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Autore: Mannu    02/08/2009    0 recensioni
"L’unica cosa che Gambrath era riuscito a fare era stato rinchiudersi nella taverna più economica che fosse riuscito a trovare, dove con una moneta al giorno mangiava e dormiva insieme alla schiava, in uno stanzino piccolo e buio, puzzolente di muffa e col soffitto basso. Si era rassegnato ad aspettare che l’ira del centurione sbollisse e, vista la gente che frequentava quelle parti, dormiva con un occhio solo col terrore di essere derubato e con il coltello sempre a portata di mano."
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I libri della grande Taliba'
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Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 11
11.

Si rialzò da terra più rapidamente che poté e si voltò intenzionata a riempire di botte il mago, anche se era un vecchio. Ma intorno a sé era tutto cambiato. Le fiammelle tremolanti delle candele non c’erano più, non c’erano più i tappeti, i mobili e le strane suppellettili che decoravano quella specie di tana. Non c’era più neanche la casa con le sue pareti: si trovava all’aperto, in un luogo molto buio, spazzato da un vento gelido che le frustava la pelle come se il saio che indossava non ci fosse. Alzò gli occhi al cielo e distinse a fatica il veloce rincorrersi di turbolente nuvole livide, così scure che a stento si poteva vederle arrotolarsi le une sulle altre. Si guardò intorno, girandosi in tutte le direzioni: pietre, alberi morti, sterpaglie secche, un terreno duro e freddo e non un’anima viva. Non riusciva nemmeno a distinguere la linea dell’orizzonte.
Era in preda al panico: un Varco, non poteva essere stato nient’altro. Ma come aveva potuto non accorgersi della sua presenza? Alla distanza a cui si era trovata, avrebbe dovuto percepirlo con molta chiarezza, come se avesse potuto vederlo. Anche in quel momento, non aveva fatto che due o tre passi dal punto dov’era caduta: come poteva non percepire nulla? Provò a orientarsi nuovamente, tentò di ritrovare il Varco procedendo a casaccio, per tentativi. Niente di niente, era così buio che non riusciva nemmeno a capire quando girando su se stessa tornava a guardare nella stessa direzione.
Le vennero le lacrime agli occhi: non sapeva che fare. E per di più, se non avesse trovato il modo di uscire da lì, sarebbe morta congelata: non sapeva che posto fosse, ma faceva davvero freddo.
Non sapendo che fare, cominciò a camminare in una direzione a caso. Piano piano i suoi occhi si abituarono al buio e scoprì così che quel maledetto posto non era così buio. Dal cielo pioveva una scarsa luce che non riusciva nemmeno a tracciare ombre per terra, ma le dava qualche decina di metri di visibilità. La debole luminosità del cielo le permise di stabilire che quel posto, come molti altri, aveva anche lui un orizzonte: maledettamente piatto e indistinto, ma c’era.
Camminò cercando di difendersi dal freddo come poteva fino a quando sentì gli zoccoli di un cavallo al galoppo avvicinarsi alle sue spalle.
Si voltò e ben presto il cavallo le fu vicino. Il galoppo si ridusse al passo, e poi cavallo e cavaliere emersero dal buio. Dora sentì il cuore caderle tra i piedi. A cavallo c’era una donna: nelle staffe aveva infilato i piedi nudi, si teneva in sella stringendo i fianchi del cavallo con gambe dai muscoli gonfi e poderosi, il ventre scoperto era piatto e muscoloso anch’esso. Un mantello nero le impediva di vedere le spalle e il petto, un elmo scuro celava il volto e lunghi capelli neri lucidi e ribelli sfuggivano da sotto il metallo lavorato.
Vide la donna a cavallo infilare la destra sotto il mantello e un noto suono metallico accompagnò lo sguainare di uno spadone simile in tutto e per tutto a quelli che usava lei di solito. Il cavallo fu spronato e Dora si trovò all’improvviso a dover fronteggiare una carica.
