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Autore: Carme93    31/12/2019    7 recensioni
Il Natale è per eccellenza la festa più allegra dell'anno, la festa durante la quale tutti si dichiarano più buoni.
Ma è veramente così? Basta comportarsi bene soltanto pochi giorni prima del 25 dicembre? E se dopotutto fossimo tutti nella lista dei cattivi di Babbo Natale?
Molto probabile.
Un ragazzino di undici anni, però, non dovrebbe pensarla così.
[Questa storia si è classificata sesta al contest “Calendario dell'Avvento” indetto da Carmaux e Soul_Shine sul forum di EFP]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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[Questa storia si è classificata sesta al contest “Calendario dell'Avvento” indetto da Carmaux e Soul_Shine sul forum di EFP]




 

Nella lista dei cattivi
 



Le lucine a goccia pendevano dalla porta d’ingresso e, insieme agli adesivi di Babbo Natale e dei pupazzi di neve sui vetri, accoglievano chiunque vi si avvicinasse ricordando a gran voce quanto la festa più allegra e amata del mondo fosse ormai vicina.
Si fermò riprendendo fiato: non era stata una bella idea correre con lo zaino; un dolore a fianco lo aveva costretto a rallentare alla fine, ma tanto sarebbe comunque arrivato in ritardo.
Ignorò le decorazioni esterne, come di consueto, ma ebbe molta più difficoltà a far finta di nulla di fronte all’imponente abete che troneggiava nell’ingresso. Una stretta al cuore lo costrinse a distogliere lo sguardo: il Natale non trascorreva mai abbastanza in fretta per i suoi gusti.
«Ragazzino, sei in ritardo. Vai in vicepresidenza».
Trattenendosi dallo sbuffare si voltò verso il signor Andreasi, uno dei collaboratori più anziani della scuola, e gli si avvicinò. «Buongiorno» mormorò sommesso.
«Sì, buongiorno… sei sempre in ritardo!».
«Sono solo cinque minuti» tentò il ragazzino.
«Cinque minuti? Sono quasi le otto e un quarto!» replicò il signor Andreasi.
«La prego» piagnucolò.
L’uomo sbuffò. «Chi hai la prima ora?».
«Ferrari».
«Mmm, allora fila in classe».
«Grazie, grazie, grazie».
«Vedi di arrivare in orario domani!».
Il ragazzino annuì e si avviò a passo svelto verso il teatro della scuola, situato nel seminterrato, dove, ne era certo, avrebbe trovato i compagni intenti a provare per lo spettacolo natalizio. Quando arrivò, i suoi compagni sul palco, quindi rivolti nella sua direzione, lo adocchiarono e qualcuno e ridacchiò. Che c’era da ridere poi? Che cos’aveva di ridicolo? I primi giorni di scuola aveva anche provato a chiederlo, poi ci aveva rinunciato: erano solo stupidi e infantili.
Naturalmente attirarono l’attenzione del professore, che si voltò: «Negri, sei in ritardo». Qualcuno ridacchiò più forte, ma smise a un’occhiataccia dell’insegnante.
«Mi scusi» borbottò il ragazzino.
«È stata la vicepreside a mandarti?».
Il ragazzino si mordicchiò il labbro, consapevole che non avrebbe potuto mentire. «Sono solo cinque minuti».
Ferrari scosse la testa. «Sei in ritardo di un quarto d’ora».
«Mi dispiace» insisté il ragazzino.
«Si può sapere perché sei sempre in ritardo?». Ed ecco la domanda fatidica. «E rispondimi questa volta!». Il professore non aveva torto, ogni qual volta gli rivolgevano quella domanda si ammutoliva. Certo, sapeva che prima a o poi avrebbe dovuto fornire una spiegazione – la professoressa di francese aveva già minacciato di chiamare i suoi genitori più volte – e quindi tanto valeva farlo, no? Ma quanto gli mancavano le scuole elementari? Le maestre sapevano ogni cosa e non gli chiedevano nulla né quando arrivava in ritardo né quando si assentava.
«Mio fratello non voleva andare all’asilo» borbottò allora. La risposta suscitò l’ilarità dei suoi stupidi compagni.
«Fate silenzio, voi!» gli richiamò Ferrari, poi gli riservò una lunga occhiata che lo costrinse ad abbassare gli occhi, infine disse: «Va bene, Cristiano, posa lo zaino e unisciti ai tuoi compagni… questo è l’ultimo brano da studiare, probabilmente lo conoscerai è famoso… A Natale puoi… quello della pubblicità…».
Cristiano lo ringraziò e prese il foglio che gli porgeva, eseguendo meccanicamente le sue istruzioni. Le maestre non lo costringevano mai a partecipare agli spettacoli. Lo ignoravano e basta. Perché le scuole medie dovevano essere così difficili?
A lui il Natale non piaceva. Non capiva proprio l’entusiasmo dei suoi compagni: certo che pensavano solo ai regali che avrebbero ricevuto e di cui si sarebbero vantati a gennaio.
Inizialmente Cristiano biascicò qualche parola, ma ben presto vi rinunciò. Quant’era stupida quella canzone? Solo perché era Natale non si poteva fare nulla di diverso dagli altri giorni. Era stupido illudersi.
 
«Ok, ok» li fermò Ferrari. Per Cristiano avrebbe potuto farlo anche prima, dopotutto a parte il ritornello nessuno la conosceva veramente. «Studiatevela a casa. Dopodomani voglio che la sappiate, così potremmo esercitarci. Ora proviamo Tu scendi dalle stelle».
Cristiano si morse il labbro e non fiatò: quella canzone era sempre un colpo al cuore. Ogni volta che la provavano avrebbe voluto tapparsi le orecchie o meglio andare il più possibile lontano: la voce di sua madre, molto più bella, dolce e intonata, di quelle smorfiose delle sue compagne, riecheggiava nella sua memoria. Ella si sedeva al pianoforte e il soggiorno, tutto decorato e riscaldato dal caminetto, si riempiva di quella melodia. Solitamente cantavano insieme, lui e la madre, non solo la Vigilia di Natale, ma anche la sera in attesa che il padre rientrasse da lavoro. Era bellissimo!
Tu scendi dalle stelle era la preferita della madre.  
«Cristiano, canta!». Il richiamo del professore giunse puntuale come ogni lezione.
Il ragazzino gli lanciò un’occhiata smarrita e triste: avrebbe potuto rimproverarlo all’infinito, ma non avrebbe cantato. Non quella canzone.
Sapeva di non dover pensare alla madre: ora quella sensazione di malinconia non l’avrebbe abbandonato per ore. Per il resto dell’ora non fiatò e ignorò i richiami dell’insegnante.
«Mettetevi in fila per due e tornate in classe in silenzio… Forza! Cristiano, tu aspetta». Il ragazzino sospirò e gli si avvicinò. «Che cosa devo fare con te? Dimmi, in che lingua devo parlarti?».
«Scusi» si limitò a rispondere il ragazzino.
«Le scuse servono a ben poco, se continui a ignorare i miei richiami. Abbiamo già affrontato questo discorso. Posso sapere che ti prende? Ho parlato con i miei colleghi e mi hanno detto che non ti comporti così durante le loro lezioni». Il ragazzino questa volta non replicò: non voleva mancargli di rispetto, ma non avrebbe Tu scendi dalle stelle. «Non parli , eh? Bene, allora sai quello che faremo? Ti studi bene A Natale puoi e canti da solista».
«No!» sbottò senza riuscire a trattenersi.
«Oh, sì. decido io».
«Non voglio cantare, non mi piace. Le maestre non mi costringevano» quasi scoppiò a piangere, ma si trattenne perché i suoi compagni, sebbene un po’ distanti, stavano guardando verso di loro e non aspettavano altro che un motivo per deriderlo.
«Questo non è un buon motivo! Dammene uno valido e non ti costringerò».
Cristiano lo fissò disperato: non ce l’aveva un buon motivo! Non voleva certo raccontargli di sua madre, non con i suoi compagni presenti. Si fissò i piedi e mormorò: «Non mi piace il Natale».
«Questa poi… Non ho mai sentito un ragazzino della tua età dire che non gli piace il Natale! Comunque non è un buon motivo. Quindi dopodomani mi aspetto che tu abbia studiato il canto e soprattutto che tu canti… Andiamo in classe, sta per suonare!».
Cristiano lo seguì mogiamente. In classe li attendeva già la professoressa di francese e questo non migliorò l’umore del ragazzino, specialmente quando vide l’enorme quattro rosso sul compito della settimana precedentemente. Quella giornata si stava rivelando pessima.
Quando però la professoressa di Lettere, Chiara Marchetti, entrò in classe, Cristiano sorrise ricordandosi che il martedì avevano ben tre ore con lei e ciò lo rincuorò profondamente. La Marchetti era giovane e bellissima. Aveva capelli un po’ ribelli che teneva sempre sciolti e che si spostava sempre dietro le orecchie perché non le coprissero gli occhi. E poi era quasi sempre gentile e dolce con tutti.
 
