventura, d'un tratto disinteressato alla lista. “La Palice guida la spedizione, ma gli Imperiali fanno bottino. Perché?”

A questo quesito, il soldato francese perse ogni soggezione e spavento per imporporarsi di sdegno. “Perché non sono altro che dei porci avidi!”, sputò rabbioso. “Sapete l’ultima? Proprio ieri è stato letto un bando dell’Imperatore nel nostro accampamento a Montebelluna: la Sua Cesarea Maestà ci proibisce di varcare la linea della Piave!”

Il condottiere scrollò le spalle: lui militava per il Re dei Romani, quindi l’affare più tanto non lo tangeva.

“A noi e agli stradioti.”

Un gelo assassino calò improvvisamente nella stanza e la staffetta, non appena Mercurio si girò, inconsciamente indietreggiò d’un passo, temendo di finire sul serio appiccato allo stipite della porta. “Questo è ciò che l’Imperatore ha comandato!”, s’affrettò a precisare il francese, la voce improvvisamente più acuta.

“Che ha detto a riguardo il maresciallo?”

“Lo ignoro!”

Un pesante improperio sfuggì dalla bocca del greco-albanese, contratta in una smorfia di profonda stizza e al contempo perplessità, la medesima che provava Hironimo dopo aver appreso di quell’assurdo ordine. Anche se – cogitava il patrizio – in un qualche astruso modo poteva ritornargli utile …

“Zilio!”, chiamò infine il capitano di ventura il suo luogotenente, rimasto in disparte accanto alla porta. “Abbiamo ricevuto la taglia per i due bellunesi?”

“Sissignore.”

“Perfetto!”, esclamò compiaciuto il Bua, ponendosi le mani sui fianchi. E a voce ben alta, acciocché il trombetta potesse ricordare bene ogni sua parola e riferirla: “Date loro da mangiare, dei vestiti e una cavalcatura, che possano ritornare a testa alta dalle loro famiglie. Hanno combattuto valorosamente, in fin dei conti” e di nuovo guardò Hironimo con la coda dell’occhio. “Dopodiché, annuncia ai nostri uomini che leviamo il campo: ritorniamo a Montebelluna.”

Zilio Madalo si pose sull’attenti, sparendo lesto a notificare il resto della truppa.

“Non sarete stato eccessivamente generoso?”, s’azzardò di fargli notare il soldato francese.

“La Sua Cesarea Maestà non comprende, che non è minacciando morte e distruzione che si conquista il cuore della gente, bensì mostrandogli la propria convenienza nel seguirlo”, sentenziò Mercurio, dirigendosi di nuovo verso Hironimo e afferrandolo per il mento lo costrinse ad inarcare indietro il collo, strappandogli un piccolo guaito di dolore per la resistenza oppostagli dal peso della palla di cannone. “Questo la Serenissima Signoria lo sa bene: ecco perché i suoi cittadini sono disposti a morire così volentieri per lei …”

Così, nel cuore della notte alla stregua di ladri, si abbandonò Castelnuovo di Quero. Ironia della sorte, considerato il miserrimo bottino, per certo si viaggiava leggeri e silenziosi per la strada boscosa, vigilantissimi per timore dei tremendi contadini e delle loro imboscate.

Hironimo e Thomà marciavano accanto al capitano di ventura condotti tramite una corda in mano allo stesso greco-albanese, alternando scatti di corsa a passi più lenti. Abituato a cavalcare, Hironimo contrariamente a Thomà faceva una fatica enorme a trascinarsi avanti a piedi nudi, pesandogli e graffiandogli la pelle le manette alle caviglie e i polsi e la palla di cannone appesa ad un cerchio serrato attorno al collo.  Ogni tanto, il suo compagno di sventura gli trottava accanto e gli reggeva la palla, così da sostenerne meglio il peso e respirare più liberamente.

Prima che sparisse nascosto dagli alberi,  il giovane patrizio contemplò la sagoma del castello e gli si strinse il cuore similmente alla prima volta in cui l’aveva rimirato: ma se in quell’occasione egli aveva scorto una prospettiva di carriera e finalmente la sospirata occasione di distinguersi dai fratelli, adesso quelle rovine gli rammentavano il suo fallimento, insinuandosi l’atroce dubbio se, una volta libero, la Signoria gli avrebbe mai perdonato la caduta di Castelnuovo.

Venezia era una madre severa, prodiga nel dare ma altrettanto esigente nel pretendere in cambio e della sua poca clemenza nei confronti di chi la deludeva  faceva parlare di sé ovunque, sia dentro che fuori i suoi territori : di come depose il Doge Francesco Foschari e gli torturò il figlio sier Jacomo Foschari, esiliandolo a vita a Candia; il castellano sier Hironimo Trun q. sier Priamo, ch’aveva venduto Lepanto ai Turchi pur di salvarsi la vita, decapitato e disconosciuto dalla sua medesima famiglia; i Lippomano costretti alla fuga dopo l'arresto per insolvenza a causa del fallimento del loro banco; sier Antonio Grimani Capitano da Mar a causa di due tremende sconfitte contro i Turchi s'era rifugiato pure lui a Roma dal figlio cardinale Domenego e soltanto due anni addietro la Dominante l’aveva perdonato, nominandolo provveditore, a seguito di dieci anni vissuti da latitante, un criminale ai suoi occhi. Sier Anzolo Trivixan anch’egli esiliato per la sconfitta a Polesella. E il tanto osannato sier Ferigo Contarini? Se non avesse stupito con la sua ardita fuga, gli avrebbero concesso altri incarichi?  Sier Zuam Paulo Gradenigo per la rotta di Rovigo finito sotto processo e un anno senza incarichi.

La famiglia d’Hironimo stessa era stata in passato inquisita da parte dei Dieci, il suo bisnonno sier Marco Miani multato e sollevato dall'incarico di Bailo per strane questioni a Corfù; suo nonno sier Lucha Miani esiliato per un anno da Venezia e cinque da ogni carica pubblica, un’umiliazione che Padre s’era imposto con ogni suo mezzo di cancellare, dedicandosi anima e corpo alla Signoria acciocché nulla se non lodi si potessero dire dei Miani e così aveva cresciuto i propri figli.

(Venezia non sa che farsene d’inutile liquame, ricordava loro Padre, ogniqualvolta lo deludevano)

Un’ondata di sconforto assalì Hironimo: con quali parole si sarebbe giustificato? Gli avrebbero creduto? Oppure sarebbe rimasto un semplice cavaliere e, a guerra terminata, relegato nel dimenticatoio di un qualche oscuro ufficio, magari su di un’isola greca semideserta?

L’oblio … che ironico castigo per lui, da sempre alla ricerca di fama e successo così da liberarsi dal pesante giogo d’essere l’ultimogenito, il cucciolo della nidiata, il piccolo Momolo, il figlio-del-suicida.

Non gliel’aveva profetizzato quella veggente? Non gliel’aveva promesso?

Tu, che hai l’anima di Lazzaro, supererai chiunque dei tuoi pari a Venezia e fuori d’essa. Nulla di vivo dei re, degli imperatori, del Papa a loro sopravvivrà, ma il tuo operato viaggerà nel tempo e lo sconfiggerà e il tuo nome sarà conosciuto fino agli ultimi angoli della Terra e tutti lo ameranno, tale è la sua grandezza.

“Puoah, vecia bacuca, marantega (befana, ndr.), buziarda, mata e sempio mi che t’ho creduto”, sibilò sardonico Hironimo, infilando due dita sotto il collare in modo da recare sollievo alla pelle arrossata dallo sfregamento (già sentiva le prime vesciche formarsi). Stupido, stupido proprio.

E peccatore, la Chiesa non condannava forse la chiromanzia  e chi la consultava?

Oh beh, pensava il giovane patrizio, un peccato in più uno di meno … tanto ormai, come più volte ripetutogli dagli indignati preti, lui era al di là di ogni redenzione e allora che si peccasse e ci si divertisse, se proprio Domine Iddio non nutriva alcuna misericordia nei suoi confronti.

 

***

 

Marco si girò sul fianco, appallottolando il cuscino sotto la testa e grattandosi di riflesso la sottile barba che, a causa del lutto, avrebbe dovuto portare per tre anni e che gli dava non poco fastidio, essendo essa acerba come la sua età, contrariamente a quelle più virili dei suoi fratelli e parenti.

La stanza giaceva in un inusuale silenzio, rotto dalle violente sferzate del vento novembrino le quali graffiavano incessanti sui sottili vetri delle finestre, insinuandosi nei sottilissimi interstizi e gonfiando appena le pesanti tende tirate. Nel caminetto cadevano gli ultimi ciocchi di legno stanchi e consumati e accanto ad esso, ben accoccolato sul suo materasso, il servitore Trovaxo russava lievemente.

In altre circostanze, Marco avrebbe esultato ogni Hosanna in Excelsis dalla contentezza di avere infine la camera tutta per sé, ma in quegli ultimi mesi il sonno tardava a ghermirlo e si tormentava rigirandosi in letto simil San Lorenzo sulla graticola, le orecchie tese ad ogni rumore e si meravigliava di rimpiangere persino il fastidioso scricchiolio delle pagine del libro che Carlo, insonne civetta, s’ostinava nel cuore della notte a sfogliare finché, esasperato, Lucha non gli lanciava un cuscino addosso onde indurlo a spegnere la bugia e dormire come ogni cristiano.

Un improvviso refolo particolarmente forte provocò un sinistro tremore nella finestra, al punto da indurre Marco a balzare giù dal letto a cassettoni e assicurarsi che essa fosse chiusa bene. Tra la Bora (a Bora nassi in Dalmaxia, la se scadena a Trieste e la mori a Veniexia) e l’acqua alta, si preannunciavano giorni seppelliti vivi in casa, ancor per loro più tristi ch’erano in lutto. Beato Carlo che con la scusa di accompagnare lo zio Batista si trastullava alle terme di Abano, talvolta v’erano giornate in cui Marco credeva d’impazzire, se non avesse potuto rifugiarsi al piano di sopra dal biscugino Zuan Francesco.

