10.
Il mercante guardò ancora la ferita della guerriera
dal corpo coperto di segni neri e scosse la
testa. Non appena lei sollevava la mano, la ferita
ricominciava a sanguinare abbondantemente. Dora,
seduta su di un tavolo all’interno della stazione
di posta, stringeva i denti per non mostrarsi
spaventata, ma in realtà avrebbe urlato per dolore
e per la paura: temeva di morire dissanguata. Il
suo corpo infatti era sporco sia del sangue del
centurione che le era schizzato addosso, ma soprattutto
del suo che colava dappertutto e si raggrumava
diventando scuro e appiccicoso.
- Ma dov’è andata Lerea? - bisbigliò a denti
stretti. La schiava era uscita dicendo che poteva
curare la ferita della guerriera con un rimedio,
ma non era ancora rientrata.
- Ha detto che aveva bisogno di raccogliere
qualcosa fuori - commentò Cambler - lasciamola
fare. Hai visto com’è migliorata Rama in soli
tre giorni delle sue cure?
- Davvero? Come sta? - si meravigliò il mercante.
- Sta molto meglio: mangia, parla, cammina. Si
stanca presto, ma le ferite stanno guarendo
in fretta. Merito di Lerea, ti dico.
- Speriamo bene… - bisbigliò Dora. Il dolore
le stava causando una forte nausea e deboli
capogiri.
Lerea non tardò molto. Quando entrò chiese con
autorità il mortaio e il pestello di bronzo
che Cambler custodiva gelosamente: lo usava
per preparare le erbe della ricetta segreta
con cui aromatizzava i vini che comprava a
Bel’ee. Avutolo, non senza qualche ritrosia
da parte dell’oste, si mise a tritare e a
pestare alcuni ingredienti tolti dalla
dispensa insieme a quelli che aveva raccolto
fuori, producendo un ritmato rumore
metallico. Dora la seguì sospettosa: non
riconobbe nulla di quello che finì dentro
il mortaio, sperava solo che quella ragazza
sapesse quello che stava facendo e che
finisse alla svelta.
Infine, dopo che ebbe pestato a lungo correggendo
con attenzione i dosaggi e assaggiando di tanto
in tanto il risultato, la ragazza sollevò un
lembo del proprio vestito di veli e ci versò
sopra il contenuto del mortaio di bronzo. Poi
vi chiuse la pappa scura che aveva ottenuto e
la strizzò con forza sopra un bicchiere di
coccio, ottenendo un liquido scuro. Rimise
la pappa dentro il mortaio, allungò quel
poco liquido che era riuscita a filtrare con
dell’acqua e andò da Dora. Questa guardò
con sospetto il bicchiere che la prosperosa
ragazza le porgeva, poi la grande macchia
scura che le era rimasta sul vestito, poi
di nuovo il bicchiere.
- Che cosa sarebbe? - chiese stando
sul chi va là.
- Il rimedio, signora. Lo beva tutto: quando
sente la bocca diventare amara, sputi tre
volte sulla mia mano.
Dora cercò di convincersi di non avere scelta
e, staccata con cautela la destra dalla ferita
che si era appiccicata per via del sangue
coagulato, afferrò il bicchiere e bevve
rapidamente: la ferita inferta dal centurione
aveva ricominciato a sanguinare più
rapidamente.
La bevanda diluita aveva un vago sapore di carota,
pungeva il palato e la lingua, ma non era amaro
e neanche tanto sgradevole. Non appena ebbe
deglutito anche l’ultimo sorso, il sapore rimasto
in bocca cominciò a cambiare, dandole una sgradevole
sensazione ai denti. Il sapore stava diventando
decisamente amaro e la salivazione aumentò.
- È amaro, signora? - chiese Lerea interpretando
l’espressione di disgusto che si dipinse sulla
faccia della guerriera, nonostante i segni
neri che la incupivano.
- Bleah… - fu la risposta. Dora avrebbe voluto
deglutire, ma non ne ebbe il coraggio.
