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Autore: Enchalott    24/12/2019    5 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Aggiornamento settimanale con tanti auguri di buone feste a tutti. ^^

Interiorità celate
 
Adara studiò con attenzione i particolari che emergevano dallo sfondo scuro del dipinto difronte a lei, portandosi una mano al mento, pensierosa.
Di tutta l’insolita scena, ciò che la colpiva maggiormente era la sottile falce color carminio, che risaltava come sospesa in quello scenario buio e rovinato dai secoli, sola e incalzante come le righe della Profezia.
Dopo la manifestazione del potere del Crescente, cui aveva assistito senza avere voce in capitolo come se non fosse una parte del suo corpo, si sentiva stranamente chiamata in causa dalla mezzaluna campeggiante sulla parete della sala del trono.
Seduto sul tavolo di massello che aveva fatto sistemare poco discosto, Anthos la osservava in silenzio, sorseggiando vino speziato dal calice metallico che teneva tra le dita. Come aveva promesso, era rimasto con lei. Anzi, oltre a rispettare la parola data, aveva impedito l’accesso alla sala all’umanità restante: le pesanti porte lignee, scolpite con lo stemma del Nord, erano chiuse a chiave e il pesante oggetto metallico riposava con indolenza sull’improvvisato bancone da lavoro, in mezzo ai materiali utili al supposto restauro.
La ragazza sospirò, ripensando con stizza all’episodio del giorno precedente.
“Sei ancora deciso a lasciarmi imbrattare la parete, nella consapevolezza che io non sono un’artista, e continuare con la tua ostinata presa di posizione?” gli chiese.
“Non credo sia peggiorabile” rispose il principe, sollevando uno sguardo divertito sull’odiato affresco “Per quanto concerne il resto, eviterò i discorsi per immagini e passerò direttamente alle ritorsioni concrete, se preferisci”.
“Preferirei che tu, prima di sfoggiare le tue già note abilità sterminatrici, mi spiegassi che cosa ti disturba nel momento in cui accade, piuttosto”.
“Non amo i lunghi discorsi, specie se superflui. Hai certo compreso cosa intendo”.
“Essere gelosi comporta lo sperimentare prima dei sentimenti, lo sai?”.
“Ma il senso del possesso e della giusta misura no. Sono sensazioni oggettive”.
“E chi dovrebbe stabilire il metro? Tu?”.
“Sì” ribatté lui, saltando giù dal tavolo “Io solo, insindacabilmente”.
La affiancò e le sollevò il viso. Nei suoi occhi d’ambra non c’era traccia di collera.
“Ho spostato le udienze di questa mattina altrove” proseguì il reggente “Non che ci sia mai una gran folla, come puoi presumere. Ho deciso di non presenziare, non perché mi annoiano terribilmente, ma per stare qui. Intuisci la ragione?”.
“Sì” mormorò Adara, circondata dal fulgore di quelle iridi inumane “Sei preoccupato per me. Chi mi vuole morta è ancora libero di agire”.
“Sbagliato” corresse lui con un sogghigno freddo “Le mie premure vanno a ciò che hai giurato di fare per me. Sei fondamentale per i miei piani. Certo non mi dispiacerebbe cogliere il nemico sul fatto…”.
“Dimenticavo…” sussurrò la principessa, sconfortata dall’affermazione volutamente graffiante a lei rivolta “La preoccupazione è un’emozione puramente altruista”.
“Di preciso” sentenziò il reggente “Ascrivibile ad un’umanità che non mi rappresenta. Cui io non appartengo. Tienilo sempre presente”.
“Ci sei già tu a ricordarmelo costantemente” rispose lei, sconsolata.
 
In quelle scabre e algide affermazioni di Anthos, tuttavia, la principessa lesse una strenua difesa della sua impietosa individualità. O si illuse che la ragione del suo continuo sottolineare le distanze da qualunque tipo di sensibilità o empatia fosse un modo per conservarsi immutato. Forse, il giovane aveva avvertito un’incrinatura nella propria glaciale crudeltà e si stava premunendo contro ulteriori, incontrollabili aperture. In realtà, non ne aveva affatto bisogno. Anthos era l’immagine perfetta di un male persistente e indelebile. Inscalfibile e caparbio in ogni aspetto.