Cristiano tirò fuori il manuale di grammatica e il quaderno, ignorando i suoi compagni che chiassosamente facevano ricreazione.
Dov’era lo spirito natalizio? Era l’unico ad averlo perso o erano gli altri a essere superficiali? Un po’ come i negozianti che decorava le vetrine da metà novembre. Ma che senso aveva? Il Natale era il miracolo della nascita di Gesù Bambino, miracolo che avrebbe dovuto avvenire nel nostro cuore. E soprattutto avrebbe dovuto essere Natale tutto l’anno: cioè non avrebbero dovuto essere buoni soltanto una volta l’anno perché, come dicevano alcuni suoi compagni, in caso contrario sarebbero finiti nella lista dei cattivi di Babbo Natale. Che poi se mai esistesse veramente una lista del genere, nessuno dei loro nomi sarebbe mancato? Quante piccole bugie pronunciavano ogni giorno? Babbo Natale non avrebbe dovuto portare regali a nessuno.
 
Le ultime tre ore trascorsero tranquillamente: adorava le lezioni della Marchetti e avrebbe voluto che durassero in eterno. Sarebbe stato meglio rimanere lì a studiare i Romani piuttosto che tornare a casa.
«Cristiano, aspetti un attimo, per favore?».
Il ragazzino fissò allarmato l’insegnante. Doveva andare a prendere suo fratello all’asilo, ma non avendo scelta le si avvicinò incerto.
«Non mi guardare in quel modo! Voglio soltanto parlare con te» esclamò la Marchetti sistemando i libri. Cristiano non replicò e attese in silenzio. «Senti, il professore Ferrari mi ha detto che non partecipi alle sue lezioni, come mai?».
«Non mi piace cantare, ma non do fastidio. Rimango in silenzio» borbottò il ragazzino colto di sorpresa.
Ella si accigliò leggermente. «Non ne dubito, ma durante le lezioni bisogna partecipare. Il fatto che una materia non ti piaccia, non esente dall’impegnarti».
Cristiano non sapeva come comportarsi: avrebbe voluto prometterle che avrebbe cantato, che avrebbe fatto il solista… qualunque cosa… ma non poteva. «Sì, lo so» bofonchiò allora.
«Quindi d’ora in avanti ti impegnerai di più?».
«No» mormorò Cristiano a malincuore. Non voleva deluderla, ma non poteva fare altrimenti.
«Perché hai questa avversione per il canto? Qualcuno dei tuoi compagni ti ha preso in giro? Ha detto qualcosa che non avrebbe dovuto?».
Al ragazzino balenò subito in mente l’immagine del Grinch e il fotomontaggio che alcuni compagni avevano realizzato con il suo volto durante l’ora di francese, ma non fiatò: non era quello il problema e non gli interessava nulla dei suoi compagni. «No, è che non mi piace il Natale».
La professoressa se ne meravigliò. «Addirittura? È una festa così bella!».
«A me non piace» ripeté Cristiano senza nemmeno guardarla. «Professoressa, mi scusi, ma devo proprio andare. Mi stanno aspettando» soggiunse.
La Marchetti fece per parlare, ma fu preceduta dalla collega di francese, la terribile Cristina Aletti. «Ti devo parlare» disse imperiosamente alla collega più giovane.
«Adesso sono impegnata» replicò leggermente brusca la Marchetti.
«Si tratta di tua figlia».
La Marchetti si passò una mano tra i capelli nervosamente e annuì. «Va bene. Cristiano pensa a quello che ti ho detto, va’ pure».
Il ragazzino, stupito all’idea che una donna così giovane fosse madre, salutò e si fiondò fuori dalla classe fingendo di non sentire la professoressa di francese affermare: «Pensare? Quello lì avrà sì e no un paio di neuroni. Io l’avevo detto che ha bisogno del sostegno e voi altri non mi avete ascoltato!».
Il cortile era quasi deserto ormai, tanto che gli occhi di Cristiano caddero subito su una ragazzina stravaccata sul muretto. L’aveva notata altre volte dall’inizio dell’anno, ma erano in due sezioni diverse e non avevano mai parlato. D’altronde lei era sempre circondata dai compagni.
«Che ci guardi?» lo apostrofò la ragazzina.
Cristiano abbassò il capo e scosse la testa. Che figura! Si diresse verso il cancello il più velocemente possibile.
«Ehi, non così in fretta» lo raggiunse e bloccò lei. «Ti ho fatto una domanda!».
«Tu sei di prima A, vero?». Complimenti, Cristiano! Perché la terra non si apriva e lo inghiottiva? Avrebbe fatto un favore a tutti.
«Già. E tu sei di prima F. Mi fissavi solo perché sono della A?» chiese ella accigliata.
«No, no» si affrettò a dire Cristiano. «Devo andare!».
«Almeno presentati» lo inseguì lei. «Io mi chiamo Giulia».
«Cristiano. Come fai a sapere che sono della prima F?».
«Potrei farti la stessa domanda, sai?».
«Ma tu sei quella che ha liberato degli scarafaggi sulla cattedra durante l’ora di francese! Ti conoscono tutti!» replicò Cristiano ammirato.
«Ah, già. Sì, sono io» alzò gli occhi al cielo Giulia, guardandosi intorno.
«Che c’è?».
«Sto aspettando mia madre e non vorrei che sentisse parlare di questa storia».
«Non lo sa?».
«Certo che lo sa! Sono stata quasi sospesa! Che poi erano solo due scarafaggi e quella di francese è super antipatica!».
«A chi lo dici!» concordò Cristiano. «Ma non dovresti aspettare tua mamma vicino alla scuola? Si arrabbierà se non ti trova».
«Si arrabbierà comunque perché oggi ho preso un’altra nota» replicò Giulia.
«Ah, capisco. È molto severa?».
Giulia si strinse nelle spalle. «È fissata con la scuola, ci tiene molto e quindi rompe… ma per il resto è fantastica! È giovane e sa fare un sacco di cose! Ha promesso che mi porterà a pattinare sabato, ma non vorrei che ora cambiasse idea».
«Se fossi in te, l’aspetterei a scuola senza farla arrabbiare di più. E poi le racconti subito quello che è successo, magari promettendogli di fare più attenzione…».
«Ma stavo facendo attenzione! Quella di francese ce l’ha con me! Io non stavo facendo nulla! Erano Sofia e Chiara davanti a me che chiacchieravano! Ma Sofia è la sua cocca, quindi non sia mai che la rimproveri!».
«Immagino» convenne solidale Cristiano. «Dillo alla tua mamma! Hai paura che non ti creda?».
Giulia fece una smorfia, ma annuì. «Si, mi crederà».
«Bene, allora dille la verità e cerca di essere gentile e mostrati dispiaciuta per averla fatta arrabbiare».
Giulia si fermò di scatto. «Ok, va bene, seguirò il tuo consiglio. Tanto non ho nulla da perdere! Ci vediamo domani!».
Cristiano la salutò e la osservò correre verso la scuola, poi si riscosse ricordandosi di essere in ritardo e affrettò il passo.
 