- Sputi sulla mia mano. Tre volte - le disse
la ragazza che le aveva preparato quella porcheria,
stendendo una mano col palmo verso l’alto. Dora
ubbidì e si stupì di quanto rapidamente riusciva
a produrre quella schifosa saliva verde.
Poi con l’altra mano la ragazza tolse la destra
di Dora dalla ferita e ci appoggiò con decisione
il palmo su cui Dora aveva sputato. Colta di
sorpresa, non riuscì a trattenere un grido di
dolore quando la ragazza compresse fortemente
la ferita mischiando sangue e saliva. Inarcò
la schiena e con la destra cercò di staccare
la mano della ragazza dalla sua spalla. Questa
reagì abbracciandola fortemente e impedendole
i movimenti.
- Mollami, cazzo! Mi fai male!
- No, signora! Bisogna attendere che il
rimedio faccia effetto! - si giustificò
Lerea.
La ragazza le rimase attaccata addosso per
qualche minuto: il dolore al braccio era tornato
a un livello sopportabile e Dora aveva perfino
ricacciato indietro le lacrime che avevano
dolorosamente tentato di sgorgare dagli occhi.
- Va bene - disse infine Lerea allontanandosi da
Dora, dopo aver sollevato con cautela la propria
mano, rossa di sangue fresco, dalla ferita - Non
lavi la ferita per sette giorni, poi la lavi spesso
per nove giorni con acqua limpida. Più di così non
so fare.
Lerea si allontanò senza aggiungere altro. Tutti
guardavano stupiti la ferita slabbrata che non
sanguinava più.
- Porca puttana… - commentò Dora dando un’occhiata. Saltò
giù dal tavolo facendo attenzione a non muovere
il braccio ferito e si dette un’occhiata intorno:
aveva gli occhi di tutti su di sé. Cominciava
a sentirsi davvero debole.
- Di chi è il carro che c’è nella stalla? - chiese.
Gambrath esitò un attimo, poi rispose balbettando.
- Dammi uno strappo fino al Varco... ho
voglia di tornarmene a casa a farmi vedere da
un dottore vero.
- Non vorrai andartene adesso, vero? - osò
Cambler. Dora gli rivolse uno sguardo truce.
- Perché?
- Altri soldati verranno non vedendo tornare
il centurione che tu hai ucciso. Uccideranno
e devasteranno quando vedranno il suo cadavere!
- Seppellitelo, no? - suggerì Dora con un po'
di stizza nella voce.
- Nobile guerriera - continuò Cambler - i
soldati non si fermeranno davanti a delle tombe. E
se nasconderemo i corpi, la terra gelata conserverà
le tracce della battaglia molto a lungo. Sarà
impossibile sostenere che qui non è accaduto
nulla!
- Ma perché dovrebbero prendersela con voi? Dite
che è stato Kail, tanto è morto pure lui.
- Tu non conosci i soldati della guarnigione di
Taliba, nobile guerriera. Essi depredano, violentano,
uccidono e distruggono anche senza motivo. La
vista di questa carneficina li farà andare su
tutte le furie! - rincarò la dose Gambrath.
- E che cazzo dovrei fare? Ammazzarli tutti io
per prima? - disse Dora arrabbiandosi. Ora la
parte della guerriera invincibile le stava un po'
stretta.
- Non sta a noi dirlo - disse Cambler. Altro
era sottinteso nelle sue parole.
- Ma andate a cagare! Tu, col carro: accompagnami
fino al Varco. Andiamo!
Dora si diresse con passo spedito verso la
porticina, rimasta aperta, che metteva in
comunicazione con la stalla. Era seguita dal
timoroso Gambrath, che non aveva osato
contraddirla.
