Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato 06.
09. 2021
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Capitolo Quinto
2 -3
settembre 1511
Ambasciator
non porta pena, tranne quella inflittagli dal suo
adirato destinatario.
Seduto
nel suo cantuccio, Hironimo assistette non senza
apprensione al sollevamento della staffetta francese da parte di un
furioso
Mercurio Bua, strizzandolo a momenti quest’ultimo peggio
d’un panno pronto per
esser steso al sole.
“Cosa
significa, che il maresciallo La Palice s’è
spazientito del
mio ritardo? Cosa significa, ch’è risalito per la
Valle della Brenta per
occupare La Scala, Feltre e Cividal di Belluno? Non era a Treviso,
dov’eravamo
diretti?”
“Il
… il maresciallo non … o-ordini
dell’Im-imperatore … un messo
da T-Trento …”, balbettava ansimando il soldato,
paonazzo in volto
dall’ossigeno sempre più carente.
“L’Imperatore”,
lo interruppe sibilando il condottiero, aumentando
la presa, “deve raggiungerci qui, non certo a Feltre
né a Cividal di Belluno!
Come ti permetti, scalzacane, di rifilarmi codeste balle?!”
“E’
la verità! Lo giuro!”, protestò il
trombetta, afferrandogli
disperato i polsi. “Vi prego, capitano, lasciatemi spiegare
…!”
Magnanimo
seppur sbuffante, il greco-albanese concesse quella
piccola grazia e il francese poté rimettere i piedi per
terra.
“Monseigneur
il maresciallo non desiderava mancarvi di rispetto”,
esordì cauto l’uomo, massaggiandosi il collo
indolenzito e arrossato.
“Tuttavia, non udendo più alcune nuove da voi, ha
temuto che la fortezza fosse
stata riconquistata, sicché ha deciso di muovere le truppe
verso La Scala,
Feltre e Cividal di Belluno.”
Mercurio
incrociò le braccia al petto, arcuando scettico il
sopracciglio. “E per venire in mio soccorso, sua signoria il
maresciallo ha
scelto il percorso più lungo, che guarda caso evitava
Castelnuovo di Quero?”,
schioccò sardonico la lingua.
“Non
… non potevamo sapere la situazione, insomma, dei
cavalleggeri sono pur riusciti a scappare e …”
“E
insomma, le due città sono o non sono state
conquistate?”,
cangiò brusco discorso il condottiere, non gradendo che gli
si ricordasse la
fuga di Vetor dil Pozzo da sotto il suo naso.
La
staffetta di questo lo rassicurò, annuendo rapidissima.
“La
fortezza de La Scala e Feltre sono cadute subito, sebbene
quest’ultima fosse
già stata abbandonata sia dal podestà che dai
suoi cittadini. Non … i Tedeschi
non hanno raccolto pressoché niente di bottino
…”
Il Bua,
udendo ciò, con la scusa di cambiar peso da una gamba
all’altra si voltò verso Hironimo, il quale gli
sorrise trionfante. “E Cividal
di Belluno?”, strisciò l’uomo le parole,
gli occhi ben puntati sul suo
prigioniero.
“Il
commissario imperiale Jean d'Aubigny sta negoziando col
Consiglio di reggenza, onde riscuotere un’ingente somma di
danaro come
punizione per l’alleanza dei Bellunesi con la Serenissima. Si
parla di quasi
quattromila ducati!”
“Hanno
pagato?”
Il
francese si schiarì la gola. “Ehm … no.
Cioè, non ancora. Il
Consiglio sta valutando il riscatto; inoltre, da quanto ho capito hanno
protestato d’esser sempre stati neutrali e
…”
“…
stanno prendendo tempo, coglionando monseigneur d'Aubigny
così
da evitare sia il saccheggio sia di pagare una taglia troppo salata.
Furbi
loro”, terminò per lui la frase Mercurio,
raggiungendo Hironimo e piazzandoglisi
davanti, manco stesse conferendo col veneziano invece che col trombetta.
Il
giovane Miani gli mostrò i denti in disfida, sostenendo lo
sguardo indecifrabile del greco-albanese, il quale seguitava a fissarlo
silente, il capo reclinato appena su di un lato.
“Chi
fa parte della compagnia del commissario d'Aubigny?”
“Monsieur
Julien du Maine; monsieur Alexander Stewart de Lorne ,
monsieur Georg von Rotemberg e ...”
“Non
capisco”, lo interruppe bruscamente il capitano di ventura,
d'un tratto disinteressato alla lista. “La Palice guida la
spedizione, ma gli Imperiali
fanno bottino. Perché?”
A questo
quesito, il soldato francese perse ogni soggezione e
spavento per imporporarsi di sdegno. “Perché non
sono altro che dei porci
avidi!”, sputò rabbioso. “Sapete
l’ultima? Proprio ieri è stato letto un bando
dell’Imperatore nel nostro accampamento a Montebelluna: la
Sua Cesarea Maestà
ci proibisce di varcare la linea della Piave!”
Il
condottiere scrollò le spalle: lui militava per il Re dei
Romani, quindi l’affare più tanto non lo tangeva.
“A
noi e agli stradioti.”
Un gelo
assassino calò improvvisamente nella stanza e la
staffetta, non appena Mercurio si girò, inconsciamente
indietreggiò d’un passo,
temendo di finire sul serio appiccato allo stipite della porta.
“Questo è ciò
che l’Imperatore ha comandato!”,
s’affrettò a precisare il francese, la voce
improvvisamente più acuta.
“Che
ha detto a riguardo il maresciallo?”
“Lo
ignoro!”
Un
pesante improperio sfuggì dalla bocca del greco-albanese,
contratta in una smorfia di profonda stizza e al contempo
perplessità, la
medesima che provava Hironimo dopo aver appreso di
quell’assurdo ordine. Anche
se – cogitava il patrizio – in un qualche astruso
modo poteva ritornargli utile
…
“Zilio!”,
chiamò infine il capitano di ventura il suo
luogotenente, rimasto in disparte accanto alla porta.
“Abbiamo ricevuto la
taglia per i due bellunesi?”
“Sissignore.”
“Perfetto!”,
esclamò compiaciuto il Bua, ponendosi le mani sui
fianchi. E a voce ben alta, acciocché il trombetta potesse
ricordare bene ogni
sua parola e riferirla: “Date loro da mangiare, dei vestiti e
una cavalcatura,
che possano ritornare a testa alta dalle loro famiglie. Hanno
combattuto
valorosamente, in fin dei conti” e di nuovo guardò
Hironimo con la coda
dell’occhio. “Dopodiché, annuncia ai
nostri uomini che leviamo il campo:
ritorniamo a Montebelluna.”
Zilio
Madalo si pose sull’attenti, sparendo lesto a notificare il
resto della truppa.
“Non
sarete stato eccessivamente generoso?”,
s’azzardò di fargli
notare il soldato francese.
“La
Sua Cesarea Maestà non comprende, che non è
minacciando morte
e distruzione che si conquista il cuore della gente, bensì
mostrandogli la
propria convenienza nel seguirlo”, sentenziò
Mercurio, dirigendosi di nuovo
verso Hironimo e afferrandolo per il mento lo costrinse ad inarcare
indietro il
collo, strappandogli un piccolo guaito di dolore per la resistenza
oppostagli
dal peso della palla di cannone. “Questo la Serenissima
Signoria lo sa bene:
ecco perché i suoi cittadini sono disposti a morire
così volentieri per lei …”
Così,
nel cuore della notte alla stregua di ladri, si abbandonò
Castelnuovo di Quero. Ironia della sorte, considerato il miserrimo
bottino, per
certo si viaggiava leggeri e silenziosi per la strada boscosa,
vigilantissimi
per timore dei tremendi contadini e delle loro imboscate.
Hironimo
e Thomà marciavano accanto al capitano di ventura
condotti tramite una corda in mano allo stesso greco-albanese,
alternando
scatti di corsa a passi più lenti. Abituato a
cavalcare, Hironimo
contrariamente a Thomà faceva una fatica enorme a
trascinarsi avanti a piedi
nudi, pesandogli e graffiandogli la pelle le manette alle caviglie e i
polsi e
la palla di cannone appesa ad un cerchio serrato attorno al
collo. Ogni tanto, il suo compagno di sventura gli
trottava accanto
e gli reggeva la palla, così da sostenerne meglio il peso e
respirare più
liberamente.
Prima che
sparisse nascosto dagli alberi, il giovane
patrizio contemplò la sagoma del castello e gli si strinse
il cuore similmente
alla prima volta in cui l’aveva rimirato: ma se in
quell’occasione egli aveva
scorto una prospettiva di carriera e finalmente la sospirata occasione
di
distinguersi dai fratelli, adesso quelle rovine gli rammentavano il suo
fallimento, insinuandosi l’atroce dubbio se, una volta
libero, la Signoria gli
avrebbe mai perdonato la caduta di Castelnuovo.
Venezia
era una madre severa, prodiga nel dare ma altrettanto
esigente nel pretendere in cambio e della sua poca clemenza nei
confronti di
chi la deludeva faceva parlare di sé
ovunque, sia dentro che fuori i
suoi territori : di come depose il Doge Francesco Foschari e gli
torturò il
figlio sier Jacomo Foschari, esiliandolo a vita a Candia; il castellano
sier
Hironimo Trun q. sier Priamo, ch’aveva venduto Lepanto ai
Turchi pur di
salvarsi la vita, decapitato e disconosciuto dalla sua medesima
famiglia; i
Lippomano costretti alla fuga dopo l'arresto per insolvenza a causa del
fallimento del loro banco; sier Antonio Grimani Capitano da Mar a causa
di due
tremende sconfitte contro i Turchi s'era rifugiato pure lui a Roma dal
figlio
cardinale Domenego e soltanto due anni addietro la Dominante
l’aveva perdonato,
nominandolo provveditore, a seguito di dieci anni vissuti da latitante,
un
criminale ai suoi occhi. Sier Anzolo Trivixan anch’egli
esiliato per la sconfitta
a Polesella. E il tanto osannato sier Ferigo Contarini? Se non avesse
stupito
con la sua ardita fuga, gli avrebbero concesso altri
incarichi? Sier
Zuam Paulo Gradenigo per la rotta di Rovigo finito sotto processo e un
anno
senza incarichi.
La
famiglia d’Hironimo stessa era stata in passato inquisita da
parte dei Dieci, il suo bisnonno sier Marco Miani multato e sollevato
dall'incarico di Bailo per strane questioni a Corfù; suo
nonno sier Lucha Miani
esiliato per un anno da Venezia e cinque da ogni carica pubblica,
un’umiliazione che Padre s’era imposto con ogni suo
mezzo di cancellare,
dedicandosi anima e corpo alla Signoria acciocché nulla se
non lodi si
potessero dire dei Miani e così aveva cresciuto i propri
figli.
(Venezia
non sa che farsene d’inutile liquame, ricordava
loro Padre, ogniqualvolta lo deludevano)
Un’ondata
di sconforto assalì Hironimo: con quali parole si
sarebbe giustificato? Gli avrebbero creduto? Oppure sarebbe rimasto un
semplice
cavaliere e, a guerra terminata, relegato nel dimenticatoio di un
qualche
oscuro ufficio, magari su di un’isola greca semideserta?