Il fendente fischiò sopra la sua testa mancandola d’un soffio: Dora rotolò e quando fu di nuovo in piedi anche lei era armata con i suoi due spadoni, meglio preparata ad affrontare una nuova carica. L’avversaria era a diversi metri da lei e sembrava trattenere il cavallo scalpitante, per studiare una nuova tattica. Dora ne approfittò con un’idea che le venne in quello stesso momento: trasformò la spada nella mano destra in un pugnale da lancio e lo scagliò con uno scatto fulmineo contro la sua ignota avversaria. Questa incredibilmente intercettò il pugnale con la lama dello spadone e lo deviò alle sue spalle, illesa. Poi caricò.
Dora fece finta fino all’ultimo istante di voler parare la carica e poi si gettò di lato, facendo roteare la sua lama sinistra, ma questa attraversò l’aria sibilando senza incontrare la carne dell’avversaria a cavallo. Sorpresa dalla velocità e dalla forza della sua nemica, Dora decise di cambiare tattica e di tentare di disarcionarla. Lasciò perdere gli spadoni e si armò di una lunga e robusta picca, armata anche all’estremità opposta con una palla di metallo. Era un’arma un po' sbilanciata, ma forse le sarebbe tornata utile per quello che aveva in mente. Come previsto, la sua avversaria non aveva intenzione di rinunciare al vantaggio del cavallo e la caricò ancora, sempre armata di spada. Dora sospettò qualcosa e infatti, a pochi metri dal punto dove sarebbe avvenuto lo scontro, la sua nemica cambiò la spada in una robusta lancia. Ebbe meno di un secondo per procurarsi un grosso e pesante scudo, ma il colpo le fece lo stesso molto male al braccio: per di più la cavallerizza aveva avuto modo di scansare agilmente la sua picca e adesso si stava preparando a caricare di nuovo.
Strinse i denti e cercando di ignorare il dolore al braccio, puntò la picca in modo da costringere la nemica a non avvicinarsi troppo, o a farlo dalla direzione che le sarebbe risultata più svantaggiosa. Fu caricata un’altra volta ancora e stavolta riuscì a mettere in pratica la sua idea. Un attimo prima di essere a tiro della lancia, Dora scartò verso il cavallo schivando la punta dell’arma nemica e invece di trafiggere con la picca, la fece roteare e colpì l’avversaria in pieno con la palla di ferro. Questa perse la lancia, sembrò adagiarsi all’indietro subendo il galoppo del cavallo, ma poi riuscì a tenersi alle briglie e a chinarsi sul collo dell’animale con le braccia piegate sul corpo, mostrando di aver decisamente accusato il colpo.
Ci mise più tempo a preparare la carica stavolta e Dora si rammaricò di essere a piedi: lo scontro si sarebbe potuto concludere di lì a poco se avesse potuto incalzare l’aggressore subito dopo aver messo a segno quel colpo. Invece si trovò costretta a subire un’altra carica: questa volta non poté evitare la nuova lancia che perse la punta contro lo scudo, ma con la palla di ferro cercò e trovò la schiena dell’attaccante che non riuscì a stare in sella. Dora le fu subito addosso, ma quella si rialzò rapidamente da terra e si armò di due spade del tutto simili a quelle che lei impugnava. A far esitare Dora un istante di troppo fu quello che l’avversaria indossava visibile ora per la distanza ravvicinata, attraverso il mantello aperto: come lei aveva un corto gonnellino fatto di numerose strisce di cuoio e di metallo tenute insieme tra di loro da anelli metallici, mentre il seno era protetto da due coppe di metallo borchiato trattenute al petto da lacci di cuoio. Non aveva strisce sulla pelle bianca, ma neanche Dora ne aveva in quel momento: ci aveva rinunciato per non dare nell’occhio in città.
La sua nemica approfittò di quel momento di incertezza per attaccarla, brandendo le due spade e mulinandole vorticosamente, costringendo Dora sulla difensiva. Fortunatamente Dora indovinò subito il ritmo dell’attaccante e riuscì a parare ogni colpo, ma non riusciva a smettere di indietreggiare e nemmeno a trovare un piccolo spazio per contrattaccare. I colpi erano portati con grande forza e decisione, le lame risuonavano fragorosamente e sprizzavano scintille ogni volta che si incontravano a mezz’aria, illuminando le smorfie di Dora e riflettendosi sull’elmo lucido della sua avversaria.