Non appena dentro la stalla, Dora si accorse
che c’era qualcosa che non andava. Uno dei
cavalli mancava e, se la memoria non l’ingannava,
proprio quello di Kail. Inoltre i ceppi che
l’avevano tenuta prigioniera erano scomparsi. Sopra
la sua testa sentiva frusciare il fieno legato
in balle, segno che il bel figliolo dell’oste
era già tornato al lavoro: si rivolse a lui.
- Chi ha preso il cavallo che manca? - disse al
ragazzo che aveva già chiuso il buco nel
tetto. Questi interruppe il suo lavoro, la
guardò per qualche secondo e poi allargò le
forti braccia.
- Tu ne sai qualcosa? - disse rivolta a
Gambrath. Questi negò energicamente.
Dora allora uscì dalla porta grande della stalla
per vedere se forse il cavallo, legato male,
fosse scappato spaventato dai rumori del
combattimento. Ma fuori non c’era nessun cavallo:
non si vedevano nemmeno quelli dei soldati, che
non erano certo arrivati a piedi. Pensò che uno
di loro fosse sopravvissuto e che avesse rubato
il cavallo di Kail per fuggire. In tal caso la
possibilità che arrivassero davvero i rinforzi
si facevano più elevate. Volse lo sguardo tutto i
ntorno per cercare di distinguere qualcosa: la
giornata era soleggiata e lo sguardo riusciva ad
arrivare lontano. Poi gli occhi incontrarono
il cadavere del centurione e… con un tuffo al
cuore, Dora si accorse che il corpo di Kail
non c’era più. Corse lì dove l’aveva visto
cadere, a pochi metri dalla porta di ingresso
dell’edificio, ma sulla terra gelata non c’era
neanche la più piccola traccia di sangue.
Seduta di fianco al mercante, a cassetta sul
carro, Dora ebbe la netta sensazione che
l’incertezza e la paura che le covavano nel
petto non erano dovute non solo alla ferita,
e nemmeno al fatto che Kail fosse in giro,
magari proprio da quelle parti. Man mano che
si avvicinava al Varco, che poteva sentire
distintamente come sempre, si era resa conto
che c’era qualcosa di insolito nelle sensazioni
che si irradiavano da esso e che le fluivano
dentro, come se lei fosse l’antenna di
un’apparecchiatura sensibile a un genere di
trasmissione sconosciuto. Quando vi fu davanti,
si rese conto che effettivamente qualcosa non
andava: c’era un componente ignoto nelle
sensazioni che fluivano ora molto forti in
lei, in piedi a pochi passi dal Varco
invisibile. Sentì alle sue spalle il carro
del mercante che si rimetteva in movimento.
- Aspetta! - gli gridò, temendo qualcosa
a cui non riusciva a dare nome.
Il mercante si fermò subito, temendo per la
sua vita se avesse fatto un passo di troppo
dopo l’ordine di arrestarsi. Tremava ancora al
pensiero di quei terribili tuoni che si erano
abbattuti sui soldati che li assediavano, opera
della guerriera ferita a cui per prudenza non
aveva nemmeno rivolto la parola durante il
viaggio.
Dora tese la destra in avanti fino a dove giudicò
l’avrebbe vista dissolversi nel nulla, nel
Varco. Ma non appena le prime falangi sparirono
davanti ai suoi occhi, un terribile dolore
le esplose nel cervello, tale da farla gridare
e ritrarre per riflesso il braccio teso. Il
dolore cessò subito: Dora spaventata
controllò la sua mano destra, temendo
il peggio. Era tutta d’un pezzo e
illesa. Mosse le dita per sicurezza, ma
non c’era traccia di ferite o lesioni di
alcun genere. Del dolore che aveva provato
le rimaneva solo il ricordo.
- Merda... - disse a voce bassa. Si concentrò
sul Varco, ma non riuscì a liberarsi di
quella sensazione anomala che ne traspirava. Non
osando riprovare a tendere di nuovo la mano,
Dora cadde in un profondo sconforto. Avrebbe
voluto tornare a casa: indebolita dalla ferita,
davanti al Varco che la respingeva, non si
sentiva più così a suo agio in quel mondo,
non si sentiva più invulnerabile e pronta a
tutto. E il dubbio la rodeva sempre più.