 
*
 



Quel pomeriggio sul tardi, dopo aver concluso i compiti per il giorno dopo ed essersi assicurato che il fratellino stesse guardando tranquillamente la televisione, Cristiano prese la sua copia di A Natale puoi, ormai tutto stropicciata, e si mise a leggere malvolentieri.
 

 
A natale puoi
fare quello che non puoi fare mai:
riprendere a giocare,
riprendere a sognare,
riprendere quel tempo
che rincorrevi tanto.
 

Che cosa stupida! Non era vero: a Natale non si poteva fare nulla di diverso dagli altri giorni. Perché ci si nascondeva dietro quelle illusioni? Scuotendo la testa Cristiano terminò la lettura con il pensiero fisso su come evitare il ruolo di solista: non avrebbe mai cantato da solo di fronte a un pubblico.
Rassegnato, decise di impararla a memoria come se fosse una poesia, magari Ferrari l’avrebbe lasciato in pace. Continuò a studiarlo finché suo fratello non cominciò a lamentarsi di avere fame. Quella sera suo padre sarebbe rientrato tardi da lavoro, perciò era responsabilità di Cristiano preparare la cena.
Ormai era abituato: il padre non c’era quasi mai a cena o perché aveva il turno di notte o perché preferiva andare in giro da solo.
Dopo aver messo a letto il fratellino, Marco, Cristiano rassettò la cucina, preparò un panino al padre nel caso in cui avesse sentito fame e guardò un po’ di televisione.
Suo padre rientrò verso le dieci e non fece nemmeno caso a lui: era una serata no ed era completamente ubriaco. Cristiano lo osservò in silenzio mentre barcollava attraverso l’ingresso e poi nel soggiorno dove si gettò sul divano. Pochi minuti dopo già dormiva.
Cristiano scosse la testa sconsolato e spense la televisione, cosicché soltanto il russare paterno risuonava nella quiete notturna; tolse le scarpe al padre e lo coprì con due plaid perché non prendesse troppo freddo.
Sospirò e gli accarezzò la guancia leggermente pungente a causa della barba castana mal rasata.
 
«È Natale e a Natale si può fare di più, è Natale e a Natale si può fare di più, è Natale e a Natale si può fare di più» mormorò Cristiano leggermente stonato, ma lì non avrebbe potuto sentirlo nessuno.
Il soggiorno era così buio e triste, se Cristiano avesse chiuso gli occhi, avrebbe potuto rivedere la vecchia casa calda e accogliente. Quella in cui avevano vissuto tutti insiemi, quella in cui ancora amava il Natale.
Si rifiutò di lasciarsi andare di nuovo ai ricordi come quella mattina: era doloroso; così si rifugiò sotto le coperte, ma le parole di A Natale puoi, benché non le ricordasse ancora tutte, gli tornava alla mente.
Abbracciò il cuscino, tentando di scacciare la sensazione di tristezza e malinconia. Si rigirò un paio di volte continuando a rimuginare sulla canzone: e se avesse avuto un fondo di verità?
 
«A Natale puoi/ fare quello che non puoi fare mai:/ riprendere a giocare, / riprendere a sognare…». Canticchiò per poi bloccandosi non ricordando il seguito. Nonostante avesse freddo si alzò e recuperò la fotocopia.
«… riprendere quel tempo/ che rincorrevi tanto».
 
E se invece che sperare che la situazione cambiasse, avesse fatto in modo che il cambiamento accadesse? Ogni tanto il burbero professore di matematica chiedeva loro se si aspettassero che cose li sarebbero cadute dall’alto. Di solito lo sbraitava quando qualcuno non studiava e qualche suo compagno alzava gli occhi aspettandosi che qualcosa li cadesse veramente sulla testa da un momento all’altro! Magari un sei in matematica!
 
«Riprendere a giocare… riprendere a sognare… giocare… sognare…» rimuginò a lungo su quelle due parole e si addormentò pensando che avrebbe dovuto provarci.
 
La mattina dopo non riusciva a smettere di sorridere, tanto che il signor Andreasi lo guardò male nonostante fosse arrivato quasi puntuale: insomma era già suonata, ma solo da un paio di minuti.
Andando in classe si ritrovò a passare dalla prima A - non avrebbe dovuto perché era già in ritardo - ma voleva vedere Giulia.
 
Per fortuna l’insegnante della prima ora non era ancora arrivata e la ragazzina gli saltellò incontro quando lo notò.
 
«Ciao! Speravo proprio di vederti!» trillò Giulia scoccandogli a sorpresa un bacio sulla guancia. «Il tuo piano ha funzionato: mia mamma non si è arrabbiata e sabato mi porterà a pattinare!».
 
Cristiano resistette all’impulso di toccarsi il punto della guancia dove l’aveva baciato e le sorrise.
 
«Perché sei qui?» lo riscosse Giulia.
 
«Ah, giusto!». Ma quant’era stupido! «Conosci la canzone A Natale puoi?».
 
Lei si accigliò. C’era qualcosa di familiare in quella sua espressione. «Sì, certo. Ferrari la sta insegnando anche a noi».
 
«Ma voi non suonate?».
 
«Solo un paio di brani. Non siamo ancora bravi quanto quelli di seconda e terza, quindi faremo parte anche del coro».
 
«Ah, ok» disse Cristiano e poi abbassò la voce. «Io non odio il Natale».
 
«Nessuno odia il Natale» borbottò Giulia.
 
«Io ci ho provato, ma non ci riesco».
 
«E quindi?».
 
«Voglio ritrovare lo spirito natalizio. Voglio riprendere a giocare/ riprendere a sognare, proprio come dice la canzone. Mi aiuti?».
 
