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Autore: Mannu    02/08/2009    0 recensioni
"L’unica cosa che Gambrath era riuscito a fare era stato rinchiudersi nella taverna più economica che fosse riuscito a trovare, dove con una moneta al giorno mangiava e dormiva insieme alla schiava, in uno stanzino piccolo e buio, puzzolente di muffa e col soffitto basso. Si era rassegnato ad aspettare che l’ira del centurione sbollisse e, vista la gente che frequentava quelle parti, dormiva con un occhio solo col terrore di essere derubato e con il coltello sempre a portata di mano."
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I libri della grande Taliba'
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Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 10
10.

Il mercante guardò ancora la ferita della guerriera dal corpo coperto di segni neri e scosse la testa. Non appena lei sollevava la mano, la ferita ricominciava a sanguinare abbondantemente. Dora, seduta su di un tavolo all’interno della stazione di posta, stringeva i denti per non mostrarsi spaventata, ma in realtà avrebbe urlato per dolore e per la paura: temeva di morire dissanguata. Il suo corpo infatti era sporco sia del sangue del centurione che le era schizzato addosso, ma soprattutto del suo che colava dappertutto e si raggrumava diventando scuro e appiccicoso.
- Ma dov’è andata Lerea? - bisbigliò a denti stretti. La schiava era uscita dicendo che poteva curare la ferita della guerriera con un rimedio, ma non era ancora rientrata.
- Ha detto che aveva bisogno di raccogliere qualcosa fuori - commentò Cambler - lasciamola fare. Hai visto com’è migliorata Rama in soli tre giorni delle sue cure?
- Davvero? Come sta? - si meravigliò il mercante.
- Sta molto meglio: mangia, parla, cammina. Si stanca presto, ma le ferite stanno guarendo in fretta. Merito di Lerea, ti dico.
- Speriamo bene… - bisbigliò Dora. Il dolore le stava causando una forte nausea e deboli capogiri.
Lerea non tardò molto. Quando entrò chiese con autorità il mortaio e il pestello di bronzo che Cambler custodiva gelosamente: lo usava per preparare le erbe della ricetta segreta con cui aromatizzava i vini che comprava a Bel’ee. Avutolo, non senza qualche ritrosia da parte dell’oste, si mise a tritare e a pestare alcuni ingredienti tolti dalla dispensa insieme a quelli che aveva raccolto fuori, producendo un ritmato rumore metallico. Dora la seguì sospettosa: non riconobbe nulla di quello che finì dentro il mortaio, sperava solo che quella ragazza sapesse quello che stava facendo e che finisse alla svelta.
Infine, dopo che ebbe pestato a lungo correggendo con attenzione i dosaggi e assaggiando di tanto in tanto il risultato, la ragazza sollevò un lembo del proprio vestito di veli e ci versò sopra il contenuto del mortaio di bronzo. Poi vi chiuse la pappa scura che aveva ottenuto e la strizzò con forza sopra un bicchiere di coccio, ottenendo un liquido scuro. Rimise la pappa dentro il mortaio, allungò quel poco liquido che era riuscita a filtrare con dell’acqua e andò da Dora. Questa guardò con sospetto il bicchiere che la prosperosa ragazza le porgeva, poi la grande macchia scura che le era rimasta sul vestito, poi di nuovo il bicchiere.
- Che cosa sarebbe? - chiese stando sul chi va là.
- Il rimedio, signora. Lo beva tutto: quando sente la bocca diventare amara, sputi tre volte sulla mia mano.
Dora cercò di convincersi di non avere scelta e, staccata con cautela la destra dalla ferita che si era appiccicata per via del sangue coagulato, afferrò il bicchiere e bevve rapidamente: la ferita inferta dal centurione aveva ricominciato a sanguinare più rapidamente.
La bevanda diluita aveva un vago sapore di carota, pungeva il palato e la lingua, ma non era amaro e neanche tanto sgradevole. Non appena ebbe deglutito anche l’ultimo sorso, il sapore rimasto in bocca cominciò a cambiare, dandole una sgradevole sensazione ai denti. Il sapore stava diventando decisamente amaro e la salivazione aumentò.
- È amaro, signora? - chiese Lerea interpretando l’espressione di disgusto che si dipinse sulla faccia della guerriera, nonostante i segni neri che la incupivano.
- Bleah… - fu la risposta. Dora avrebbe voluto deglutire, ma non ne ebbe il coraggio.
