11.
Si rialzò da terra più rapidamente che poté
e si voltò intenzionata a riempire di botte
il mago, anche se era un vecchio. Ma intorno
a sé era tutto cambiato. Le fiammelle tremolanti
delle candele non c’erano più, non c’erano più i
tappeti, i mobili e le strane suppellettili che
decoravano quella specie di tana. Non c’era più
neanche la casa con le sue pareti: si trovava
all’aperto, in un luogo molto buio, spazzato da
un vento gelido che le frustava la pelle come
se il saio che indossava non ci fosse. Alzò gli
occhi al cielo e distinse a fatica il veloce
rincorrersi di turbolente nuvole livide, così
scure che a stento si poteva vederle arrotolarsi
le une sulle altre. Si guardò intorno, girandosi
in tutte le direzioni: pietre, alberi morti,
sterpaglie secche, un terreno duro e freddo e non
un’anima viva. Non riusciva nemmeno a distinguere
la linea dell’orizzonte.
Era in preda al panico: un Varco, non poteva essere stato
nient’altro. Ma come aveva potuto non accorgersi della
sua presenza? Alla distanza a cui si era trovata, avrebbe
dovuto percepirlo con molta chiarezza, come se avesse
potuto vederlo. Anche in quel momento, non aveva fatto
che due o tre passi dal punto dov’era caduta: come poteva
non percepire nulla? Provò a orientarsi nuovamente, tentò
di ritrovare il Varco procedendo a casaccio, per
tentativi. Niente di niente, era così buio che non riusciva
nemmeno a capire quando girando su se stessa tornava a
guardare nella stessa direzione.
Le vennero le lacrime agli occhi: non sapeva che fare. E
per di più, se non avesse trovato il modo di uscire da lì,
sarebbe morta congelata: non sapeva che posto fosse, ma
faceva davvero freddo.
Non sapendo che fare, cominciò a camminare in una direzione
a caso. Piano piano i suoi occhi si abituarono al buio e
scoprì così che quel maledetto posto non era così buio. Dal
cielo pioveva una scarsa luce che non riusciva nemmeno a
tracciare ombre per terra, ma le dava qualche decina di
metri di visibilità. La debole luminosità del cielo le
permise di stabilire che quel posto, come molti altri,
aveva anche lui un orizzonte: maledettamente piatto e
indistinto, ma c’era.
Camminò cercando di difendersi dal freddo come poteva fino
a quando sentì gli zoccoli di un cavallo al galoppo
avvicinarsi alle sue spalle.
Si voltò e ben presto il cavallo le fu vicino. Il galoppo
si ridusse al passo, e poi cavallo e cavaliere emersero dal
buio. Dora sentì il cuore caderle tra i piedi. A cavallo
c’era una donna: nelle staffe aveva infilato i piedi nudi,
si teneva in sella stringendo i fianchi del cavallo con
gambe dai muscoli gonfi e poderosi, il ventre scoperto
era piatto e muscoloso anch’esso. Un mantello nero le
impediva di vedere le spalle e il petto, un elmo scuro
celava il volto e lunghi capelli neri lucidi e ribelli
sfuggivano da sotto il metallo lavorato.
Vide la donna a cavallo infilare la destra sotto il mantello
e un noto suono metallico accompagnò lo sguainare di uno
spadone simile in tutto e per tutto a quelli che usava lei
di solito. Il cavallo fu spronato e Dora si trovò
all’improvviso a dover fronteggiare una carica.
Il fendente fischiò sopra la sua testa mancandola d’un
soffio: Dora rotolò e quando fu di nuovo in piedi anche
lei era armata con i suoi due spadoni, meglio preparata
ad affrontare una nuova carica. L’avversaria era a diversi
metri da lei e sembrava trattenere il cavallo scalpitante,
per studiare una nuova tattica. Dora ne approfittò con
un’idea che le venne in quello stesso momento: trasformò
la spada nella mano destra in un pugnale da lancio e lo
scagliò con uno scatto fulmineo contro la sua ignota
avversaria. Questa incredibilmente intercettò il pugnale
con la lama dello spadone e lo deviò alle sue spalle,
illesa. Poi caricò.