Poi Dora arretrando inciampò e perse l’equilibrio: non riuscì a parare un fendente e cercò di evitarlo con un disperato e potente colpo di reni. La punta nemica le accarezzò il ventre aprendo una lunga ferita. Non percepì subito il dolore, impegnata com’era a mantenere l’equilibrio e a parare altri colpi: aveva sentito la lama tagliarle la pelle ma non si rese conto davvero della ferita fino a quando non sentì il sangue caldo colare rapidamente dal ventre fino all’inguine. Infuriata per essere stata ferita una seconda volta, nella carne e nello spirito, Dora cercò di aumentare la velocità del duello: aveva il fiato grosso, ma poteva vedere che anche il petto dell’avversaria si alzava ed abbassava vistosamente. Presto una delle due avrebbe ceduto al ritmo forsennato e forse Dora avrebbe avuto la sua occasione.
Dora ebbe per due volte consecutive la possibilità di disarmare la sua attaccante, ma non riuscì a far altro che graffiarle per due volte il braccio con la punta della spada. Era però un segno di cedimento: Dora capì che era il momento di contrattaccare e ignorando il dolore che dalla ferita minacciava di salire al cervello, si sforzò di capovolgere l’andamento del duello. Riuscì a smettere di arretrare e con un po' di fatica iniziò ad avanzare a sua volta. Ricevette anche lei un graffio sul braccio quando per una disattenzione aveva concesso all’avversaria la possibilità di disarmarla, ma riuscì a trattenere la spada nella mano e anzi a costringere la sconosciuta ancor più sulla difensiva. Questa si ritirava rapidamente, a balzi, lasciando a Dora il sospetto che stesse tentando qualcosa in particolare. Infatti, dopo l’ennesimo balzo, attese che Dora si avvicinasse per tenerla sotto pressione ed eseguì una fulminea piroetta su se stessa, trasformando la spada destra in una inarrestabile falce. Dora riconobbe la mossa con cui aveva ucciso il centurione Skon e si vide perduta: troppo tardi per cercare di sottrarsi, reagì come le dettò l’istinto. Incrociò le spade un istante prima che il tremendo colpo dell’avversaria vi si abbattesse sopra. Sentì tutta la forza del fendente scaricarsi dalle sue spade su mani e braccia che cedettero quasi completamente; la lama nemica si fermò sbattendo sull’elsa delle sue spade arrivando pericolosamente vicina alla sua pelle. Dora l’allontanò con una lama mentre con l’altra cercava il ventre indifeso della cavallerizza disarcionata, ma questa era saltata all’indietro così rapidamente che Dora affettò solo aria col suo fendente. Contenta di aver parato quel colpo, furente per aver avuto il corpo della sua avversaria così vicino e non essere riuscita ad approfittarne, caricò a testa bassa, entrambe le sue lame puntate in avanti, intenzionata a non dare all’altra un solo attimo di tregua.
Vide la lama balenare troppo vicino a lei e scartò a sinistra con troppo ritardo: un lampo di dolore le trafisse il cervello mentre la punta della lama avversaria le trapassava un fianco. Ebbe poco tempo per il dolore: dovette immediatamente parare un altro attacco e poi un altro che la costrinse con la schiena a terra. Vide l’ombra dell’attaccante sovrastarla e con un ultimo sforzo si sollevò di scatto tendendo la spada destra in avanti, alla cieca, mettendoci più forza che poté, la forza della disperazione.