L’oblio
… che ironico castigo per lui, da sempre alla ricerca di
fama e successo così da liberarsi dal pesante giogo
d’essere l’ultimogenito, il
cucciolo della nidiata, il piccolo Momolo, il figlio-del-suicida.
Non
gliel’aveva profetizzato quella veggente? Non
gliel’aveva
promesso?
Tu,
che hai l’anima di Lazzaro, supererai chiunque dei tuoi pari
a
Venezia e fuori d’essa. Nulla di vivo dei re, degli
imperatori, del Papa a loro
sopravvivrà, ma il tuo operato viaggerà nel tempo
e lo sconfiggerà e il tuo
nome sarà conosciuto fino agli ultimi angoli della Terra e
tutti lo ameranno,
tale è la sua grandezza.
“Puoah,
vecia bacuca, marantega (befana, ndr.), buziarda, mata e
sempio mi che t’ho creduto”, sibilò
sardonico Hironimo, infilando due dita
sotto il collare in modo da recare sollievo alla pelle arrossata dallo
sfregamento (già sentiva le prime vesciche formarsi).
Stupido, stupido proprio.
E
peccatore, la Chiesa non condannava forse la
chiromanzia e chi la consultava?
Oh beh,
pensava il giovane patrizio, un peccato in più uno di meno
… tanto ormai, come più volte ripetutogli dagli
indignati preti, lui era al di
là di ogni redenzione e allora che si peccasse e ci si
divertisse, se proprio
Domine Iddio non nutriva alcuna misericordia nei suoi confronti.
***
Marco
si girò sul fianco, appallottolando il cuscino sotto la
testa e grattandosi di riflesso la sottile barba che, a causa del
lutto,
avrebbe dovuto portare per tre anni e che gli dava non poco fastidio,
essendo
essa acerba come la sua età, contrariamente a quelle
più virili dei suoi
fratelli e parenti.
La
stanza giaceva in un inusuale silenzio, rotto dalle violente
sferzate del vento novembrino le quali graffiavano incessanti sui
sottili vetri
delle finestre, insinuandosi nei sottilissimi interstizi e
gonfiando
appena le pesanti tende tirate. Nel caminetto cadevano gli ultimi
ciocchi di
legno stanchi e consumati e accanto ad esso, ben accoccolato sul suo
materasso,
il servitore Trovaxo russava lievemente.
In
altre circostanze, Marco avrebbe esultato ogni Hosanna in
Excelsis dalla contentezza di avere infine la camera tutta per
sé, ma in quegli
ultimi mesi il sonno tardava a ghermirlo e si tormentava rigirandosi in
letto
simil San Lorenzo sulla graticola, le orecchie tese ad ogni rumore e si
meravigliava di rimpiangere persino il fastidioso scricchiolio delle
pagine del
libro che Carlo, insonne civetta, s’ostinava nel cuore della
notte a sfogliare
finché, esasperato, Lucha non gli lanciava un cuscino
addosso onde indurlo a
spegnere la bugia e dormire come ogni cristiano.
Un
improvviso refolo particolarmente forte provocò un sinistro
tremore nella finestra, al punto da indurre Marco a balzare
giù dal letto a
cassettoni e assicurarsi che essa fosse chiusa bene. Tra la Bora (a
Bora nassi
in Dalmaxia, la se scadena a Trieste e la mori a Veniexia) e
l’acqua alta, si
preannunciavano giorni seppelliti vivi in casa, ancor per loro
più tristi
ch’erano in lutto. Beato Carlo che con la scusa di
accompagnare lo zio Batista
si trastullava alle terme di Abano, talvolta v’erano giornate
in cui Marco
credeva d’impazzire, se non avesse potuto rifugiarsi al piano
di sopra dal
biscugino Zuan Francesco.
“Marchetto?”,
udì una vocina timida alle sue spalle e il ragazzo
sobbalzò per la sorpresa, sbuffando poi nel trovarsi davanti
il fratellino
scalzo e in camicia da notte.
“Cossa
fastu qua?”, sussurrò, non desiderando svegliare
Trovaxo e
dunque renderlo partecipe della loro conversazione.
Momolo
affossò il mento sul petto, stringendo convulsamente
l’orlo
della camicia.
“Zò,
oco?”, si piazzò Marco di fronte al bambino, le
braccia
incrociate al petto. “Cossa dirà la siora Mare, se
la non te vede in leto? Ciò,
non ti divertirai mica a strapazzarla?”
(Aveva
origliato una conversazione tra i genitori, in cui Padre
valutava se fosse il caso di spostare l’ultimogenito in
camera coi fratelli.
Madre, invece, gli aveva suggerito di attendere qualche anno,
sostenendo quanto
ancora fosse tenerello alle cose degli uomini, al che Padre, intuendo,
era
arrossito un poco e di fatti già quella sera Trovaxo dormiva
coi padroncini, i
quali non furono grati al genitore di quell’intromissione )
Momolo
bofonchiò un qualcosa d’inintelligibile,
costringendo il
maggiore a ripetere spazientito la domanda, ottenendo però
sempre i medesimi
borbottii finché Marco, tastando per caso la camicia da
notte del bambino,
scoprì un’umidità sospetta.
“Oh,
Momolo!”, esclamò allora dolcemente, abbracciando
il piccino
le cui esili spalle tremarono dai singhiozzi. “No
xé gnente, horra te netto mi,
sì?”
Dal
giorno del funerale di Padre, quasi ogni notte Momolo si
svegliava col letto bagnato e se all’inizio stimando la sua
età oramai
grandicella si pensava a sudore, purtroppo ci si dovette
arrendere
all’evidenza che, dopo anni, il bambino aveva ripreso ad
urinare nel sonno per
l’umiliazione sua e la preoccupazione di Madre ché
nessun medico sapeva
spiegarsi il perché di tal affare. Neanche loro, i fratelli
maggiori, di solito
sempre pronti a sfottere il piccino di casa, avevano osato commentare a
riguardo.
Delicatamente,
in silenzio e con le orecchie sempre tese acciocché
Trovaxo non si svegliasse, Marco lavò il fratellino e lo
aiutò ad indossare una
delle sue camicie da notte, che gli stava talmente lunga da fargli un
buffo
strascico. Prendendolo per mano, salirono assieme sul letto a
cassettoni e, ben
rannicchiatisi sotto le coperte, il ragazzo spense la candela
e sistemò in
maniera più comoda per entrambi i
cuscini. Immediatamente, Momolo si
strinse al maggiore e Marco notò con preoccupazione la
magrezza di quel
corpicino, proprio lui cui gli davano affettuosamente del porcellino
per il suo
appetito gagliardo e l’aspetto robusto e florido del ben
nutrito (Anche i dolci
di San Martino aveva rifiutato [1]) Non aiutava, poi,
l’umidità che Marco
sentiva bagnargli la stoffa della camicia, là dove Momolo
aveva affondato il
viso né tantomeno la presa convulsa ai suoi fianchi, quasi
il fantolino temesse
che il fratello spiccasse il volo, scomparendo per sempre.
“Marchetto?”
“Dime.”
“Lucha
non ha paura di dormire nella camera del nostro sior Pare?”
(Adesso
che lui occupava il posto vacante di capofamiglia, ogni
cosa di Padre era divenuta sua, anche la stanza da letto per quanto
Lucha la
prima notte vi ci fosse entrato con una faccia bianca da cencio appena
lavato)
“Perché
dovrebbe? Omo morto no' fa guerra.”
(Ignorava
come Lucha riuscisse a dormire lì dentro, senza
l’ansia
di scorgere l’ombra di Padre fissarlo dall’angolo
più buio, gli occhi
spalancati chiazzati di rosso e la lingua fuori)
“Marchetto?”
“Cosa
ancora?”
“Si
può uccidere qualcuno solo col pensiero?”
Marco
si girò di scatto, fissando stralunato il viso del
fratellino che ricambiava serissimo nella penombra della stanza.
(I
suoi occhioni neri un tempo sì ridenti adesso possedevano la
medesima inespressività dei putti dei monumenti funebri. Il
viso stesso era
marmoreo e freddo)
“No,
certo che no, strambazzo! S’ammazza con le mani, mica col
pensiero.”
(Non
era vero, Marco aveva voluto qualcuno morto col pensiero.
Magari, Dio l’aveva pure esaudito)
“E
ammazzarlo per omissione?”
“Ossia?”
“Cussì,
fradelo.”
Senza
dar tempo alla frase di dissolversi nell’aria, in un attimo
le mani di Hironimo gli furono al collo ed egli a cavalcioni sopra di
lui,
pesante quanto il coperchio di un sarcofago. Non era il suo fratellino
decenne,
bensì venticinquenne, bianco come la calce, la gola
squarciata, il viso
sfigurato dalle ustioni e schegge di bombarda, la bocca sghemba e lorda
di
sangue.
Marco
si portò di riflesso le mani alla gola nel tentativo di
liberarsi da quella presa, rabbrividendo dal gelo emanato da quella
carne
livida e putrefatta.
“Mi
hai lasciato andare in quella fortezza maledetta … Tu sapevi
che non sarei stato capace di difenderla, eppure non hai mosso un dito
per
impedirmi di partire! Tu mi hai abbandonato alla mercé del
nemico! Mi hai
condannato a morte per soddisfare il tuo vendicativo
orgoglio!”; gorgogliò
quella voce rotta e disumana, lordandogli la faccia di sangue vischioso
ad ogni
parola proferita.
“No
… No … Momolo, no …”
(Se
suo fratello avesse avuto occhi e non buchi vuoti e neri,
l’avrebbero guardato pieno d’odio)
“Mi
hai voluto morto?”
“No,
di giuro di no … Momolo, perdonami … Non ti ho
mai voluto
morto … no …”
(I
pollici premettero sulla sua trachea onde provocarne il
cedimento)
“No!
… No! …”
“Stai
di buona voglia, fradelo …”
“Markos
…?”
“…
ché morto lo sarò assai presto!”
“Oh,
Verzene Maria! … Perdoname, perdoname!
…”
“Markos!”, lo
scossero energicamente due delicate ma
forti mani, strappandolo da quella chimerica visione e catapultando un
gemente
Marco nel letto non della sua casa a San Vidal a Venezia,
bensì della stanza
padronale in cui alloggiavano a Treviso. Fuori il vento seguitava ad
ululare
imbizzarrito, manipolando la direzione della pioggia battente e
trasformandola
in frustate contro i vetri della finestre, alternandosi ad altri
scrosci di
acqua, quelli più pigri e regolari del mulino poco distante.
Ansimando
a grosse boccate, l’uomo si guardò intorno
spaesato,
sobbalzando al lieve e rassicurante tocco delle dita di sua moglie
Helena
Spandolin [2], che gli scostava via gli scuri ricci sudati dalla fronte
e dalle
tempie. Il suo viso dolce, dal pallore caldo del Levante e
circondato da
capelli nerissimi e ondulati, si sostituì a quello mutilato
e cadaverico di
Hironimo, così come le orbite oculari sanguinanti si
riempirono di vivaci occhi
nocciola, che lo studiavano ora inquieti.
“Sono
qui, méli mou (miele mio, ndr.) Sono qui
…”, gli sussurrò
teneramente ella in greco, lingua che condividevano
nell’intimità, conducendo
il suo capo al petto e continuando ad accarezzargli amorevolmente la
schiena.