«Sì, certo».
 
«E come…?».
 
Un colpo di tosse costrinse Cristiano a voltarsi ritrovandosi di fronte una professoressa che non conosceva.
 
«Marchetti, fila in classe, quante volte vi ho detto che dovete attendermi in classe seduti in ordine?».
 
Giulia era veramente coraggiosa, pensò Cristiano quando vide l’occhiataccia che lanciò alla sua insegnante.
 
«E tu? Di che classe sei?».
 
«Prima F, professoressa. Sto andando in classe, scusi! Buona lezione!» disse tutto d’un fiato e si dileguò, contento che Giulia fosse rientrata in classe e non avesse visto quant’era patetico! Però gli aveva detto di sì. Gli aveva detto sì! Quasi si mise a saltellare per raggiungere la sua classe.
 
Appena entrò in classe si scusò con la professoressa d’italiano, anche se non riuscì a smettere di sorridere nemmeno quando lei lo riprese per l’ennesimo ritardo. A smorzare il suo entusiasmo fu il suo cervello fedifrago che come un fulmine a ciel sereno fece quel collegamento che aveva solo intuito poco prima: la prof si chiamava Marchetti e la sua nuova amica – o almeno lo sperava – si chiamava Giulia Marchetti. Poteva essere soltanto un caso? Prese posto turbato da quella scoperta, sui cui rifletté per il resto della giornata.
 
All’una Giulia lo attendeva all’ingresso e Cristiano le sorrise automaticamente, sebbene non fosse sicuro di voler scoprire la verità.
 
«Che hai?» lo riscosse lei. «Rimani sempre imbambolato».
 
«Pensavo» si affrettò a giustificarsi arrossendo.
 
«A cosa?».
 
«Hai lo stesso cognome della mia professoressa di italiano» buttò lì.
 
Giulia si fermò e lo fissò con attenzione, alla fine annuì. «Sì, lo so. È mia madre».
 
Rimasero in silenzio per qualche secondo, poi lei parlò: «Non te l’ho detto prima, perché ho pensato che non avresti voluto far amicizia con me».
 
«Perché mai? Io pensavo che una come te con tanta amici non volesse stare in mia compagnia!».
 
«Non sono amici quelli. Sono solo ruffiani» scosse la testa Giulia. «Mi cercano per via di mia madre. Non sai, che seccatura. Ho messo gli scarafaggi a quella di francese, perché pensavo che, almeno i maschi, mi avrebbero rispettato per quello che sono, invece ho ottenuto solo un mucchio di rimproveri».
 
«Non ci credo che tua mamma non ti abbia aiutato» mormorò Cristiano. Adorava la professoressa Marchetti e non poteva pensare che non fosse una brava mamma.
 
«Non gliel’ho detto».
 
«Perché? Se io avessi una mamma, le chiederei sempre aiuto». Le parole gli erano sfuggite di bocca prima che potesse impedirselo. Distolse lo sguardo e deglutì.
 
«Non lo so» mormorò Giulia meditabonda. «Forse sono arrabbiata con lei perché sta con Ferrari».
 
«Sta con Ferrari?» replicò basito Cristiano.
 
«Sì, beh non è che fanno i piccioncini a scuola… Tu non ce l’hai la mamma quindi?». Giulia era una ragazzina molto diretta.
 
«No, se n’è andata» ammise Cristiano a malincuore. «Il Natale con lei era fantastico! Mi manca tanto! Vorrei tornare indietro!».
 
«È per questo che volevi odiare il Natale?».
 
«Sì. È tutto così mesto senza di lei».
 
«Mesto?».
 
«Triste. Tua mamma dice che dobbiamo imparare a usare anche termini diversi… come mestizia per esempio…».
 
«Frena, frena, lascia perdere mia madre adesso… La tua dov’è andata?».
 
«Non lo so. Se n’è andata all’improvviso… era stanca di noi… di me soprattutto…».
 
«Come fai a esserne certo?».
 
«Mio padre non sta mai in casa. Gli manca la mamma ed è colpa mia. È normale che non mi voglia più bene, no? Tu vorresti bene a chi ti ha portato via la persona che amavi?».
 
«No» borbottò Giulia. «Per questo non voglio che Ferrari… Oh, eccoli…».
 
Cristiano allarmato vide i due professori avvicinarsi. «Non dire nulla, ti prego».
 
«No, manco tu però».
 
«Promesso» assentì Cristiano.
 
Ferrari e la Marchetti li fissarono stupiti per un attimo.
 
«Non sapevo che foste amici» commentò con atteggiamento inquisitorio Ferrari.
 
«Non sono affari tuoi!» replicò a tono Giulia.
 
«Giulia! Non rispondere così!» sbottò esasperata la professoressa.
 
La ragazzina fece per replicare ma si trattenne, i due adulti sembrarono sorpresi. «Mammaaa, seenti». La Marchetti si passò nervosamente una mano tra i capelli, come se fosse preoccupata da quello che la figlia stesse per dire. «Può venire anche Cristiano alla pista di pattinaggio sabato? Mi piacerebbe tanto! Avevi detto che avrei potuto invitare qualche amica».
 
Cristiano boccheggiò sorpreso dalla svolta presa dagli eventi.
 
«Tecnicamente lui non rientra nella categoria ‘amiche’» bofonchiò Ferrari, beccandosi un’occhiataccia dalla ragazzina.
 
«Beh, non vedo perché no» disse allora la Marchetti ignorando la battuta del collega. «Se i tuoi genitori vogliono, non ci sono problemi Cristiano».
 
«Grazie» mormorò confuso il ragazzino.
 
Prima di scappare via, Giulia gli sussurrò nell’orecchio: «Questa è solo la prima parte del piano! Vedrai ti farò amare il Natale! Vedi di arrivare in orario domani. Ti aspetto all’ingresso alle otto meno dieci!».
 
Cristiano le sorrise genuinamente.
 
È così misero in atto il piano.
 
Giulia era un vero turbine di energia e spirito natalizio! In sua compagnia non ci si poteva annoiare. Nessuno era mai stato così amichevole con lui. Aveva avuto degli amici in prima e seconda elementare, poi però aveva iniziato ad allontanare tutti con il suo mutismo. Giulia non tollerava il silenzio.
 
Il giorno dopo Cristiano s’impegnò molto ad arrivare in perfetto orario all’appuntamento e per questo abbastanza impaziente con il fratellino sentendosi in colpa. Sensazione che scacciò alla vista della ragazzina.
 
«Ciao! Allora pronto a riscoprire la bellezza del Natale?».
 
«Certo» rispose il ragazzino.
                           
«Fantastico! Allora come ti sei divertito ieri sera?».
 
«Ieri sera?» replicò Cristiano preso in contropiede.
 
«Eh, hai giocato, guardato la tv? Tu ce l’hai la playstation? Mia madre non vuole comprarmela, ma gioco con il pc di solito».
 
«Ieri sera ho studiato. Oggi abbiamo compito d’italiano e devo essere interrogato in matematica».
 