“Marchetto?”, udì una vocina timida alle sue spalle e il ragazzo sobbalzò per la sorpresa, sbuffando poi nel trovarsi davanti il fratellino scalzo e in camicia da notte.

“Cossa fastu qua?”, sussurrò, non desiderando svegliare Trovaxo e dunque renderlo partecipe della loro conversazione.

Momolo affossò il mento sul petto, stringendo convulsamente l’orlo della camicia.

“Zò, oco?”, si piazzò Marco di fronte al bambino, le braccia incrociate al petto. “Cossa dirà la siora Mare, se la non te vede in leto? Ciò, non ti divertirai mica a strapazzarla?”

(Aveva origliato una conversazione tra i genitori, in cui Padre valutava se fosse il caso di spostare l’ultimogenito in camera coi fratelli. Madre, invece, gli aveva suggerito di attendere qualche anno, sostenendo quanto ancora fosse tenerello alle cose degli uomini, al che Padre, intuendo, era arrossito un poco e di fatti già quella sera Trovaxo dormiva coi padroncini, i quali non furono grati al genitore di quell’intromissione )

Momolo bofonchiò un qualcosa d’inintelligibile, costringendo il maggiore a ripetere spazientito la domanda, ottenendo però sempre i medesimi borbottii finché Marco, tastando per caso la camicia da notte del bambino, scoprì un’umidità sospetta.

“Oh, Momolo!”, esclamò allora dolcemente, abbracciando il piccino le cui esili spalle tremarono dai singhiozzi. “No xé gnente, horra te netto mi, sì?”

Dal giorno del funerale di Padre, quasi ogni notte Momolo si svegliava col letto bagnato e se all’inizio stimando la sua età oramai grandicella si pensava a sudore, purtroppo ci si dovette arrendere all’evidenza che, dopo anni, il bambino aveva ripreso ad urinare nel sonno per l’umiliazione sua e la preoccupazione di Madre ché nessun medico sapeva spiegarsi il perché di tal affare. Neanche loro, i fratelli maggiori, di solito sempre pronti a sfottere il piccino di casa, avevano osato commentare a riguardo.

Delicatamente, in silenzio e con le orecchie sempre tese acciocché Trovaxo non si svegliasse, Marco lavò il fratellino e lo aiutò ad indossare una delle sue camicie da notte, che gli stava talmente lunga da fargli un buffo strascico. Prendendolo per mano, salirono assieme sul letto a cassettoni e, ben rannicchiatisi sotto le coperte, il ragazzo spense la candela e sistemò in maniera più comoda per entrambi i cuscini. Immediatamente, Momolo si strinse al maggiore e Marco notò con preoccupazione la magrezza di quel corpicino, proprio lui cui gli davano affettuosamente del porcellino per il suo appetito gagliardo e l’aspetto robusto e florido del ben nutrito (Anche i dolci di San Martino aveva rifiutato [1]) Non aiutava, poi, l’umidità che Marco sentiva bagnargli la stoffa della camicia, là dove Momolo aveva affondato il viso né tantomeno la presa convulsa ai suoi fianchi, quasi il fantolino temesse che il fratello spiccasse il volo, scomparendo per sempre.

“Marchetto?”

“Dime.”

“Lucha non ha paura di dormire nella camera del nostro sior Pare?”

(Adesso che lui occupava il posto vacante di capofamiglia, ogni cosa di Padre era divenuta sua, anche la stanza da letto per quanto Lucha la prima notte vi ci fosse entrato con una faccia bianca da cencio appena lavato)

“Perché dovrebbe? Omo morto no' fa guerra.”

(Ignorava come Lucha riuscisse a dormire lì dentro, senza l’ansia di scorgere l’ombra di Padre fissarlo dall’angolo più buio, gli occhi spalancati chiazzati di rosso e la lingua fuori)

“Marchetto?”

“Cosa ancora?”

“Si può uccidere qualcuno solo col pensiero?”

Marco si girò di scatto, fissando stralunato il viso del fratellino che ricambiava serissimo nella penombra della stanza.

(I suoi occhioni neri un tempo sì ridenti adesso possedevano la medesima inespressività dei putti dei monumenti funebri. Il viso stesso era marmoreo e freddo)

“No, certo che no, strambazzo! S’ammazza con le mani, mica col pensiero.”

(Non era vero, Marco aveva voluto qualcuno morto col pensiero. Magari, Dio l’aveva pure esaudito)

“E ammazzarlo per omissione?”

“Ossia?”

“Cussì, fradelo.”

Senza dar tempo alla frase di dissolversi nell’aria, in un attimo le mani di Hironimo gli furono al collo ed egli a cavalcioni sopra di lui, pesante quanto il coperchio di un sarcofago. Non era il suo fratellino decenne, bensì venticinquenne, bianco come la calce, la gola squarciata, il viso sfigurato dalle ustioni e schegge di bombarda, la bocca sghemba e lorda di sangue.

Marco si portò di riflesso le mani alla gola nel tentativo di liberarsi da quella presa, rabbrividendo dal gelo emanato da quella carne livida e putrefatta.

“Mi hai lasciato andare in quella fortezza maledetta … Tu sapevi che non sarei stato capace di difenderla, eppure non hai mosso un dito per impedirmi di partire! Tu mi hai abbandonato alla mercé del nemico! Mi hai condannato a morte per soddisfare il tuo vendicativo orgoglio!”; gorgogliò quella voce rotta e disumana, lordandogli la faccia di sangue vischioso ad ogni parola proferita.

“No … No … Momolo, no …”

(Se suo fratello avesse avuto occhi e non buchi vuoti e neri, l’avrebbero guardato pieno d’odio)

“Mi hai voluto morto?”

“No, di giuro di no … Momolo, perdonami … Non ti ho mai voluto morto … no …”

(I pollici premettero sulla sua trachea onde provocarne il cedimento)

“No! … No! …”

“Stai di buona voglia, fradelo …”

“Markos …?”

“… ché morto lo sarò assai presto!”

“Oh, Verzene Maria! … Perdoname, perdoname! …”

“Markos!”,  lo scossero energicamente due delicate ma forti mani, strappandolo da quella chimerica visione e catapultando un gemente Marco nel letto non della sua casa a San Vidal a Venezia, bensì della stanza padronale in cui alloggiavano a Treviso. Fuori il vento seguitava ad ululare imbizzarrito, manipolando la direzione della pioggia battente e trasformandola in frustate contro i vetri della finestre, alternandosi ad altri scrosci di acqua, quelli più pigri e regolari del mulino poco distante.

Ansimando a grosse boccate, l’uomo si guardò intorno spaesato, sobbalzando al lieve e rassicurante tocco delle dita di sua moglie Helena Spandolin [2], che gli scostava via gli scuri ricci sudati dalla fronte e dalle tempie. Il suo viso dolce, dal pallore caldo del Levante e circondato da capelli nerissimi e ondulati, si sostituì a quello mutilato e cadaverico di Hironimo, così come le orbite oculari sanguinanti si riempirono di vivaci occhi nocciola, che lo studiavano ora inquieti.

“Sono qui, méli mou (miele mio, ndr.) Sono qui …”, gli sussurrò teneramente ella in greco, lingua che condividevano nell’intimità, conducendo il suo capo al petto e continuando ad accarezzargli amorevolmente la schiena. “Si è trattato di un incubo, soltanto di un incubo.”

Dilaniato dai sensi di colpa, Marco pregò con tutto fervore la Santissima Vergine Maria affinché ciò corrispondesse al vero.

 

***

 

Sier Lucha Miani uscì di corsa da Palazzo Ducale e senza neanche penarsi di scusarsi se urtava malamente i suoi accigliati colleghi, si diresse spedito là dove Lucha di Symon il gondolier de casàda stava cicalando fitto-fitto cogli altri suoi compari nel sotoportego, balzando comicamente in avanti all’ inaspettato arrivo del padrone.

“Ndove andèmo, patron?”

“Al Ramo de la Stua.”

Lucha il gondolier strabuzzò perplesso gli occhi. “A sta horra, patron? Non sarave un fià presto?” Sapeva, infatti, trovarsi vicino alle Carampane a Rialto, poco dopo l’allusivo Ponte delle Tette. Dinanzi all’espressione esagitata e inflessibile del padrone, l’uomo accantonò ogni obiezione e prese a remare con insolito vigore, intimamente contento di gustarsi nell’attesa la vista del bel balconcino delle mamole [3] affacciate alle finestre.  

In realtà, il trentaseienne Miani stava delineando altri piani d’azione ovvero piombare inatteso in una delle varie stue del Ramo e di fatti Lunario el Stuèr suo proprietario poco mancò di strangolarsi con la propria lingua alla vista di un patrizio con ancor la toga del Maggior Consiglio addosso presentarsi a lui terribile e solenne, come San Michele il giorno del Giudizio Universale. La lunga cicatrice lungo la mascella e il viso del pallore malsano del convalescente gli conferiva un ché di ancor più feroce.

“Mi no gh’ho fato gnente, no sun berton!”, ci tenne tosto a precisare lo stufaruolo, mettendo letteralmente le mani avanti. [4]

Lucha lo squadrò seccamente dall’alto al basso. “Lo spero ben”, schioccò la lingua e aggiunse spiccio: “El consier sier Batista Morexini, xélo qua? Et no me dir che ti no te lo cognossi, ché te fazzo prepar na bea tola a’ Pozzi! O mejo anchor: a le Orbe!”

Neanche terminò di proferire il nome delle tanto temute stinche, che Lunario scavalcando per poco il bancone guidava di persona il patrizio attraverso un piccolo dedalo di corridoi ben riscaldati  e senza correnti d’aria, fino a giungere ad una stanzetta specificatamente predisposta per riposarsi dopo il bagno di vapore. Lì lo stufaruolo bussò cauto alla porta, contorcendosi in una smorfia dolorosa alla scocciatissima risposta:

“Gran mercé! Che vuoi ora? Non ti pago per astiarme!”(seccarmi, ndr.), berciò dietro una voce a Lucha assai nota e giusto per abbreviare i tempi (non per pena nei confronti dello stuèr), che appunto replicò in fretta alla giusta obiezione del senatore:

“Sior Barba, sun el vuostro nezzo, Lucha.”