Sentì una spada cadere al suolo e non era la sua, diventata d’un tratto così pesante che dovette lasciarla andare. Con una mano sul fianco da cui zampillava sangue scuro si sollevò in piedi a fatica e si avvicinò alla sua avversaria abbattuta, con la sua spada infilata nel ventre, aggomitolata in posizione fetale. Con una pedata che rischiò di farle perdere il precario equilibrio, Dora la mise supina e con la sinistra, abbandonata la sua spada, afferrò l’elsa di quella che sporgeva dal corpo dell’altra donna, ancora viva, e la torse strappando un gemito alla moribonda, causandole una gravissima emorragia. Poi sfilò la lama e la trafisse di nuovo, con rabbia e decisione, proprio sotto lo sterno, cercando il cuore. Vide il corpo supino dell’avversaria irrigidirsi e poi abbandonarsi alla morte. La vista le si stava annebbiando sempre più, ma doveva assolutamente levare l’elmo al cadavere, doveva guardarla in faccia. Si inginocchiò vicino al cadavere sempre stringendo una mano sul fianco trafitto: il sangue sfuggiva dalle dita premute sulla ferita condannandola alla morte per dissanguamento se non avesse trovato soccorsi. Con la sinistra afferrò l’elmo per la stretta fessura degli occhi e con un po' di fatica riuscì a sfilarlo. Forse un’allucinazione dovuta alla debolezza, al sangue perduto, alla vita che la stava abbandonando pian piano, ma sotto l’elmo c’era lei. Il suo viso, lo riconobbe anche se pallido di morte e con gli occhi vitrei e immobili: era il suo stesso viso. Vestita come lei, combatteva come lei, stesso fisico, stessa corporatura, stesso volto. Scostò quanto poté le coppe di metallo insanguinate che coprivano il petto e mise a nudo un neo che sapeva di avere sul seno sinistro, scoprendolo identico al suo per forma e posizione.
Dora, sempre più debole e affannata, era sommersa da mille pensieri senza né capo né coda ma il più pressante, quello che la stava angosciando, era che stava morendo anche lei. La ferita era troppo grave per potersi rialzare e andare a cercare aiuto in quel posto buio e freddo. La vista le veniva meno, si trovò a terra senza nemmeno capire come ci era arrivata. Cercò di alzarsi, di rimettersi almeno seduta, ma il buio e il freddo le avvolsero le membra con una pesante coperta gelida.

Gambrath tenuto fuori della casa del mago, salì sul suo carro e fu tentato di andarsene, stizzito per non poter soddisfare la sua curiosità riguardo l’affare che il misterioso personaggio avrebbe concluso col suo ritorno lì, accompagnato dalla guerriera. Scartò immediatamente l’idea: se la guerriera non avesse gradito l’essere lasciata a piedi, avrebbe potuto dargli la caccia per tutta Taliba e oltre. L’essere permalosi era una caratteristica comune a tutti gli appartenenti alla casta dei guerrieri e Gambrath non aveva bisogno di nemici di nessun genere.
Trascorse quindi con pazienza il breve lasso di tempo che lo separò dall’apparizione dell’uomo.
Lo vide uscire dalla porta della casa del mago: era alto, con una folta barba e due occhi che facevano paura: il mercante non poté fare a meno di fissarlo. Coperto da un bel mantello, si guardò intorno rapidamente, come se cercasse qualcosa in particolare. Incrociò per un attimo gli occhi con quelli di Gambrath e il cuore del mercante perse un colpo: ebbe la sensazione che quello sguardo malvagio fosse proprio diretto a lui e gli parve perfino che l’uomo dalla barba nera piegasse gli angoli della bocca in un sorriso crudele prima di scomparire tra la folla della strada con passo agile e veloce.
Gambrath rimase parecchio a pensare cosa avrebbe potuto essere successo. Sicuramente quell’uomo doveva essere ospitato dal vecchio mago: gli era apparso per pochi istanti, ma era sicuro che non poteva essere uscito da nessun posto se non dalla porticina della casa del mago. Probabilmente entrava anche lui nell’affare, ma non avendo nessun legame con lui, si chiese che ruolo potesse avere in tutta la faccenda.