“Si è trattato di un incubo, soltanto di un
incubo.”
Dilaniato
dai sensi di colpa, Marco pregò con tutto fervore la
Santissima Vergine Maria affinché ciò
corrispondesse al vero.
***
Sier
Lucha Miani uscì di corsa da Palazzo Ducale e senza neanche
penarsi di scusarsi se urtava malamente i suoi accigliati colleghi, si
diresse
spedito là dove Lucha di Symon il gondolier de
casàda stava cicalando
fitto-fitto cogli altri suoi compari nel sotoportego, balzando
comicamente in
avanti all’ inaspettato arrivo del padrone.
“Ndove
andèmo, patron?”
“Al
Ramo de la Stua.”
Lucha il
gondolier strabuzzò perplesso gli occhi. “A sta
horra,
patron? Non sarave un fià presto?” Sapeva,
infatti, trovarsi vicino alle
Carampane a Rialto, poco dopo l’allusivo Ponte delle Tette.
Dinanzi
all’espressione esagitata e inflessibile del padrone,
l’uomo accantonò ogni
obiezione e prese a remare con insolito vigore, intimamente contento di
gustarsi nell’attesa la vista del bel balconcino delle mamole
[3] affacciate
alle finestre.
In
realtà, il trentaseienne Miani stava delineando altri piani
d’azione ovvero piombare inatteso in una delle varie stue del
Ramo e di fatti
Lunario el Stuèr suo proprietario poco mancò di
strangolarsi con la propria
lingua alla vista di un patrizio con ancor la toga del Maggior
Consiglio
addosso presentarsi a lui terribile e solenne, come San Michele il
giorno del
Giudizio Universale. La lunga cicatrice lungo la mascella e il viso del
pallore
malsano del convalescente gli conferiva un ché di ancor
più feroce.
“Mi
no gh’ho fato gnente, no sun berton!”, ci tenne
tosto a
precisare lo stufaruolo, mettendo letteralmente le mani avanti. [4]
Lucha lo
squadrò seccamente dall’alto al basso.
“Lo spero ben”,
schioccò la lingua e aggiunse spiccio: “El consier
sier Batista Morexini, xélo
qua? Et no me dir che ti no te lo cognossi, ché te fazzo
prepar na bea tola a’
Pozzi! O mejo anchor: a le Orbe!”
Neanche
terminò di proferire il nome delle tanto temute stinche,
che Lunario scavalcando per poco il bancone guidava di persona il
patrizio
attraverso un piccolo dedalo di corridoi ben
riscaldati e senza
correnti d’aria, fino a giungere ad una stanzetta
specificatamente predisposta
per riposarsi dopo il bagno di vapore. Lì lo
stufaruolo bussò cauto alla
porta, contorcendosi in una smorfia dolorosa alla scocciatissima
risposta:
“Gran
mercé! Che vuoi ora? Non ti pago per
astiarme!”(seccarmi,
ndr.), berciò dietro una voce a Lucha assai nota e giusto
per abbreviare i
tempi (non per pena nei confronti dello stuèr), che appunto
replicò in fretta
alla giusta obiezione del senatore:
“Sior
Barba, sun el vuostro nezzo, Lucha.”
Immediatamente
il tono dello zio s’addolcì. “Lucha?!
Sangue di
diana, perché non me l’hai detto prima? Pelandrone
d’un Lunario, fallo subito
entrare, lesto!”, comandò perentorio allo
stufaruolo, che inchinandosi e
mormorando un deferente Vi servo, patron, zelenza,
vossioria, piegò
l’indice verso di sé onde comandare ad uno schiavo
moretto di portar una sedia
al patrizio. E rivolgendosi in gran confidenza al Miani:
“Zelenza,
lustrissimo, fé attension: el sior consier se porta
sempre pì mutrión (taciturno, ndr.), pien de
smara et gnàgna (malumore e
malinconia, ndr.); se podarave dir ch’i spiriti lu possegano
interamente …”
Uno
zoccolo con inquietante precisione colpì la spalla dello
stuèr, interrompendolo e sia il ragazzino che Lucha si
morsero le labbra pur di
non ridere.
“T’ho
sentito, pampalugo!”, vibrò minacciosa la voce del
consigliere. “Renditi utile e porta da mangiare e da
bere!”
“Vi
servo, patron, zelenza, lustrissima vossioria!”, si
massaggiò
l’uomo la spalla dolorante, raccogliendo lo zoccolo. E
rivolto allo
sghignazzante moretto: “Et movete, fio d’un
turco!”, spingendolo via malamente.
Intanto
che il ragazzino saltava a guisa di grillo onde accomodare
al meglio il nuovo arrivato, il consigliere e senatore sier Batista
Morexini,
torvo in volto e tutto avvolto in un morbido panno, salutò
il perplesso nipote
con uno spassionato: “Donca? Cosselo sto
muso da imbaucato (incantato,
ndr.)? Che t’aspettavi, nezzo mio? De trovarme a far a
l’amor con do pute?” e
indicando col capo il vassoio di marzemino e fritole alla cannella, gli
confidò
furbescamente: “Alla mia
età, quest’è l’unico
vizio che mi rimane!”
Ingoiando
l’incuriosita replica circa il perché proprio con
due
donne lo doveva pizzicare, Lucha sorrise complice allo zio,
l’unico ad
accezione di Madre e i fratelli che gli dava del tu con tanta
disarmante e
tenera confidenza. D’altronde certe
libertà poteva più che permettersele,
specie quando un allora inesperto Lucha si era ritrovato
improvvisamente a
ventun anni a rimpiazzare Padre e solo sier Batista Morexini
s’era interessato
attivamente alla sorte della sorellastra e dei nipoti, aiutandoli sia
materialmente che spiritualmente. Per lui era stato
un pilastro,
quello zio da tutti considerato un po’ stravagante, sempre
allegro e generoso,
ottimo padre e cotolón (donnaiolo, ndr.) ognora penitente.
Zio che
alla vigilia delle nozze di Marco e della bella Helena
Spandolin aveva preso da parte nel suo studiolo privato il novizzo
(fidanzato
ufficiale, ndr.) e gli altri fratelli Miani con la
scusa di
favellare; una volta ottenuta la loro
attenzione, era volato un tal
ceffone da far girare violentemente la testa al povero Marco, il quale
ci mise
un bel po’ per riprendersi e capire quanto appena
successo. Zò! Gnanca
gh’ho verto bocha! aveva poi esclamato
indignato, mentre i fratelli
assistevano scioccati, gli occhi fuori dalle orbite. Te
dole, eh?
Arecordate de sto dolor, nezzo mio, co’ te vien voja de bater
la mojer! e
rivolto agli altri nipoti: Ancha se ve vien ea spissa
(prurito, ndr.)
de ciaparla per el colo, avé da satre (sapere, ndr.) che ea
mojer sì la gh’ha
da obedir ma non xé ni da strapazzar, ni da menazzar, ni da
insolentar! Vui
seti omeni, abié juditio vui per primi, se volé
che l’abbia anch’ela. Onde
reiterare il concetto, aveva poi tra lo sconcerto generale elargito un
secondo
ceffone a Marco, sull’altra guancia. La
donna sbaglia, se l’uomo si
comporta da macaco! Sicché
l’allora diciassettenne Hironimo, nel
pieno di quella fase in cui i giovani proprio non
sanno tenere la
bocca chiusa, gli aveva ritorto: Parlate per vostra
personale
esperienza, sior Barba? per condividere
immediatamente la triste
sorte del fratello.
Era stato
grazie alla amicizie e conoscenze di sier Batista,
all’epoca nel Consiglio dei Dieci, alle sue macchinazioni e
abilità oratoria se
la dubbiosa Signoria aveva accettato l’anno addietro di
scambiare Lucha col
capitano Cristoforo Calepin, liberandolo dalla sua prigionia di quattro
lunghi
mesi in Alemagna. Inconsciamente, a quei ricordi, il Miani si
tirò appresso la
stola, usata come fascia di supporto per il braccio destro storpiato e
inerme.
“Sentate,
vuostu marèndar? (colazionare, ndr.)”, riprese il
senatore il discorso, bevendo cautamente il marzemino, onde non
sporcare il
panno bianco.
“Vi
trovo bene, sior Barba.”
Sier
Batista lo fulminò cogli stessi occhi neri di Marco e
Hironimo, quest’ultimo l’unico nipote Miani che gli
assomigliasse in tutto e
per tutto, una goccia d’acqua, e se non fosse stata Leonora
Morexini Miani ad
averlo partorito, le malelingue di certo avrebbero tambureggiato ogni
sorta di
pettegolezzi. “Burlestu?”, sbuffò
sardonico l’uomo, mostrandogli le mani
ossute, dalle vene ingrossate e dalle dita lievemente storte.
“Te par che stago
ben? An, la vecchiaia … i reumi proprio
non mi danno requie! In
questo periodo dovrei trovarmi ad Abano, non qui a crepar
dall’umido!” e
sbuffando ritornò alla silenziosa degustazione del suo vino.
Effettivamente,
appurò Lucha, sotto la scorza del sarcasmo il suo
avunculo appariva più stanco e fragile del solito,
rivelandosi per il
sessantanovenne che ormai era, cozzando con l’immagine
mentale da sempre
custodita di lui, ovvero dell’energico e giovane zio che si
issava anche due
nipoti alla volta sulle spalle, facendoli roteare tra grandi risate e i
preoccupati richiami di moglie e sorellastra, nelle dolci estati
trascorse a
Treviso e a Fanzolo.
“Talvolta”,
proseguì pensieroso il consigliere, “credo
d’aver
vissuto in un altro tempo, in un altro luogo. Quanti avvenimenti si
sono
succeduti in quest’ultimi anni! Quanta gente da me conosciuta
è oramai
sottoterra ... Mio padre, le mie due madri, i miei fratelli ...
Parenti,
colleghi, vicini di casa, amici, nemici
… Ci crederesti che neppure
sei anni fa seppellivo mio fradelo Hironimo (ancha se geravam in lite
et in
grandissimo odio) … e quest’anno il sior mio
zenero sier Zuanne Querini e la
mia nezza toa sorela Crestina? ... Ripensavo a quanto era stata
contenta di far
parte del gruppo di gentildonne scelte ad accogliere la olim Ducissa de
Bari,
quel maggio in cui giunse qui a Veniexia in visita. Ed ora sono ambedue
morte.
Ti ricordi di lei, della Ducissa? Eravate coetanei,
sì?”, e al cenno positivo
del nipote proseguì con un sorriso malinconico:
“Una creaturina spiritosa e
brillante, peccato che quel satiro del Ducha sòo pare si
fosse dimenticato
d’insegnarle, che gli affari si fanno in due o non si fanno
… Poareta, morta sì
zovane … ”, scosse il capo. “E il luglio
dell’anno scorso, assieme a mio
cugnado sier Alvise Malipiero, pure m’è toccato
comunicare al Mazor Consejo la
morte della mia siora cugnada Domina Catharina Corner … che
aveva
colazionato con la Ducissa! In quel momento, ho
pensato: ecco qua,
la fine d’un’epoca!”