Immediatamente il tono dello zio s’addolcì. “Lucha?! Sangue di diana, perché non me l’hai detto prima? Pelandrone d’un Lunario, fallo subito entrare, lesto!”, comandò perentorio allo stufaruolo, che inchinandosi e mormorando un deferente Vi servo, patron, zelenza, vossioria, piegò l’indice verso di sé onde comandare ad uno schiavo moretto di portar una sedia al patrizio. E rivolgendosi in gran confidenza al Miani:

“Zelenza, lustrissimo, fé attension: el sior consier se porta sempre pì mutrión (taciturno, ndr.), pien de smara et gnàgna (malumore e malinconia, ndr.); se podarave dir ch’i spiriti lu possegano interamente …”

Uno zoccolo con inquietante precisione colpì la spalla dello stuèr, interrompendolo e sia il ragazzino che Lucha si morsero le labbra pur di non ridere.

“T’ho sentito, pampalugo!”, vibrò minacciosa la voce del consigliere. “Renditi utile e porta da mangiare e da bere!”

“Vi servo, patron, zelenza, lustrissima vossioria!”, si massaggiò l’uomo la spalla dolorante, raccogliendo lo zoccolo. E rivolto allo sghignazzante moretto: “Et movete, fio d’un turco!”, spingendolo via malamente.

Intanto che il ragazzino saltava a guisa di grillo onde accomodare al meglio il nuovo arrivato, il consigliere e senatore sier Batista Morexini, torvo in volto e tutto avvolto in un morbido panno, salutò il perplesso nipote con uno spassionato: “Donca?  Cosselo sto muso da imbaucato (incantato, ndr.)? Che t’aspettavi, nezzo mio? De trovarme a far a l’amor con do pute?” e indicando col capo il vassoio di marzemino e fritole alla cannella, gli confidò furbescamente: “Alla mia età, quest’è l’unico vizio che mi rimane!”

Ingoiando l’incuriosita replica circa il perché proprio con due donne lo doveva pizzicare, Lucha sorrise complice allo zio, l’unico ad accezione di Madre e i fratelli che gli dava del tu con tanta disarmante e tenera confidenza.  D’altronde certe libertà poteva più che permettersele, specie quando un allora inesperto Lucha si era ritrovato improvvisamente a ventun anni a rimpiazzare Padre e solo sier Batista Morexini s’era interessato attivamente alla sorte della sorellastra e dei nipoti, aiutandoli sia materialmente che spiritualmente.  Per lui era stato un pilastro, quello zio da tutti considerato un po’ stravagante, sempre allegro e generoso, ottimo padre e cotolón (donnaiolo, ndr.) ognora penitente.

Zio che alla vigilia delle nozze di Marco e della bella Helena Spandolin aveva preso da parte nel suo studiolo privato il novizzo (fidanzato ufficiale, ndr.) e gli  altri fratelli Miani con la scusa di favellare; una volta ottenuta la loro attenzione,  era volato un tal ceffone da far girare violentemente la testa al povero Marco, il quale ci mise un bel po’ per riprendersi e capire quanto appena successo. Zò! Gnanca gh’ho verto bocha! aveva poi esclamato indignato, mentre i fratelli assistevano scioccati, gli occhi fuori dalle orbite. Te dole, eh? Arecordate de sto dolor, nezzo mio, co’ te vien voja de bater la mojer! e rivolto agli altri nipoti: Ancha se ve vien ea spissa (prurito, ndr.) de ciaparla per el colo, avé da satre (sapere, ndr.) che ea mojer sì la gh’ha da obedir ma non xé ni da strapazzar, ni da menazzar, ni da insolentar! Vui seti omeni, abié juditio vui per primi, se volé che l’abbia anch’ela. Onde reiterare il concetto, aveva poi tra lo sconcerto generale elargito un secondo ceffone a Marco, sull’altra guancia. La donna sbaglia, se l’uomo si comporta da macaco! Sicché l’allora diciassettenne Hironimo, nel pieno  di quella fase in cui i giovani proprio non sanno tenere la bocca chiusa, gli aveva ritorto: Parlate per vostra personale esperienza, sior Barba?  per condividere immediatamente la triste sorte del fratello.

Era stato grazie alla amicizie e conoscenze di sier Batista, all’epoca nel Consiglio dei Dieci, alle sue macchinazioni e abilità oratoria se la dubbiosa Signoria aveva accettato l’anno addietro di scambiare Lucha col capitano Cristoforo Calepin, liberandolo dalla sua prigionia di quattro lunghi mesi in Alemagna. Inconsciamente, a quei ricordi, il Miani si tirò appresso la stola, usata come fascia di supporto per il braccio destro storpiato e inerme.

“Sentate, vuostu marèndar? (colazionare, ndr.)”, riprese il senatore il discorso, bevendo cautamente il marzemino, onde non sporcare il panno bianco.

“Vi trovo bene, sior Barba.”

Sier Batista lo fulminò cogli stessi occhi neri di Marco e Hironimo, quest’ultimo l’unico nipote Miani che gli assomigliasse in tutto e per tutto, una goccia d’acqua, e se non fosse stata Leonora Morexini Miani ad averlo partorito, le malelingue di certo avrebbero tambureggiato ogni sorta di pettegolezzi. “Burlestu?”, sbuffò sardonico l’uomo, mostrandogli le mani ossute, dalle vene ingrossate e dalle dita lievemente storte. “Te par che stago ben? An, la vecchiaia …  i reumi proprio non mi danno requie! In questo periodo dovrei trovarmi ad Abano, non qui a crepar dall’umido!” e sbuffando ritornò alla silenziosa degustazione del suo vino.

Effettivamente, appurò Lucha, sotto la scorza del sarcasmo il suo avunculo appariva più stanco e fragile del solito, rivelandosi per il sessantanovenne che ormai era, cozzando con l’immagine mentale da sempre custodita di lui, ovvero dell’energico e giovane zio che si issava anche due nipoti alla volta sulle spalle, facendoli roteare tra grandi risate e i preoccupati richiami di moglie e sorellastra, nelle dolci estati trascorse a Treviso e a Fanzolo.

“Talvolta”, proseguì pensieroso il consigliere, “credo d’aver vissuto in un altro tempo, in un altro luogo. Quanti avvenimenti si sono succeduti in quest’ultimi anni! Quanta gente da me conosciuta è oramai sottoterra ... Mio padre, le mie due madri, i miei fratelli ... Parenti, colleghi, vicini di casa, amici, nemici …  Ci crederesti che neppure sei anni fa seppellivo mio fradelo Hironimo (ancha se geravam in lite et in grandissimo odio) … e quest’anno il sior mio zenero sier Zuanne Querini e la mia nezza toa sorela Crestina? ... Ripensavo a quanto era stata contenta di far parte del gruppo di gentildonne scelte ad accogliere la olim Ducissa de Bari, quel maggio in cui giunse qui a Veniexia in visita. Ed ora sono ambedue morte. Ti ricordi di lei, della Ducissa? Eravate coetanei, sì?”, e al cenno positivo del nipote proseguì con un sorriso malinconico: “Una creaturina spiritosa e brillante, peccato che quel satiro del Ducha sòo pare si fosse dimenticato d’insegnarle, che gli affari si fanno in due o non si fanno … Poareta, morta sì zovane … ”, scosse il capo. “E il luglio dell’anno scorso, assieme a mio cugnado sier Alvise Malipiero, pure m’è toccato comunicare al Mazor Consejo la morte della mia siora cugnada Domina Catharina Corner … che aveva colazionato  con la Ducissa! In quel momento, ho pensato: ecco qua, la fine d’un’epoca!”

E poi c’era la questione di sua figlia, ma Lucha sapeva che lo zio mai e poi mai avrebbe approfondito di sua spontanea iniziativa, rivangando il dilaniante spettacolo della sua adoratissima Maria rimasta precocemente vedova del marito Zuanne Querini conte di Stampalia e Amorgo, proprio lei che era stata benedetta da un matrimonio felice e un marito amorevole. Intuiva il Miani come lo zio avesse interpretato tale disgrazia come una punizione divina per il suo comportamento fedifrago nei confronti della, nonostante tutto, amata moglie, mortificandolo tramite la sofferenza della figlia e per questo sier Batista s’ostinava a sopportare stoicamente in silenzio senza menzionarlo a nessuno, tranne quando era corso disperato dalla sorellastra Leonora, supplicandola di persuadere Maria anche solo a guardare la figlia postuma di Zuanne, la piccola Laura. Assieme a Francesco, il maggiore di anni sette, Piero, Agustin, Fantin, Nicolò e Crestina, il defunto conte Querini di Stampalia e Amorgo aveva lasciato una moglie devastata dal dolore che si rifiutava d’interagire con l’ultimogenita, anzi, una volta rinsavita aveva confessato vergognosa alla zia come avesse sperato morire di parto, in modo da ricongiungersi allo sposo. M’aspetterà, sior’amia?, le aveva chiesto in lacrime.  Al che madona Leonora, con la saggezza di chi era sopravvissuto al calvario della vedovanza, le aveva risposto brutalmente onesta: V’aspetta sì, nezza mia, perché dalla sua tomba sicuramente non si muove! e detto questo, le aveva ceduto l’infante tra le braccia, che subito aveva cercato avida la poppa della madre.

Incredibilmente, Maria s’era messa a ridere.

“… Una generazione se ne va, un’altra viene, e la terra sussiste per sempre”, [5]  terminò solennemente sier Batista il suo monologo e con esso il vino, le palpebre socchiuse, meditabondo.

“Sior Barba …”

L’anziano consigliere l’interruppe con un secco svolazzo della mano. “Lo so, lo so. Non sei venuto per rivangare il passato, bensì per determinare il futuro. Vuoi sapere di tuo fratello.”

“Saveu …?”

Di Trevixo: Item si ha, sier Hironimo Miani, era castelan in Castel Novo, era presom di Mercurio Bua; il campo è pur a Monte Belluna e non se move, … etcetera, etcetera. Continuo?”, citò verbatim sier Batista il rapporto letto in Senato alle prime ore del mattino, assieme agli altri sia dai vari fronti che dallo Stato da Mar.