Solo quando le sue natiche cominciarono a risentire della posizione seduta il mercante cominciò a chiedersi che fine avesse fatto la guerriera. Non era certo un tipo coraggioso lui, ma la sua curiosità talvolta gli aveva procurato dei guai. Fu per curiosità infatti che si decise a scendere dal carro e ad avvicinarsi alla porta della casa del vecchio mago. Era chiusa e nessun suono era percepibile attraverso di essa. Si chiese come i due avrebbero preso una eventuale interruzione, qualsiasi cosa stessero facendo lì dentro: in fin dei conti lui desiderava sapere solo se poteva andarsene oppure no. Tutto quel tempo passato ad attendere per un mercante come lui era tempo davvero sprecato. Pensò che probabilmente la guerriera avrebbe mal tollerato l’intrusione e lo avrebbe picchiato, quindi tornò timoroso sui suoi passi fino al carro. Ma poco dopo, vedendo che non era successo ancora nulla, si diresse un po' più risoluto verso la porta, deciso almeno a bussare alla porta per vedere se otteneva una risposta senza dover entrare.
Bussò, ma nessuno rispose. Aspettò educatamente prima di bussare ancora, ma non accadde nulla. Dopo aver bussato inutilmente per la terza volta, si decise a chiamare il mago ad alta voce, scoprendo di non conoscerne il nome, così come non conosceva quello della guerriera. Timoroso di essere scambiato per matto o per malintenzionato dalla gente che transitava per la strada, non disse nulla. Ma come fare per sapere qualcosa? Non poteva certo stare lì ad attendere in eterno. Preso il coraggio a due mani, Gambrath decise di entrare, pensando che con tutta probabilità la porta era stata chiusa dall’interno.
Invece no. La porta era aperta e Gambrath entrò. Non ebbe fatto che pochi passi dentro il buio covo del vecchio mago che un fortissimo vento freddo lo investì, spingendolo all’indietro. Il mercante riuscì a puntellarsi sulle sue gambe e a resistere, ma non poté impedire che il vento chiudesse la porta d’ingresso, privandolo della luce del giorno che proveniva attraverso di essa. Non appena la porta si fu chiusa sbattendo, il vento cessò e Gambrath fu al buio. Rimase fermo in piedi aspettandosi di vedere le fiammelle delle candele che anche la volta precedente non avevano tardato ad apparire, e così fu. Passò di nuovo di fronte al quadro che lo aveva turbato la prima volta, notando che non aveva perso nulla del suo aspetto sinistro e della sua verosimiglianza. Poi il suo piede destro incontrò un ostacolo inaspettato e Gambrath perse l’equilibrio e cadde a terra.

- Maledetto! È l’ultima volta che faccio qualcosa senza esserne convinta! - disse Dora stizzita. Non appena il mercante era riuscita a portarla alla luce del sole, si era subito ripresa. Nessuna ferita al fianco o al ventre, nemmeno quella alla spalla. La sua pelle era ovunque intatta.
- Un potente mago! - ripeté Gambrath.
- Macché! Dev’essere stato quello stronzo barbuto che hai visto uscire. Mi ha colpito alla testa e ho avuto un incubo, tutto qui.
- E adesso, che facciamo?
- Non so tu, mercante, ma io ne ho le palle piene di questo posto, di te, del tuo mago e del tuo affare del cazzo. Portami da qualcuno che sa qualcosa dei varchi, che ho voglia di tornare a casa, e ringrazia il cielo che non ti cavo le budella per quello che mi è capitato.
Lo sapevo, pensò Gambrath: è sempre colpa di qualcun altro.
Per non rischiare niente, il mercante decise di ricorrere al suo amico Rambel’ Marè ed al suo nuovo datore di lavoro, Rendel Lorente.

L’uomo di medicina aspirò una boccata di fumo dal narghilè e stette in silenzio, pensando alla storia che aveva appena sentito dalla bocca del suo amico Gambrath e da quella della sua arrogante e occasionale compagna di viaggio, autoproclamatasi guerriera.
- Saresti tu quindi che vai seminando lutti e dolori tra le genti di queste terre? - chiese infine, dopo aver soffiato una nuvola di fumo acre e odoroso. Gambrath non aveva potuto fare a meno di vedere che il suo amico Rambel’ Marè se la passava sempre meglio: ricche vesti, oro appeso al collo e alle orecchie, sete, cuscini, ottimo tabacco e aromi costosi non gli mancavano.
- Cosa intendi dire? - rispose Dora che mal sopportava il fumo e ancora meno quell’individuo che a suo dire si stava solo dando un sacco di arie.