No. No, per tutte le stelle! Non era così! Lei lo aveva visto sorridere, seppure per un infinitesimale, istintivo secondo, per un’unica indimenticabile volta. E ciò che appartiene per assodato all’oscurità non è in grado di emanare una tale, struggente luce interiore. Non si era ingannata!
Nella loro prima notte, poi, era stato tutto fuorché inumano. Lo ricordava provando il medesimo imbarazzo, come se i pensieri che sfilavano fossero visibili all’esterno… il modo in cui le aveva domandato quel bacio che avrebbe potuto benissimo prendersi in autonomia, come era accaduto le volte precedenti. Era stata come una vibrazione, che le si era attaccata all’anima e l’aveva coinvolta, trasmettendole un dolore quasi palpabile. Il Crescente non c’entrava nulla, tantomeno i poteri smodati del principe. Era altro… qualcosa di nascosto, di cui forse neppure lui era consapevole.
Infine, nei suoi occhi feroci, che portavano tutta l’atrocità di cui era autocompiaciuto baluardo, albergava una sofferenza insostenibile. Adara era certa che lui non la sopportasse, che facesse di tutto per occultarla, annegandosi nella presunzione e nella malvagità, che erano il confine in cui il suo io profondo si era imprigionato per una ragione recondita e selvaggia.
Si sentì un’illusa. Una ragazzina inesperta che ingaggia una sfida con un uomo adulto e scaltro. Forse, crearle dei dubbi faceva parte della sua strategia. Prenderla in contropiede con un atteggiamento destante la sua curiosità femminile, avendo intuito che non si sarebbe mai piegata con la forza. Convincerla, come aveva già tentato di fare, che avesse provato qualcosa di profondo per Alyecc… che il loro incontro avesse creato un legame misterioso al di là delle intenzioni di ciascuno.
Non c’era modo di capirlo. Sarebbe stato inutile domandare. Pericoloso forzargli la mano. Letale fargli credere di essersi innamorata di lui per pareggiare le tattiche d’azione e saggiarne le reazioni… e poi non era da lei mentire sulle questioni serie!
Lui era estremamente intelligente e altrettanto perspicace. Impossibile stargli al passo, pretendere di insegnargli qualcosa, fare breccia nel suo ego. Lei sarebbe stata soltanto Adara. Sincera e testarda come sempre. Vera da far paura.
 
Il reggente era tornato al tavolo per riempirsi nuovamente il bicchiere, ma aveva optato per il chae bollente, trascurando l’alcolico. Un’altra scelta accorta e saggia, che dimostrava come non si lasciasse andare neppure in quello.
“Anthos…” chiamò, raggiungendolo con una percettibile agitazione.
Lui versò la bevanda per due, appoggiato al bordo del mobile, pensando che lei avesse freddo nonostante il camino straordinariamente acceso per l’occasione. La fissò, interrogativo, quando non prese il calice che le stava porgendo.
La ragazza esitò, tesissima, raccogliendo il coraggio a quattro mani.
“Ti voglio baciare…”.
Il sobbalzo che lo attraversò le fu visibile senza sforzo. Quasi gli cadde di mano il recipiente. Lo posò con calma innaturale, piantandole addosso uno sguardo composto di sorpresa, sospetto e aspettativa. Stava ragionando. Forse calcolando rapidamente le possibili cause di una volontà che doveva apparirgli assurda o infida.
“Ti prego…” continuò lei, arrestando il flusso dei suoi distaccati rilevamenti.
Lui si riprese immediatamente, lasciando defluire il computo delle probabilità.
“Sei mia moglie, non hai bisogno di domandare il permesso”.
Aprì le mani nella sua direzione, accompagnando l’affermazione con il gesto, senza abbassare lo sguardo. Adara si approssimò, con il cuore che pulsava all’impazzata e le guance che bruciavano per la presa di coscienza della propria inverosimile audacia. Passò attraverso le sue braccia tese e lasciò che le richiudesse intorno alla sua vita, ma fu la prima a cercare il contatto. Non dovette neppure sollevarsi sulle punte dei piedi, perché il giovane, ben più alto di lei, si stava sostenendo al tavolo.
Le sue labbra erano calde e socchiuse, attendevano impazienti: lo comprese, anche con gli occhi serrati, dalla risposta che le diedero. Non si ritrasse dopo aver realizzato l’atto e lo ripeté, facendogli scorrere le braccia sulle spalle, aderendo al suo corpo vestito di seta bianca, persistendo in quell’unione di respiri e bocche che si inseguivano in pochi centimetri di pelle, eppure andando molto più lontano.