Navigato politico e uomo di mondo, appena aveva udito il nome del suo nipote e fiòzo (figlioccio, ndr.) il suo anziano cuore pur avendo avuto un sussulto non aveva tradito alcun’emozione sul suo volto, seguitando ad ascoltare impassibile e indecifrabile come una sfinge. Ciononostante, sier Batista già aveva previsto una prossima visita da parte o di madona Leonora o dei suoi nipoti Lucha e Carlo e, ad onor del vero, quasi era sollevato che la sorte avesse scelto il più mansueto Lucha, ché sul serio non avrebbe avuto animo di affrontare la sua sorellastra solo per aggravarle la già pensante croce che portava sulle sue esili spalle. 

Inoltre, Lucha aveva vissuto questo conflitto sulla sua pelle, ne conosceva le dinamiche e sapeva cosa aspettarsi sia sul campo battaglia che nei consigli di guerra.

“Sior Barba, riconosco che vi sto chiedendo un enorme favore … Sempre nel bisogno ci avete soccorsi e avete vegliato per anni su di noi, da quando Padre … Ciononostante, vi supplico di … di suggerirci almeno quelle salvifiche parole, che potrebbero persuadere i Pregadi e i Dieci ad intavolare le trattative per la liberazione di mio fratello.”

Il volto di sier Batista s’incupì. “Non è così semplice”, sentenziò secco, sistemandosi meglio sul lettino.

Lucha strinse il pugno, digrignando frustrato i denti. Ovvio che quando si trattava di prigionieri la Signoria ci andava cauta, valutando i pro e i contro, ma quale valore strategico poteva aver mai suo fratello Hironimo, semplice cavaliere fino all’altro giorno?

“Perché?”, sbottò infine.

Lo zio non si scompose, semmai gli spiegò con flemma: “Perché la Signoria Nostra tiene in mano l’unica cosa, che potrebbe legare nuovamente il signor Mercurio Bua a lei.”

“E cioè? Danaro?”

“Moglie e figlia”.

Lucha avvertì il mondo cascargli addosso, spalancando poco elegantemente la bocca e il braccio sinistro gli cadde dal grembo.

“Burléu?”

“Te par?”, lo rimbeccò prontamente lo zio. “Catharina Bochali, la fia di Nicolò Bochali el capitan stratiota morto en la Patria del Friul e sorella dei nostri capitani Manoli e Constantin Bochali, i quali ce l’hanno a morte (chissà perché) col cognato e pertanto si rifiutano di restituirgli le sue donne. Figurati che quello sfacciato di Mercurio Bua, pur di riaverle indietro, s’è raccomandato direttamente alla Signoria.”

“E che cosa gli è stato risposto?”

“Secondo te? Che non possiede alcun valido argomento per giustificare questo scambio” in attesa in realtà di vedere chi dei due, in quel braccio di ferro, avrebbe ceduto per primo.

Se da una parte Mercurio Bua vantava doti militari strategiche di notevole audacia e potenti alleati, dall’altra la Serenissima possedeva pazienza e numerose risorse; in aggiunta, con quel suo gesto in apparenza tracotante, il condottiero si era sbilanciato, scoprendo in parte le proprie carte e Lucha ben immaginava quanto sfacciatamente la Signoria avrebbe sfruttato quel suo tallone d’Achille, pronta a stringere la presa sul greco-albanese se necessario tramite la moglie e la figlia.

E suo fratello, di certo, non valeva lo scambio se sussisteva la possibilità di tener per le palle il terribile capitano di ventura.

“Così, tra i due medici litiganti, a rimetterci è il malato! Mi state dicendo, sior Barba, che sussiste la possibilità che mio fratello venga rilasciato soltanto a fine guerra?!”, esplose allora di collera Lucha, incapace d’accettare quel cinismo da ambedue i contendenti, men che meno da parte della sua patria, per la quale aveva dato un braccio, la salute e continuava a finanziare colle sue risorse economiche.

“No.”

“Ma come! Se m’avete appena detto che …”

Sier Batista lo invitò a calmarsi e a risedersi. “Nezzo mio, coi condottieri non si discute, li si compra ed io, in tutta la mia vita, non ne ho mai trovato uno senza prezzo.”

“Tranne quel francese, quel Baiardo.”

“Verissimo. Lui non si compra” , convenne il consigliere e indicando la tempia “… s’uccide” e rise alla macabra battuta. Poi, ritornando più serio: “Bisogna che tu o Carlo andiate a parlare col missièr (suocero, ndr.) di vostro fradelo, domino Dimitri Spandolin, e che lo inviate in ambasciata alla moglie del signor Mercurio a San Biasio. In contemporanea, assicuratevi che la vostra siora Mare mia sorela vada a trovare la sua amica, madona Alba Donado Contarini: suo fratello sier Andrea è podestà e capitano di Trevixo, chissà che trovandosi più vicino al fronte, non riesca ad avvicinare vostro fratello, anche solo per assicurarci che sia ancora vivo. Inoltre, sier Francesco Contarini, il figlio di madona Alba, conosce personalmente molti esponenti della nobiltà francese, forse tramite qualcuna delle sue conoscenze riuscirà ad agganciare se non il signor Mercurio, almeno il maresciallo monsignor La Peliza. Dal canto mio, vedrò cosa potrò fare in Senato … e fuori.”

Fortuna che il Misser Grande lo conosceva bene e con lui anche sier Francesco Foschari, sier Hironimo Querini e sier Lucha Trum, cugino germano dell’amico di famiglia e parente sier Antonio Trum, tutti e tre ben inseriti tra i Savi e i Dieci. Chissà se non fosse riuscito a persuaderli a prestargli i servigi dei loro contatti nelle terre dei Conti da Collalto, sospettosamente indenni dalle scorrerie dei saccomanni  e dei franco-imperiali …

 

***

 

 

Le campane della Chiesa di San Francesco avevano appena annunciato i vespri che madona Felicita, non rincasando ancora il marito, decise di recarsi lei medesima al granaio onde preparare le staie da imbarcare sui burchi diretti a Padova e a Venezia e della farina per cuocere il pane l’indomani. Afferrato lo zendale e chiamata Màlgari, aveva già un piede fuori l’uscio quando comparve madona Helena Spandolin Miani, la quale le chiese se poteva accompagnarla, non essendo neanche sier Marco Miani ancora ritornato dalla sua ronda, contrariamente alle più fortunate madona Chiara Spandolin Trivixan, sua sorella minore, e a madona Orsola Malipiero da Canal, quest'ultima generosamente ospitata dal Miani, poiché sia lui che il marito della nobildonna, sier Alvixe, erano stati assegnato a guardia del Castello.

Felicita acconsentì di buon grado, contenta della compagnia della vicina di casa e intimamente affascinata dall’esotismo trapelante dalla donna, stupore tipico di chi non era mai uscito oltre le mura cittadine. La giovane patrizia, d’altronde, vi metteva del suo: oltre alla forte inflessione greca nel suo veneziano, ella aveva conservato alcune usanze nel vestiario tipiche della sua gente. Pur indossando, infatti, un’accollata camicia bianca e una veste nera alla veneziana, madona Helena s’acconciava la testa con un velo di bombace, alquanto lavorato all’ago, avvolgendolo in maniera intorno ad essa così da lasciarne pendere e cadere una parte giù per le spalle. Solitamente il velo era bianco, ma, in rispetto dell’anno di lutto per la morte della cognata madona Crestina Miani da Molin, la giovane greca aveva optato per uno nero, anche se non corrispondeva al colore adatto secondo i suoi costumi e anzi, in cuor suo ella temeva d’attirarsi la malasorte, indossando un panno da sfoggiare esclusivamente alla morte del marito. Tuttavia, sier Marco le aveva pazientemente spiegato in più occasioni, che trovandosi a Venezia doveva adattarsi alla vestemica del luogo e il velo giallo, anche se in Grecia significava un onoratissimo lutto generale, in Italia equivaleva all’uniforme delle meretrici.

Il Miani, sebbene vincitore su questo fronte, aveva dovuto arrendersi dinanzi all’ostinazione di sua moglie d’ornarsi le orecchie di due o più anelli d’oro assai grandi, assai scandalosi [6] e pertanto relegati alle occasioni informali. Per contro, madona Helena non esagerava cogli anelli alle dita, limitandosi a due. Invece, adorava cingersi la vita con una catena d’argento, fatta con bell’arte, che pendeva poi davanti con due o tre peri d’argento, gli stessi che stavano in quel momento suscitando l’interesse di madona Felicita. E come la sorella maggiore, anche madona Chiara si vestiva compagna.

Talvolta, passando per San Martino, le tre vicine di casa si erano imbattute in qualche stradiota che, riconoscendo immediatamente le donne degli arconti [7], si metteva subito sull’attenti, servizievole e mansueto agnellino; i loro capitani, specie i Paleologi lontani parenti delle Spandolin, le si rivolgevano con la più estrema cortesia. Gli uomini stessi che sier Marco Miani e sier Nicolò Trivixan avevano portato con sé a proprie spese a Treviso provenivano dalla patria delle mogli, scelti accuratamente sia da loro che dal suocero, il cavaliere Dimitri Spandolin da Costantinopoli, tributario del Signor Turco.

Ciononostante, Helena non ostentava vanitosa la sua diversità né si comportava da superba in quanto patrizia, rispondendo con allegra cortesia alle numerose domande di una curiosa Felicita, nelle lunghe ore vespertine in cui attendevano i rispetti consorti. Chiara, dal canto suo, se ne rimaneva in disparte a cucire, dimostrando infatti una natura più timida rispetto alla maggiore, preferendo la compagnia di madona Orsola verso la quale avvertiva una maggiore affinità culturale, esprimendosi infatti la nobildonna in fluente greco vernacolare . Anche se figlia del patrizio veneziano Antonio Malipiero, madona Da Canal era nata e cresciuta a Corfù dove la sua famiglia s'era da tempo trasferita e dove proprio lì aveva conosciuto il suo futuro consorte, all'epoca castellano della fortezza a guardia dell'isola.

“Cadaun zorno, i nuostri maridi fan senpre pì tardi, vero? Se no fussimo en guera, pensaria mal!”, scherzò la giovane donna.