- Sputi sulla mia mano. Tre volte - le disse la ragazza che le aveva preparato quella porcheria, stendendo una mano col palmo verso l’alto. Dora ubbidì e si stupì di quanto rapidamente riusciva a produrre quella schifosa saliva verde.
Poi con l’altra mano la ragazza tolse la destra di Dora dalla ferita e ci appoggiò con decisione il palmo su cui Dora aveva sputato. Colta di sorpresa, non riuscì a trattenere un grido di dolore quando la ragazza compresse fortemente la ferita mischiando sangue e saliva. Inarcò la schiena e con la destra cercò di staccare la mano della ragazza dalla sua spalla. Questa reagì abbracciandola fortemente e impedendole i movimenti.
- Mollami, cazzo! Mi fai male!
- No, signora! Bisogna attendere che il rimedio faccia effetto! - si giustificò Lerea.
La ragazza le rimase attaccata addosso per qualche minuto: il dolore al braccio era tornato a un livello sopportabile e Dora aveva perfino ricacciato indietro le lacrime che avevano dolorosamente tentato di sgorgare dagli occhi.
- Va bene - disse infine Lerea allontanandosi da Dora, dopo aver sollevato con cautela la propria mano, rossa di sangue fresco, dalla ferita - Non lavi la ferita per sette giorni, poi la lavi spesso per nove giorni con acqua limpida. Più di così non so fare.
Lerea si allontanò senza aggiungere altro. Tutti guardavano stupiti la ferita slabbrata che non sanguinava più.
- Porca puttana… - commentò Dora dando un’occhiata. Saltò giù dal tavolo facendo attenzione a non muovere il braccio ferito e si dette un’occhiata intorno: aveva gli occhi di tutti su di sé. Cominciava a sentirsi davvero debole.
- Di chi è il carro che c’è nella stalla? - chiese.
Gambrath esitò un attimo, poi rispose balbettando.
- Dammi uno strappo fino al Varco... ho voglia di tornarmene a casa a farmi vedere da un dottore vero.
- Non vorrai andartene adesso, vero? - osò Cambler. Dora gli rivolse uno sguardo truce.
- Perché?
- Altri soldati verranno non vedendo tornare il centurione che tu hai ucciso. Uccideranno e devasteranno quando vedranno il suo cadavere!
- Seppellitelo, no? - suggerì Dora con un po' di stizza nella voce.
- Nobile guerriera - continuò Cambler - i soldati non si fermeranno davanti a delle tombe. E se nasconderemo i corpi, la terra gelata conserverà le tracce della battaglia molto a lungo. Sarà impossibile sostenere che qui non è accaduto nulla!
- Ma perché dovrebbero prendersela con voi? Dite che è stato Kail, tanto è morto pure lui.
- Tu non conosci i soldati della guarnigione di Taliba, nobile guerriera. Essi depredano, violentano, uccidono e distruggono anche senza motivo. La vista di questa carneficina li farà andare su tutte le furie! - rincarò la dose Gambrath.
- E che cazzo dovrei fare? Ammazzarli tutti io per prima? - disse Dora arrabbiandosi. Ora la parte della guerriera invincibile le stava un po' stretta.
- Non sta a noi dirlo - disse Cambler. Altro era sottinteso nelle sue parole.
- Ma andate a cagare! Tu, col carro: accompagnami fino al Varco. Andiamo!
Dora si diresse con passo spedito verso la porticina, rimasta aperta, che metteva in comunicazione con la stalla. Era seguita dal timoroso Gambrath, che non aveva osato contraddirla.
Non appena dentro la stalla, Dora si accorse che c’era qualcosa che non andava. Uno dei cavalli mancava e, se la memoria non l’ingannava, proprio quello di Kail. Inoltre i ceppi che l’avevano tenuta prigioniera erano scomparsi. Sopra la sua testa sentiva frusciare il fieno legato in balle, segno che il bel figliolo dell’oste era già tornato al lavoro: si rivolse a lui.
- Chi ha preso il cavallo che manca? - disse al ragazzo che aveva già chiuso il buco nel tetto. Questi interruppe il suo lavoro, la guardò per qualche secondo e poi allargò le forti braccia.
- Tu ne sai qualcosa? - disse rivolta a Gambrath. Questi negò energicamente.