Dora fece finta fino all’ultimo istante di voler parare
la carica e poi si gettò di lato, facendo roteare la sua
lama sinistra, ma questa attraversò l’aria sibilando senza
incontrare la carne dell’avversaria a cavallo. Sorpresa
dalla velocità e dalla forza della sua nemica, Dora decise
di cambiare tattica e di tentare di disarcionarla. Lasciò
perdere gli spadoni e si armò di una lunga e robusta
picca, armata anche all’estremità opposta con una palla
di metallo. Era un’arma un po' sbilanciata, ma forse le
sarebbe tornata utile per quello che aveva in mente. Come
previsto, la sua avversaria non aveva intenzione di
rinunciare al vantaggio del cavallo e la caricò ancora,
sempre armata di spada. Dora sospettò qualcosa e infatti,
a pochi metri dal punto dove sarebbe avvenuto lo scontro,
la sua nemica cambiò la spada in una robusta lancia. Ebbe
meno di un secondo per procurarsi un grosso e pesante
scudo, ma il colpo le fece lo stesso molto male al
braccio: per di più la cavallerizza aveva avuto modo
di scansare agilmente la sua picca e adesso si stava
preparando a caricare di nuovo.
Strinse i denti e cercando di ignorare il dolore al braccio,
puntò la picca in modo da costringere la nemica a non
avvicinarsi troppo, o a farlo dalla direzione che le
sarebbe risultata più svantaggiosa. Fu caricata
un’altra volta ancora e stavolta riuscì a mettere
in pratica la sua idea. Un attimo prima di essere
a tiro della lancia, Dora scartò verso il cavallo
schivando la punta dell’arma nemica e invece di
trafiggere con la picca, la fece roteare e colpì
l’avversaria in pieno con la palla di ferro. Questa
perse la lancia, sembrò adagiarsi all’indietro
subendo il galoppo del cavallo, ma poi riuscì a
tenersi alle briglie e a chinarsi sul collo
dell’animale con le braccia piegate sul corpo,
mostrando di aver decisamente accusato il
colpo.
Ci mise più tempo a preparare la carica stavolta e
Dora si rammaricò di essere a piedi: lo scontro si
sarebbe potuto concludere di lì a poco se avesse potuto
incalzare l’aggressore subito dopo aver messo a segno
quel colpo. Invece si trovò costretta a subire
un’altra carica: questa volta non poté evitare la
nuova lancia che perse la punta contro lo scudo, ma
con la palla di ferro cercò e trovò la schiena
dell’attaccante che non riuscì a stare in sella. Dora
le fu subito addosso, ma quella si rialzò rapidamente
da terra e si armò di due spade del tutto simili a
quelle che lei impugnava. A far esitare Dora un istante
di troppo fu quello che l’avversaria indossava visibile
ora per la distanza ravvicinata, attraverso il mantello
aperto: come lei aveva un corto gonnellino fatto di
numerose strisce di cuoio e di metallo tenute insieme
tra di loro da anelli metallici, mentre il seno era
protetto da due coppe di metallo borchiato trattenute
al petto da lacci di cuoio. Non aveva strisce sulla
pelle bianca, ma neanche Dora ne aveva in quel
momento: ci aveva rinunciato per non dare
nell’occhio in città.
La sua nemica approfittò di quel momento di incertezza
per attaccarla, brandendo le due spade e mulinandole
vorticosamente, costringendo Dora sulla
difensiva. Fortunatamente Dora indovinò subito
il ritmo dell’attaccante e riuscì a parare ogni
colpo, ma non riusciva a smettere di indietreggiare
e nemmeno a trovare un piccolo spazio per
contrattaccare. I colpi erano portati con grande
forza e decisione, le lame risuonavano fragorosamente
e sprizzavano scintille ogni volta che si
incontravano a mezz’aria, illuminando le smorfie
di Dora e riflettendosi sull’elmo lucido della sua
avversaria.