Il bacio divenne profondo e fu lei che lo scelse, divenne sentire e non più sfiorare, divenne legame condiviso in barba alle dichiarazioni bellicose e taglienti di poco prima. Uno schiaffo sia all’assenza di umanità che lui aveva messo avanti sia alla mera necessità di comprendere che lei aveva convogliato in quell’azione.
Percepì che lui accresceva il trasporto, che il suo respiro accelerava e si faceva quasi incontrollato e rallentò, scostandosi lievemente dal suo viso. Si immerse in quelle iridi dorate che la pretendevano, che avevano perso improvvisamente il furore ma non la malinconia e si convinse di aver avuto ragione, che in lui esisteva uno spiraglio inconsapevole. Trapelava quando Anthos diventava istintivo, quando era costretto ad essere naturale e cessava di dominarsi, quando i suoi pensieri si facevano impulso e sospendevano il controllo di tutto il resto. E quella virata inconscia del suo essere lo rendeva più attraente, era una seduzione non volontaria e potentissima, che la faceva sentire vulnerabile… che la spaventava sul serio. Anthos andava temuto, ma non nel modo in cui aveva creduto.
Decise di interrompersi, ma le dita di lui le si inoltrarono sotto gli abiti, iniziando a slegare tutte le chiusure che li tenevano allacciati.
“No…” gli disse con delicatezza, respingendo la contiguità.
Il principe si sollevò, girandosi e la inchiodò sul tavolo, deciso a continuare fino alla fine, a seguire a buon diritto il desiderio che lei aveva scatenato.
Lo allontanò di nuovo, con più fermezza, e lui si arrestò.
“Che cosa… che cosa stai facendo?” ansimò, piegato su di lei, tentando di comprendere e di contenersi “Si può sapere cosa diavolo ti è preso?”.
“Niente” sussurrò la principessa, tirando fuori il poco fiato rimastole in quella trepidazione dirompente “Volevo solo un bacio, questo va oltre”.
“Oltre?! Quello non era un… bacio!” esclamò lui con rabbia, spalancando gli occhi “Per l’inferno, Adara! Mi provochi e poi pretendi che io non abbia una reazione u… Maledizione! Che rinunci a tutto il resto!”.
Umana? Era quella la parola che aveva spezzato, mutandola in una rimostranza?
“Non… non controllo il Crescente, l’ho sentito attivarsi e…”.
“Al diavolo Leuhan!” sbottò il principe, sbattendo le mani aperte sulla superficie di legno, senza scostarsi da lei “Dimmi perché! Non provare a mentirmi!”.
I capelli biondi gli scivolarono avanti, sfiorandole il viso con voluttà.
“E’ colpa tua…” esalò lei, frastornata dall’emozione residua riflessa nelle sue iridi scintillanti e pari a quella che provava in sé.
“Cosa!?”.
“Lo è, Anthos!” gridò, cercando di trattenere le lacrime “Mi hai chiarito che non te ne importa niente di niente, che brami solo raggiungere il tuo scopo! E va bene, mi hai quasi convinta! Ma io… io talvolta intravedo una realtà diversa, che forse neppure tu, con tutta l’arrogante freddezza del tuo ego, riesci a individuare in te stesso!”.
Si asciugò gli occhi con il polso, mentre lui si sollevava sui gomiti, profondamente turbato. L’inquietudine sfolgorò nel suo sguardo intenso.
“Mi hai accusato di aver provato qualcosa per Alyecc, come se fosse un fatto riprovevole… ho voluto capire se ciò che leggo in te è frutto dell’infatuazione che mi rinfacci, di cui non ho consapevolezza, o se invece è una mia allucinazione!”.
Anthos continuò a guardarla, con le labbra serrate, terribilmente accigliato.
“E cosa avresti scoperto, sentiamo…” sferzò, glaciale “Una cotta adolescenziale per un uomo che non esiste?”.
Lei scosse la testa e una lacrima imboccò il varco, rigandole lievemente il viso.
“No…” singhiozzò, sollevando una mano verso il volto imbronciato di lui.
“Quindi ti auto accusi di aver preso un abbaglio?”.
“No…” sussurrò ancora lei, scombussolata dalla sincerità cui si era costretta e che aveva cercato come spirito guida “Che esiste una terza possibilità”.