La greca sorrise sibillina. “Dubito: il vostro sior marido Donado non mi è sembrato un farfallone. Vi guarda respirare, tanto vi vuol bene”, le confidò civettuola, provocando un grazioso rossore compiaciuto nelle gote dall’altra. “Vi confesso che un poco v’invidio.”

Assicurandosi che Màlgari e Cleofe, la fantesca della greca, si trovassero fuori dal raggio udivo, Felicita le sussurrò con genuina preoccupazione: “Vuostro marido ve trascurelo?”

“Non è facile essere ammogliate ad un patrizio”, asserì Helena, rigirando un poco malinconica la vera al dito. “Ché il marito non v’appartiene mai interamente: la Signoria viene sempre per prima; è lei la vera moglie e noi le concubine.”

Abituata a trascorrere molto tempo col suo Donado, soprattutto per via della gestione dei mulini, Felicita si dispiacque molto della situazione della nobildonna, non concependo come potesse stare così a lungo separata dal consorte senza rodersi dall’ansia nonché dal dubbio circa la sua capacità di resistere alle tentazioni della carne, ché alla giovane trevigiana non erano sfuggite le occhiate golose delle altre donne, maritate e non, saettate con sfacciata insistenza ad un ignaro Donado durante la Messa. Brutte insolenti!

Felicita aprì la bocca onde tentar di confortare la patrizia, sennonché un urlo si sostituì alle parole: distesi a terra, gli operai addetti al granaio giacevano svenuti con evidenti segni di colluttazione sui volti, gonfi peggio di una vescica. Il portone era stato sfondato e da esso simil formiche, dei soldati si servivano allegramente passandosele di mano in mano le staie di grano, orzo e di tutta l’altra farina macinata riservata l’indomani a Venezia e Padova.

Le gote della giovane si gonfiarono di collera, imporporandosi circa l’ingiustizia dell’affare: ma come? Loro si dannavano l’anima lavorando notte e dì onde soddisfare le richieste della Serenissima, suo marito pure precettato ad aiutare la squadra di guastatori sulle mura e quei pelandroni dei soldati mercenari, sfamati e alloggiati gratuitamente, ora gli venivano pure a rubare la roba?

“MALADETI CANI! SASSINI! PENDAJO DA FORCHA! BARONI! DA TAJARVE LE MANI!”, ruggì indignata e furibonda e prima che Helena o Màlgari potessero fermarla, madona Cimavin afferrava un bastone caduto agli operai e lo fracassava in testa ad un soldato (voltato di spalle), il quale con una bestemmia da far sanguinare le orecchie cadde a far compagnia agli operai, privo di sensi.

Purtroppo, ciò distrasse i suoi degni compari dalla razzia del granaio e di fatti uno di loro non tardò a disarmare con violenza la giovane donna. “Razza di troia, ad un uomo metti le mani addosso? Toh, prendi, se ti piace menare!”, sbraitò e Felicita appena ebbe il tempo di deviare il cazzotto che le diede, giusto per evitare che le spaccasse il naso sebbene esso incominciò a sanguinare lo stesso, tra lo sconcerto generale delle altre donne, specie quando il soldato, non pago, la colpì alla spalla e la spintonò malamente per terra e se non fossero stati i riflessi pronti di Màlgari, la giovane donna sarebbe certamente caduta di schiena.

Prontamente le altre donne si ersero a difesa della poveretta, intuendo come l’uomo avesse intenzione di infierire. “Béco fottuto!” (cornuto,ndr.), gridò la contadina, afferrando una pietra e lanciandogliela contro con inquietante precisione, da far invidia ai lapidatori di Santo Stefano primo martire. “Bater ‘na dona! (e una pietra) Et gravia! (e un’altra pietra) Seti pèzo de quei ch’i zogavan a dadi soto ea Crose Sancta!”

Intanto, aiutata dalle compagne che le coprivano le spalle, madona Helena batteva a saggia ritirata di direzione di casa, gridando a voce alta: “Zente! Zente! Arme, fora arme! Ajuto! Zente!” e tentando di trascinare seco una scalciante Felicita che nonostante l’epistassi e i lividi, urlava come un ossesso i peggiori insulti mulinando feroce i pugni.

Piccati sia per l’interruzione sia per l’esser stati malmenati da delle donne, alcuni mercenari lasciarono le staie che stavano prendendo ed esigere soddisfazione, malgrado i loro compagni li suggerissero di lasciar perdere e andarsene via col malloppo. Stando al loro discutibile codice d’onore, si trattava ormai di una questione di principio il lavar via quell’onta insopportabile, al diavolo il gentil sesso e altre baggianate da poemi cavallereschi.  

Sicché colpirono forte e colpirono duro, finendo sia Cleofe e Màlgari per terra e gli occhi di madona Helena si spalancarono impauriti al sinistro luccichio della lama di un pugnale.

Questi ci ammazzano!, fu l’unico pensiero che la sua mente poté elaborare e d’istinto coprì la donna incinta col suo corpo, serrando le palpebre in attesa del colpo, gli ultimi pensieri rivolti al marito e ai suoi pargoletti a Venezia.

Invece, qualcosa le saltò sopra a mo’ d’ostacolo e colpì con un calcio in pieno petto l’avversario, cogliendolo alla sprovvista, che indietreggiò e il pugnale tintinnò sui sanpietrini.

“Maladeto viliàco: se te gh’ha finio co’ le femene, battiti horra contra nuialtri omeni!”, lo sfidò Marco Contarini, il più giovane e veloce della mandria di tori che s’avvicinava pericolosa, al secolo i rispettivi mariti delle donne offese e gli operai ai mulini e gli uomini del Miani, Trivixan, da Canal e Contarini, tutti capeggiati da Jacopo Cimavin il Vecchio, il quale brandendo un nodoso bastone, ruggì come quand’era andato in guerra contro i Ferraresi:

“Manza-merda, ve sbuso tutti et ve fazzo vegnir fora le buéle par la bocha!” e che il sier Provveditore lo impiccasse pure, ma prima - sangue di diana! -  ne avrebbe tagliati a pezzi quattro o cinque di quei rotti-in-culo che osavano picchiare la nuora gravida e rubargli la roba!

In quel momento i mercenari seppero che l’avevano combinata grossa, tanto che la maggior parte di loro si pigliò in gran fretta le staie o a mani vuote ugualmente fecero  dietrofront e corsero via, inseguiti dai furiosi uomini.

Marco Miani afferrò uno per la collottola, lo costrinse a voltarsi e in rapida successione gli elargì un pugno dietro l’altro; Donado Cimavin, abituato sin da ragazzo a sollevare pesanti staie di semenza e farina, appunto ghermì un soldato e lo gettò di peso nel canale tra grandi imprecazioni sue; Marco Contarini, impratichitosi nelle risse del Carnevale, sbatteva la testa di un soldato contro il muro e il vecchio Cimavin sentendosi gagliardo come ai tempi della Guerra del Sale seguitava imperterrito a ricorrere la sua preda, che ad un certo punto, in panico totale, gli aveva lanciato contro a mo’ di difesa proprio la staia rubata che si stava portando sulle spalle.

La cagnara infernale finalmente scrostò dalle rispettive case i Trevigiani e si levarono molti: “Arme! Arme!” e chi coi bastoni, chi coi batocchi per la polenta, chi con scope o padelle e chi col solo ausilio delle proprie mani vennero a dar man forte e pareva di assistere alla rissa ludica sul Ponte dei Pugni a Dorsoduro, con tutta quella pressa di gente che incassava e mulinava pugni ora a caso ora ben mirati, tra bestemmie da far cadere giù l’intera Corte Celeste, volando alcuni in acqua e qualcheduno nel frattanto si fregava pure una o due staie lì abbandonate.

Più tardi si sarebbero calcolati i danni: ora come ora, la priorità era di scaraventare in canale quanti più soldati possibile e al diavolo ogni cosa.

Tale teatro titillò la curiosità di un gruppo di stradioti diretti ai loro alloggi a San Martino e che, pur non conoscendo la causa, decisero di partecipare giusto per passare il tempo. Ad essi si unirono alcuni soldati di ronda, tra cui Cabriel che per poco non tagliò il naso ad uno, quando concitatamente Marco Contarini gli aveva spiegato come quei disgraziati avessero picchiato le donne in casa del mugnaio, tra cui Màlgari.

La situazione s’aggravò coll’arrivo degli uomini del capitano Lorenzo Orsini venuti ad indagare su quel bailamme, ma la foga tale era che gli si coinvolse, picchiando anche loro specie quando uno di loro si mise a gridare: “In nome del capitano …”, interrotto dal cazzotto di un trevigiano dal dente avvelenato per via della proscrizione da parte di detto comandante a distruggere il santuario della Madonna Grande. “Tasi, bestia papalina!”, aveva infatti sbraitato, atterrandolo. Il più scemo tra questi mercenari onde quietare gli animi pensò bene di sguainare la spada, col risultato di finire in acqua in un battibaleno e di far giungere a cavallo un livido capitano Vitello Vitelli, segno che la contesa finiva lì e poche storie, tutti a casa.

“Risparmiate fiato ed energie per i franco-imperiali!”, li ammonì severo, scudisciando a destra manca acciocché a nessuno saltasse in testa lo sghiribizzo di disarcionarlo.

“No preoccupeve, sior capetano: ne avemo assa’ ancha par eli!”, berciarono i baruffanti e gli mostrarono con feroce gusto i pugni dalle nocche sbucciate e i denti macchiati di sangue (ci fu chi sputò perfino un dito staccato a morsi) e il comandante si domandò se le nuove mura di Treviso fossero state costruite per difendere i Trevigiani dai franco-imperiali o viceversa, per proteggere i franco-imperiali dai Trevigiani.

Dispersa ora con moine ora con minacce la folla, Jacopo Cimavin il Vecchio e suo figlio Donado, Marco Miani, Marco Contarini, Alvixe da Canal, Nicolò Trivixan e Cabriel si trascinarono a casa del mugnaio, malconci ma vittoriosi. Lì trovarono Màlgari che si accommiatava da Mamma Gaia, una curandera e levatrice, e poco ci mancò che Donado si liquefacesse dal terrore, correndo esagitato in camera da letto dove sua suocera madona Luzia rimboccava le coperte alla figlia.