Poi Dora arretrando inciampò e perse l’equilibrio:
non riuscì a parare un fendente e cercò di evitarlo
con un disperato e potente colpo di reni. La punta
nemica le accarezzò il ventre aprendo una lunga
ferita. Non percepì subito il dolore, impegnata
com’era a mantenere l’equilibrio e a parare altri
colpi: aveva sentito la lama tagliarle la pelle
ma non si rese conto davvero della ferita fino
a quando non sentì il sangue caldo colare
rapidamente dal ventre fino all’inguine. Infuriata
per essere stata ferita una seconda volta,
nella carne e nello spirito, Dora cercò di
aumentare la velocità del duello: aveva il
fiato grosso, ma poteva vedere che anche il
petto dell’avversaria si alzava ed abbassava
vistosamente. Presto una delle due avrebbe
ceduto al ritmo forsennato e forse Dora
avrebbe avuto la sua occasione.
Dora ebbe per due volte consecutive la
possibilità di disarmare la sua attaccante,
ma non riuscì a far altro che graffiarle per
due volte il braccio con la punta della
spada. Era però un segno di cedimento: Dora
capì che era il momento di contrattaccare e
ignorando il dolore che dalla ferita minacciava
di salire al cervello, si sforzò di capovolgere
l’andamento del duello. Riuscì a smettere di
arretrare e con un po' di fatica iniziò ad
avanzare a sua volta. Ricevette anche lei un
graffio sul braccio quando per una disattenzione
aveva concesso all’avversaria la possibilità di
disarmarla, ma riuscì a trattenere la spada
nella mano e anzi a costringere la sconosciuta
ancor più sulla difensiva. Questa si ritirava
rapidamente, a balzi, lasciando a Dora il
sospetto che stesse tentando qualcosa in
particolare. Infatti, dopo l’ennesimo balzo,
attese che Dora si avvicinasse per tenerla
sotto pressione ed eseguì una fulminea piroetta
su se stessa, trasformando la spada destra in
una inarrestabile falce. Dora riconobbe la
mossa con cui aveva ucciso il centurione Skon
e si vide perduta: troppo tardi per cercare
di sottrarsi, reagì come le dettò
l’istinto. Incrociò le spade un istante
prima che il tremendo colpo dell’avversaria
vi si abbattesse sopra. Sentì tutta la forza
del fendente scaricarsi dalle sue spade su
mani e braccia che cedettero quasi
completamente; la lama nemica si fermò sbattendo
sull’elsa delle sue spade arrivando
pericolosamente vicina alla sua pelle. Dora
l’allontanò con una lama mentre con l’altra
cercava il ventre indifeso della cavallerizza
disarcionata, ma questa era saltata all’indietro
così rapidamente che Dora affettò solo aria
col suo fendente. Contenta di aver parato
quel colpo, furente per aver avuto il corpo
della sua avversaria così vicino e non
essere riuscita ad approfittarne, caricò a
testa bassa, entrambe le sue lame puntate
in avanti, intenzionata a non dare all’altra
un solo attimo di tregua.
Vide la lama balenare troppo vicino a lei e
scartò a sinistra con troppo ritardo: un lampo
di dolore le trafisse il cervello mentre la
punta della lama avversaria le trapassava un
fianco. Ebbe poco tempo per il dolore: dovette
immediatamente parare un altro attacco e poi
un altro che la costrinse con la schiena a
terra. Vide l’ombra dell’attaccante sovrastarla
e con un ultimo sforzo si sollevò di scatto
tendendo la spada destra in avanti, alla cieca,
mettendoci più forza che poté, la forza della
disperazione.