- C’è un sacco di gente qui intorno che ti appenderebbe volentieri in una gabbia. E non sono solo gli uomini di Vorgo a volerlo.
- Bella gratitudine! Io intervengo per salvarvi il culo, sai? Sai quanta gente ho levato dalle grinfie di bastardi di vario calibro?
- Già, e dopo ogni tua bravata i soldati arrivano in forze e rastrellano villaggi interi, condannando ciascuno ai lavori forzati per punire anche la morte di un solo soldato - rispose Rambel’ Marè, calmo.
Dora, sorpresa, non ebbe di che controbattere: non aveva mai pensato a quella possibilità.
- Per la morte di Made, per opera tua, decine e decine di gabbie e di impiccati hanno ornato le mura di Taliba per lungo tempo. Se hai massacrato anche Skon e i suoi uomini, prova solo a immaginare cosa accadrà quando la notizia arriverà alle orecchie del prossimo centurione. C’è già una guarnigione fissa a Taliba, ed è fin troppo. Manderanno qui tutto l’esercito.
- Senti, coso: se mi aiuti a trovare un Varco aperto, sparisco per un po', che ne dici? Così vi arrangiate da soli - disse Dora riprendendosi un po' dallo sconforto che le aveva procurato vedersi sbattere in faccia la propria presunzione ed egoismo. Le sue convinzioni, sempre più incrinate, anziché confortarla la fecero sentire come se stesse recitando una parte.
- Non posso aiutarti: sono un uomo di medicina, non un mago.
- Allora stiamo solo perdendo tempo - disse Dora alzandosi bruscamente in piedi - vieni, mercante, ce ne andiamo.
Gambrath impallidì: alzarsi in piedi prima dell’ospite nella sua stessa dimora era una gravissima scortesia e segno di grande insolenza e maleducazione. A denti stretti la supplicò di rimettersi a sedere: il suo comportamento lo stava mettendo in grave imbarazzo, in quanto era stato lui a condurla da Rambel’ Marè. Dora non aveva mai visto quell’espressione sulla faccia del mercante e si rimise a sedere. L’altro individuo, Rambel’ Marè, la guardava con freddo distacco.
- Ho detto che io non posso aiutarti, ma conosco qualcuno che può farlo.
- Era ora! - commentò inopportunamente Dora.

L’urlo del mago si sentì distintamente anche fuori dalla sala dov’era entrato da solo con Dora. Rambel’ Marè e Gambrath, rimasti fuori ad aspettare col divieto di entrare se non fossero stati chiamati, si guardarono l’un l’altro chiedendosi se fosse il caso di intervenire. Esitarono fino a quando attraverso la porta chiusa un altro grido giunse alle loro orecchie. Era senza dubbio il mago e sembrava che lo stessero torturando. Gambrath impallidì quando vide il suo amico mettere mano alla maniglia della porta per sbloccarla. Ma questa gli scappò via di mano: la porta fu aperta da Dora in persona.
- Ma che gli ha preso? - chiese lei uscendo. Con la porta aperta, il terzo grido del mago giunse ai due con una nitidezza spaventosa.
Rambel’ Marè e Gambrath entrarono esitando. Il mago era riverso sul tappeto e si teneva la testa tra le mani. L’uomo di medicina lo raggiunse per prestargli soccorso, e nel voltarlo supino entrambi videro che aveva gli occhi rovesciati all’indietro sotto le palpebre tremanti e il corpo sussultava in preda a strane convulsioni.
- Nobile Mago! Che ti succede?
Un gorgoglio dal profondo della gola fu l’unica risposta dell’uomo. Le convulsioni diminuirono un po'.
- Forse ha avuto una visione… - suggerì Gambrath, un po' spaventato.
- Ha detto qualcosa prima di cadere in questo stato? - chiese l’uomo di medicina a Dora, che osservava perplessa la scena.
- Bah… ha cominciato a blaterare cose senza senso, parole strane… poi ha cominciato a gridare e ad agitarsi, è caduto per terra e…
- …’iel… - rantolò il mago.
- Che ha detto? - disse Rambel’ Marè.