Giulia alzò gli occhi al cielo e sbuffò. «Ma insomma! Allora sei un secchione! Così non va bene! Abbiamo detto d - i – v – e –r – t – i – m – e – n – t -o! Divertimento dev’essere la parola d’ordine per te d’ora in avanti! Ecco perché sei sempre così rigido e taciturno!».
 
«Io non…».
 
«E invece sì! Ma tranquillo, ci penso io a te!».
 
Cristiano non era molto convinto. «In che senso? Insomma le parole d’ordine dovrebbero essere sognare e giocare non divertimento. E la scuola che c’entra?».
 
«C’entra. Devi darti una svegliata. Vuoi che tuo padre si accorga di te? Vai male a scuola».
 
«Sei seria?».
 
«Sì, comprovato».
 
«È per questo che ti comporti male a scuola?».
 
«Esattamente. Ieri sera mia mamma è rimasta a casa con me e ha dato buca a Ferrari».
 
«Non ti sembra un po’ egoistico?».
 
«Egoistico?».
 
«Beh, sì. Ferrari è simpatico ed è giovane. Non c’è nulla di male se stanno insieme, no? A te non piacerebbe avere un papà?».
 
«No. Io ce l’ho un padre e mi basta. Tu non vuoi odiare il Natale e quindi vuoi che il tuo papà torni a volerti bene e io voglio che mia mamma lasci perdere Ferrari. Siamo d’accordo?».
 
«D’accordo» assentì Cristiano stringendole la mano.
 
«Quindi la prima mossa è andar male al compito di italiano e all’interrogazione di matematica».
 
Cristiano deglutì: quel piano non gli piaceva per nulla. Era vero che trovava molto più semplice essere ignorato dalle maestre delle elementari, ma trovava piacevoli e confortanti le lodi che ogni tanto gli elargiva la Marchetti o qualche altro professore. Giulia forse non lo capiva, ma la scuola era l’unico modo per lui di sentirsi apprezzato da qualcuno. Tentò di spiegarglielo proprio mentre suonava la campanella.
 
Al primo piano, dove avrebbero dovuto separarsi, Giulia gli disse: «Non sono sicura di aver capito bene. Hai paura che mi madre ti odi o qualcosa del genere».
 
«Una cosa del genere» ribatté Cristiano.
 
Giulia si strinse nelle spalle e sospirò: «Non credo che lei odi qualcuno… non odia manco me quando faccio i dispetti a lei e Ferrari… comunque non conosco altro modo per attirare l’attenzione di tuo padre… a meno che tu non voglia rubare in un supermercato».
 
«Cosa?» sbottò sorpreso Cristiano. «No, no, meglio prendere un quattro».
 
«Concordo. Buona fortuna».
 
«Grazie».
 
Cristiano decise di seguire il suo consiglio ma si trovò di fronte a una terribile verità: è molto difficile sbagliare qualcosa di proposito. E come si faceva ad andare male in un tema? Si passò una mano sulla fronte conscio che l’unica strada fosse quella ortografica e grammaticale: buttare giù qualche mostruoso errore, tipo hanno sostantivo con l’h e anno verbo senza… Sì, quella era la via migliore per beccarsi un quattro.
 
La traccia, però, non era d’aiuto: “Si dice che a Natale si è tutti più buoni, spiega perché e se sei d’accordo”. Era praticamente tutto quello su cui aveva riflettuto in quei giorni. Scrisse di getto e, dopo più di un’ora, mise giù la penna soddisfatto e contento di poter condividere quei pensieri con un adulto. Rileggendo, però, si rese conto di essersi dimenticato l’obiettivo iniziale: andare male. Lanciò un’occhiata incerta alla Marchetti che passeggiava tra i banchi e sospirò: Giulia aveva ragione, doveva scegliere. E riavere l’affetto e le attenzioni di suo padre era molto più importante di avere buoni voti. E dopotutto aveva provato ad andare benissimo a scuola per renderlo orgoglioso di lui, ma aveva a malapena guardato le sue pagelle alle elementari, perciò doveva provare un’altra tattica. Si mise a ricopiare il compito in bella copia facendo ben attenzione a togliere accenti dov’erano necessari e metterli dove invece non andavano, stessa cosa con le h e con le doppie. Un vero scempio grammaticale. Non c’era nulla da salvare in quel compito se non forse il contenuto. Lo consegnò senza nemmeno rileggerlo, tanto a che sarebbe servito?
 
Più difficile fu andare male all’interrogazione di matematica, perché chiunque avesse avuto occasione di conoscere il professor Bianchi avrebbe saputo che scherzare con lui fosse molto pericoloso.
 
«Tu sei sicuro di quello che stai dicendo?» chiese il professore fissandolo male dalla cattedra.
 
Cristiano deglutì e mosse leggermente il capo in segno d’assenso. L’avrebbe ucciso? «Le rette accidentali non s’incontrano mai, mentre le rette parallele si incontrano almeno in un punto». Avrebbe voluto che Giulia potesse assistere a quella sua botta di coraggio. Qualcuno ridacchiò più perché era palesemente nei guai che perché avesse veramente capito dove stesse sbagliando.
Per conto suo, Cristiano era sicuro che se lo sguardo avesse potuto uccidere, sarebbe già stecchito sul pavimento dell’aula.
 
«Vai a sederti, Negri, prima che ti sbatta fuori. Oggi hai voglia di fare dello spirito, spero che un bel quattro te la faccia passare».
 
Cristiano non fiatò e mantenne un profilo basso per il resto dell’ora.
 
«Allora com’è andata?» gli chiese Giulia alla fine delle lezioni.
 
«Ho preso quattro con Bianchi e ti dico solo che nel compito d’italiano ho scritto soltanto il mio nome giusto».
 
«Ammirevole, pensavo che non ce l’avresti fatta» commentò Giulia. «Comunque forse hai esagerato».
 
«In che senso?».
 
«Non hai scritto una parola corretta?».
 
«All’incirca. Prenderò quattro».
 
«Quanto hai di solito?».
 
«Nel primo compito ho preso 9».
 
«Ecco appunto» sbuffò Giulia sbattendosi una mano sul volto. «Hai esagerato».
 
«Ma me l’ha detto tu!».
 
«Io ti ho detto di andare male, non di fare un disastro! Passare dal nove al quattro! Mia mamma capirà subito che c’è qualcosa di strano».
 
«E ora?».
 
«E ora, niente. Quando sarà, vedremo. Mia madre ha il consiglio di classe pomeriggio, facciamo qualcosa insieme?».
 
«Io e te?».
 
«No, io e la sorella che non ho! Certo, io e te!».
 
«Ehm, si certo. E cosa?».
 
«Posso venire da te. Hai la playstation?».
 
«No, mi dispiace. Non ho molti giochi» rispose Cristiano desolato.
 
«Fa nulla. Porto io qualche gioco da tavola. Tuo fratello quanti anni ha?».
 
«Quattro».
 
«Bene, allora porterò qualcosa che vada bene anche per lui. Tuo padre non c’è vero?».
 
«No, no, torna tardi».
 
«Ottimo, allora» disse lei scoccandogli un bacio sulla guancia. «A più tardi».
 
«A dopo».
 
Cristiano era spaventato ed elettrizzato allo stesso tempo: non sapeva se suo padre avrebbe approvato, ma probabilmente il non chiedere il permesso andava di pari passo con l’andare male a scuola.
 