Sentì una spada cadere al suolo e non era
la sua, diventata d’un tratto così pesante
che dovette lasciarla andare. Con una mano sul
fianco da cui zampillava sangue scuro si sollevò
in piedi a fatica e si avvicinò alla sua avversaria
abbattuta, con la sua spada infilata nel ventre,
aggomitolata in posizione fetale. Con una pedata
che rischiò di farle perdere il precario equilibrio,
Dora la mise supina e con la sinistra, abbandonata
la sua spada, afferrò l’elsa di quella che sporgeva
dal corpo dell’altra donna, ancora viva, e la torse
strappando un gemito alla moribonda, causandole una
gravissima emorragia. Poi sfilò la lama e la trafisse
di nuovo, con rabbia e decisione, proprio sotto lo
sterno, cercando il cuore. Vide il corpo supino
dell’avversaria irrigidirsi e poi abbandonarsi
alla morte. La vista le si stava annebbiando sempre
più, ma doveva assolutamente levare l’elmo al cadavere,
doveva guardarla in faccia. Si inginocchiò vicino al
cadavere sempre stringendo una mano sul fianco trafitto:
il sangue sfuggiva dalle dita premute sulla ferita
condannandola alla morte per dissanguamento se non
avesse trovato soccorsi. Con la sinistra afferrò
l’elmo per la stretta fessura degli occhi e con un
po' di fatica riuscì a sfilarlo. Forse un’allucinazione
dovuta alla debolezza, al sangue perduto, alla vita
che la stava abbandonando pian piano, ma sotto l’elmo
c’era lei. Il suo viso, lo riconobbe anche se pallido
di morte e con gli occhi vitrei e immobili: era il
suo stesso viso. Vestita come lei, combatteva come
lei, stesso fisico, stessa corporatura, stesso
volto. Scostò quanto poté le coppe di metallo
insanguinate che coprivano il petto e mise a nudo
un neo che sapeva di avere sul seno sinistro,
scoprendolo identico al suo per forma e posizione.
Dora, sempre più debole e affannata, era sommersa
da mille pensieri senza né capo né coda ma il più
pressante, quello che la stava angosciando, era che
stava morendo anche lei. La ferita era troppo grave
per potersi rialzare e andare a cercare aiuto in quel
posto buio e freddo. La vista le veniva meno, si trovò
a terra senza nemmeno capire come ci era arrivata. Cercò
di alzarsi, di rimettersi almeno seduta, ma il buio e
il freddo le avvolsero le membra con una pesante coperta
gelida.
Gambrath tenuto fuori della casa del mago, salì
sul suo carro e fu tentato di andarsene, stizzito
per non poter soddisfare la sua curiosità riguardo
l’affare che il misterioso personaggio avrebbe concluso
col suo ritorno lì, accompagnato dalla guerriera. Scartò
immediatamente l’idea: se la guerriera non avesse gradito
l’essere lasciata a piedi, avrebbe potuto dargli la caccia
per tutta Taliba e oltre. L’essere permalosi era una
caratteristica comune a tutti gli appartenenti alla
casta dei guerrieri e Gambrath non aveva bisogno di nemici
di nessun genere.
Trascorse quindi con pazienza il breve lasso di tempo
che lo separò dall’apparizione dell’uomo.
Lo vide uscire dalla porta della casa del mago: era alto,
con una folta barba e due occhi che facevano paura: il
mercante non poté fare a meno di fissarlo. Coperto da un
bel mantello, si guardò intorno rapidamente, come se cercasse
qualcosa in particolare. Incrociò per un attimo gli occhi con
quelli di Gambrath e il cuore del mercante perse un colpo:
ebbe la sensazione che quello sguardo malvagio fosse proprio
diretto a lui e gli parve perfino che l’uomo dalla barba nera
piegasse gli angoli della bocca in un sorriso crudele prima
di scomparire tra la folla della strada con passo agile e
veloce.
Gambrath rimase parecchio a pensare cosa avrebbe potuto
essere successo. Sicuramente quell’uomo doveva essere
ospitato dal vecchio mago: gli era apparso per pochi istanti,
ma era sicuro che non poteva essere uscito da nessun posto se
non dalla porticina della casa del mago. Probabilmente entrava
anche lui nell’affare, ma non avendo nessun legame con lui, si
chiese che ruolo potesse avere in tutta la faccenda.
Solo quando le sue natiche cominciarono a risentire
della posizione seduta il mercante cominciò a chiedersi
che fine avesse fatto la guerriera. Non era certo un tipo
coraggioso lui, ma la sua curiosità talvolta gli aveva
procurato dei guai. Fu per curiosità infatti che si decise
a scendere dal carro e ad avvicinarsi alla porta della
casa del vecchio mago. Era chiusa e nessun suono era
percepibile attraverso di essa. Si chiese come i due
avrebbero preso una eventuale interruzione, qualsiasi
cosa stessero facendo lì dentro: in fin dei conti lui
desiderava sapere solo se poteva andarsene oppure no. Tutto
quel tempo passato ad attendere per un mercante come lui
era tempo davvero sprecato. Pensò che probabilmente la
guerriera avrebbe mal tollerato l’intrusione e lo avrebbe
picchiato, quindi tornò timoroso sui suoi passi fino al
carro. Ma poco dopo, vedendo che non era successo ancora
nulla, si diresse un po' più risoluto verso la porta,
deciso almeno a bussare alla porta per vedere se otteneva
una risposta senza dover entrare.