- Tu! Dove sei diretto?
Gambrath, colto di sorpresa, non seppe cosa
rispondere e cominciò a balbettare qualcosa
senza significato.
- Va bene, allora vengo con te.
- M-ma nobile guerriera… se incontrassimo
i soldati io… - cominciò il mercante.
- Non ti preoccupare dei soldati, ho
ancora un braccio sano. Devo trovare un
posto per ripulirmi un po' che non sia
quella taverna - disse Dora cercando di
recuperare un po' di saldezza mostrando
arroganza e sicurezza di sé all’uomo del
carro.
- Ma a tre giorni di viaggio da qui
c’è Taliba!
- Per me va bene. Basta che mi porti
dove ci sia un po' di civiltà.
Gambrath, con la morte nel cuore, non
poté far altro che spronare il bue bianco
e dirigersi verso Taliba. Temeva che le
guardie lo riconoscessero e lo accusassero
anche della morte del centurione Skon e
degli altri soldati, temeva che avere la
guerriera al suo fianco gli avrebbe
garantito sciagure anziché protezione. Ma
come avrebbe potuto contraddirla? Era
così forte che l’avrebbe ucciso con un
mano sola: aveva visto con quale facilità
aveva ucciso il centurione Skon quasi
tagliandolo in due nonostante la corazza
che quello indossava. Come convincerla
che sarebbero andati incontro a morte
certa?
- Onorevole guerriera - cominciò Gambrath
dopo aver riflettuto a lungo, parlando
scegliendo le parole e con voce tremante
per la paura di offendere la donna guerriera -
non credo, se mi permettete, che evitare
la stazione di posta sia una scelta…
come dire…
- Saggia? - lo aiutò Dora, che riemergeva
dalle più lugubri congetture sulla sua
situazione.
- Ecco, intendevo… Taliba è una grande
città, con mura e porte sorvegliate. Se
ci presentassimo così come siamo ora, ecco…
sarebbe come una condanna a morte…
Dora ci rifletté un po'. Effettivamente
l’uomo non aveva tutti i torti: se si fosse
lavata alla stazione di posta sarebbe stato
meglio. Ma se dopo quasi un giorno di viaggio
per andare e tornare dal Varco intransitabile,
vi avesse trovato miriadi di soldati che
indagavano sulla strage dei loro compagni? Ci
sarebbe voluto un carro armato per
difendersi, e lei non era in grado di
materializzarlo. Ancora una volta cadde
nello sconforto: se ci fosse stato Marcus,
il tank non sarebbe stato un problema: lui
ci sarebbe sicuramente riuscito.
- Va bene - disse infine, a bassa voce - ma
se tenti di tagliare la corda, ti ammazzo
strappandoti il cuore con le mani, hai
capito?
Gambrath impallidì al suono di quelle
parole. Pensava proprio di fuggire dopo
aver istruito Lerea a prendersi cura con
la maggior attenzione e lentezza possibile
della guerriera lorda di sangue. Temeva che
non avrebbe funzionato e ora, sentita la
punizione che avrebbe subito, non aveva più
alcuna intenzione di tentare la fuga.
Arrivarono alla stazione di posta poco prima
di sera. Non c’era nessun soldato: regnava una
quiete assoluta. L’oste e suo figlio avevano
scavato diverse fosse per seppellire i cadaveri,
ma la terra gelata aveva rallentato il loro lavoro
e la maggior parte dei cadaveri era stata
ammucchiata nella stalla. Nessun altro li aveva
aiutati: tutti i viandanti ospitati se n’erano
precipitosamente andati poco dopo la partenza di
Gambrath e Dora, che avevano così a propria
disposizione tutto lo spazio che desideravano. Così
Dora poté lavarsi con cura, aiutata da Lerea e fu
a stento convinta da Gambrath e da Cambler che
non si poteva viaggiare di notte, essendo i
pericoli già fin troppo numerosi di giorno.