Dora allora uscì dalla porta grande della stalla per vedere se forse il cavallo, legato male, fosse scappato spaventato dai rumori del combattimento. Ma fuori non c’era nessun cavallo: non si vedevano nemmeno quelli dei soldati, che non erano certo arrivati a piedi. Pensò che uno di loro fosse sopravvissuto e che avesse rubato il cavallo di Kail per fuggire. In tal caso la possibilità che arrivassero davvero i rinforzi si facevano più elevate. Volse lo sguardo tutto i ntorno per cercare di distinguere qualcosa: la giornata era soleggiata e lo sguardo riusciva ad arrivare lontano. Poi gli occhi incontrarono il cadavere del centurione e… con un tuffo al cuore, Dora si accorse che il corpo di Kail non c’era più. Corse lì dove l’aveva visto cadere, a pochi metri dalla porta di ingresso dell’edificio, ma sulla terra gelata non c’era neanche la più piccola traccia di sangue.

Seduta di fianco al mercante, a cassetta sul carro, Dora ebbe la netta sensazione che l’incertezza e la paura che le covavano nel petto non erano dovute non solo alla ferita, e nemmeno al fatto che Kail fosse in giro, magari proprio da quelle parti. Man mano che si avvicinava al Varco, che poteva sentire distintamente come sempre, si era resa conto che c’era qualcosa di insolito nelle sensazioni che si irradiavano da esso e che le fluivano dentro, come se lei fosse l’antenna di un’apparecchiatura sensibile a un genere di trasmissione sconosciuto. Quando vi fu davanti, si rese conto che effettivamente qualcosa non andava: c’era un componente ignoto nelle sensazioni che fluivano ora molto forti in lei, in piedi a pochi passi dal Varco invisibile. Sentì alle sue spalle il carro del mercante che si rimetteva in movimento.
- Aspetta! - gli gridò, temendo qualcosa a cui non riusciva a dare nome.
Il mercante si fermò subito, temendo per la sua vita se avesse fatto un passo di troppo dopo l’ordine di arrestarsi. Tremava ancora al pensiero di quei terribili tuoni che si erano abbattuti sui soldati che li assediavano, opera della guerriera ferita a cui per prudenza non aveva nemmeno rivolto la parola durante il viaggio.
Dora tese la destra in avanti fino a dove giudicò l’avrebbe vista dissolversi nel nulla, nel Varco. Ma non appena le prime falangi sparirono davanti ai suoi occhi, un terribile dolore le esplose nel cervello, tale da farla gridare e ritrarre per riflesso il braccio teso. Il dolore cessò subito: Dora spaventata controllò la sua mano destra, temendo il peggio. Era tutta d’un pezzo e illesa. Mosse le dita per sicurezza, ma non c’era traccia di ferite o lesioni di alcun genere. Del dolore che aveva provato le rimaneva solo il ricordo.
- Merda... - disse a voce bassa. Si concentrò sul Varco, ma non riuscì a liberarsi di quella sensazione anomala che ne traspirava. Non osando riprovare a tendere di nuovo la mano, Dora cadde in un profondo sconforto. Avrebbe voluto tornare a casa: indebolita dalla ferita, davanti al Varco che la respingeva, non si sentiva più così a suo agio in quel mondo, non si sentiva più invulnerabile e pronta a tutto. E il dubbio la rodeva sempre più.
- Tu! Dove sei diretto?
Gambrath, colto di sorpresa, non seppe cosa rispondere e cominciò a balbettare qualcosa senza significato.
- Va bene, allora vengo con te.
- M-ma nobile guerriera… se incontrassimo i soldati io… - cominciò il mercante.
- Non ti preoccupare dei soldati, ho ancora un braccio sano. Devo trovare un posto per ripulirmi un po' che non sia quella taverna - disse Dora cercando di recuperare un po' di saldezza mostrando arroganza e sicurezza di sé all’uomo del carro.
- Ma a tre giorni di viaggio da qui c’è Taliba!
- Per me va bene. Basta che mi porti dove ci sia un po' di civiltà.
Gambrath, con la morte nel cuore, non poté far altro che spronare il bue bianco e dirigersi verso Taliba. Temeva che le guardie lo riconoscessero e lo accusassero anche della morte del centurione Skon e degli altri soldati, temeva che avere la guerriera al suo fianco gli avrebbe garantito sciagure anziché protezione. Ma come avrebbe potuto contraddirla? Era così forte che l’avrebbe ucciso con un mano sola: aveva visto con quale facilità aveva ucciso il centurione Skon quasi tagliandolo in due nonostante la corazza che quello indossava. Come convincerla che sarebbero andati incontro a morte certa?