Bussò, ma nessuno rispose. Aspettò educatamente prima di
bussare ancora, ma non accadde nulla. Dopo aver bussato
inutilmente per la terza volta, si decise a chiamare il mago
ad alta voce, scoprendo di non conoscerne il nome, così come
non conosceva quello della guerriera. Timoroso di essere
scambiato per matto o per malintenzionato dalla gente che
transitava per la strada, non disse nulla. Ma come fare per
sapere qualcosa? Non poteva certo stare lì ad attendere
in eterno. Preso il coraggio a due mani, Gambrath decise
di entrare, pensando che con tutta probabilità la porta era
stata chiusa dall’interno.
Invece no. La porta era aperta e Gambrath entrò. Non ebbe
fatto che pochi passi dentro il buio covo del vecchio mago
che un fortissimo vento freddo lo investì, spingendolo
all’indietro. Il mercante riuscì a puntellarsi sulle sue
gambe e a resistere, ma non poté impedire che il vento
chiudesse la porta d’ingresso, privandolo della luce del
giorno che proveniva attraverso di essa. Non appena la
porta si fu chiusa sbattendo, il vento cessò e Gambrath
fu al buio. Rimase fermo in piedi aspettandosi di vedere
le fiammelle delle candele che anche la volta precedente
non avevano tardato ad apparire, e così fu. Passò di nuovo
di fronte al quadro che lo aveva turbato la prima volta,
notando che non aveva perso nulla del suo aspetto sinistro
e della sua verosimiglianza. Poi il suo piede destro
incontrò un ostacolo inaspettato e Gambrath perse
l’equilibrio e cadde a terra.
- Maledetto! È l’ultima volta che faccio qualcosa
senza esserne convinta! - disse Dora stizzita. Non
appena il mercante era riuscita a portarla alla luce del
sole, si era subito ripresa. Nessuna ferita al fianco o al
ventre, nemmeno quella alla spalla. La sua pelle era ovunque
intatta.
- Un potente mago! - ripeté Gambrath.
- Macché! Dev’essere stato quello stronzo barbuto
che hai visto uscire. Mi ha colpito alla testa e
ho avuto un incubo, tutto qui.
- E adesso, che facciamo?
- Non so tu, mercante, ma io ne ho le palle piene
di questo posto, di te, del tuo mago e del tuo
affare del cazzo. Portami da qualcuno che sa qualcosa
dei varchi, che ho voglia di tornare a casa, e
ringrazia il cielo che non ti cavo le budella per
quello che mi è capitato.
Lo sapevo, pensò Gambrath: è sempre colpa di
qualcun altro.
Per non rischiare niente, il mercante decise di
ricorrere al suo amico Rambel’ Marè ed al suo nuovo
datore di lavoro, Rendel Lorente.
L’uomo di medicina aspirò una boccata di fumo
dal narghilè e stette in silenzio, pensando
alla storia che aveva appena sentito dalla
bocca del suo amico Gambrath e da quella della
sua arrogante e occasionale compagna di viaggio,
autoproclamatasi guerriera.
- Saresti tu quindi che vai seminando lutti e
dolori tra le genti di queste terre? - chiese
infine, dopo aver soffiato una nuvola di fumo
acre e odoroso. Gambrath non aveva potuto fare
a meno di vedere che il suo amico Rambel’ Marè
se la passava sempre meglio: ricche vesti, oro
appeso al collo e alle orecchie, sete, cuscini,
ottimo tabacco e aromi costosi non gli mancavano.
- Cosa intendi dire? - rispose Dora che mal sopportava
il fumo e ancora meno quell’individuo che a suo dire
si stava solo dando un sacco di arie.
- C’è un sacco di gente qui intorno che ti appenderebbe
volentieri in una gabbia. E non sono solo gli
uomini di Vorgo a volerlo.