E poi
c’era la questione di sua figlia, ma Lucha sapeva che lo zio
mai e poi mai avrebbe approfondito di sua spontanea iniziativa,
rivangando il
dilaniante spettacolo della sua adoratissima Maria rimasta precocemente
vedova
del marito Zuanne Querini conte di Stampalia e Amorgo, proprio lei che
era
stata benedetta da un matrimonio felice e un marito
amorevole. Intuiva il
Miani come lo zio avesse interpretato tale disgrazia come una punizione
divina
per il suo comportamento fedifrago nei confronti della, nonostante
tutto, amata
moglie, mortificandolo tramite la sofferenza della figlia e per questo
sier
Batista s’ostinava a sopportare stoicamente in silenzio senza
menzionarlo a
nessuno, tranne quando era corso disperato dalla sorellastra Leonora,
supplicandola di persuadere Maria anche solo a guardare la figlia
postuma di
Zuanne, la piccola Laura. Assieme a Francesco, il maggiore di anni
sette,
Piero, Agustin, Fantin, Nicolò e Crestina, il defunto conte
Querini di
Stampalia e Amorgo aveva lasciato una moglie devastata dal dolore che
si
rifiutava d’interagire con l’ultimogenita, anzi,
una volta rinsavita aveva
confessato vergognosa alla zia come avesse sperato morire di parto, in
modo da
ricongiungersi allo sposo. M’aspetterà,
sior’amia?, le aveva
chiesto in lacrime. Al che madona Leonora, con la
saggezza di chi
era sopravvissuto al calvario della vedovanza, le aveva risposto
brutalmente
onesta: V’aspetta sì, nezza mia,
perché dalla sua tomba sicuramente non
si muove! e detto questo, le aveva ceduto
l’infante tra le braccia,
che subito aveva cercato avida la poppa della madre.
Incredibilmente,
Maria s’era messa a ridere.
“… Una generazione
se ne va, un’altra viene, e
la terra sussiste per sempre”,
[5] terminò solennemente sier
Batista il suo monologo e con esso il vino, le palpebre socchiuse,
meditabondo.
“Sior
Barba …”
L’anziano
consigliere l’interruppe con un secco svolazzo della
mano. “Lo so, lo so. Non sei venuto per rivangare il passato,
bensì per
determinare il futuro. Vuoi sapere di tuo fratello.”
“Saveu
…?”
“Di
Trevixo: Item si ha, sier Hironimo Miani, era castelan in
Castel Novo, era presom di Mercurio Bua; il campo è pur a
Monte Belluna e non
se move, … etcetera, etcetera.
Continuo?”, citò verbatim sier Batista
il rapporto letto in Senato alle prime ore del mattino, assieme agli
altri sia
dai vari fronti che dallo Stato da Mar.
Navigato
politico e uomo di mondo, appena aveva udito il nome del
suo nipote e fiòzo (figlioccio, ndr.) il suo anziano cuore
pur avendo avuto un
sussulto non aveva tradito alcun’emozione sul suo volto,
seguitando ad
ascoltare impassibile e indecifrabile come una sfinge. Ciononostante,
sier
Batista già aveva previsto una prossima visita da parte o di
madona Leonora o
dei suoi nipoti Lucha e Carlo e, ad onor del vero, quasi era sollevato
che la
sorte avesse scelto il più mansueto Lucha, ché
sul serio non avrebbe avuto
animo di affrontare la sua sorellastra solo per aggravarle la
già pensante
croce che portava sulle sue esili spalle.
Inoltre,
Lucha aveva vissuto questo conflitto sulla sua pelle, ne
conosceva le dinamiche e sapeva cosa aspettarsi sia sul campo battaglia
che nei
consigli di guerra.
“Sior
Barba, riconosco che vi sto chiedendo un enorme favore …
Sempre nel bisogno ci avete soccorsi e avete vegliato per anni su di
noi, da
quando Padre … Ciononostante, vi supplico di … di
suggerirci almeno quelle
salvifiche parole, che potrebbero persuadere i Pregadi e i Dieci ad
intavolare
le trattative per la liberazione di mio fratello.”
Il volto
di sier Batista s’incupì. “Non
è così semplice”,
sentenziò secco, sistemandosi meglio sul lettino.
Lucha
strinse il pugno, digrignando frustrato i denti. Ovvio che
quando si trattava di prigionieri la Signoria ci andava cauta,
valutando i pro
e i contro, ma quale valore strategico poteva aver mai suo fratello
Hironimo,
semplice cavaliere fino all’altro giorno?
“Perché?”,
sbottò infine.
Lo zio
non si scompose, semmai gli spiegò con flemma:
“Perché la
Signoria Nostra tiene in mano l’unica cosa, che potrebbe
legare nuovamente il
signor Mercurio Bua a lei.”
“E
cioè? Danaro?”
“Moglie
e figlia”.
Lucha
avvertì il mondo cascargli addosso, spalancando poco
elegantemente la bocca e il braccio sinistro gli cadde dal grembo.
“Burléu?”
“Te
par?”, lo rimbeccò prontamente lo zio.
“Catharina Bochali, la
fia di Nicolò Bochali el capitan stratiota morto en la
Patria del Friul e
sorella dei nostri capitani Manoli e Constantin Bochali, i quali ce
l’hanno a
morte (chissà perché) col cognato e pertanto si
rifiutano di restituirgli le
sue donne. Figurati che quello sfacciato di Mercurio Bua, pur di
riaverle
indietro, s’è raccomandato direttamente alla
Signoria.”
“E
che cosa gli è stato risposto?”
“Secondo
te? Che non possiede alcun valido argomento per
giustificare questo scambio” in attesa in realtà
di vedere chi dei due, in quel
braccio di ferro, avrebbe ceduto per primo.
Se da una
parte Mercurio Bua vantava doti militari strategiche di
notevole audacia e potenti alleati, dall’altra la Serenissima
possedeva
pazienza e numerose risorse; in aggiunta, con quel suo gesto in
apparenza
tracotante, il condottiero si era sbilanciato, scoprendo in parte le
proprie
carte e Lucha ben immaginava quanto sfacciatamente la Signoria avrebbe
sfruttato quel suo tallone d’Achille, pronta a stringere la
presa sul
greco-albanese se necessario tramite la moglie e la figlia.
E suo
fratello, di certo, non valeva lo scambio se sussisteva la
possibilità di tener per le palle il terribile capitano di
ventura.
“Così,
tra i due medici litiganti, a rimetterci è il malato! Mi
state dicendo, sior Barba, che sussiste la possibilità che
mio fratello venga
rilasciato soltanto a fine guerra?!”, esplose allora di
collera Lucha, incapace
d’accettare quel cinismo da ambedue i contendenti, men che
meno da parte della
sua patria, per la quale aveva dato un braccio, la salute e continuava
a
finanziare colle sue risorse economiche.
“No.”
“Ma
come! Se m’avete appena detto che …”
Sier
Batista lo invitò a calmarsi e a risedersi. “Nezzo
mio, coi condottieri
non si discute, li si compra ed io, in tutta la mia vita, non ne ho mai
trovato
uno senza prezzo.”
“Tranne
quel francese, quel Baiardo.”
“Verissimo.
Lui non si compra” , convenne il consigliere e
indicando la tempia “…
s’uccide” e rise alla macabra battuta. Poi,
ritornando
più serio: “Bisogna che tu o Carlo andiate a
parlare col missièr (suocero,
ndr.) di vostro fradelo, domino Dimitri Spandolin, e che lo inviate in
ambasciata alla moglie del signor Mercurio a San Biasio. In
contemporanea, assicuratevi
che la vostra siora Mare mia sorela vada a trovare la sua amica, madona
Alba
Donado Contarini: suo fratello sier Andrea è
podestà e capitano di Trevixo,
chissà che trovandosi più vicino al fronte, non
riesca ad avvicinare vostro
fratello, anche solo per assicurarci che sia ancora vivo. Inoltre, sier
Francesco Contarini, il figlio di madona Alba, conosce personalmente
molti
esponenti della nobiltà francese, forse tramite qualcuna
delle sue conoscenze
riuscirà ad agganciare se non il signor Mercurio, almeno il
maresciallo
monsignor La Peliza. Dal canto mio, vedrò cosa
potrò fare in Senato … e fuori.”
Fortuna
che il Misser Grande lo conosceva bene e con lui anche
sier Francesco Foschari, sier Hironimo Querini e sier Lucha
Trum, cugino
germano dell’amico di famiglia e parente sier Antonio Trum,
tutti e tre ben
inseriti tra i Savi e i Dieci. Chissà se non fosse riuscito
a persuaderli a
prestargli i servigi dei loro contatti nelle terre dei Conti da
Collalto,
sospettosamente indenni dalle scorrerie dei
saccomanni e dei
franco-imperiali …
***
Le
campane della Chiesa di San Francesco avevano appena annunciato
i vespri che madona Felicita, non rincasando ancora il marito, decise
di
recarsi lei medesima al granaio onde preparare le staie da imbarcare
sui burchi
diretti a Padova e a Venezia e della farina per cuocere il pane
l’indomani.
Afferrato lo zendale e chiamata Màlgari, aveva
già un piede fuori l’uscio
quando comparve madona Helena Spandolin Miani, la quale le chiese se
poteva
accompagnarla, non essendo neanche sier Marco Miani ancora ritornato
dalla sua
ronda, contrariamente alle più fortunate madona Chiara
Spandolin Trivixan, sua
sorella minore, e a madona Orsola Malipiero da Canal, quest'ultima
generosamente ospitata dal Miani, poiché sia lui che il
marito della
nobildonna, sier Alvixe, erano stati assegnato a guardia del Castello.
Felicita
acconsentì di buon grado, contenta della
compagnia della vicina di casa e intimamente
affascinata
dall’esotismo trapelante dalla donna, stupore tipico di chi
non era mai uscito
oltre le mura cittadine. La giovane patrizia, d’altronde, vi
metteva del suo:
oltre alla forte inflessione greca nel suo veneziano, ella aveva
conservato
alcune usanze nel vestiario tipiche della sua gente. Pur indossando,
infatti,
un’accollata camicia bianca e una veste nera alla veneziana,
madona Helena
s’acconciava la testa con un velo di bombace, alquanto
lavorato all’ago,
avvolgendolo in maniera intorno ad essa così da lasciarne
pendere e cadere una
parte giù per le spalle. Solitamente il velo era bianco, ma,
in rispetto
dell’anno di lutto per la morte della cognata madona Crestina
Miani da Molin,
la giovane greca aveva optato per uno nero, anche se non corrispondeva
al
colore adatto secondo i suoi costumi e anzi, in cuor suo ella temeva
d’attirarsi
la malasorte, indossando un panno da sfoggiare esclusivamente alla
morte del
marito. Tuttavia, sier Marco le aveva pazientemente spiegato in
più occasioni,
che trovandosi a Venezia doveva adattarsi alla vestemica del luogo e il
velo
giallo, anche se in Grecia significava un onoratissimo lutto generale,
in
Italia equivaleva all’uniforme delle meretrici.