“Donado!”, esclamò la giovane, gli occhi umidi di lacrime. “Oh, Donado!” e allungò le braccia onde richiamare a sé il marito, che subito l’abbracciò con foga, baciandola disperato.

“Donca?”, s’informò sottovoce Jacopo il Vecchio.

Màlgari scrollò le spalle. “A xé n’toro, patron. Et el puto, el scalcia contento pèzo d’un musso!”, informò ella il padrone circa l’esito positivo della visita della levatrice, la quale aveva giusto suggerito qualche intruglio per calmare i nervi a Felicita, la cui salute fisica sua e del bambino era uscita miracolosamente indenne dall’aggressione subita.  “Col vuostro permesso, mi andaria en cusina.”

“Sì, sì vai et rengraxia el zovane soldà- chome se ciamelo? Cabriel? -  servigli poi un goto (bicchiere, ndr.) di vin caldo”, la istruì e dopo che la fantesca se ne scese anche fin troppo lesta e contenta in cucina, l’anziano mugnaio sospirò di sollievo, appoggiando il bastone. “Maria Verzene, seti semper laudata!”, mormorò devoto, segnandosi tre volte. “Besogna horra ‘ndar dal cogitore a querelare …”, bofonchiò tra sé e sé, raggiungendo la stanza principale. “Donado! Olà, Donado!”

“Paron Cimavin, se no v’incomoda”, s’intromise Marco Contarini. “V’accompagnarave jo a Palaço per la querela.”

“Oh no, magnifico missier Marco!”, si schermì il vecchio Cimavin, d’un tratto ansioso dinanzi all’aspetto scapigliato del giovane patrizio, coi lunghi ricci impiastricciati sulla fronte in un misto di sudore, polvere e sangue. Temeva, infatti, complicazioni. “Ve ghavemo zà massa incomodà. Riposatevi, zelenza, vi fazzo portar un goto di vin caldo … Màlgari! Oh, dove xéla quea puta?”

Marco lo intimò dolcemente di rilassarsi, intuendo alla perfezione la natura di quell’eccessiva sollecitudine nei suoi confronti e infatti con accorte parole rassicurò paron Jacopo il Vecchio come ovviamente si sarebbe cambiato camicia e zipone, nettato il viso e le mani e pettinati i capelli, prima di recarsi assieme in Cancelleria. “Inoltre”, aggiunse con una fugace punta di birbante malizia tipica dei giovani, “non penso sia savio divider gli sposi” e all’espressione confusa del mugnaio, indicò la stanza da letto dalla cui porta semichiusa Jacopo intravide il figlio Donado con la testa sul petto della moglie e la mano intrecciata con la sua sul ventre rigonfio. Sicuro le avrebbe elargito una bella ramanzina, ma non nell’immediato, beandosi dei cari rumori congiunti del battito del cuore di Felicita e dell’insistente scalciare del bimbo.

Onde reiterare il concetto circa il perché egli corrispondesse al miglior candidato, il giovane Contarini puntò l’indice anche ai Miani che stavano rientrando in casa, molto probabilmente per ritirarsi in camera loro, con Marco che cingeva forte Helena per la vita, stringendola a sé in un misto tra il protettivo e il possessivo.

Quanto al motivo perché la servetta tardasse a presentarsi al richiamo del padrone, hé, Jacopo non necessitava di lezioni di vita da uno sbarbatello neanche ventiduenne. Che amoreggiasse pure in cucina col suo spasimante, purché questi se lo tenesse ben dentro le brache almeno fino all’approvazione del padre di lei al matrimonio.

Poi, figliassero pure come conigli, la cosa non lo concerneva.

 

***

 

Trovando la Cancelleria chiusa, Jacopo Cimavin il Vecchio andò dunque il mattino seguente alle prime luci a dolersi e lo fece a gran voce con toni foschi e drammatici, ché tutta la Piazza da fuori il Palazzo udisse e giudicasse se fosse mai possibile che un cittadino onesto come lui, che sempre le sue 30.000 staie alla Signoria le aveva consegnate puntuale, che pur il sangue la sua famiglia per gli interessi di Venezia aveva offerto, che aveva contribuito all’abbellimento delle chiese e degli altari, doveva dunque, Illustrissimi Messeri, sopportare le ingiurie e le ruberie di una banda di scalzacani senza né arte né parte, figli di mille padri usciti dai più squallidi tuguri veneti, bergamaschi e romagnoli.

Il coadiutore, torcendosi le dita, avendo trascritto ogni singola parola della querela la passò all’auditore sier Piero Antonio Morexini, il quale scosse il capo esclamando: “Ah, mi no, eh! Mi no!”, la cedette al cancelliere criminale che grugnendo un “Manco morto!”, la sbolognò al podestà stesso sier Andrea Donado che senza neanche aprirla la mise sulla scrivania di un perplesso sier Zuam Paulo Gradenigo, il quale, leggendola infine, con calma assassina aveva intimato che si determinasse a quale compagnia quei farabutti appartenessero e che, scovati ladri e refurtiva, essa venisse restituita immediatamente ai Cimavin. Tra le varie magagne che l’assillavano, al Provveditore  mancava soltanto che da Venezia e da Padova gli arrivassero perfide lettere inquisitrici, sul perché non giungesse la farina da Treviso, onde sfamare la popolazione e le truppe.

Sier Zuam Paulo digrignò i denti e spezzò in due una penna alla notizia che si trattava degli uomini del Batagin Bataja.

“Quel bauco! Testa-da-bigoli! Non capisce, quell’immane deficiente, che dopo aver compreso quant’è facile picchiare i soldati, quegli spiritati dei Trevigiani potrebbero ribellarsi e farci gran danno per via della Madona Granda?”,  si lamentava furibondo. I capitani Vitello Vitelli e Renzo di Ceri gli avevano riferito degli sfacciati assenteismi dei cittadini precettati ad affiancare i guastatori, adducendo tutti un gran mal di pancia e già il Gradenigo si figurava davanti ai Dieci a giustificarsi sul motivo per cui a Treviso, invece di badare alla difesa, si sedavano insurrezioni popolari.

E forse perché aveva continuato a parlare da solo ad alta voce per l’intera mattinata, che sua moglie madona Maria Malipiero Gradenigo aveva invitato a pranzo tutti i patrizi giunti alla difesa di Treviso, con le loro mogli se appresso, acciocché il provveditore potesse distrarsi dai mille progetti su come meglio vivisezionare l’indisciplinato capitano di ventura.

Il saggio piano della nobildonna funzionò: dopo che il podestà sier Andrea Donado ebbe elargito un bonario predicozzo a sier Marco Miani e a suo nipote Marco Contarini (che ancora si rifiutava di soggiornare a casa sua), la conversazione verté sulla triste notizia della morte del governatore domino Lucio Malvezzi, spentosi a Padova come confermato dal provveditore sier Polo Capello.

“Il corpo del governatore il signor Lucio è stato sistemato in un deposito lì a San Benedetto, senza far altre esequie”, terminò di narrare sier Piero Loredan q. sier Alvixe.

“Perché?”, domandò incuriosito il figlio del podestà, Nicolò Donado.

“Ecco … perché lui è morto di … di … ”, e si schiarì sier Piero la gola a disagio , scoccando occhiate imbarazzate alla madre del giovane, madona Francesca Gradenigo Donado, a madona Maria, le sorelle Elena e Chiara Spandolin, Orsola Malipiero da Canal e le altre patrizie lì presenti, che ascoltavano attentissime quanto gli uomini.

“Con pessima fama!”, gli venne in soccorso sier Lodovico Querini q. sier Jacomo, terminando per lui la frase e sier Piero gliene fu infinitamente grato.

“Zoè?”, aggrottò la fronte Maria Malipiero Gradenigo e gli uomini lì presenti si mossero inquieti sulle sedie, incapaci anche solo di pronunciare “malfrancese” dinanzi ad una matrona tanto rispettata e virtuosa. Ignoravano, poveretti, che la patrizia li stava stuzzicando apposta ché la sapeva più del diavolo, avendo viaggiato in lungo e in largo fin dove aveva potuto assieme al marito.

“Il Senato ha già appuntato un vice-governatore?”,  s’informò sier Alvixe da Canal q. sier Lucha, deviando abilmente il discorso tra il sollievo generale. “No sia mai che l’esercito rimanga senza un comandante, allo sbaraglio”, aggiunse.

Rispose sier Piero Gradenigo q. sier Anzolo: “Uno dei favoriti parrebbe il conte Bernardino Fortebraccio.”

“Com’è costui?”

“Ah, fedelissimo per quello!”, lo rassicurò quell’altro. “Purtroppo, i rettori e i provveditori lo devono ancora confermare, quindi per ora nulla d’ufficiale.”

“Pulito!”

Sier Sebastian Badoer q. sier Jacomo si rivolse a sier Zuam Paulo: “Corrisponde al vero la voce, che il Gran Maistro de Millan ha inviato un trombetta alla Signoria, onde assicurarsi che i suoi uomini nostri prigionieri siano ben trattati?”

Un risolino generale si diffuse nella sala e sier Zuam Paulo arrossì violentemente, tanto che la cicatrice al collo risaltò bianca sulla pelle scarlatta. Lanciò un’occhiataccia malevola a sier Lunardo Zustignan, il quale giocò al nesci, continuando a mangiare ineffabile il suo petto d’anatra muta, ma con un sorriso sornione sulle labbra.

La storiella di come il provveditore Gradenigo avesse minacciato di sodomizzare con un attizzatoio rovente il segretario di La Palice, dopo che questi a sua volta gli aveva promesso di violare alla fiorentina la sua virtù, non era rimasta a lungo segreta nelle stinche dietro a Palazzo dei Trecento e adesso che il governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours negoziava con la Serenissima per un trattamento più umano verso i suoi prigionieri, essa aveva suscitato non poche ilarità a Palazzo. Sebbene, gli stessi Veneziani avevano dovuto dare un freno alle spicce maniere dei Trevigiani, i quali, per risparmiare cibo e tempo, avevano l’uso di strangolare i prigionieri nelle carceri, seppellendo poi frettolosamente nelle fosse comuni.