- Bella gratitudine! Io intervengo per salvarvi il
culo, sai? Sai quanta gente ho levato dalle grinfie
di bastardi di vario calibro?
- Già, e dopo ogni tua bravata i soldati arrivano
in forze e rastrellano villaggi interi, condannando
ciascuno ai lavori forzati per punire anche la morte
di un solo soldato - rispose Rambel’ Marè, calmo.
Dora, sorpresa, non ebbe di che controbattere: non
aveva mai pensato a quella possibilità.
- Per la morte di Made, per opera tua, decine
e decine di gabbie e di impiccati hanno ornato
le mura di Taliba per lungo tempo. Se hai massacrato
anche Skon e i suoi uomini, prova solo a immaginare
cosa accadrà quando la notizia arriverà alle orecchie
del prossimo centurione. C’è già una guarnigione fissa
a Taliba, ed è fin troppo. Manderanno qui tutto
l’esercito.
- Senti, coso: se mi aiuti a trovare un Varco aperto,
sparisco per un po', che ne dici? Così vi arrangiate
da soli - disse Dora riprendendosi un po' dallo
sconforto che le aveva procurato vedersi sbattere
in faccia la propria presunzione ed egoismo. Le sue
convinzioni, sempre più incrinate, anziché
confortarla la fecero sentire come se stesse
recitando una parte.
- Non posso aiutarti: sono un uomo di medicina,
non un mago.
- Allora stiamo solo perdendo tempo - disse Dora
alzandosi bruscamente in piedi - vieni, mercante,
ce ne andiamo.
Gambrath impallidì: alzarsi in piedi prima
dell’ospite nella sua stessa dimora era una
gravissima scortesia e segno di grande insolenza
e maleducazione. A denti stretti la supplicò di
rimettersi a sedere: il suo comportamento lo stava
mettendo in grave imbarazzo, in quanto era stato lui
a condurla da Rambel’ Marè. Dora non aveva mai visto
quell’espressione sulla faccia del mercante
e si rimise a sedere. L’altro individuo,
Rambel’ Marè, la guardava con freddo distacco.
- Ho detto che io non posso aiutarti, ma
conosco qualcuno che può farlo.
- Era ora! - commentò inopportunamente Dora.
L’urlo del mago si sentì distintamente anche
fuori dalla sala dov’era entrato da solo con
Dora. Rambel’ Marè e Gambrath, rimasti fuori
ad aspettare col divieto di entrare se non
fossero stati chiamati, si guardarono l’un
l’altro chiedendosi se fosse il caso di
intervenire. Esitarono fino a quando attraverso
la porta chiusa un altro grido giunse alle
loro orecchie. Era senza dubbio il mago e
sembrava che lo stessero torturando. Gambrath
impallidì quando vide il suo amico mettere
mano alla maniglia della porta per
sbloccarla. Ma questa gli scappò via di
mano: la porta fu aperta da Dora in persona.
- Ma che gli ha preso? - chiese lei uscendo. Con
la porta aperta, il terzo grido del mago giunse
ai due con una nitidezza spaventosa.
Rambel’ Marè e Gambrath entrarono esitando. Il
mago era riverso sul tappeto e si teneva la testa
tra le mani. L’uomo di medicina lo raggiunse per
prestargli soccorso, e nel voltarlo supino entrambi
videro che aveva gli occhi rovesciati all’indietro
sotto le palpebre tremanti e il corpo sussultava
in preda a strane convulsioni.
- Nobile Mago! Che ti succede?
Un gorgoglio dal profondo della gola fu l’unica
risposta dell’uomo. Le convulsioni diminuirono
un po'.
- Forse ha avuto una visione… - suggerì
Gambrath, un po' spaventato.
- Ha detto qualcosa prima di cadere in questo
stato? - chiese l’uomo di medicina a Dora, che
osservava perplessa la scena.
- Bah… ha cominciato a blaterare cose senza senso,
parole strane… poi ha cominciato a gridare e ad agitarsi,
è caduto per terra e…
- …’iel… - rantolò il mago.
- Che ha detto? - disse Rambel’ Marè.
- È una delle parole che blaterava prima di cascare
come uno straccio - confermò Dora.