Il principe la sollevò, lasciando che si sedesse, per guardarla alla pari.
Qualcosa lo mise in uno stato di allarme e parimenti lo istigò a pretendere spiegazioni. Non aveva paura delle parole, non ne aveva mai avuta. Mai. Le avrebbe affrontate senza tirarsi indietro.
“Quale?”.
“Che quanto scorgo in te esista davvero”.
Eppure quelle gli diedero un brivido, che lo percorse come un’onda implacabile. Ignorò l’effetto che produssero, con ira estrema, spazientito.
“Quale delle tre?” precisò, incolore.
“Mi impegnerò per capirlo”.
Lui iniziò a ridacchiare, sprezzante, e sollevò le spalle.
“Hai tutto il tempo e tutti i baci che vuoi per farlo” replicò, caustico “A meno che il gioco non finisca nel momento in cui il Crescente non ti salverà più da me”.
“Non è un gioco. Desidero davvero venirne a capo”.
“Come preferisci. Non mi spiego le ragioni di un impegno tanto alacre in una sciocchezza simile, comunque ciò che esso produce, a giudicare da poco fa e fatta eccezione per la spiacevole interruzione, non mi dispiace affatto”.
“Mi importa sapere con chi sto dividendo la vita” ultimò lei “Mi importa di te”.
 
Mi importa di te.
Nessuna compassione in quei termini semplici, quasi banali. Nessuna menzogna. Era un’avversaria leale, si sorprese di non averne mai dubitato. Un’antagonista degna di lui… certo non una nemica, pur nella visione differente che avevano del futuro e del creato; ma neppure un’amica o un’amante. E nemmeno un’estranea.
Era più facile elencare che cosa Adara non era, più comodo in verità. Scoprire che cosa la rendeva atipica avrebbe comportato il volersi inoltrare in lei, nel suo modo di pensare, nella sua capacità di amare, di condividere e forse di perdonare.
Era il suo opposto. Ecco, quella definizione avrebbe potuto calzarle alla perfezione e soddisfarlo pienamente, se non avesse conosciuto la massima per cui gli opposti sono destinati ad attrarsi inesorabilmente. Ma Anthos non si era mai lasciato attirare da nessuno e non lo avrebbe concesso neppure a lei: temeraria, ostinata, schietta e incredibilmente insolente, bella come un miraggio, ma al di là del comprensibile richiamo fisico, non sentiva altro.
Mostrare gelosia comporta l’aver provato dei sentimenti.
Bel tentativo. Non aveva neppure bisogno di arrovellarsi per capire che non era stato il desiderio di competere con il ragazzo Aethalas a scatenare il suo risentimento, ma solo la rilevata mancanza del rispetto che lei era tenuta a riservargli.
Eppure, aveva avvertito un’incertezza. Come un’ombra proiettata sul lucido progetto che teneva ben chiaro in mente ormai da anni. Quella era stata l’effettiva causa della sua ira. Scoprirsi fallibile, esposto al dubbio come un qualsiasi essere umano. Inaccettabile. Non lui, non per il sorriso sincero di una donna che non riusciva neppure a possedere. Non per un insignificante rallentare del suo piano.
Sollevò lo sguardo tormentato sull’affresco che lei stava pulendo con una pezza umida, cambiando posizione sul trono che dominava la sala.
Mutare prospettiva.
Impossibile, anche se lo avesse voluto. E lui non lo desiderava. La via era una sola. Avrebbe convinto Adara, mostrandole i testi conservati a Jarlath. Sarebbe stato altrettanto schietto, perché lei meritava almeno la sua stima. Forse la ragazza avrebbe addirittura modificato la sua visione del contingente e sarebbe divenuta sua alleata. Non che avesse bisogno di lei per quello, comunque.
Un bacio, reclamato da sua moglie per capire che cosa provava per lui. Se gli avessero raccontato una cosa del genere, si sarebbe messo a ridere.
E tu, Anthos, che cosa senti?
Che assurdità… collera, odio, rivalsa, brama di dominio, volontà di annientare ogni ostacolo, ogni costrizione. Nulla di diverso da prima.
No. Che cosa senti per lei
Niente. Mi incuriosisce. Mi fa uscire dai gangheri. Mi sorprende, talvolta.
Se ti pare poco, sei un imbecille.