Che tale sinistra pratica fosse giunta fino a Milano, alle orecchie del duca Gaston? In ogni modo, sembrava quasi che al francese, rimuginando sulle parole del Trivulzio a Louis XII, fosse sorto qualche scrupolo di coscienza e non per la benefica influenza del Chevalier de Bayard bensì perché ancora gli doleva la mascella alla notizia di come quel diavolo d’inferno di sier Ferigo Contarini in un colpo solo gli avesse sottratto tutti i rinforzi inviati da Milano, sebbene il giovanissimo duca millantasse coi suoi di non darsene pena. In realtà, temeva grandemente di non rivedere più né i suoi soldati né i suoi capitani e la notizia di come il milanese Aloisio Ferrer avesse disertato per passare a San Marco non lo aiutava certo a dormire tranquillo la notte, timoroso com’era di sfigurare davanti allo zio il Re di Francia.

“Domani o dopodomani manderemo un’ambasciata a La Peliza, assicurandolo che questa guerra la combatteremo da gentiluomini”,  e sier Zuam Paulo roteò scettico gli occhi, non credendoci manco lui. “Ancora sono indeciso se inviare il signor Alfonxo dal Mutade o …”

“Ah, eccovi infine!”

Un silenzio di tomba calò nella sala, i commensali pietrificati manco fosse entrata in quel momento Gorgone Medusa. L’unico a scattare in avanti convulsamente fu Marco Miani, subito trattenuto da Marco Contarini per il braccio.  Madona Helena si morse bellicosa il labbro inferiore ancora gonfio, gli occhi torvi.

Ludovico Battaglia da Cremona -  o come lo chiamavano tutti il Batagin Bataja - era marciato dentro con la decisione di chi vuol raddrizzare un torto subìto, ignorando i timidi richiami del famiglio del Gradenigo, che gli ricordava come almeno a pranzo lo si lasciasse tranquillo.

“Nicolò”, sussurrò il podestà sier Andrea al figlio, “di grazia accompagna nella stanza accanto la siora tua Mare e le altre madone.” Annuendo, il giovane si alzò cauto dalla sedia e, mormorata velocemente qualche parolina alle dame, offrì il braccio onde condurle nella stanza accanto, lontano da situazioni indiscrete che, a giudicare dai volti lividi di ogni astante, non sarebbero mancate a scoppiare in tutta la loro prosaica virulenza. 

“Sior capetanio Ludovico, l’aspetabam en Canceleria dopodisnà (pomeriggio, ndr.)!”, lo salutò gelido sier Zuam Paulo Gradenigo, rimanendo ben seduto all’ingresso del capitano e parlando in veneziano ché ormai l’uomo lo capiva assai bene.

“M’avé mandà a ciamar per parlar e qua sun!”, replicò altrettanto altezzoso il Bataja.

“Saveu perché?”

“Siorsì”, replicò sfacciato il condottiero, al che Gradenigo lo rimbeccò accigliato:

“E vi paiono azioni degne di voi? Forzare il granaio d’un onesto cittadino, rubare l staie destinate a Veniexia e Padoa? Picchiare delle donne indifese?”

“Non è stata un’idea mia, bensì dei miei soldati.”

“Ch’è assai peggio!”, sentenziò perentorio il provveditore. “Un capitano che non riesce a farsi obbedire dai suoi uomini non vale un bel niente!”

Batagin Bataja impallidì dalla collera. “Sono due mesi che le paghe non arrivano! Non posso certo mantenerli a ciance e promesse!”

“Così hanno ben pensato di risarcirsi da loro”, mormorò sogghignando sier Alvixe da Riva di sier Bernardin a suo fratello sier Vincenzo, che annuì ridendo malevolo, guardando ben in faccia il capitano di ventura mentre lo faceva.

“Donca?”, infierì serafico il provveditore. “I vostri uomini non mangiano? Non bevono? Non hanno un tetto sopra la testa e un letto dove dormire? Sono forse maltrattati?”

Il condottiero sbuffò sardonico. “La paga vostra e dei vostri patrizi sì che arriva, e anche puntuale! Magari la prelevate dalla nostra!”

Un’esclamazione di puro sdegno si levò a quella vituperazione e più d’un gentiluomo s’alzò bruscamente, pronto a reclamare la sua libbra di carne.

“A noi date del ladro?!”

“Ciò, il bue che dà cornuto all’asino!”

“Senti che sproposità, che linguaccia bugiarda!”

Con un deciso gesto, sier Zuam Paulo li invitò a calmarsi. “I gentiluomini qui presenti sono tutti a proprie spese” e i sopracitati convennero in un minaccioso borbottio.

Bataja rise sprezzante. “Ah sì? E di quanti? Cinque? Dieci uomini? Sapete quanti ne ho io da pagare, razza di tirchiacci? Centotrenta!”

“Eh!”

“Oh!”

“Troppi complimenti!”

“I miei balestrieri a cavalli ed io rischiamo ogni giorno la vita, mentre voialtri ve ne state tranquilli al caldo a bivaccare ed ingrassare!”

“Ma dove? Ma quando?”

“Se sté tutto el zorno a gratarve la panza!”

“Avete rifiutato di cavalcare a Conegliano! Non negatelo!”

“Calmeve, de diana!”, sibilò il podestà, incominciando a sudare freddo dinanzi al nervoso scalpitare dei patrizi più giovani, paonazzi in volto. “Non ci troviamo in osteria!”

E voi sior Provedador?“, infieriva invece Ludovico Bataja, sordo ai richiami pacificatori di sier Donado. “Che mi dite dei vostri ottanta ducati mensili?”

“Vi dico, signor capitano, che io compio il mio dovere!”

“Ed io il mio!”

Una risata crudele e cattiva commentò l’ultima affermazione del Bataja, attirando su di sé l’attenzione degli astanti che si voltarono verso il suo proprietario. “Sicuro! Scappando a gambe levate!”, lo sfotté inclemente sier Marco Miani, abbandonandosi mollemente sulla sedia e la tensione salì alle stelle, ben consci dei sentimenti che animavano il patrizio nei confronti del Bataja.

Senza scomporsi pur rimanendo un poco turbato, il condottiero inquisì falsamente cordiale: “Avete forse qualche pensiero da condividere, sier Marco?”

“Jo? Gnente!”, ribatté a tono l’uomo, indicandosi teatralmente. “Domandatelo a mio fratello, canaja!”, ringhiò, aumentando così all’improvviso il volume della voce, che non in pochi sobbalzarono sorpresi.

“Chi? Quel puto?”, gli fece eco il Bataja, sovvenendosi grazie ai lineamenti di Marco dell’ex- castellano di Castelnuovo e delle sue tremende sfuriate, proferite con mirata malizia da quell’ancora imberbe ragazzo eppure dalla mano già pesante e dal carattere impulsivo e violento, gran nemico della pazienza e del tutto inesperto su come trattare i sottoposti.

“Sì, che voi abbandonaste al nemico, fio-d’on-can!”

“Io m’ero offerto di ripiegare a Cividal di Belluno o a Feltre, ma credete che quel testardo di sier Hironimo m’abbia ascoltato?”, s’affrettò a giustificarsi il condottiero, notando il pericoloso tamburellare delle dita di Marco, le nocche gonfie e sbucciate, le artefici dei lividi sulle facce dei suoi uomini.

“Puoah, balle di musso!”, s’intromise sier Lunardo Zustignan tra i due contendenti, aprendo una cartella di cuoio ed estraendo un foglio di carta. “Sier Nicolò Balbi, avanti la resa di Cividàl di Belun, ci ha riferito come la perdita di Castel Novo di Queer sia imputabile a voi e alla vostra vigliaccheria!” , gli riferì perfido, sventolandogli sotto al naso la lettera dell’ex-podestà di Belluno, prima della capitolazione della città e della sua fuga precipitosa assieme al resto della popolazione fedele a San Marco.

Al che, capendosi in trappola e messo alle strette da quell’improvvisata commissione inquisitrice, Batagin Bataja s’infuocò, mulinando furioso il braccio: “Basta! Sangue di Cristo, ché mi lascio insolentare da un ciapo (banda di animali, ndr.) della vuostra sorte?! Io non son schiavo dei Veneziani! Vedetevela da soli, arrangiatevi coi Francesi e i Tedeschi! Di voialtri mi lavo le mani!”

“Come se avessimo bisogno di un tal impiastro!”, rimarcò sferzante sier Lunardo Zustignan. “Anzi, pure ci imbarazzate davanti al nemico! Traditore e spergiuro!”

“A me date del traditore e dello spergiuro, quando vostro zio Marin Zustignan venne esiliato per spionaggio?”

Sier Lunardo, impallidendo di colpo e battendo irato un pugno sul tavolo, ruggì: “Non fu mai una spia! Il suo unico peccato fu di fidarsi ciecamente di suo cugino il vescovo di Brexa, don Lorenzo Zane! Gli aveva chiesto ospitalità per la notte, dicendo che doveva consegnargli una lettera da Trevixo! Che ne sapeva, che stava accogliendo un traditore in fuga?! E comunque”, sputò lividissimo, “furono tre anni d’esilio dai consigli segreti, mica da Veniexia!”

Ma il Bataja, forte di tal vittoria, calcò la mano nelle accuse: “Si vocifera che a Trevixo ci sia una spia, che fornisce informazioni a La Peliza … Sior Provedador, vi siete mai premurato di controllare la corrispondenza della siora vuostra mojer, madona Maria? Ella era la figlia di sier Jacomo Malipiero, o sbaglio?”