- … Dokh’iel… - disse ancora il mago, con un filo
di voce. Poi i suoi occhi si chiusero.
- Mago… Mago! - disse Rambel’ Marè scuotendo
l’anziano uomo per le spalle.
- È… - iniziò Gambrath, ma non terminò la frase.
- No, respira. Ha solo perso conoscenza.
- Ho sentito bene? Ha detto… - disse il mercante,
con tono tetro.
- Hai sentito bene, amico mio. L’ha detto -
rispose altrettanto tetro Rambel’ Marè.
- Ma insomma, che ha detto? - si spazientì Dora.
I due la guardarono come si guarderebbe un
condannato a morte.
- Lo chiamano in molti modi, ma è sempre la stessa
persona. Qui è noto come Dokh’iel - cominciò Rambel’
Marè - Per darti un’idea di cosa è capace, Vorgo
non ha dormito tranquillo fino a quando non lo ha
imprigionato.
- Per Elzer… - sospirò Gambrath pallidissimo, poi
si afflosciò sul pavimento come un sacco vuoto.
Rambel’ Marè ci mise un secondo a reagire, poi
soccorse l’amico che aveva avuto un mancamento. Gli
fece dei massaggi alle spalle e lo schiaffeggiò
fino a quando questi si riprese.
- Che ti succede, amico?
Gambrath cercò di articolare qualche parola, ma dovette
sforzarsi prima di emettere suoni comprensibili.
- …L’uomo … - ripeté più volte.
- Che uomo? - chiese Rambel’ Marè.
- L’uomo… quello che è uscito dalla casa
del mago… aveva uno sguardo cattivo, malvagio…
era lui!
- Guardate! - esclamò Dora, puntando un dito
contro il corpo del mago ancora disteso a terra. Dalla
sua bocca e dalle narici stava uscendo un denso
e cupo fumo nero.
Ma non si trattava di fumo comune, e fu chiaro subito
ai tre: lo video scivolare sul corpo del mago fino a
ricoprirlo con spire dense e gonfie, senza dissolversi
e sollevarsi in alto come avrebbe dovuto, ma rimanendo
basso come se avesse un peso vero e proprio. In breve il
fumo nero, come un sinistro essere vivente aveva
ricoperto completamente il mago trasformandolo in
un pupazzo scuro e ribollente, senza una forma
precisa, soltanto vagamente rassomigliante a un
essere umano.
Con gran sgomento di tutti il pupazzo di fumo si
sollevò dritto sui suoi piedi, sciogliendo i legami
che lo trattenevano al corpo del mago, che rimase
supino sul pavimento. Stette immobile mentre ciascuno
dei presenti arretrava inorridito. Poi si voltò di
scatto verso Dora e due bagliori rosso cupo brillarono
dentro la testa del pupazzo.
- Grazie… - una voce profonda e gutturale, cavernosa,
come nessun essere umano sarebbe mai stato in grado di
produrre, echeggiò nella stanza come se provenisse da ogni
dove - grazie, Guerriera dell’altro mondo… ma non aspettarti
trattamenti di favore…
Un braccio di fumo ribollente si tese verso Dora, che
sentiva le proprie ginocchia diventare molli. Poi un suono
orribile esplose nelle orecchie di tutti, come se la
sofferenza di un pianeta intero fosse stata gridata al
cielo tutta in una volta. Le misteriose forze di coesione
che avevano plasmato il fumo vennero improvvisamente meno
e questo si dissipò in pochi istanti, lasciando nella
stanza come segno del suo passaggio un odore orribile.
Rambel’ Marè, pallido come un morto, puntò su Dora uno
sguardo per metà accusatore e per metà terrorizzato. Questa,
non meno pallida non riusciva a capire cosa stesse
accadendo. Gambrath era nuovamente a terra, privo di
sensi.
- Che… che cosa avrà voluto dire? - riuscì a dire lei
dopo aver deglutito diverse volte.
- Me lo chiedo anch’io.
Rambel’ Marè fu il primo a mostrare di riprendersi
dallo spavento: esaminò nuovamente sia l’amico
mercante che il mago. Questo fu l’ultimo a riprendersi
e quando fu interrogato a riguardo, faticò a parlare di
quello che gli era accaduto fino a quando non fu
rinfrancato dalle cure dell’uomo di medicina e da un
bicchiere di vino dolce. Ma anche allora fu avaro di
informazioni: nei suoi occhi si leggeva un profondo
terrore per quanto gli era accaduto.