Affatto. Il pericolo era più che evidente, perciò lo avrebbe evitato, come sempre. Il pericolo risiedeva nello sguardo trasparente che aveva intercettato quando si era separato da lei. Gli occhi bruni di sua moglie raccontavano di sentimenti che lui conosceva solo per nome. Considerazione, fiducia… e amore.
 
Lui le aveva indicato il dipinto con un gesto appena accennato, dopo un breve attimo di stallo. Era divenuto silenzioso, l’aveva lasciata ed era andato a sedersi sullo scranno, senza risponderle e senza ulteriori discussioni in merito all’accaduto.
Le tende di broccato erano scostate e la bufera di neve infuriava all’esterno con ululati ctoni, facendo tremare le finestre della fortezza e insinuandosi tra le torri di pietra in spire di ghiaccio ascendenti. Si chiese come avrebbe potuto dormire quella notte a Leu-Mòr, se quel pandemonio non si fosse placato almeno un po’.
Il principe pareva assente, lontano nei pensieri: i suoi occhi dorati fissavano il bianco assoluto oltre il vetro, la sua mano destra accarezzava impercettibilmente il Medaglione, mentre la sinistra era infilata tra i capelli a sorreggere il capo. Sfuggente e assorto nella sua distanza mentale.
Fu sufficiente un lieve movimento nella sua direzione per farlo tornare presente, inutile prova al fatto che in realtà rimanesse sempre vigile.
“La fanciulla bionda con il braccio levato…” disse Adara, ponendo fine all’opprimente silenzio “Secondo te è Amathira?”.
Il reggente strinse le palpebre, come se si stesse concentrando sul particolare o come se in lui ci fosse ancora traccia dell’irritazione che aveva manifestato prima.
“Sì, lo è” rispose asciutto.
“Allora, se è ritratta nel momento in cui scaglia la sua maledizione, l’uomo in ginocchio deve essere Irkalla” concluse la ragazza, dibattuta.
“Non ne sei convinta?” sogghignò Anthos, cogliendo in lei una sfumatura critica o di scarsa persuasione.
“Non so chi ha realizzato l’opera, ma sicuramente è stato un pittore poco accorto”.
“Perché?” domandò lui, inarcando un sopracciglio e raddrizzandosi sul trono.
“Beh…” rispose lei, come se fosse un’ovvietà “Non vorrei sembrarti presuntuosa, ma da quanto si conosce di lui, Irkalla non si sarebbe mai inginocchiato davanti alla dea che lo ha condannato. Secondo me, l’ha affrontata in piedi, da pari”.
Il principe si alzò, interessato alla congettura.
“Una bella immagine” commentò ironico, sollevando una mano “A meno che l’artista sconosciuto non abbia voluto rappresentare, come penso, la fine più che l’inizio. Il momento in cui il dio reincarnato affronta la sua disfatta definitiva, chiaramente nell’ipotesi accreditata dalla Profezia”.
“Uhm… forse hai ragione, ma non cambia nulla. Ritengo che anche in questo caso Irkalla accoglierebbe la morte senza umiliarsi fino alle lacrime”.
“Lacrime? È solo il colore che si è ossidato!” rise lui “Interessante questo tuo parteggiare per un Distruttore decisamente più virile…”.
“Non mi sto schierando, non oserei mai. È solo che Irkalla viene sempre additato come il cattivo della situazione, invece bisogna essere in due per litigare e per scontrarsi. In fondo, noi non eravamo presenti e questo è un pregiudizio bello e buono. Non è corretto, ecco!”.
“Il pittore sarà stato un fedele assertore della Profezia…” considerò il reggente.
“Allora, in tal caso, avrebbe dovuto inserire nella storia anche un elemento che rappresentasse la possibile cospirazione ai danni delle due divinità”.
“Già…” mormorò il giovane, sovrappensiero “Ma pare più una diceria rispetto a tutto il resto. Oppure non se n’è conservata traccia e in origine un’allusione c’era”.
“E’ quello che vorrei scoprire”.
“Mh” sorrise lui, quasi divertito “Buona fortuna…”.
“E poi… l’uomo inginocchiato porta il Medaglione. Non è strano?”.
Anthos serrò i pugni e si fece avanti, improvvisamente corrucciato.
“Che cosa intendi?” sibilò, trattenendo a stento la collera.
“Secondo me, quello non è Irkalla”.