- Onorevole guerriera - cominciò Gambrath dopo aver riflettuto a lungo, parlando scegliendo le parole e con voce tremante per la paura di offendere la donna guerriera - non credo, se mi permettete, che evitare la stazione di posta sia una scelta… come dire…
- Saggia? - lo aiutò Dora, che riemergeva dalle più lugubri congetture sulla sua situazione.
- Ecco, intendevo… Taliba è una grande città, con mura e porte sorvegliate. Se ci presentassimo così come siamo ora, ecco… sarebbe come una condanna a morte…
Dora ci rifletté un po'. Effettivamente l’uomo non aveva tutti i torti: se si fosse lavata alla stazione di posta sarebbe stato meglio. Ma se dopo quasi un giorno di viaggio per andare e tornare dal Varco intransitabile, vi avesse trovato miriadi di soldati che indagavano sulla strage dei loro compagni? Ci sarebbe voluto un carro armato per difendersi, e lei non era in grado di materializzarlo. Ancora una volta cadde nello sconforto: se ci fosse stato Marcus, il tank non sarebbe stato un problema: lui ci sarebbe sicuramente riuscito.
- Va bene - disse infine, a bassa voce - ma se tenti di tagliare la corda, ti ammazzo strappandoti il cuore con le mani, hai capito?
Gambrath impallidì al suono di quelle parole. Pensava proprio di fuggire dopo aver istruito Lerea a prendersi cura con la maggior attenzione e lentezza possibile della guerriera lorda di sangue. Temeva che non avrebbe funzionato e ora, sentita la punizione che avrebbe subito, non aveva più alcuna intenzione di tentare la fuga.
Arrivarono alla stazione di posta poco prima di sera. Non c’era nessun soldato: regnava una quiete assoluta. L’oste e suo figlio avevano scavato diverse fosse per seppellire i cadaveri, ma la terra gelata aveva rallentato il loro lavoro e la maggior parte dei cadaveri era stata ammucchiata nella stalla. Nessun altro li aveva aiutati: tutti i viandanti ospitati se n’erano precipitosamente andati poco dopo la partenza di Gambrath e Dora, che avevano così a propria disposizione tutto lo spazio che desideravano. Così Dora poté lavarsi con cura, aiutata da Lerea e fu a stento convinta da Gambrath e da Cambler che non si poteva viaggiare di notte, essendo i pericoli già fin troppo numerosi di giorno.
Trascorsa una notte alla stazione di posta, partirono molto presto la mattina seguente, Gambrath immerso profondamente in lugubri pensieri cercava di immaginarsi cosa gli sarebbe capitato se fosse giunto vivo a Taliba; Dora stretta nel saio scuro della ragazza che le aveva arrestato l’emorragia, sperava ardentemente di incontrare un altro Varco attraverso il quale cercare di tornare a casa. Diversamente, una volta a Taliba, questa grande città di cui il mercante parlava malvolentieri, avrebbe cercato qualcuno che potesse darle indicazioni a riguardo.
Il viaggio fu abbastanza tranquillo: solo il terzo giorno i due furono tormentati da una sottile pioggia fredda che però cessò quando furono in vista delle mura della città. Dora, che non era mai stata in un centro abitato così grande, osservò con curiosità e interesse le mura lontane. Man mano che il carro si avvicinava riusciva a distinguere un numero sempre maggiore di dettagli: i merli delle mura, la forma della grande Porta del Nord, come l’aveva chiamata Gambrath, le orribili decorazioni che vi pendevano intorno. Quando Dora seppe cosa fossero quegli strani oggetti che pendevano dalle mura qua e là intorno alla porta, non poté fare a meno di provare paura: c’era qualcuno così crudele da compiere atti simili senza che neanche una di tutte quelle persone dicesse qualcosa, protestasse o provasse a fermarlo. Le sue velleità di giustiziere ricevettero un duro colpo.
Osservò Gambrath pagare uno stupido pedaggio, soffrendo per non poter intervenire; rabbrividì all’odore dei cadaveri in putrefazione nelle gabbie sospese pochi metri sopra la sua testa. Tutto, il traffico di gente, le enormi cavalcature dei soldati, la città con le sue alte mura e i suoi palazzi addossati l’uno all’altro, tutto passava in secondo piano. La morte, una morte stupida e atroce, la miseria degli accattoni della tendopoli che circondava la città, bambini nudi coperti di piaghe, denutriti, che tendevano un mano biascicando cantilene incomprensibili ma angoscianti, la violenza del povero sul povero per assicurarsi il possesso di un lurido avanzo. Con questo strazio nell’animo, impotente, Dora entrò in Taliba, caotica città fatta di molta miseria, redditizio commercio e assurda violenza.