Accennava il condottiere ad un triste avvenimento svoltosi nel 1478: sier Marco Corner aveva appreso dall’ambasciatore a Roma sier Jacomo de Mezo, come il conte Girolamo Riario – e suo zio il Papa con lui  - fosse fin troppo informato di quanto avveniva nel Consiglio dei Pregadi; sicché, non essendo il Riario di grande ingegno da tener la bocca chiusa sulle sue fonti, il Consiglio dei Dieci aveva dato ordine d’arrestare il padre di madona Maria, il senatore dei Pregadi sier Jacomo Malipiero q. sier Dario e il cognato di lui, il dottore e cavaliere sier Vidal Lando. A lungo interrogati e torturati, i due confessarono ai Dieci la lista completa degli altri informatori implicati, tra cui figurarono appunto gli zii materni di madona Gradenigo, sier Andrea e Alvixe Zane e don Lorenzo Zane q. sier Polo, quest’ultimo vescovo di Brescia. Sier Marin Zustignan q. sier Pancratio, zio di sier Lunardo, era stato suo malgrado coinvolto in quel fattaccio poiché, ignaro di ogni cosa, aveva ospitato nella sua casa a Murano il Vescovo fuggitivo verso Cesena. Per questo, ci si limitò ad escluderlo per tre anni dai consigli segreti di stato, per non aver posseduto la prontezza di spirito (o il sospetto) di denunciare il cugino non appena questi aveva varcato la soglia di casa sua, avvertendo i Dieci, i quali trovarono imperdonabile che sier Marin li avesse notificati il giorno dopo, quando questi aveva finalmente capito l’imbroglio, leggendo la lettera. Tutte codeste spie furono severamente punite, in primis sier Jacomo Malipiero, esiliato a vita ad Arbe e pure gli si era piazzata una taglia di cinquecento ducati, semmai avesse tentato di rientrare a Venezia con qualche sotterfugio o con la forza. Ironia della sorte, fu proprio Girolamo Riario (sicuramente istruito dallo zio Sisto IV) ad ottenere la grazia per il vescovo don Lorenzo, quando giunse in visita nel 1481.

Sier Zuam Paulo Gradenigo  odiava sentir rivangato quel vergognoso episodio, che per un soffio gli aveva impedito di convolare a nozze con madona Maria, all'epoca ancora sua fidanzata.

“Sior capetanio, se non avete nient’altro d’aggiungere  …”, sibilò gelido il provveditore, le dita robuste sul coltello accanto a lui e guardandolo tanto fissamente, quanto una tigre pronta a balzare sulla preda. Contrariamente a sier Lunardo – molto più giovane, quindi più suscettibile ed irruento – Gradenigo non diede alcuna soddisfazione al Bataja, giustificandosi. Invece, preferì avvertire con la sguardo il condottiere, promettendogli tacitamente una morte lenta e dolorosa semmai avesse osato insultare sua moglie tramite il padre spia e traditore.

Non replicando Ludovico Bataja, capita infatti l’antifona, sier Zuam Paulo informò l’uomo tramite un chiaro cenno di mano, che la conversazione poteva benissimo terminare lì.

Siccome però, l’ultima parola la doveva per forza avere lui, ecco che il cremonese, sporgendosi verso Marco, gli sputò in faccia velenoso: “Quanto a vostro fratello Hironimo, state di buon animo: pur di aver salva la vita, v’assicuro che non avrà esitato un sol attimo d’aprire le gambe al capitano Mercurio Bua!”

Marco Contarini, sebbene giovane e dai riflessi eccellenti, fallì miseramente di trattenere il suo furente omonimo, essendo Marco Miani balzato in avanti simil leopardo, ghermendo per la nuca il condottiere e sbattendogli poco cerimoniosamente la faccia sul piatto. Non pago, il patrizio veneziano acchiappando qualsiasi stoviglia gli capitasse per mano, la fracassò sulla schiena del capitano e, scavalcato il tavolo, lo rigirò e gli strinse le mani al collo.

 “Sier Miani, no fé!”, gli si gettarono addosso sier Alvixe da Canal e sier Nicolò Trivixan, afferrandolo cadauno per un braccio e tentando di strattonarlo via dalla sua preda.

“Tenélo fermo!”, incitò sier Zuam Paulo gli altri nobiluomini, leggermente titubanti alla vista dei loro colleghi volare per terra, scrollati via di dosso da Marco come un cane col fango, il quale, afferrato un bicchiere e spezzatolo, ne avvicinò la punta all’occhio del Bataja.

“Per la Crose Sancta, te fazzo vedar mi, che horra che xé!” [9], ruggì invasato, sennonché Marco Contarini tra uno sbuffo e l’altro riuscì ad afferrargli il polso e scansargli via il braccio, grazie ad una mossa appresa a Padova da Zitolo da Perugia. Tosto ne approfittarono sier Alvixe, sier Lodovico e i due fratelli sier Alvixe e sier Vincenzo da Riva per immobilizzare il furente Miani e costringerlo a sedersi.

Il condottiere, finalmente libero, scivolò via, la mano alla gola dove già si stavano formando le prime macchie scure. “Mi recherò a Venezia e lì starò, finché non m’arrivano le paghe!”, gracchiò, massaggiandosi la carne offesa. “E voi, sier Marco, non m’importa di chi siate parente, giuro su Dio che voi me la pagherete!”, gli promise minaccioso e Marco Miani gli mostrò bellicoso i denti, bloccato dal partire nuovamente alla carica da una secca e decisa spinta di sier Alvixe da Canal.

Sier Lunardo gl’intimò beffardo. “Sì! Andé, andé à Veniexia … a butarve in canal, in bocca alle pantegane!”

Ludovico Battaglia da Cotigliano detto Batagin Bataja gli rifilò un’occhiataccia d’odio puro, uscendo quanto più rumorosamente possibile e pure buttando per terra il povero famiglio del Gradenigo, il quale, calato infine un esausto silenzio e il pranzo oramai rovinato, dopo un gran sospiro annunciò ai presenti:

“Sia ben chiaro tutti: nella relazione al Senato, si scriva come siano volate unicamente insolenze e strane parole!”

Una volta ogni tanto, la decisione venne approvata all’unanimità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

*******************************************************************************************

 

Alcuni storici sostengono che Mercurio Bua e Caterina Boccali si fossero sposati nel 1519, ma stando al Sanudo parrebbe che già lo fossero prima della guerra.  Sull'identità di questa misteriosa prima moglie gli storici non riescono a mettersi d'accordo: c'è chi la identifica appunto come Caterina Boccali figlia di Nicolò Boccali; altri come Maria Boccali sempre figlia di Nicolò oppure Maria Boccali sorella di Nicolò; altri ancora come una sorella di Costantino Arianiti Comneno. Per certo, la moglie del Bua morì nel 1524, stando alle cronache del Sanudo circa il suo seppellimento a San Biagio, la parrocchia della comunità greco-albanese a Venezia.

Per esigenze di trama e per i riferimenti ad una moglie da parte del Sanudo nelle vicende del 1511, abbiamo deciso di adottare questa versione e optato "Caterina" come nome della moglie del Bua.  La prova che i due si fossero sposati almeno prima del 1519 starebbe nel fatto che nel 1517 si tiene il battesimo del figlio Flavio Bua. Inoltre, si menziona anche un’altra figlia, rimasta però anonima, che non è da parte della seconda moglie.

La lettera riguardo il furto dal granaio e del litigio tra il Gradenigo e il Battaglia è effettivamente troppo corta per non essere sospetta, scarnissima di dettagli circa un fatto in fin dei conti assai grave. Con l’eccezione del provveditore e del condottiero, non si nomina nessun altro, neppure il derubato. Dei venti commensali a pranzo da Gian Paolo, il Sanudo riferisce che solo uno accusò direttamente il Battaglia di diserzione del campo, sebbene non si specifici se sia lo stesso che gli abbia o meno letto la lettera del Balbi. Di nuovo, neanche questo gentiluomo viene nominato ma, sapendo come Marco Miani si trovasse a Treviso, a mio parere solo lui poteva essere il meno diplomatico dei patrizi lì presenti, in ansia per la sorte del fratello e adirato col Battaglia per quell’atto di vigliaccheria che era costato la libertà al Nostro. Pertanto, considerata anche la ritirata ignominiosa del condottiero a Venezia, forse erano volati qualcos’altro oltre agli insulti ... La rissa del granaio invece è mia invenzione, però assai plausibile a causa della tensione tra civili e soldati.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!

Alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] I dolci di San Martino = l’11 novembre è San Martino di Tours e si preparavano dolci a forma di medaglie fatte di mele cotogne per festeggiare il Santo.

[2] Helena Spandolin = il cognome originale di Elena era il greco “Spandounes”, venezianizzato in “Spandolin”.

[3 ] bel balconcino delle mamole = ovvero il seno delle prostitute (= mamole), gioco di parole visto che alle Carampane le prostitute si affacciavano a seno nudo alla finestra onde attirare i clienti.

[4] stua, stuèr = stufa e stufaruolo, da intendersi come i calidarium o hammam, dove si faceva la sauna a scopi terapeutici e per rilassarsi. Ovviamente, molti stufaruoli arrotondavano i guadagni mandando nelle stanzette degli avventori anche qualche prostituta, di cui erano i bertoni (= lenoni). Era un gioco molto pericoloso, visto che le prostitute a cortigiane a Venezia dovevano essere tutte registrate e vivere in determinati quartieri, con la sola eccezione di quelle sposate. Infatti, molte cortigiane si sposavano così da vivere dove e come volevano, senza incorrere in sanzioni.

[5] Ecclesiaste 1:4

[6] d’ornarsi le orecchie di due o più anelli d’oro assai grandi, assai scandalosi = a Venezia era disdicevole indossare gli orecchini, considerati gioielli più da schiave e cortigiane che da donne oneste.

[7] arconti = da "archon", intesa qui come nobiltà.

[8]  scappando come il Duca tuo compaesano = Cotignola era la città d’origine degli Sforza. Si fa riferimento alla fuga di Ludovico il Moro ad Innsbruck presso Massimiliano d’Asburgo dopo la caduta di Milano nel 1499 e paragonandola alla fuga di Ludovico Battaglia da Castelnuovo a Belluno.

[9] Per la Crose Sancta, te fazzo vedar mi, che horra che xé = per la Croce Santa, ti faccio vedere io che ora è. Questo modo di dire veneziano ha origine dall’uso di giustiziare in Piazzetta tra le colonne di San Marco e San Teodoro i criminali. L’ultima cosa che vedevano i condannati a morte era appunto la Torre dell’Orologio a Piazza San Marco, costruita nel 1496.

 

 

 

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Hoel