Il Miani,
sebbene vincitore su questo fronte, aveva dovuto
arrendersi dinanzi all’ostinazione di sua moglie
d’ornarsi le orecchie di due o
più anelli d’oro assai grandi, assai scandalosi
[6] e pertanto relegati alle
occasioni informali. Per contro, madona Helena non esagerava cogli
anelli alle
dita, limitandosi a due. Invece, adorava cingersi la vita con una
catena
d’argento, fatta con bell’arte, che pendeva poi
davanti con due o tre peri
d’argento, gli stessi che stavano in quel momento suscitando
l’interesse di
madona Felicita. E come la sorella maggiore, anche madona Chiara si
vestiva
compagna.
Talvolta,
passando per San Martino, le tre vicine di casa si erano
imbattute in qualche stradiota che, riconoscendo immediatamente le
donne degli
arconti [7], si metteva subito sull’attenti, servizievole e
mansueto agnellino;
i loro capitani, specie i Paleologi lontani parenti delle Spandolin, le
si
rivolgevano con la più estrema cortesia. Gli uomini stessi
che sier Marco Miani
e sier Nicolò Trivixan avevano portato con sé a
proprie spese a Treviso
provenivano dalla patria delle mogli, scelti accuratamente sia da loro
che dal
suocero, il cavaliere Dimitri Spandolin da Costantinopoli, tributario
del
Signor Turco.
Ciononostante,
Helena non ostentava vanitosa la sua diversità né
si comportava da superba in quanto patrizia, rispondendo con allegra
cortesia
alle numerose domande di una curiosa Felicita, nelle lunghe ore
vespertine in
cui attendevano i rispetti consorti. Chiara, dal canto suo, se ne
rimaneva in
disparte a cucire, dimostrando infatti una natura più timida
rispetto alla
maggiore, preferendo la compagnia di madona Orsola verso la quale
avvertiva una
maggiore affinità culturale, esprimendosi infatti la
nobildonna in fluente
greco vernacolare . Anche se figlia del patrizio veneziano Antonio
Malipiero,
madona Da Canal era nata e cresciuta a Corfù dove la sua
famiglia s'era da
tempo trasferita e dove proprio lì aveva conosciuto il suo
futuro consorte,
all'epoca castellano della fortezza a guardia dell'isola.
“Cadaun
zorno, i nuostri maridi fan senpre pì tardi, vero? Se no
fussimo en guera, pensaria mal!”, scherzò la
giovane donna.
La greca
sorrise sibillina. “Dubito: il vostro sior marido Donado
non mi è sembrato un farfallone. Vi guarda respirare, tanto
vi vuol bene”, le
confidò civettuola, provocando un grazioso rossore
compiaciuto nelle gote
dall’altra. “Vi confesso che un poco
v’invidio.”
Assicurandosi
che Màlgari e Cleofe, la fantesca della greca, si
trovassero fuori dal raggio udivo, Felicita le sussurrò con
genuina
preoccupazione: “Vuostro marido ve trascurelo?”
“Non
è facile essere ammogliate ad un patrizio”,
asserì Helena, rigirando
un poco malinconica la vera al dito. “Ché il
marito non v’appartiene mai
interamente: la Signoria viene sempre per prima; è lei la
vera moglie e noi le
concubine.”
Abituata
a trascorrere molto tempo col suo Donado, soprattutto per
via della gestione dei mulini, Felicita si dispiacque molto della
situazione
della nobildonna, non concependo come potesse stare così a
lungo separata dal
consorte senza rodersi dall’ansia nonché dal
dubbio circa la sua capacità di
resistere alle tentazioni della carne, ché alla giovane
trevigiana non erano
sfuggite le occhiate golose delle altre donne, maritate e non, saettate
con
sfacciata insistenza ad un ignaro Donado durante la Messa. Brutte
insolenti!
Felicita
aprì la bocca onde tentar di confortare la patrizia,
sennonché
un urlo si sostituì alle parole: distesi a terra, gli operai
addetti al granaio
giacevano svenuti con evidenti segni di colluttazione sui volti, gonfi
peggio
di una vescica. Il portone era stato sfondato e da esso simil formiche,
dei
soldati si servivano allegramente passandosele di mano in mano le staie
di
grano, orzo e di tutta l’altra farina macinata riservata
l’indomani a Venezia e
Padova.
Le gote
della giovane si gonfiarono di collera, imporporandosi
circa l’ingiustizia dell’affare: ma come? Loro si
dannavano l’anima lavorando
notte e dì onde soddisfare le richieste della Serenissima,
suo marito pure
precettato ad aiutare la squadra di guastatori sulle mura e quei
pelandroni dei
soldati mercenari, sfamati e alloggiati gratuitamente, ora gli venivano
pure a
rubare la roba?
“MALADETI
CANI! SASSINI! PENDAJO DA FORCHA! BARONI! DA TAJARVE LE
MANI!”, ruggì indignata e furibonda e prima che
Helena o Màlgari potessero
fermarla, madona Cimavin afferrava un bastone caduto agli operai e lo
fracassava in testa ad un soldato (voltato di spalle), il quale con una
bestemmia da far sanguinare le orecchie cadde a far compagnia agli
operai,
privo di sensi.
Purtroppo,
ciò distrasse i suoi degni compari dalla razzia del
granaio e di fatti uno di loro non tardò a disarmare con
violenza la giovane
donna. “Razza di troia, ad un uomo metti le mani addosso?
Toh, prendi, se ti
piace menare!”, sbraitò e Felicita appena ebbe il
tempo di deviare il cazzotto
che le diede, giusto per evitare che le spaccasse il naso sebbene esso
incominciò
a sanguinare lo stesso, tra lo sconcerto generale delle altre donne,
specie
quando il soldato, non pago, la colpì alla spalla e la
spintonò malamente per
terra e se non fossero stati i riflessi pronti di Màlgari,
la giovane donna
sarebbe certamente caduta di schiena.
Prontamente
le altre donne si ersero a difesa della poveretta,
intuendo come l’uomo avesse intenzione di infierire.
“Béco fottuto!”
(cornuto,ndr.), gridò la contadina, afferrando una pietra e
lanciandogliela
contro con inquietante precisione, da far invidia ai lapidatori di
Santo
Stefano primo martire. “Bater ‘na dona! (e una
pietra) Et gravia! (e un’altra
pietra) Seti pèzo de quei ch’i zogavan a dadi soto
ea Crose Sancta!”
Intanto,
aiutata dalle compagne che le coprivano le spalle, madona
Helena batteva a saggia ritirata di direzione di casa, gridando a voce
alta:
“Zente! Zente! Arme, fora arme! Ajuto! Zente!” e
tentando di trascinare seco
una scalciante Felicita che nonostante l’epistassi e i
lividi, urlava come un
ossesso i peggiori insulti mulinando feroce i pugni.
Piccati
sia per l’interruzione sia per l’esser stati
malmenati da
delle donne, alcuni mercenari lasciarono le staie che stavano prendendo
ed
esigere soddisfazione, malgrado i loro compagni li suggerissero di
lasciar
perdere e andarsene via col malloppo. Stando al loro discutibile codice
d’onore, si trattava ormai di una questione di principio il
lavar via
quell’onta insopportabile, al diavolo il gentil sesso e altre
baggianate da
poemi cavallereschi.
Sicché
colpirono forte e colpirono duro, finendo sia Cleofe e
Màlgari per terra e gli occhi di madona Helena si
spalancarono
impauriti al sinistro luccichio della lama di un pugnale.
Questi
ci ammazzano!, fu
l’unico pensiero che la sua mente
poté elaborare e d’istinto coprì la
donna incinta col suo corpo, serrando le
palpebre in attesa del colpo, gli ultimi pensieri rivolti al marito e
ai suoi
pargoletti a Venezia.
Invece,
qualcosa le saltò sopra a mo’ d’ostacolo
e colpì con un
calcio in pieno petto l’avversario, cogliendolo alla
sprovvista, che
indietreggiò e il pugnale tintinnò sui
sanpietrini.
“Maladeto
viliàco: se te gh’ha finio co’ le
femene, battiti horra
contra nuialtri omeni!”, lo sfidò Marco Contarini,
il più giovane e veloce
della mandria di tori che s’avvicinava pericolosa, al secolo
i rispettivi
mariti delle donne offese e gli operai ai mulini e gli uomini del
Miani,
Trivixan, da Canal e Contarini, tutti capeggiati da Jacopo Cimavin il
Vecchio,
il quale brandendo un nodoso bastone, ruggì come
quand’era andato in guerra
contro i Ferraresi:
“Manza-merda,
ve sbuso tutti et ve fazzo vegnir fora le buéle par
la bocha!” e che il sier Provveditore lo impiccasse pure, ma
prima - sangue di
diana! - ne avrebbe tagliati a pezzi quattro o
cinque di quei
rotti-in-culo che osavano picchiare la nuora gravida e rubargli la roba!
In quel
momento i mercenari seppero che l’avevano combinata
grossa, tanto che la maggior parte di loro si pigliò in gran
fretta le staie o
a mani vuote ugualmente fecero dietrofront e corsero
via, inseguiti
dai furiosi uomini.
Marco
Miani afferrò uno per la collottola, lo costrinse a voltarsi
e in rapida successione gli elargì un pugno dietro
l’altro; Donado Cimavin,
abituato sin da ragazzo a sollevare pesanti staie di semenza e farina,
appunto
ghermì un soldato e lo gettò di peso nel canale
tra grandi imprecazioni sue;
Marco Contarini, impratichitosi nelle risse del Carnevale, sbatteva la
testa di
un soldato contro il muro e il vecchio Cimavin sentendosi gagliardo
come ai
tempi della Guerra del Sale seguitava imperterrito a ricorrere la sua
preda,
che ad un certo punto, in panico totale, gli aveva lanciato contro a
mo’ di
difesa proprio la staia rubata che si stava portando sulle spalle.
La
cagnara infernale finalmente scrostò dalle rispettive case i
Trevigiani e si levarono molti: “Arme! Arme!” e chi
coi bastoni, chi coi
batocchi per la polenta, chi con scope o padelle e chi col solo ausilio
delle
proprie mani vennero a dar man forte e pareva di assistere alla rissa
ludica
sul Ponte dei Pugni a Dorsoduro, con tutta quella pressa di gente che
incassava
e mulinava pugni ora a caso ora ben mirati, tra bestemmie da far cadere
giù
l’intera Corte Celeste, volando alcuni in acqua e qualcheduno
nel frattanto si
fregava pure una o due staie lì abbandonate.
Più
tardi si sarebbero calcolati i danni: ora come ora, la
priorità era di scaraventare in canale quanti più
soldati possibile e al
diavolo ogni cosa.
Tale
teatro titillò la curiosità di un gruppo di
stradioti diretti
ai loro alloggi a San Martino e che, pur non conoscendo la causa,
decisero di
partecipare giusto per passare il tempo. Ad essi si unirono alcuni
soldati di
ronda, tra cui Cabriel che per poco non tagliò il naso ad
uno, quando
concitatamente Marco Contarini gli aveva spiegato come quei disgraziati
avessero picchiato le donne in casa del mugnaio, tra cui
Màlgari.