Giocare e sognare. Quelle avrebbero dovuto essere le sue parole d’ordine!
 
Quel pomeriggio, dopo aver tentato di ordinare la casa alla ben in meglio, Cristiano accolse Giulia con un enorme sorriso stampato in volto: nonostante tutte le preoccupazioni – e soprattutto la latente consapevolezza che il loro piano facesse acqua da tutte le parti – era contento di vederla.
 
«Ma… è l’albero?» fu la prima cosa che Giulia notò entrando nel soggiorno.
 
«Non lo facciamo da anni» borbottò Cristiano, mentre Marco le saltellava intorno desideroso di avere le attenzioni della nuova arrivata.
 
«Stai scherzando? Ma è terribile!».
 
Cristiano a disagio si strinse nelle spalle. «Una volta facevo un albero grande… era finto, non uno vero… Mio padre pensava che gli abeti veri non dovessero essere tagliati per il nostro divertimento… Le palline erano di tutti i colori… e… insomma, lascia perdere…».
 
Giulia gli sorrise. «Non ce l’hai più quelle decorazioni?».
 
«Ci siamo trasferiti» borbottò il ragazzino.
 
«Quando uno si trasferisce, si porta dietro le proprie cose» replicò sensatamente Giulia.
 
Cristiano si strinse nelle spalle. «Non lo so».
 
«Non hai una soffitta o una cantina? Magari tuo padre le ha messe in degli scatoloni».
 
«Siamo al terzo piano. Non ci sono soffitte o cantine qui» ribatté Cristiano stranito e turbato.
 
«Beh, allora un ripostiglio?».
 
«Quello sì» replicò Cristiano.
 
«Vediamolo».
 
Tutti e tre si spostarono verso il ripostiglio situato vicino alla porta d’ingresso, ma ben dissimulato da un appendiabito colmo di giacche e giubbotti. Non lo aprivano spesso, anzi Cristiano non ricordava di averne mai avuto motivo. Effettivamente vi erano accatastati vari scatoloni alla rinfusa insieme a molti oggetti di dubbia utilità.
 
«Controlliamo tutti gli scatoli» sentenziò Giulia.
 
Non fu per nulla semplice, perché alcuni erano veramente pesanti. Per la felicità di Marco trovarono dei vecchi giocattoli di cui Cristiano non ricordava neanche l’esistenza.
 
«Figo, tuo padre è un poliziotto. Perché non me l’hai detto?».
 
«È un carabiniere. Questa è meglio non toccarla» replicò Cristiano affrettandosi a riporre l’uniforme da cerimonia del padre, probabilmente quella indossata al matrimonio, conscio del fatto che Giulia e suo fratello avrebbero trovato divertente giocarci e suo padre non avrebbe di certo gradito.
 
«È la stessa cosa».
 
«Per loro no».
Si rimisero a lavoro e, finalmente, sotto alcuni scatoloni contenente vecchi libri – quelli della madre si rese conto Cristiano con un colpo al cuore – trovarono, come previsto da Giulia, quello con le decorazioni natalizie e quello con i pastorelli del presepe.
 
«Wow, dai mettiamoci a lavoro» strillò contenta Giulia.
 
Cristiano, senza ascoltarla veramente, passò una mano su un libro foderato in pelle: sua madre gli leggeva le fiabe da quello ogni sera. Le fiabe di Perrault. A sua mamma piaceva molto leggere e si divertiva a imitare le voci dei personaggi. Era così brava che ancora Cristiano si ricordava la paura provata immaginandosi la povera fanciulla che tentava di salvarsi Barbablù.
 
«Ehi, ti muovi? Ti sei incantato? Dio mio, sei proprio un secchione! Sicuro che non ci abbiano scambiato nella culla?».
 
«Siamo un maschio e una femmina. È difficile che abbiano potuto commettere un errore così grossolano». Diede un’ultima occhiata al libro e in un attimo decise di prenderlo con sé, prima di chiudere gli scatoloni e la porta del ripostiglio. Percepiva vagamente che il padre avesse voluto chiudere lì quei libri per dimenticare la moglie, ma quel libro apparteneva un po’ anche a lui e lo voleva con sé, indipendentemente da quanto si sarebbe arrabbiato il padre. Lasciò che Marco, sotto la guida di Giulia, tirasse fuori le decorazioni e corse in camera a nasconderlo. Ebbe un momento di titubanza, poi lo ficcò nello zaino: suo padre non avrebbe mai messo le mani lì.
 
«Mettiamo un po’ di musica!» urlò Giulia quando lui tornò nel salottino.
 
«E come?».
 
«Il cellulare di mia madre» replicò lei.
 
«Ma lei lo sa?» chiese Cristiano conoscendo già la risposta.
 
«No, ma non c’è problema. Ferrari le sta appiccato, non ne avrà bisogno».
 
«Dovresti smettercela di avercela con lui» borbottò Cristiano.
 
«Dovresti avercela anche tu con lui, visto che ti obbliga a far parte del coro».
 
«È il suo lavoro» sospirò Cristiano. «Comunque meglio lui dell’Aletto».
 
«Nessuno è peggio di lei» concordò Giulia. «È una strega».
Bianco Natale si diffuse per tutto il piccolo appartamento e i tre ragazzi si misero a lavoro. Cristiano e Giulia tirarono il grande albero fuori dallo scatolo con una certa fatica e il primo dovette salire su una sedia per montare la parte superiore. All’inizio era tutto così strano, ma lentamente, travolto anche dall’entusiasmo di Giulia e da quello di Marco, Cristiano si tranquillizzò.
 
«E viene giù dal ciel, lento,/ un canto che consola il cuor/ che mi dice: spera anche tu/ è Natale, non soffrire più» cantò Giulia avvolgendolo con un nastro colorato.
 
«Nella notte santa/il cuore esulta d'amor:/ è Natale ancor!» continuò a sua volta Cristiano ricordandosi il testo studiato settimane prima per Ferrari. Forse non era così male!
 
«Wow, non sei così stonato come vuoi far credere! Proviamo A Natale puoi dai, così quel cretino di Ferrari non si lamentarà».
 
Avrebbe voluto dirle di no, ma non ne era in grado.
 
«Daaai! Pronto?».
 
«A natale puoi
fare quello che non puoi fare mai:
riprendere a giocare,
riprendere a sognare,
riprendere quel tempo
che rincorrevi tanto» senza nemmeno rendersene conto la sua voce si unì a tempo a quella dell’amica. E sembrava così semplice e giusto.
«È Natale e a Natale si può fare di più,
è Natale e a Natale si può fare di più,
è Natale e a Natale si può fare di più,
per noi, a Natale puoi» continuò per poi fermandosi di botta rendendosi conto di star cantando da solo. «Che fai?» le chiese imbarazzato.
 
«Volevo vedere come te la cavi da solo. Ferrari ti vuole come solista» replicò ella, mentre la canzone continuava in sottofondo con gli strilli acuti di Marco che cantava a sua volta, mangiandosi però un paio di parole a verso.
 
«Io non canto da solo» ribatté Cristiano scuotendo la testa violentemente. «Ferrari se lo scorda».
 
 
«Sa essere molto testardo» replicò Giulia seria, mentre la musica si spegneva lentamente.
 