- Dove mi stai portando? - chiese al mercante che aveva cambiato espressione una volta varcata la grande porta.
- Al mercato a cercare qualcosa da mangiare: ho fame.
- Buona idea.
A rilento, fermandosi più volte per via del traffico caotico di persone e carri, Gambrath riuscì a raggiungere una grande piazza dove sotto tendoni colorati umidi di pioggia erano esposte diverse mercanzie, cibi di ogni tipo, modesti o ricchi e prelibati. Alcuni cucinavano lì, in mezzo alla gente, vendendo il cibo cotto servendolo su strani piatti morbidi che, terminato il cibo, potevano essere mangiati a loro volta. Verso uno di questi si diresse Gambrath con tutto il carro e senza neanche scendere contrattò il prezzo per due porzioni. Dopo aver pagato, mise tra le mani di Dora una specie di pizza calda senza pomodoro e mozzarella su cui erano stati posati quelli che sembravano tre pezzi di spezzatino. Dora ne assaggiò uno: sapeva di manzo, più o meno, ed era caldo da scottare la lingua. Osservò il mercante ripiegare la il disco di pane in modo da avvolgere la carne e cominciare a mangiare con gusto e decise di imitarlo. Non si accorse così del vecchio che si accostò e rivolse la parola a Gambrath.
- Mercante! Bene, sei tornato finalmente! Avrò il mio guadagno.
- Signore! - disse Gambrath deglutendo - Quale onore! Come posso serv…
- Seguimi! - disse il vecchio veggente, appoggiandosi sul suo bastone nodoso e incamminandosi.
Nuovamente condusse Gambrath in un dedalo di strette vie dove il carro passava a malapena. Gambrath inutilmente chiese al vecchio quale fosse il suo guadagno. Dora martellò per tutto il viaggio il mercante con domande riguardanti il vecchio, che non le piaceva molto, ottenendo in risposta però solo un confuso racconto e l’assicurazione che concluso l’affare se ne sarebbero andati per la loro strada e il vecchio per la sua.
Gambrath confessò di riconoscere la casa del vecchio solo quando vi si trovò davanti: era una giornata grigia e l’oscurità di quei vicoli lo aveva confuso, facendogli sospettare che il vecchio avesse seguito una strada diversa per giungere al basso edificio che era la sua residenza. In passato si era trattato di una villa abitata da gente nobile e importante e l’ingresso principale, adiacente alla porticina che dava sulla casa del vecchio veggente, era circondato da uno spiazzo che la caduta dei nobili aveva trasformato in strada. Così Gambrath non ebbe molte difficoltà a trovare un posto dove fermare il carro in modo che non ostruisse completamente la via; ma le parole del vecchio lo bloccarono ancora prima che i suoi piedi toccassero terra.
- Solo lei, mercante! Tu hai già avuto il tuo guadagno.
- Solo io cosa? - chiese Dora, sospettosa.
Gambrath la scongiurò, per il suo buon nome di mercante, di seguire il nobile signore con cui aveva concluso un affare e che ora reclamava la sua parte di guadagno. Dora ascoltò parola per parola e poi ribatté decisa.
- Primo: non me ne frega niente della tua reputazione. È affar tuo. Due: perché dovrei seguire quel tizio? Non so nemmeno chi è! Terzo: non lo seguo nemmeno per curiosità se non mi dice dove mi porta e cosa vuole da me.
- Giovane guerriera, cosa fai qui? Hai perduto la via di casa? Cosa ti trattiene sul carro di quel mercante? Sei forse debole e indifesa? No, … non lo credo… - disse il vecchio, sibillino, appoggiato al suo bastone nodoso.
Dora rimase dapprima stupita dalle parole del vegliardo: lo aveva ascoltato col cuore che sembrava balzare a ogni parola. Poi aveva reagito, pensando che non era il caso di lasciarsi sfuggire la situazione di mano.
- Tu sai un po' troppe cose - disse saltando giù dal carro - mi sa che mi devi qualche spiegazione.
Il vecchio le si avvicinò e col bastone, senza che lei se lo aspettasse o potesse impedirlo, le diede un colpo sul petto, facendo suonare ovattato attraverso il saio il metallo di una delle due spesse coppe che le proteggevano il seno.
- Seguimi, guerriera - disse lui dandole le spalle e incamminandosi. Dora lo seguì, pensando che non avrebbe forse dovuto temere nulla dal vecchio, anche se un campanello d’allarme le suonava nel cervello, suggerendole di stare all’erta e di non fidarsi.