Le iridi auree del principe si incupirono, divenendo più intense.
“Che cosa te lo fa credere?” le sussurrò all’orecchio, quasi inudibile.
“Come ti ho detto, non si sarebbe inginocchiato e, soprattutto, il Medaglione è stato creato successivamente ai fatti, se risale allo stesso periodo del Diadema di Elestorya. Ritengo che tu sia nel giusto a pensare che si tratti del compimento della maledizione. In questo caso, quello raffigurato è un monito”.
“Per me che reggo il gioiello?” concluse lui con freddo raziocinio.
“Non necessariamente. Per chi lo indossa per scopi malvagi”.
Il reggente la fissò, riflettendo sull’interpretazione appena offerta.
“L’ipotesi tiene” affermò “Resterebbe però nella raffigurazione l’assurda assenza di Irkalla, che è il principale oggetto della collera della dea del Cielo”.
Adara corrugò la fronte, meditando sulle parole da lui pronunciate. Parve illuminarsi per un attimo, ma poi la sua espressione tornò indecisa.
“A che pensi?” domandò lui, quasi incalzante.
“Tu credi negli dei, Anthos? O li ritieni un’invenzione umana?”.
“Ci credo, ma non li temo”.
“E pensi che ci ascoltino?”.
“Sì…” mormorò lui, con la malinconia nello sguardo “E che la loro principale risposta alle umane invocazioni sia un no”.
Adara si girò e lo fissò, quasi commossa dalla triste considerazione.
“Anche se la negazione comporta la sofferenza da parte di noi mortali? Perché ciò avviene? Perché non ci aiutano, anche adesso che…”.
“Alle volte non è loro consentito. Oppure non hanno sufficiente potere”.
“Come fai a essere così sicuro?”.
“Credere in un’eventualità diversa da questa, significherebbe soltanto provare che essi non esistono. O che hanno come unico compito l’arrecare dolore”.
“Sarebbe blasfemo”.
“Sarebbe interessante. Provocare la loro collera per vedere se si manifestano almeno per fornire una pena esemplare” sogghignò lui, perdendo l’aspetto infelice che l’aveva velato in quel breve dialogo.
“E’ quanto stai tentando di cagionare?”
“Seguo solo la mia strada. Neppure Almaktti oserebbe mettersi di traverso”.
“Sssh…” fece lei, posandogli un dito sulle labbra “Falla finita, Anthos…”.
 
 
Stelio esaminò con raccapriccio la distesa di cadaveri abbandonati tra le dune. Il calore del deserto li aveva rinsecchiti e la sabbia, spostata dal vento, aveva praticamente sepolto le vestigia del massacro operato pochi giorni prima dagli Anskelisia. Tuttavia, per inorridire era già sufficiente quanto era rimasto in vista.
L’accampamento era tornato vuoto, dopo che gli arcieri Aethalas avevano scacciato a colpi di frecce gli uccelli predatori, che continuavano cocciutamente a volteggiare a debita distanza, in attesa che i vivi togliessero il disturbo per proseguire il loro lauto pasto.
Le tende del colore dell’argilla, devastate e prive di legature, schioccavano in modo sinistro, mostrando i loro ventri ora privi di esistenze, testimoni di ciò che più non era.
La cenere dei falò estinti turbinava grigia, disegnando sul giallo ocra dello spiazzo volute indecifrabili, incomprensibili come quelle morti innocenti.
“Cercate di recuperare tutti i corpi!” ordinò Niyla, portandosi la sciarpa scarlatta alla bocca per salvaguardarsi dal fetore stagnante nell’aria “Provvederemo noi a fornire il riguardoso addio che è stato loro negato”.
Alcuni Thaisa si mossero nella direzione indicata, mentre altri, armati di aste culminanti con una lama curva, presero a esplorare le tende ancora intatte.
“Non sembra che ci sia stata una razzia” considerò il reggente “Questo attacco palesemente immotivato mi convince sempre meno”.
Al suo fianco Anshar, pallido come uno spirito, si tamponò le labbra con un drappo scuro, sforzandosi di non vomitare per la seconda volta. Il sovrano gli aveva impedito di cercare i poveri resti dei suoi familiari tra i corpi raggrinziti, certo che avrebbe trovato ciò che anelava, ma che non sarebbe stato opportuno ricordarlo.
Fece scorrere lo sguardo distrutto sul campo, attanagliato dal dolore e dall’ira.