Trascorsa una notte alla stazione di posta,
partirono molto presto la mattina seguente, Gambrath
immerso profondamente in lugubri pensieri cercava
di immaginarsi cosa gli sarebbe capitato se fosse
giunto vivo a Taliba; Dora stretta nel saio scuro
della ragazza che le aveva arrestato l’emorragia,
sperava ardentemente di incontrare un altro Varco
attraverso il quale cercare di tornare a
casa. Diversamente, una volta a Taliba, questa
grande città di cui il mercante parlava
malvolentieri, avrebbe cercato qualcuno che
potesse darle indicazioni a riguardo.
Il viaggio fu abbastanza tranquillo: solo il
terzo giorno i due furono tormentati da una
sottile pioggia fredda che però cessò quando
furono in vista delle mura della città. Dora,
che non era mai stata in un centro abitato così
grande, osservò con curiosità e interesse le mura
lontane. Man mano che il carro si avvicinava
riusciva a distinguere un numero sempre maggiore
di dettagli: i merli delle mura, la forma della
grande Porta del Nord, come l’aveva chiamata
Gambrath, le orribili decorazioni che vi pendevano
intorno. Quando Dora seppe cosa fossero quegli
strani oggetti che pendevano dalle mura qua e
là intorno alla porta, non poté fare a meno di
provare paura: c’era qualcuno così crudele da
compiere atti simili senza che neanche una di
tutte quelle persone dicesse qualcosa,
protestasse o provasse a fermarlo. Le sue
velleità di giustiziere ricevettero un duro
colpo.
Osservò Gambrath pagare uno stupido pedaggio,
soffrendo per non poter intervenire; rabbrividì
all’odore dei cadaveri in putrefazione nelle
gabbie sospese pochi metri sopra la sua
testa. Tutto, il traffico di gente, le enormi
cavalcature dei soldati, la città con le sue
alte mura e i suoi palazzi addossati l’uno
all’altro, tutto passava in secondo piano. La
morte, una morte stupida e atroce, la miseria
degli accattoni della tendopoli che circondava
la città, bambini nudi coperti di piaghe,
denutriti, che tendevano un mano biascicando
cantilene incomprensibili ma angoscianti, la
violenza del povero sul povero per assicurarsi
il possesso di un lurido avanzo. Con questo
strazio nell’animo, impotente, Dora entrò in
Taliba, caotica città fatta di molta miseria,
redditizio commercio e assurda violenza.
- Dove mi stai portando? - chiese al mercante
che aveva cambiato espressione una volta varcata
la grande porta.
- Al mercato a cercare qualcosa da mangiare:
ho fame.
- Buona idea.
A rilento, fermandosi più volte per via del
traffico caotico di persone e carri, Gambrath
riuscì a raggiungere una grande piazza dove sotto
tendoni colorati umidi di pioggia erano esposte
diverse mercanzie, cibi di ogni tipo, modesti o
ricchi e prelibati. Alcuni cucinavano lì, in mezzo
alla gente, vendendo il cibo cotto servendolo su
strani piatti morbidi che, terminato il cibo,
potevano essere mangiati a loro volta. Verso uno
di questi si diresse Gambrath con tutto il carro
e senza neanche scendere contrattò il prezzo per
due porzioni. Dopo aver pagato, mise tra le mani
di Dora una specie di pizza calda senza pomodoro e
mozzarella su cui erano stati posati quelli che
sembravano tre pezzi di spezzatino. Dora ne
assaggiò uno: sapeva di manzo, più o meno, ed
era caldo da scottare la lingua. Osservò il
mercante ripiegare la il disco di pane in modo
da avvolgere la carne e cominciare a mangiare
con gusto e decise di imitarlo. Non si accorse
così del vecchio che si accostò e rivolse la
parola a Gambrath.