Lo seguì per pochi metri, fino a quando lui aprì una piccola porta e sparì dentro il buio. Quando fu a sua volta sulla soglia, Dora ebbe un attimo di esitazione: l’interno era completamente scuro eccezion fatta per le fiammelle di molte candele che brillavano lontane.
- Entra! - sentì la voce del vecchio invitarla - e chiudi la porta!
Fece come le fu detto e si trovò al buio. Per sicurezza si armò di un pugnale e lo tenne stretto nella destra, nascosto nella manica del saio. Fece qualche passo avanti, temendo di andare a sbattere contro qualcosa. Usava le fiammelle delle candele come riferimento, ma temeva qualche insidia sul pavimento.
- Non ti servirà! Non adesso!
Ancora la voce del vecchio, ancora un tuffo al cuore. Come poteva sapere del pugnale? Un mago? Cercò di capire da che parte provenisse, ma sembrava che il buio se lo fosse inghiottito e che la sua voce arrivasse da lì, da ogni chiazza di buio lì intorno a lei. Cominciava ad abituarsi alla poca luce e ormai distingueva le sagome dell’arredamento e delle suppellettili che ornavano quel posto che non era affatto piccolo come sembrava.
- Basta scherzare! Dove sei? - disse vincendo il nodo alla gola che le si era formato per la tensione che stava cercando di dominare.
- Sono qui.
Dora si voltò e se lo trovò al fianco. Ebbe voglia di afferrarlo per i suoi vestiti strani ma non riuscì a mettere in pratica la sua intenzione per via del braccio appeso al collo.
- Cosa vuoi da me…? - disse cercando di mettere decisione e convinzione nella voce, ma senza riuscirci.
- Oh, una ferita… ben curata, sei stata fortunata a trovare una Candriana. I loro rimedi sono buoni.
- Falla finita e dimmi chi sei!
- Sediamoci.
Il vecchio la prese per il polso e la trascinò con forza inaspettata verso un mucchio di cuscini buttati in terra, sopra diversi tappeti. Di nuovo la invitò a sedersi e Dora non poté fare a meno di accettare. In un attimo, senza che lei potesse fare niente, lui le fu alle spalle e posò una mano sulla ferita. Questa cominciò a bruciare, molto più di quando la ragazza nella stazione di posta ci aveva premuto la propria mano sopra con il suo sputo, fermando l’emorragia. L’aria sembrò non voler più uscire dai polmoni di Dora, che avrebbe gridato con quanto fiato aveva. Il bruciore tremendo durò un paio di secondi, poi cessò rapidamente, finché attraverso il tessuto del saio poté percepire unicamente il calore e la pressione della mano del vecchio.
- Cazzo… ti spezzo la schiena, bastardo! - reagì con ritardo Dora alzandosi in piedi. Non provava più alcun dolore.
- Ti ho guarito la ferita, guerriera. È questa la tua riconoscenza?
Dora palpò e perlustrò la spalla alla ricerca di un segno della ferita, ma non trovò altro che la sua pelle liscia e asciutta.
- Mago fottuto…
- Vieni con me - le disse il vecchio mago. Notò che camminava curvo, ma senza bastone.
- Guarda, e dimmi cosa vedi - le disse indicando una parete.
Dora non trovò obiezioni e guardò. Ci mise qualche secondo per distinguerlo dal buio circostante, ma riuscì infine a intuire un grande quadro che occupava gran parte della parete. Era un quadro buio come tutto quell’antro da stregone dei fumetti: un cielo livido che si distingueva a malapena dal terreno nero, una terra buia e desolata che faceva sentire un vento freddo dentro il cuore. Notò poi anche un lontano castello, tanto grande da sembrare una collina a cui un mostro gigantesco avesse mangiato via la cima con un solo morso.
- Un castello in mezzo a un deserto buio… - disse infine Dora.
- Guarda bene. Cos’altro?
- Boh… forme contorte… non si capisce niente, è tutto nero!
Dora si concentrò sul quadro e fece un passo avanti per vedere meglio, come se avvicinandosi avesse ridotto le distanze tra sé e gli oggetti che vi erano raffigurati. Non si accorse che il mago aveva fatto un passo di lato e si era messo dietro di lei.
- Guarda… cerca bene!! - e diede una vigorosa spinta a Dora che perse l’equilibrio e cadde nel quadro.
   
 
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