- Dokh’iel è di nuovo tra noi - disse infine - perché
qualcuno ha sciolto i legami impostigli da Vorgo, uno
della sua stessa razza. Non deve essere al meglio della
sua forma: raramente uno come me se la sarebbe cavata
dopo quello che mi ha fatto.
- Chi ha sciolto i legami? - chiese Gambrath.
- Ha poca importanza: ormai è libero - lo rimbeccò
Rambel’ Marè, ma guardando Dora.
- È stata lei - disse il mago puntando il dito
contro la guerriera che spalancò gli occhi - ma
non sapeva cosa stava facendo. C’era bisogno di
qualcuno forte abbastanza da farcela, ma che ignorasse
tutta la storia.
- Abbiamo perso di vista il motivo di tutto questo:
dove trovo un Varco aperto che mi faccia tornare
indietro?
- Tornare indietro? Dopo aver combinato un tale
danno te ne vorresti andare, Guerriera? - la accusò
Rambel’ Marè.
- Io non ho fatto proprio nulla! Non ne sapevo
niente di questo Dochié!
- Recriminare non serve a niente - disse il mago
interrompendo Rambel’ Marè che stava per rispondere
a Dora.
- Cosa suggerisci?
- I Varchi sono aperti, guerriera. Dirigiti
verso Bel’ee, ne troverai uno. Torna al tuo mondo.
- Approvo - aggiunse Rambel’ Marè.
- Ti devo staccare la testa dal collo? -
chiese Dora all’uomo di medicina.
- Vattene, Guerriera! Hai fatto abbastanza
danni da questa parte del Varco. Uccidimi pure
se credi di punire la mia arroganza: meglio morire
che essere posseduto un’altra volta dal Malvagio.
Dora aveva ripreso colore in volto, il colore
dell’ira. Avrebbe infilzato volentieri quei due,
ma aveva di meglio da fare: se poteva tornarsene
a casa, l’avrebbe fatto. Ne aveva abbastanza di
quel posto. Afferrò per un braccio il mercante e
lo trascinò fuori della casa del mago, imponendogli
di portarlo al Varco di Bel’ee.
Al povero Gambrath non rimase che mettere a
disposizione il proprio carro e puntare un’altra
volta verso la Pianura, per accontentare la Guerriera
furiosa prima che decidesse di tagliarlo in due con
un solo colpo di spada. Con malinconia e rabbia
repressa pensò che se avesse avuto una moneta per
ogni volta che aveva ripetuto quel tragitto, adesso
sarebbe un po' più ricco e magari anche meno triste.
Nel piovoso primo pomeriggio del terzo giorno di
viaggio la guerriera, seduta al suo fianco coperta
solo dalle sue armi, incurante del freddo e della
pioggia, gli intimò di fermarsi con voce piena di
soddisfazione. Lo aveva percepito già da tempo,
facendo deviare leggermente il percorso del carro
trainato dal suo nuovo bue bianco, ma adesso era
arrivata a destinazione, finalmente.
La guardò saltare giù dal carro e sprofondare
nel fango con le sue calzature alte e strane. Si
allontanò di una ventina di passi e poi si fermò:
Gambrath non vedeva niente ma dedusse che si era
fermata davanti al Varco. La vide allungare un
braccio e poi vide questo sparire nel nulla fin
quasi al gomito, letteralmente ingoiato
dall’aria. Lei ritrasse il braccio e si voltò
verso di lui con un sorriso sul volto coperto
da lugubri segni neri.
- Ciao, mercante! Ci vediamo! - lo salutò
con voce squillante, sollevando la mano in
segno di saluto.
Gambrath non seppe come ricambiare il saluto:
incerto alzò anche lui una mano, proprio un attimo
prima che la Guerriera si tuffasse letteralmente
nel Varco, scomparendo alla vista.
Con una gradevole sensazione di sollievo che gli scaldava
il cuore, Gambrath incitò il bue bianco e invertì la
direzione di marcia, diretto alla stazione di posta.