“Niente” mormorò “Non hanno preso niente!”.
“Questo non fa che avvalorare le ipotesi formulate da Zheule” asserì Stelio “Gli Anskelisia sono stati pagati profumatamente per infierire sui Rhevia oppure stanno assecondando la strategia del terrore di qualcuno che ci vuole impegnati su questo fronte e non su quello della Profezia”.
Osservò suo cognato Niyla impartire ordini ai membri delle tre tribù presenti, disponendo le operazioni di indagine e di sepoltura. Aveva i modi spicci e autorevoli di un bailye, sapeva farsi ascoltare senza essere dispotico e non lesinava parole di condivisione e conforto quando necessarie. Sarebbe diventato un magnifico portavoce della sua gente. Era una fortuna averlo lì con lui.
“Maestà” esclamò uno dei guerrieri, attirando rispettosamente la sua attenzione “Credo sia opportuno che vediate!”.
Stelio diede di tallone al cavallo, attraversando la distesa silenziosa e desolata.
Alcune salme erano state pietosamente coperte con dei teli nei pressi del padiglione principale, mentre i Thaisa si stavano apprestando a innalzare una pira con la scarsa legna a disposizione.
Il giovane che lo aveva chiamato scostò la stoffa leggera, dandogli modo di comprendere il perché di tanta, urgente inquietudine.
I segni sui cadaveri non potevano essere stati prodotti né dalle spade ricurve degli Anskelisia né dalle lunghe fruste di cui si servivano per scoraggiare eventuali ribellioni dei loro ostaggi. Le vittime non erano neppure state torturate con i pugnali, pratica di cui i sedicenti Angeli andavano molto fieri. Non si trattava neppure di alabarde uncinate o a lama piatta tipiche del Sud. Nessuna arma avrebbe mai prodotto delle ferite simili. Nessuna arma umana.
Il reggente sbiancò, osservando gli strappi laceri sulle carni, simili a morsi, che avevano dilaniato ossa e organi. I bordi irregolari e nerastri delle lesioni apparivano straziati e spalancati come da artigli acuminati di animali.
“Per le sacre sabbie…” esalò, facendosi indietro “Non può esistere niente di simile!”.
“Sono d’accordo anche i nostri guaritori” confermò l’Aethalas “Neppure un ghali maculato riuscirebbe a compiere un simile scempio”.
“Qui i felini delle dune c’entrano poco” disse il sovrano tra i denti “Ma sinceramente non riesco a fornirmi una spiegazione logica”.
“Nessuno di noi è in grado di farlo” sentenziò Niyla, contemplando con pari orrore lo spettacolo macabro che gli arcieri si affrettarono a ricoprire “Sarebbe fondamentale catturare almeno uno di quei maledetti Anskelisia per farlo parlare!”.
Stelio si rialzò, annuendo pensierosamente.
I Thaisa avevano ultimato il rogo e stavano trasportando i primi corpi, in una processione lenta e funesta.
Le fiamme si levarono alte nel cielo, crepitando il loro canto funebre e riverberandosi sui volti affranti dei presenti.
Uno dei Rhevia si inginocchiò singhiozzando difronte al suo giovanissimo bailye, porgendogli un oggetto lavorato. Gli occhi di giada screziata di Anshar si riempirono di lacrime nel prenderlo, ma fece del suo meglio per non cedere.
Stelio gli strinse calorosamente il braccio e non poté non pensare a suo figlio.
“Era di mia madre” sussurrò il ragazzo con voce tremante, infilandosi il bracciale color rame al polso “Non hanno permesso che vedessi…”.
“Rendiamo omaggio alla sua anima, non alle sue spoglie” mormorò il reggente, comprensivo, faticando a sua volta a non cedere alla commozione “Tutto questo non resterà impunito. Il mio è un giuramento”.
Sguainò la spada e la levò al cielo, chiamando a testimoni gli dei. Niyla fece la stessa cosa a nome della sua gente, affiancandosi al re. Gli Aethalas sollevarono gli archi, unendosi alla promessa. Anshar inghiotti il dolore e sfoderò la sua lama.
Uno strik sfrecciò tra le nuvole arancioni in direzione dell’oasi di Zerf.
“Qualcuno ha risposto alla nostra missiva” constatò Stelio con un sospiro “E’ ora di andare”.
   
 
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