«Un’altra, un’altra» strillò Marco smettendo di saltellare e avvicinandosi ai più grandi.
 
«Che mi metta pure quattro in musica. Chissenefrega. Ma io non canterò da solo. Poi non dovevo smetterla di fare il secchione?».
 
«Beh, sì…» ma stranamente Giulia non sembrava pienamente convinta, ma Cristiano non poté chiederle spiegazioni a causa di Marco che continuava a insistere. «Ok, ok ecco».
 
Cristiano riconobbe all’istante la melodia ed ebbe un tuffo al cuore.
 
 
 
Tu scendi dalle stelle o re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo e vieni in una grotta al freddo e al gelo...
 
 
 
Per un istante a Cristiano sembrò quasi di vedere la madre al posto di Giulia affaccendarsi intorno all’albero e scherzare con Marco.
Non ma che diceva! Non era Marco, era lui: Marco era troppo piccolo non aveva mai addobbato l’albero con la mamma.   
 
La mamma lo prendeva per mano e lo incitava a scegliere una pallina. Quella con Babbo Natale era la sua preferita, ogni volta era la prima a cercare nello scatolone.
 
«La voglio mettere in alto e poi quelle con le renne intorno!».
 
«Certo! Senza le renne Babbo Natale non potrebbe distribuire tutti i regali». E lei lo prendeva in braccio per fargli appendere la pallina dove voleva.
 
«Scriviamo la letterina poi?».
 
«Sì, ma ricordati che Babbo Natale porta i suoi doni solo ai bambini buoni! Sei stato buono?».
 
La sua fronte si corrugava mentre cercava una nuova pallina e si stringeva nelle spalle. «Non lo so… pensò di sì…».
 
Sua mamma rideva. Aveva una bellissima risata e lo abbracciava. «Ma sì, che lo sei stato! Vedrai Babbo Natale ti porterà quello che desideri di più!».
 
Poi la sera arrivava suo padre e insieme appendevano la stella in cima. Allora sì che l’albero era bellissimo! Poi si sedevano sul divano dopo cena con la cioccolata calda e la mamma raccontava a lui e al papà la storia di Babbo Natale. Di solito Cristiano si addormentava lì con loro e infatti la mamma lo convinceva a indossare il pigiama prima. Ne aveva uno rosso con Babbo Natale e un altro con un enorme pupazzo di neve.
 
«Cris? Cris? Cristiano!».
 
Si riscosse ritrovandosi a pochi millimetri dal viso quello di Giulia. «Che hai? Perché piangi?» gli chiese con apprensione. Persino Marco era turbato, il suo visino faceva capolino dietro la più grande.
 
Cristiano non si era accorto di aver pianto e si passò una mano sugli occhi. «Perché se n’è andata? Eravamo felici. Io non le ho fatto nulla. Diceva che ero buono e che Babbo Natale mi avrebbe portato tutti i regali che volevo!» quasi gridò singhiozzando.
 
Giulia lo fissò sconvolta e poi lo abbracciò forte. «Non lo so. Gli adulti sono strani e poi lo dicono a noi!».
 
Cristiano non si ricordava l’ultima volta che aveva pianto in quel modo, ma si strinse a Giulia come se fosse la sua unica ancora di salvezza. E forse lo era veramente.
 
«Non piangere» piagnucolò Marco tentando di abbracciarli entrambi con le sue braccine ancora corte.
 
 
 
A tarda sera, Cristiano sentì il padre rincasare e ne ascoltò i passi rendendosi conto che andavano direttamente in camera da letto. Tese le orecchie seguendone i movimenti e, dopo un tempo che gli parve sufficiente, si alzò dal letto e lentamente, stando ben attento a non fare rumore, si avviò nel corridoio buio rasentando la parete ed entrò nella stanza del padre, che, fortunatamente, si era dimenticato di abbassare le tapparelle e un fascio di luce penetrava dall’esterno. Cristiano si sedette sul bordo del letto e lo osservò: suo padre era un bell’uomo, la mamma lo diceva sempre, sebbene odiasse il taglio militare dei capelli; i suoi lineamenti erano morbidi nel sonno, ma il ragazzino sapeva quanto potesse divenire severa la sua espressione e quanto effetto facesse quando indossava la divisa.  
 
Perché la mamma li aveva abbandonati? Avrebbe mai trovato il coraggio di chiederlo esplicitamente al padre? E se gli avesse detto che era colpa sua?
 
No, Cristiano non voleva pensarci, così si guardò intorno: la stanza era ordinata e immacolata come di consueto, fuori posto vi era solo la divisa tolta dal padre poco prima. Il ragazzino si voltò nuovamente verso quest’ultimo e adocchiò il cinturone che pendeva sul letto. A sua mamma non piacevano le armi e odiava che il marito le portasse in casa. Era uno dei motivi per cui in passato litigavano spesso: il papà diceva sempre che nemmeno a lui piacevano, ma quella di ordinanza non avrebbe mica potuto buttarla! Cristiano aveva il divieto assoluto di toccarla. Una volta da piccolo non era riuscito a trattenere la curiosità e l’aveva presa di nascosto mentre i suoi erano in cucina. Suo padre l’aveva beccato e gli aveva tirato un ceffone che ancora si ricordava, ma poi ne era seguita una lite terribile, la peggiore che ricordasse tra i suoi genitori.
Sospirò: era colpa sua, sua se i suoi si erano lasciati. Era da sciocchi illudersi del contrario. Era colpa sua se sua madre se n’era andata, era colpa sua se suo fratello stava crescendo senza una madre, era colpa sua se suo padre non sorrideva più.
Il giorno dopo avrebbe comunicato a Giulia che la loro missione s’interrompeva: dopotutto era già nella lista dei cattivi, il primo sicuramente.
 
Sentì il padre muoversi e si allontanò rapidamente.
Si gettò sul letto con il cuore a mille e tese l’orecchio per capire se il padre si fosse svegliato o meno. Percepì il cigolio del materasso, ma poi la casa tornò perfettamente silenziosa
 
 
La mattina dopo fu difficile parlare con Giulia, perché Cristiano arrivò in ritardo e si beccò una sgridata da Bianchi e in seguito decise di evitarla per il resto della giornata conscio che non sarebbe stato in grado di spiegarle la sua decisione. Il giorno dopo, però, l’amica dimostrò quanto poco fosse d’accordo.
 
«Ma insomma che cavolo ti è preso?» sbottò Giulia attirando l’attenzione di tutta la prima F nel cambio dell’ora. «Mi stai evitando!».
 
Cristiano sollevò gli occhi dal banco, che aveva fissato vacuo fino a quel momento, e la fissò stranito sorpreso dalla sua furia e dal fatto che fosse andato a cercarlo. «Vedi che ora deve venire tua mamma».
 
«Non me ne fregherebbe un tubo nemmeno se dovesse venire la Aletti! Dimmi che ti prende!» ribatté lei.
 
«Io…» iniziò ma tacque.
 
«Tu?».
 
La classe si zittì improvvisamente e tutti si affrettarono a prendere posto. Cristiano si alzò in piedi meccanicamente per salutare la professoressa, ma nemmeno quelle lezioni lo entusiasmavano come prima.
 