- È una delle parole che blaterava prima di cascare come uno straccio - confermò Dora.
- … Dokh’iel… - disse ancora il mago, con un filo di voce. Poi i suoi occhi si chiusero.
- Mago… Mago! - disse Rambel’ Marè scuotendo l’anziano uomo per le spalle.
- È… - iniziò Gambrath, ma non terminò la frase.
- No, respira. Ha solo perso conoscenza.
- Ho sentito bene? Ha detto… - disse il mercante, con tono tetro.
- Hai sentito bene, amico mio. L’ha detto - rispose altrettanto tetro Rambel’ Marè.
- Ma insomma, che ha detto? - si spazientì Dora.
I due la guardarono come si guarderebbe un condannato a morte.
- Lo chiamano in molti modi, ma è sempre la stessa persona. Qui è noto come Dokh’iel - cominciò Rambel’ Marè - Per darti un’idea di cosa è capace, Vorgo non ha dormito tranquillo fino a quando non lo ha imprigionato.
- Per Elzer… - sospirò Gambrath pallidissimo, poi si afflosciò sul pavimento come un sacco vuoto.
Rambel’ Marè ci mise un secondo a reagire, poi soccorse l’amico che aveva avuto un mancamento. Gli fece dei massaggi alle spalle e lo schiaffeggiò fino a quando questi si riprese.
- Che ti succede, amico?
Gambrath cercò di articolare qualche parola, ma dovette sforzarsi prima di emettere suoni comprensibili.
- …L’uomo … - ripeté più volte.
- Che uomo? - chiese Rambel’ Marè.
- L’uomo… quello che è uscito dalla casa del mago… aveva uno sguardo cattivo, malvagio… era lui!
- Guardate! - esclamò Dora, puntando un dito contro il corpo del mago ancora disteso a terra. Dalla sua bocca e dalle narici stava uscendo un denso e cupo fumo nero.
Ma non si trattava di fumo comune, e fu chiaro subito ai tre: lo video scivolare sul corpo del mago fino a ricoprirlo con spire dense e gonfie, senza dissolversi e sollevarsi in alto come avrebbe dovuto, ma rimanendo basso come se avesse un peso vero e proprio. In breve il fumo nero, come un sinistro essere vivente aveva ricoperto completamente il mago trasformandolo in un pupazzo scuro e ribollente, senza una forma precisa, soltanto vagamente rassomigliante a un essere umano.
Con gran sgomento di tutti il pupazzo di fumo si sollevò dritto sui suoi piedi, sciogliendo i legami che lo trattenevano al corpo del mago, che rimase supino sul pavimento. Stette immobile mentre ciascuno dei presenti arretrava inorridito. Poi si voltò di scatto verso Dora e due bagliori rosso cupo brillarono dentro la testa del pupazzo.
- Grazie… - una voce profonda e gutturale, cavernosa, come nessun essere umano sarebbe mai stato in grado di produrre, echeggiò nella stanza come se provenisse da ogni dove - grazie, Guerriera dell’altro mondo… ma non aspettarti trattamenti di favore…
Un braccio di fumo ribollente si tese verso Dora, che sentiva le proprie ginocchia diventare molli. Poi un suono orribile esplose nelle orecchie di tutti, come se la sofferenza di un pianeta intero fosse stata gridata al cielo tutta in una volta. Le misteriose forze di coesione che avevano plasmato il fumo vennero improvvisamente meno e questo si dissipò in pochi istanti, lasciando nella stanza come segno del suo passaggio un odore orribile.
Rambel’ Marè, pallido come un morto, puntò su Dora uno sguardo per metà accusatore e per metà terrorizzato. Questa, non meno pallida non riusciva a capire cosa stesse accadendo. Gambrath era nuovamente a terra, privo di sensi.
- Che… che cosa avrà voluto dire? - riuscì a dire lei dopo aver deglutito diverse volte.
- Me lo chiedo anch’io.