La
situazione s’aggravò coll’arrivo degli
uomini del capitano
Lorenzo Orsini venuti ad indagare su quel bailamme, ma la foga tale era
che gli
si coinvolse, picchiando anche loro specie quando uno di loro si mise a
gridare: “In nome del capitano …”,
interrotto dal cazzotto di un trevigiano dal
dente avvelenato per via della proscrizione da parte di detto
comandante a
distruggere il santuario della Madonna Grande. “Tasi, bestia
papalina!”, aveva
infatti sbraitato, atterrandolo. Il più scemo tra
questi mercenari onde
quietare gli animi pensò bene di sguainare la spada, col
risultato di finire in
acqua in un battibaleno e di far giungere a cavallo un livido capitano
Vitello
Vitelli, segno che la contesa finiva lì e poche storie,
tutti a casa.
“Risparmiate
fiato ed energie per i franco-imperiali!”, li
ammonì
severo, scudisciando a destra manca acciocché a nessuno
saltasse in testa lo
sghiribizzo di disarcionarlo.
“No
preoccupeve, sior capetano: ne avemo assa’ ancha par
eli!”,
berciarono i baruffanti e gli mostrarono con feroce gusto i pugni dalle
nocche
sbucciate e i denti macchiati di sangue (ci fu chi sputò
perfino un dito
staccato a morsi) e il comandante si domandò se le nuove
mura di Treviso
fossero state costruite per difendere i Trevigiani dai franco-imperiali
o
viceversa, per proteggere i franco-imperiali dai Trevigiani.
Dispersa
ora con moine ora con minacce la folla, Jacopo Cimavin il
Vecchio e suo figlio Donado, Marco Miani, Marco Contarini, Alvixe da
Canal,
Nicolò Trivixan e Cabriel si trascinarono a casa del
mugnaio, malconci ma
vittoriosi. Lì trovarono Màlgari che si
accommiatava da Mamma Gaia, una
curandera e levatrice, e poco ci mancò che Donado si
liquefacesse dal terrore,
correndo esagitato in camera da letto dove sua suocera madona Luzia
rimboccava
le coperte alla figlia.
“Donado!”,
esclamò la giovane, gli occhi umidi di lacrime.
“Oh,
Donado!” e allungò le braccia onde richiamare a
sé il marito, che subito
l’abbracciò con foga, baciandola disperato.
“Donca?”,
s’informò sottovoce Jacopo il Vecchio.
Màlgari
scrollò le spalle. “A xé
n’toro, patron. Et el puto, el
scalcia contento pèzo d’un musso!”,
informò ella il padrone circa l’esito
positivo della visita della levatrice, la quale aveva giusto suggerito
qualche
intruglio per calmare i nervi a Felicita, la cui salute fisica sua e
del
bambino era uscita miracolosamente indenne dall’aggressione
subita. “Col vuostro permesso, mi andaria
en cusina.”
“Sì,
sì vai et rengraxia el zovane soldà- chome se
ciamelo?
Cabriel? - servigli poi un goto (bicchiere, ndr.) di
vin caldo”, la
istruì e dopo che la fantesca se ne scese anche fin troppo
lesta e contenta in
cucina, l’anziano mugnaio sospirò di sollievo,
appoggiando il bastone. “Maria
Verzene, seti semper laudata!”, mormorò devoto,
segnandosi tre volte. “Besogna
horra ‘ndar dal cogitore a querelare …”,
bofonchiò tra sé e sé, raggiungendo la
stanza principale. “Donado! Olà, Donado!”
“Paron
Cimavin, se no v’incomoda”, s’intromise
Marco Contarini.
“V’accompagnarave jo a Palaço per la
querela.”
“Oh
no, magnifico missier Marco!”, si schermì il
vecchio Cimavin,
d’un tratto ansioso dinanzi all’aspetto scapigliato
del giovane patrizio, coi
lunghi ricci impiastricciati sulla fronte in un misto di sudore,
polvere e
sangue. Temeva, infatti, complicazioni. “Ve ghavemo
zà massa incomodà.
Riposatevi, zelenza, vi fazzo portar un goto di vin caldo …
Màlgari! Oh, dove
xéla quea puta?”
Marco lo
intimò dolcemente di rilassarsi, intuendo alla perfezione
la natura di quell’eccessiva sollecitudine nei suoi confronti
e infatti con
accorte parole rassicurò paron Jacopo il Vecchio come
ovviamente si sarebbe
cambiato camicia e zipone, nettato il viso e le mani e pettinati i
capelli,
prima di recarsi assieme in Cancelleria. “Inoltre”,
aggiunse con una fugace
punta di birbante malizia tipica dei giovani, “non penso sia
savio divider gli
sposi” e all’espressione confusa del mugnaio,
indicò la stanza da letto dalla
cui porta semichiusa Jacopo intravide il figlio Donado con la testa sul
petto
della moglie e la mano intrecciata con la sua sul ventre rigonfio.
Sicuro le
avrebbe elargito una bella ramanzina, ma non nell’immediato,
beandosi dei cari
rumori congiunti del battito del cuore di Felicita e
dell’insistente scalciare
del bimbo.
Onde
reiterare il concetto circa il perché egli corrispondesse al
miglior candidato, il giovane Contarini puntò
l’indice anche ai Miani che
stavano rientrando in casa, molto probabilmente per ritirarsi in camera
loro,
con Marco che cingeva forte Helena per la vita, stringendola a
sé in un misto
tra il protettivo e il possessivo.
Quanto al
motivo perché la servetta tardasse a presentarsi al
richiamo del padrone, hé, Jacopo non necessitava di lezioni
di vita da uno
sbarbatello neanche ventiduenne. Che amoreggiasse pure in cucina col
suo
spasimante, purché questi se lo tenesse ben dentro le brache
almeno fino
all’approvazione del padre di lei al matrimonio.
Poi,
figliassero pure come conigli, la cosa non lo concerneva.
***
Trovando
la Cancelleria chiusa, Jacopo Cimavin il Vecchio andò
dunque il mattino seguente alle prime luci a dolersi e lo fece a gran
voce con
toni foschi e drammatici, ché tutta la Piazza da fuori il
Palazzo udisse e
giudicasse se fosse mai possibile che un cittadino onesto come lui, che
sempre
le sue 30.000 staie alla Signoria le aveva consegnate puntuale, che pur
il
sangue la sua famiglia per gli interessi di Venezia aveva offerto, che
aveva
contribuito all’abbellimento delle chiese e degli altari,
doveva dunque,
Illustrissimi Messeri, sopportare le ingiurie e le ruberie di una banda
di
scalzacani senza né arte né parte, figli di mille
padri usciti dai più
squallidi tuguri veneti, bergamaschi e romagnoli.
Il
coadiutore, torcendosi le dita, avendo trascritto ogni singola
parola della querela la passò all’auditore sier
Piero Antonio Morexini, il
quale scosse il capo esclamando: “Ah, mi no, eh! Mi
no!”, la cedette al
cancelliere criminale che grugnendo un “Manco
morto!”, la sbolognò al podestà
stesso sier Andrea Donado che senza neanche aprirla la mise sulla
scrivania di
un perplesso sier Zuam Paulo Gradenigo, il quale, leggendola infine,
con calma
assassina aveva intimato che si determinasse a quale compagnia quei
farabutti
appartenessero e che, scovati ladri e refurtiva, essa venisse
restituita
immediatamente ai Cimavin. Tra le varie magagne che
l’assillavano, al
Provveditore mancava soltanto che da Venezia e da
Padova gli
arrivassero perfide lettere inquisitrici, sul perché non
giungesse la farina da
Treviso, onde sfamare la popolazione e le truppe.
Sier Zuam
Paulo digrignò i denti e spezzò in due una penna
alla
notizia che si trattava degli uomini del Batagin Bataja.
“Quel
bauco! Testa-da-bigoli! Non capisce, quell’immane
deficiente, che dopo aver compreso quant’è facile
picchiare i soldati, quegli
spiritati dei Trevigiani potrebbero ribellarsi e farci gran danno per
via della
Madona Granda?”, si lamentava furibondo. I
capitani Vitello Vitelli
e Renzo di Ceri gli avevano riferito degli sfacciati assenteismi dei
cittadini
precettati ad affiancare i guastatori, adducendo tutti un gran mal di
pancia e
già il Gradenigo si figurava davanti ai Dieci a
giustificarsi sul motivo per
cui a Treviso, invece di badare alla difesa, si sedavano insurrezioni
popolari.
E forse
perché aveva continuato a parlare da solo ad alta voce per
l’intera mattinata, che sua moglie madona Maria Malipiero
Gradenigo aveva
invitato a pranzo tutti i patrizi giunti alla difesa di Treviso, con le
loro
mogli se appresso, acciocché il provveditore potesse
distrarsi dai mille
progetti su come meglio vivisezionare l’indisciplinato
capitano di ventura.
Il saggio
piano della nobildonna funzionò: dopo che il
podestà
sier Andrea Donado ebbe elargito un bonario predicozzo a sier Marco
Miani e a
suo nipote Marco Contarini (che ancora si rifiutava di soggiornare a
casa sua),
la conversazione verté sulla triste notizia della morte del
governatore domino
Lucio Malvezzi, spentosi a Padova come confermato dal provveditore sier
Polo
Capello.
“Il
corpo del governatore il signor Lucio è stato sistemato in
un
deposito lì a San Benedetto, senza far altre
esequie”, terminò di narrare sier
Piero Loredan q. sier Alvixe.
“Perché?”,
domandò incuriosito il figlio del podestà,
Nicolò
Donado.
“Ecco
… perché lui è morto di …
di … ”, e si schiarì sier Piero la
gola a disagio , scoccando occhiate imbarazzate alla madre del giovane,
madona
Francesca Gradenigo Donado, a madona Maria, le sorelle Elena e Chiara
Spandolin, Orsola Malipiero da Canal e le altre patrizie lì
presenti, che
ascoltavano attentissime quanto gli uomini.
“Con
pessima fama!”, gli venne in soccorso sier Lodovico Querini
q. sier Jacomo, terminando per lui la frase e sier Piero gliene fu
infinitamente grato.
“Zoè?”,
aggrottò la fronte Maria Malipiero Gradenigo e gli uomini
lì presenti si mossero inquieti sulle sedie, incapaci anche
solo di pronunciare
“malfrancese” dinanzi ad una matrona tanto
rispettata e virtuosa. Ignoravano,
poveretti, che la patrizia li stava stuzzicando apposta ché
la sapeva più del
diavolo, avendo viaggiato in lungo e in largo fin dove aveva potuto
assieme al
marito.
“Il
Senato ha già appuntato un
vice-governatore?”, s’informò
sier Alvixe da Canal q. sier Lucha,
deviando abilmente il discorso tra il sollievo generale. “No
sia mai che
l’esercito rimanga senza un comandante, allo
sbaraglio”, aggiunse.
Rispose
sier Piero Gradenigo q. sier Anzolo: “Uno dei favoriti
parrebbe il conte Bernardino Fortebraccio.”
“Com’è
costui?”
“Ah,
fedelissimo per quello!”, lo rassicurò
quell’altro.
“Purtroppo, i rettori e i provveditori lo devono ancora
confermare, quindi per
ora nulla d’ufficiale.”
“Pulito!”
Sier
Sebastian Badoer q. sier Jacomo si rivolse a sier Zuam Paulo:
“Corrisponde al vero la voce, che il Gran Maistro de Millan
ha inviato un
trombetta alla Signoria, onde assicurarsi che i suoi uomini nostri
prigionieri
siano ben trattati?”