- Mercante! Bene, sei tornato finalmente! Avrò
il mio guadagno.
- Signore! - disse Gambrath deglutendo - Quale
onore! Come posso serv…
- Seguimi! - disse il vecchio veggente,
appoggiandosi sul suo bastone nodoso e
incamminandosi.
Nuovamente condusse Gambrath in un dedalo di strette
vie dove il carro passava a malapena. Gambrath
inutilmente chiese al vecchio quale fosse il suo
guadagno. Dora martellò per tutto il viaggio il
mercante con domande riguardanti il vecchio, che
non le piaceva molto, ottenendo in risposta però
solo un confuso racconto e l’assicurazione che
concluso l’affare se ne sarebbero andati per la
loro strada e il vecchio per la sua.
Gambrath confessò di riconoscere la casa del vecchio
solo quando vi si trovò davanti: era una giornata
grigia e l’oscurità di quei vicoli lo aveva confuso,
facendogli sospettare che il vecchio avesse seguito
una strada diversa per giungere al basso edificio
che era la sua residenza. In passato si era trattato
di una villa abitata da gente nobile e importante
e l’ingresso principale, adiacente alla porticina
che dava sulla casa del vecchio veggente, era circondato
da uno spiazzo che la caduta dei nobili aveva trasformato
in strada. Così Gambrath non ebbe molte difficoltà a
trovare un posto dove fermare il carro in modo che
non ostruisse completamente la via; ma le parole del
vecchio lo bloccarono ancora prima che i suoi piedi
toccassero terra.
- Solo lei, mercante! Tu hai già avuto il tuo
guadagno.
- Solo io cosa? - chiese Dora, sospettosa.
Gambrath la scongiurò, per il suo buon nome di mercante,
di seguire il nobile signore con cui aveva concluso
un affare e che ora reclamava la sua parte di
guadagno. Dora ascoltò parola per parola e poi
ribatté decisa.
- Primo: non me ne frega niente della tua
reputazione. È affar tuo. Due: perché dovrei
seguire quel tizio? Non so nemmeno chi è! Terzo:
non lo seguo nemmeno per curiosità se non mi dice
dove mi porta e cosa vuole da me.
- Giovane guerriera, cosa fai qui? Hai perduto
la via di casa? Cosa ti trattiene sul carro di
quel mercante? Sei forse debole e indifesa? No, …
non lo credo… - disse il vecchio, sibillino,
appoggiato al suo bastone nodoso.
Dora rimase dapprima stupita dalle parole del
vegliardo: lo aveva ascoltato col cuore che sembrava
balzare a ogni parola. Poi aveva reagito, pensando
che non era il caso di lasciarsi sfuggire la
situazione di mano.
- Tu sai un po' troppe cose - disse saltando
giù dal carro - mi sa che mi devi qualche
spiegazione.
Il vecchio le si avvicinò e col bastone,
senza che lei se lo aspettasse o potesse
impedirlo, le diede un colpo sul petto, facendo
suonare ovattato attraverso il saio il metallo
di una delle due spesse coppe che le proteggevano
il seno.
- Seguimi, guerriera - disse lui dandole le
spalle e incamminandosi. Dora lo seguì, pensando
che non avrebbe forse dovuto temere nulla dal
vecchio, anche se un campanello d’allarme le suonava
nel cervello, suggerendole di stare all’erta e di
non fidarsi.
Lo seguì per pochi metri, fino a quando lui
aprì una piccola porta e sparì dentro il
buio. Quando fu a sua volta sulla soglia, Dora
ebbe un attimo di esitazione: l’interno era
completamente scuro eccezion fatta per le
fiammelle di molte candele che brillavano lontane.
- Entra! - sentì la voce del vecchio invitarla -
e chiudi la porta!
Fece come le fu detto e si trovò al buio. Per
sicurezza si armò di un pugnale e lo tenne
stretto nella destra, nascosto nella manica
del saio. Fece qualche passo avanti, temendo
di andare a sbattere contro qualcosa. Usava
le fiammelle delle candele come riferimento,
ma temeva qualche insidia sul pavimento.