Rambel’ Marè fu il primo a mostrare di riprendersi dallo spavento: esaminò nuovamente sia l’amico mercante che il mago. Questo fu l’ultimo a riprendersi e quando fu interrogato a riguardo, faticò a parlare di quello che gli era accaduto fino a quando non fu rinfrancato dalle cure dell’uomo di medicina e da un bicchiere di vino dolce. Ma anche allora fu avaro di informazioni: nei suoi occhi si leggeva un profondo terrore per quanto gli era accaduto.
- Dokh’iel è di nuovo tra noi - disse infine - perché qualcuno ha sciolto i legami impostigli da Vorgo, uno della sua stessa razza. Non deve essere al meglio della sua forma: raramente uno come me se la sarebbe cavata dopo quello che mi ha fatto.
- Chi ha sciolto i legami? - chiese Gambrath.
- Ha poca importanza: ormai è libero - lo rimbeccò Rambel’ Marè, ma guardando Dora.
- È stata lei - disse il mago puntando il dito contro la guerriera che spalancò gli occhi - ma non sapeva cosa stava facendo. C’era bisogno di qualcuno forte abbastanza da farcela, ma che ignorasse tutta la storia.
- Abbiamo perso di vista il motivo di tutto questo: dove trovo un Varco aperto che mi faccia tornare indietro?
- Tornare indietro? Dopo aver combinato un tale danno te ne vorresti andare, Guerriera? - la accusò Rambel’ Marè.
- Io non ho fatto proprio nulla! Non ne sapevo niente di questo Dochié!
- Recriminare non serve a niente - disse il mago interrompendo Rambel’ Marè che stava per rispondere a Dora.
- Cosa suggerisci?
- I Varchi sono aperti, guerriera. Dirigiti verso Bel’ee, ne troverai uno. Torna al tuo mondo.
- Approvo - aggiunse Rambel’ Marè.
- Ti devo staccare la testa dal collo? - chiese Dora all’uomo di medicina.
- Vattene, Guerriera! Hai fatto abbastanza danni da questa parte del Varco. Uccidimi pure se credi di punire la mia arroganza: meglio morire che essere posseduto un’altra volta dal Malvagio.
Dora aveva ripreso colore in volto, il colore dell’ira. Avrebbe infilzato volentieri quei due, ma aveva di meglio da fare: se poteva tornarsene a casa, l’avrebbe fatto. Ne aveva abbastanza di quel posto. Afferrò per un braccio il mercante e lo trascinò fuori della casa del mago, imponendogli di portarlo al Varco di Bel’ee.
Al povero Gambrath non rimase che mettere a disposizione il proprio carro e puntare un’altra volta verso la Pianura, per accontentare la Guerriera furiosa prima che decidesse di tagliarlo in due con un solo colpo di spada. Con malinconia e rabbia repressa pensò che se avesse avuto una moneta per ogni volta che aveva ripetuto quel tragitto, adesso sarebbe un po' più ricco e magari anche meno triste.

Nel piovoso primo pomeriggio del terzo giorno di viaggio la guerriera, seduta al suo fianco coperta solo dalle sue armi, incurante del freddo e della pioggia, gli intimò di fermarsi con voce piena di soddisfazione. Lo aveva percepito già da tempo, facendo deviare leggermente il percorso del carro trainato dal suo nuovo bue bianco, ma adesso era arrivata a destinazione, finalmente.
La guardò saltare giù dal carro e sprofondare nel fango con le sue calzature alte e strane. Si allontanò di una ventina di passi e poi si fermò: Gambrath non vedeva niente ma dedusse che si era fermata davanti al Varco. La vide allungare un braccio e poi vide questo sparire nel nulla fin quasi al gomito, letteralmente ingoiato dall’aria. Lei ritrasse il braccio e si voltò verso di lui con un sorriso sul volto coperto da lugubri segni neri.
- Ciao, mercante! Ci vediamo! - lo salutò con voce squillante, sollevando la mano in segno di saluto.
Gambrath non seppe come ricambiare il saluto: incerto alzò anche lui una mano, proprio un attimo prima che la Guerriera si tuffasse letteralmente nel Varco, scomparendo alla vista.
Con una gradevole sensazione di sollievo che gli scaldava il cuore, Gambrath incitò il bue bianco e invertì la direzione di marcia, diretto alla stazione di posta.
   
 
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