Un
risolino generale si diffuse nella sala e sier Zuam Paulo
arrossì violentemente, tanto che la cicatrice al collo
risaltò bianca sulla
pelle scarlatta. Lanciò un’occhiataccia malevola a
sier Lunardo Zustignan, il
quale giocò al nesci, continuando a mangiare ineffabile il
suo petto d’anatra
muta, ma con un sorriso sornione sulle labbra.
La
storiella di come il provveditore Gradenigo avesse minacciato
di sodomizzare con un attizzatoio rovente il segretario di La Palice,
dopo che
questi a sua volta gli aveva promesso di violare alla fiorentina la sua
virtù,
non era rimasta a lungo segreta nelle stinche dietro a Palazzo dei
Trecento e
adesso che il governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours negoziava
con la
Serenissima per un trattamento più umano verso i suoi
prigionieri, essa aveva
suscitato non poche ilarità a Palazzo. Sebbene, gli stessi
Veneziani avevano
dovuto dare un freno alle spicce maniere dei Trevigiani, i quali, per
risparmiare cibo e tempo, avevano l’uso di strangolare i
prigionieri nelle
carceri, seppellendo poi frettolosamente nelle fosse comuni.
Che tale
sinistra pratica fosse giunta fino a Milano, alle
orecchie del duca Gaston? In ogni modo, sembrava quasi che al francese,
rimuginando sulle parole del Trivulzio a Louis XII, fosse sorto qualche
scrupolo di coscienza e non per la benefica influenza del Chevalier de
Bayard
bensì perché ancora gli doleva la mascella alla
notizia di come quel diavolo
d’inferno di sier Ferigo Contarini in un colpo solo gli
avesse sottratto tutti
i rinforzi inviati da Milano, sebbene il giovanissimo duca millantasse
coi suoi
di non darsene pena. In realtà, temeva grandemente di non
rivedere più né i
suoi soldati né i suoi capitani e la notizia di come il
milanese Aloisio Ferrer
avesse disertato per passare a San Marco non lo aiutava certo a dormire
tranquillo la notte, timoroso com’era di sfigurare davanti
allo zio il Re di
Francia.
“Domani
o dopodomani manderemo un’ambasciata a La Peliza,
assicurandolo che questa guerra la combatteremo da
gentiluomini”, e
sier Zuam Paulo roteò scettico gli occhi, non credendoci
manco lui. “Ancora
sono indeciso se inviare il signor Alfonxo dal Mutade o
…”
“Ah,
eccovi infine!”
Un
silenzio di tomba calò nella sala, i commensali pietrificati
manco fosse entrata in quel momento Gorgone Medusa. L’unico a
scattare in
avanti convulsamente fu Marco Miani, subito trattenuto da Marco
Contarini per
il braccio. Madona Helena si morse bellicosa il
labbro inferiore
ancora gonfio, gli occhi torvi.
Ludovico
Battaglia da Cremona - o come lo chiamavano
tutti il Batagin Bataja - era marciato dentro con la decisione di chi
vuol
raddrizzare un torto subìto, ignorando i timidi richiami del
famiglio del
Gradenigo, che gli ricordava come almeno a pranzo lo si lasciasse
tranquillo.
“Nicolò”,
sussurrò il podestà sier Andrea al figlio,
“di grazia
accompagna nella stanza accanto la siora tua Mare e le altre
madone.” Annuendo,
il giovane si alzò cauto dalla sedia e, mormorata
velocemente qualche parolina
alle dame, offrì il braccio onde condurle nella stanza
accanto, lontano da
situazioni indiscrete che, a giudicare dai volti lividi di ogni
astante, non
sarebbero mancate a scoppiare in tutta la loro prosaica
virulenza.
“Sior
capetanio Ludovico, l’aspetabam en Canceleria
dopodisnà
(pomeriggio, ndr.)!”, lo salutò gelido sier Zuam
Paulo Gradenigo, rimanendo ben
seduto all’ingresso del capitano e parlando in veneziano
ché ormai l’uomo lo
capiva assai bene.
“M’avé
mandà a ciamar per parlar e qua sun!”,
replicò altrettanto
altezzoso il Bataja.
“Saveu
perché?”
“Siorsì”,
replicò sfacciato il condottiero, al che Gradenigo lo
rimbeccò accigliato:
“E
vi paiono azioni degne di voi? Forzare il granaio d’un onesto
cittadino, rubare l staie destinate a Veniexia e Padoa? Picchiare delle
donne
indifese?”
“Non
è stata un’idea mia, bensì dei miei
soldati.”
“Ch’è
assai peggio!”, sentenziò perentorio il
provveditore. “Un
capitano che non riesce a farsi obbedire dai suoi uomini non vale un
bel
niente!”
Batagin
Bataja impallidì dalla collera. “Sono due mesi che
le
paghe non arrivano! Non posso certo mantenerli a ciance e
promesse!”
“Così
hanno ben pensato di risarcirsi da loro”, mormorò
sogghignando sier Alvixe da Riva di sier Bernardin a suo fratello sier
Vincenzo, che annuì ridendo malevolo, guardando ben in
faccia il capitano di
ventura mentre lo faceva.
“Donca?”,
infierì serafico il provveditore. “I vostri uomini
non
mangiano? Non bevono? Non hanno un tetto sopra la testa e un letto dove
dormire? Sono forse maltrattati?”
Il
condottiero sbuffò sardonico. “La paga vostra e
dei vostri
patrizi sì che arriva, e anche puntuale! Magari la prelevate
dalla nostra!”
Un’esclamazione
di puro sdegno si levò a quella vituperazione e
più d’un gentiluomo s’alzò
bruscamente, pronto a reclamare la sua libbra di
carne.
“A
noi date del ladro?!”
“Ciò,
il bue che dà cornuto all’asino!”
“Senti
che sproposità, che linguaccia bugiarda!”
Con un
deciso gesto, sier Zuam Paulo li invitò a calmarsi.
“I
gentiluomini qui presenti sono tutti a proprie spese” e i
sopracitati
convennero in un minaccioso borbottio.
Bataja
rise sprezzante. “Ah sì? E di quanti? Cinque?
Dieci uomini?
Sapete quanti ne ho io da pagare, razza di tirchiacci?
Centotrenta!”
“Eh!”
“Oh!”
“Troppi
complimenti!”
“I
miei balestrieri a cavalli ed io rischiamo ogni giorno la vita,
mentre voialtri ve ne state tranquilli al caldo a bivaccare ed
ingrassare!”
“Ma
dove? Ma quando?”
“Se
sté tutto el zorno a gratarve la panza!”
“Avete
rifiutato di cavalcare a Conegliano! Non negatelo!”
“Calmeve,
de diana!”, sibilò il podestà,
incominciando a sudare
freddo dinanzi al nervoso scalpitare dei patrizi più
giovani, paonazzi in
volto. “Non ci troviamo in osteria!”
“E voi sior Provedador?“,
infieriva invece Ludovico Bataja, sordo ai richiami pacificatori di
sier
Donado. “Che
mi dite dei vostri ottanta ducati mensili?”
“Vi
dico, signor capitano, che io compio il mio dovere!”
“Ed
io il mio!”
Una
risata crudele e cattiva commentò l’ultima
affermazione del
Bataja, attirando su di sé l’attenzione degli
astanti che si voltarono verso il
suo proprietario. “Sicuro! Scappando a gambe
levate!”, lo sfotté inclemente
sier Marco Miani, abbandonandosi mollemente sulla sedia e la tensione
salì alle
stelle, ben consci dei sentimenti che animavano il patrizio nei
confronti del
Bataja.
Senza
scomporsi pur rimanendo un poco turbato, il condottiero
inquisì falsamente cordiale: “Avete forse qualche
pensiero da condividere, sier
Marco?”
“Jo?
Gnente!”, ribatté a tono l’uomo,
indicandosi teatralmente.
“Domandatelo a mio fratello, canaja!”,
ringhiò, aumentando così all’improvviso
il volume della voce, che non in pochi sobbalzarono sorpresi.
“Chi?
Quel puto?”, gli fece eco il Bataja, sovvenendosi grazie ai
lineamenti di Marco dell’ex- castellano di Castelnuovo e
delle sue tremende
sfuriate, proferite con mirata malizia da quell’ancora
imberbe ragazzo eppure
dalla mano già pesante e dal carattere impulsivo e violento,
gran nemico della
pazienza e del tutto inesperto su come trattare i sottoposti.
“Sì,
che voi abbandonaste al nemico, fio-d’on-can!”
“Io
m’ero offerto di ripiegare a Cividal di Belluno o a Feltre,
ma
credete che quel testardo di sier Hironimo m’abbia
ascoltato?”, s’affrettò a
giustificarsi il condottiero, notando il pericoloso tamburellare delle
dita di
Marco, le nocche gonfie e sbucciate, le artefici dei lividi sulle facce
dei
suoi uomini.
“Puoah,
balle di musso!”, s’intromise sier Lunardo
Zustignan tra i
due contendenti, aprendo una cartella di cuoio ed estraendo un foglio
di carta.
“Sier Nicolò Balbi, avanti la resa di
Cividàl di Belun, ci ha riferito come la
perdita di Castel Novo di Queer sia imputabile a voi e alla vostra
vigliaccheria!” , gli riferì perfido,
sventolandogli sotto al naso la lettera
dell’ex-podestà di Belluno, prima della
capitolazione della città e della sua
fuga precipitosa assieme al resto della popolazione fedele a San Marco.
Al che,
capendosi in trappola e messo alle strette da
quell’improvvisata commissione inquisitrice, Batagin Bataja
s’infuocò,
mulinando furioso il braccio: “Basta! Sangue di Cristo,
ché mi lascio
insolentare da un ciapo (banda di animali, ndr.) della vuostra sorte?!
Io non
son schiavo dei Veneziani! Vedetevela da soli, arrangiatevi coi
Francesi e i
Tedeschi! Di voialtri mi lavo le mani!”
“Come
se avessimo bisogno di un tal impiastro!”, rimarcò
sferzante
sier Lunardo Zustignan. “Anzi, pure ci imbarazzate davanti al
nemico! Traditore
e spergiuro!”
“A
me date del traditore e dello spergiuro, quando vostro zio
Marin Zustignan venne esiliato per spionaggio?”
Sier
Lunardo, impallidendo di colpo e battendo irato un pugno sul
tavolo, ruggì: “Non fu mai una spia! Il suo unico
peccato fu di fidarsi
ciecamente di suo cugino il vescovo di Brexa, don Lorenzo Zane! Gli
aveva
chiesto ospitalità per la notte, dicendo che doveva
consegnargli una lettera da
Trevixo! Che ne sapeva, che stava accogliendo un traditore in fuga?! E
comunque”, sputò lividissimo, “furono
tre anni d’esilio dai consigli segreti,
mica da Veniexia!”
Ma il
Bataja, forte di tal vittoria, calcò la mano nelle accuse:
“Si vocifera che a Trevixo ci sia una spia, che fornisce
informazioni a La
Peliza … Sior Provedador, vi siete mai premurato di
controllare la
corrispondenza della siora vuostra mojer, madona Maria? Ella era la
figlia di
sier Jacomo Malipiero, o sbaglio?”