- Non ti servirà! Non adesso!
Ancora la voce del vecchio, ancora un tuffo al
cuore. Come poteva sapere del pugnale? Un
mago? Cercò di capire da che parte provenisse,
ma sembrava che il buio se lo fosse inghiottito
e che la sua voce arrivasse da lì, da ogni
chiazza di buio lì intorno a lei. Cominciava
ad abituarsi alla poca luce e ormai distingueva
le sagome dell’arredamento e delle suppellettili
che ornavano quel posto che non era affatto
piccolo come sembrava.
- Basta scherzare! Dove sei? - disse vincendo
il nodo alla gola che le si era formato per
la tensione che stava cercando di dominare.
- Sono qui.
Dora si voltò e se lo trovò al fianco. Ebbe
voglia di afferrarlo per i suoi vestiti strani
ma non riuscì a mettere in pratica la sua
intenzione per via del braccio appeso al
collo.
- Cosa vuoi da me…? - disse cercando di
mettere decisione e convinzione nella voce,
ma senza riuscirci.
- Oh, una ferita… ben curata, sei stata
fortunata a trovare una Candriana. I loro
rimedi sono buoni.
- Falla finita e dimmi chi sei!
- Sediamoci.
Il vecchio la prese per il polso e la
trascinò con forza inaspettata verso un
mucchio di cuscini buttati in terra, sopra
diversi tappeti. Di nuovo la invitò a sedersi
e Dora non poté fare a meno di accettare. In
un attimo, senza che lei potesse fare niente,
lui le fu alle spalle e posò una mano sulla
ferita. Questa cominciò a bruciare, molto più
di quando la ragazza nella stazione di posta
ci aveva premuto la propria mano sopra con il
suo sputo, fermando l’emorragia. L’aria sembrò
non voler più uscire dai polmoni di Dora, che
avrebbe gridato con quanto fiato aveva. Il
bruciore tremendo durò un paio di secondi,
poi cessò rapidamente, finché attraverso il
tessuto del saio poté percepire unicamente
il calore e la pressione della mano del
vecchio.
- Cazzo… ti spezzo la schiena, bastardo! -
reagì con ritardo Dora alzandosi in piedi. Non
provava più alcun dolore.
- Ti ho guarito la ferita, guerriera. È questa
la tua riconoscenza?
Dora palpò e perlustrò la spalla alla ricerca di
un segno della ferita, ma non trovò altro che
la sua pelle liscia e asciutta.
- Mago fottuto…
- Vieni con me - le disse il vecchio mago. Notò
che camminava curvo, ma senza bastone.
- Guarda, e dimmi cosa vedi - le disse
indicando una parete.
Dora non trovò obiezioni e guardò. Ci mise
qualche secondo per distinguerlo dal buio
circostante, ma riuscì infine a intuire un
grande quadro che occupava gran parte della
parete. Era un quadro buio come tutto quell’antro
da stregone dei fumetti: un cielo livido che
si distingueva a malapena dal terreno nero,
una terra buia e desolata che faceva sentire
un vento freddo dentro il cuore. Notò poi
anche un lontano castello, tanto grande da
sembrare una collina a cui un mostro
gigantesco avesse mangiato via la cima
con un solo morso.
- Un castello in mezzo a un deserto buio… -
disse infine Dora.
- Guarda bene. Cos’altro?
- Boh… forme contorte… non si capisce
niente, è tutto nero!
Dora si concentrò sul quadro e fece un passo
avanti per vedere meglio, come se avvicinandosi
avesse ridotto le distanze tra sé e gli oggetti
che vi erano raffigurati. Non si accorse che
il mago aveva fatto un passo di lato e si
era messo dietro di lei.
- Guarda… cerca bene!! - e diede una vigorosa
spinta a Dora che perse l’equilibrio e cadde
nel quadro.