Accennava
il condottiere ad un triste avvenimento svoltosi nel
1478: sier Marco Corner aveva appreso dall’ambasciatore a
Roma sier Jacomo de
Mezo, come il conte Girolamo Riario – e suo zio il Papa con
lui -
fosse fin troppo informato di quanto avveniva nel Consiglio dei
Pregadi;
sicché, non essendo il Riario di grande ingegno da tener la
bocca chiusa sulle
sue fonti, il Consiglio dei Dieci aveva dato ordine
d’arrestare il padre di
madona Maria, il senatore dei Pregadi sier Jacomo Malipiero q. sier
Dario e il
cognato di lui, il dottore e cavaliere sier Vidal Lando. A lungo
interrogati e
torturati, i due confessarono ai Dieci la lista completa degli altri
informatori implicati, tra cui figurarono appunto gli zii materni di
madona
Gradenigo, sier Andrea e Alvixe Zane e don Lorenzo Zane q. sier Polo,
quest’ultimo
vescovo di Brescia. Sier Marin Zustignan q. sier Pancratio, zio di sier
Lunardo, era stato suo malgrado coinvolto in quel fattaccio
poiché, ignaro di
ogni cosa, aveva ospitato nella sua casa a Murano il Vescovo fuggitivo
verso
Cesena. Per questo, ci si limitò ad escluderlo per tre anni
dai consigli
segreti di stato, per non aver posseduto la prontezza di spirito (o il
sospetto) di denunciare il cugino non appena questi aveva varcato la
soglia di
casa sua, avvertendo i Dieci, i quali trovarono imperdonabile che sier
Marin li
avesse notificati il giorno dopo, quando questi aveva finalmente capito
l’imbroglio, leggendo la lettera. Tutte codeste spie furono
severamente punite,
in primis sier Jacomo Malipiero, esiliato a vita ad Arbe e pure gli si
era piazzata
una taglia di cinquecento ducati, semmai avesse tentato di rientrare a
Venezia
con qualche sotterfugio o con la forza. Ironia della sorte, fu proprio
Girolamo
Riario (sicuramente istruito dallo zio Sisto IV) ad ottenere la grazia
per il
vescovo don Lorenzo, quando giunse in visita nel 1481.
Sier Zuam
Paulo Gradenigo odiava sentir rivangato quel
vergognoso episodio, che per un soffio gli aveva impedito di convolare
a nozze
con madona Maria, all'epoca ancora sua fidanzata.
“Sior
capetanio, se non avete nient’altro
d’aggiungere …”,
sibilò gelido il provveditore, le dita robuste sul
coltello accanto a lui e guardandolo tanto fissamente, quanto una tigre
pronta
a balzare sulla preda. Contrariamente a sier Lunardo – molto
più giovane,
quindi più suscettibile ed irruento – Gradenigo
non diede alcuna soddisfazione
al Bataja, giustificandosi. Invece, preferì avvertire con la
sguardo il
condottiere, promettendogli tacitamente una morte lenta e dolorosa
semmai
avesse osato insultare sua moglie tramite il padre spia e traditore.
Non
replicando Ludovico Bataja, capita infatti l’antifona, sier
Zuam Paulo informò l’uomo tramite un chiaro cenno
di mano, che la conversazione
poteva benissimo terminare lì.
Siccome
però, l’ultima parola la doveva per forza avere
lui, ecco
che il cremonese, sporgendosi verso Marco, gli sputò in
faccia velenoso:
“Quanto a vostro fratello Hironimo, state di buon animo: pur
di aver salva la
vita, v’assicuro che non avrà esitato un sol
attimo d’aprire le gambe al capitano
Mercurio Bua!”
Marco
Contarini, sebbene giovane e dai riflessi eccellenti, fallì
miseramente di trattenere il suo furente omonimo, essendo Marco Miani
balzato
in avanti simil leopardo, ghermendo per la nuca il condottiere e
sbattendogli
poco cerimoniosamente la faccia sul piatto. Non pago, il patrizio
veneziano
acchiappando qualsiasi stoviglia gli capitasse per mano, la
fracassò sulla
schiena del capitano e, scavalcato il tavolo, lo rigirò e
gli strinse le mani
al collo.
“Sier
Miani, no fé!”, gli si gettarono addosso sier
Alvixe
da Canal e sier Nicolò Trivixan, afferrandolo cadauno per un
braccio e tentando
di strattonarlo via dalla sua preda.
“Tenélo
fermo!”, incitò sier Zuam Paulo gli altri
nobiluomini,
leggermente titubanti alla vista dei loro colleghi volare per terra,
scrollati
via di dosso da Marco come un cane col fango, il quale, afferrato un
bicchiere
e spezzatolo, ne avvicinò la punta all’occhio del
Bataja.
“Per
la Crose Sancta, te fazzo vedar mi, che horra che
xé!” [9],
ruggì invasato, sennonché Marco Contarini tra uno
sbuffo e l’altro riuscì ad
afferrargli il polso e scansargli via il braccio, grazie ad una mossa
appresa a
Padova da Zitolo da Perugia. Tosto ne approfittarono sier Alvixe, sier
Lodovico
e i due fratelli sier Alvixe e sier Vincenzo da Riva per immobilizzare
il
furente Miani e costringerlo a sedersi.
Il
condottiere, finalmente libero, scivolò via, la mano alla
gola
dove già si stavano formando le prime macchie scure.
“Mi recherò a Venezia e lì
starò, finché non m’arrivano le
paghe!”, gracchiò, massaggiandosi la carne
offesa. “E voi, sier Marco, non m’importa di chi
siate parente, giuro su Dio
che voi me la pagherete!”, gli promise minaccioso e Marco
Miani gli mostrò
bellicoso i denti, bloccato dal partire nuovamente alla carica da una
secca e
decisa spinta di sier Alvixe da Canal.
Sier
Lunardo gl’intimò beffardo.
“Sì! Andé, andé à
Veniexia … a
butarve in canal, in bocca alle pantegane!”
Ludovico
Battaglia da Cotigliano detto Batagin Bataja gli rifilò
un’occhiataccia d’odio puro, uscendo quanto
più rumorosamente possibile e pure
buttando per terra il povero famiglio del Gradenigo, il quale, calato
infine un
esausto silenzio e il pranzo oramai rovinato, dopo un gran sospiro
annunciò ai
presenti:
“Sia
ben chiaro tutti: nella relazione al Senato, si scriva come
siano volate unicamente insolenze e strane parole!”
Una volta
ogni tanto, la decisione venne approvata
all’unanimità.
Continua
…
*******************************************************************************************
Alcuni
storici sostengono che Mercurio Bua e Caterina Boccali si
fossero sposati nel 1519, ma stando al Sanudo parrebbe che
già lo fossero prima
della guerra. Sull'identità di questa
misteriosa prima moglie gli
storici non riescono a mettersi d'accordo: c'è chi la
identifica appunto come
Caterina Boccali figlia di Nicolò Boccali; altri come Maria
Boccali sempre
figlia di Nicolò oppure Maria Boccali sorella di
Nicolò; altri ancora come una
sorella di Costantino Arianiti Comneno. Per certo, la moglie del Bua
morì nel
1524, stando alle cronache del Sanudo circa il suo seppellimento a San
Biagio,
la parrocchia della comunità greco-albanese a Venezia.
Per
esigenze di trama e per i riferimenti ad una moglie da parte
del Sanudo nelle vicende del 1511, abbiamo deciso di adottare questa
versione e
optato "Caterina" come nome della moglie del Bua. La
prova
che i due si fossero sposati almeno prima del 1519 starebbe nel fatto
che nel
1517 si tiene il battesimo del figlio Flavio Bua. Inoltre, si menziona
anche
un’altra figlia, rimasta però anonima, che non
è da parte della seconda moglie.
La
lettera riguardo il furto dal granaio e del litigio tra il
Gradenigo e il Battaglia è effettivamente troppo corta per
non essere sospetta,
scarnissima di dettagli circa un fatto in fin dei conti assai grave.
Con
l’eccezione del provveditore e del condottiero, non si nomina
nessun altro,
neppure il derubato. Dei venti commensali a pranzo da Gian Paolo, il
Sanudo
riferisce che solo uno accusò direttamente il Battaglia di
diserzione del
campo, sebbene non si specifici se sia lo stesso che gli abbia o meno
letto la
lettera del Balbi. Di nuovo, neanche questo gentiluomo viene nominato
ma,
sapendo come Marco Miani si trovasse a Treviso, a mio parere solo lui
poteva
essere il meno diplomatico dei patrizi lì presenti, in ansia
per la sorte del
fratello e adirato col Battaglia per quell’atto di
vigliaccheria che era
costato la libertà al Nostro. Pertanto, considerata anche la
ritirata
ignominiosa del condottiero a Venezia, forse erano volati
qualcos’altro oltre
agli insulti ... La rissa del granaio invece è mia
invenzione, però assai
plausibile a causa della tensione tra civili e soldati.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto!
Alla
prossima!
Un
po’ di noticine:
[1]
I dolci di San Martino =
l’11 novembre è San Martino di
Tours e si preparavano dolci a forma di medaglie fatte di mele cotogne
per
festeggiare il Santo.
[2] Helena Spandolin =
il
cognome originale di Elena era il greco
“Spandounes”, venezianizzato in
“Spandolin”.
[3
] bel
balconcino delle mamole = ovvero
il seno delle prostitute (= mamole), gioco di parole visto che alle
Carampane
le prostitute si affacciavano a seno nudo alla finestra onde attirare i
clienti.
[4] stua, stuèr =
stufa e
stufaruolo, da intendersi come i calidarium o hammam, dove si faceva la
sauna a
scopi terapeutici e per rilassarsi. Ovviamente, molti stufaruoli
arrotondavano
i guadagni mandando nelle stanzette degli avventori anche qualche
prostituta,
di cui erano i bertoni (= lenoni). Era un gioco molto pericoloso, visto
che le
prostitute a cortigiane a Venezia dovevano essere tutte registrate e
vivere in
determinati quartieri, con la sola eccezione di quelle sposate.
Infatti, molte
cortigiane si sposavano così da vivere dove e come volevano,
senza incorrere in
sanzioni.
[5] Ecclesiaste 1:4
[6] d’ornarsi
le orecchie di due o più anelli d’oro assai
grandi, assai scandalosi =
a Venezia era disdicevole indossare
gli orecchini, considerati gioielli più da schiave e
cortigiane che da donne
oneste.
[7]
arconti = da
"archon", intesa qui come
nobiltà.
[8] scappando come il Duca
tuo
compaesano = Cotignola era la città
d’origine degli Sforza. Si fa
riferimento alla fuga di Ludovico il Moro ad Innsbruck presso
Massimiliano
d’Asburgo dopo la caduta di Milano nel 1499 e paragonandola
alla fuga di
Ludovico Battaglia da Castelnuovo a Belluno.
[9]
Per la Crose Sancta, te fazzo vedar mi, che horra che xé = per
la Croce Santa, ti faccio vedere io che ora è. Questo
modo di dire
veneziano ha origine dall’uso di giustiziare in Piazzetta tra
le colonne di San
Marco e San Teodoro i criminali. L’ultima cosa che vedevano i
condannati a
morte era appunto la Torre dell’Orologio a Piazza San Marco,
costruita nel
1496.