«E tu che fai qui?» chiese la Marchetti sollevando gli occhi al cielo.
 
«Dovevo parlare con Cristiano» rispose Giulia come se fosse ovvio.
 
«Non mi sembra il momento adatto, fila nella tua classe».
 
Giulia non replicò neanche, ma prima di andarsene lanciò un’occhiataccia all’amico.
 
Il resto della mattinata trascorse lento e nebuloso, Cristiano riuscì a farsi rimproverare più volte persino dalla Marchetti per la sua distrazione. Alla fine della lezione si trattenne, la professoressa comprese che voleva parlarle e attese che uscissero tutti.  «Stai bene?».
 
«Sì, le volevo chiedere se può riferire una cosa a Giulia» disse raccogliendo il suo poco coraggio. Tanto ormai tutto gli era sfuggito dalle mani.
 
«Non puoi parlarle tu? Mi starà aspettando fuori» replicò ella visibilmente sorpresa.
 
«No, meglio di no. La ringrazio per l’invito, ma non verrò oggi pomeriggio».
 
«Ah, Giulia non ne sarà contenta. Era entusiasta all’idea di andare a pattinare con te».
 
«Mi dispiace, ma non posso» sospirò Cristiano conscio che stava sbattendo la porta in faccia all’unica amica che aveva da anni. Ma era meglio così.
 
«Penso che vorrebbe sentirselo dire da te».
 
«Non ho il coraggio» borbottò allora Cristiano. «Arrivederci!» aggiunse scappando via e ignorando i suoi richiami. Sapeva di essere stato maleducato, ma era più semplice scappare via. All’uscita evitò ancora Giulia, fortunatamente trattenuta ancora da alcune compagne di classe.
 
Nel pomeriggio Cristiano giocò con Marco e insieme sistemarono il presepe. Era piccolo ma carino.
Per tutto il tempo attese con ansia l’arrivo di una Giulia arrabbiata: un po’ lo temeva, un po’ lo sperava. Ma non accadde. Quella sera andò a letto presto pur di non incontrare il padre: aveva paura che si arrabbiasse per le decorazioni prese senza permesso e non aveva il coraggio di affrontarlo.
 
La domenica suo padre rimase in casa, ma, esclusi i pasti, Cristiano si rintanò in camera sua con la scusa dei compiti. Con il cuore in gola, però, sentì Marco tutto contento raccontare al padre di Giulia e del pomeriggio trascorso con lei e per un po’ temette che il padre piombasse in camera chiedendo spiegazioni. Ma non accadde e se per questo nemmeno a tavola fu toccato l’argomento.
Più volte, però, a pranzo e a cena, Cristiano beccò il padre a fissarlo e gli parve strano: perché non diceva nulla? Era sempre stato una persona diretta, specialmente quando lo rimproverava.
 
A letto quella sera Cristiano era sempre più convinto che in realtà fosse giusto così: suo padre e Marco meritavano di godersi il Natale.
 
 
 
 
Il lunedì mattina era ben deciso a continuare a evitare Giulia e far finta che i giorni precedenti non fossero mai esistiti. Sarebbe tornato tutto come prima.
Peccato, che la realtà non vada quasi mai come noi vorremmo.
Ogni azione ha una reazione affermava sempre il professor Bianchi, ma prima d’ora Cristiano non ne aveva pienamente compreso il significato.
 
Giulia lo travolse come una furia proprio mentre si accingeva a entrare nella sua classe.
 
«Ah! Ti ho beccato!». Era evidentemente arrabbiata, ma Cristiano non aveva idea di come comportarsi e la fissò in silenzio.
 
«È possibile che non sei mai nella tua classe?» sbottò la Marchetti sopraggiungendo e lanciando un’occhiata esasperata alla figlia.
 
«Ci sto andando» replicò lei e poi si rivolse a Cristiano ancora immobile. «Vedi di trovare un modo per farti perdonare. Non sarà semplice». E gli fece la linguaccia.
 
La Marchetti sospirò: «Avanti, prendi posto». Sempre ben decisa a separare il ruolo di madre da quello d’insegnante. «Vi ho riportato i compiti d’italiano e di grammatica» annunciò alla classe.
 
«Ma quello di grammatica l’abbiamo fatto sabato» si lamentò Fabiana Corsi.
 
«E quindi? Li ho corretti tra sabato e domenica. E spero che abbiate studiato anche voi, perché mi mancano ancora un paio di interrogazioni».
 
Chiara Fazi distribuì i compiti corretti e il primo amaro pensiero di Cristiano fu che Giulia avrebbe approvato i suoi risultati, peccato che avessero litigato e che il piano non valesse più.
 
«Allora, mi spieghi che cosa ti passa per la testa?». Il ragazzino sobbalzò quando la professoressa appoggiò le mani sul suo banco e lo fissò, ma lui non rispose. Non avendo risposta la Marchetti gli mise sotto gli occhi, una accanto all’altra, la bella e la brutta del compito d’italiano. «Si vede chiaramente che hai scritto correttamente in brutta, poi in bella hai inserito volontariamente degli errori e qualche volta ti sei ricordato di riportarli anche sulla brutta e qualche volta no. Che cosa volevi ottenere?». Eh, già che bello scemo! E ora che doveva risponderle? «Non rispondi?». Cristiano non vedeva altra via d’uscita che tacere, fissò ostinatamente il banco senza fiatare. «Se è così, sono costretta a scrivere ai tuoi genitori» sospirò ella mettendo mano al diario sul banco.
 
«No! La prego!» la supplicò con le lacrime agli occhi. Non aveva mai preso una nota e non aveva idea di come avrebbe reagito il padre. «Mi dispiace! Volevo ottenere proprio questo».
 
«Prego?».
 
«V-volevo prendere un brutto voto».
 
«Fammi capire, hai sbagliato appositamente i compiti?».
 
«Sì, cioè no…».
 
«Sì o no?».
 
«Quello d’italiano l’ho sbagliato apposta» confessò allora. «Quello di grammatica no, io ero distratto…». Ed era sincero sabato non aveva proprio prestato attenzione a quello che scriveva e aveva scritto tante di quelle stupidaggini di cui ora si vergognava. O meglio si vergognava dell’intera situazione tanto che scoppiò in lacrime.
 
La Marchetti sospirò e gli passò una mano tra i capelli. «Vai a sciacquarti il viso in bagno, su».
 
Cristiano non se lo fece ripetere e si fiondò fuori dall’aula. Il bagno a quell’ora era completamente deserto per fortuna e il ragazzino si lasciò scivolare a terra appoggiando le spalle al muro e sfogando le sue lacrime. Era tutto troppo.
 
«Cristiano» la voce gentile della Marchetti lo costrinse a sollevare gli occhi. «Che cos’hai? Se non me lo spieghi, non posso aiutarti».
 
E così Cristiano, incespicando tra una parola e l’altra, gli raccontò della canzone, di come avesse pensato che potesse essere vera e che il Natale non fosse così male, di come avesse condiviso il suo piano con Giulia e di come lei lo avesse supportato e di come avesse compreso che era tutta colpa sua.
Non avrebbe saputo ripetere tutto quello che le disse, ma il suo abbraccio in quella fredda mattina di dicembre fu per lui consolatorio.
 
 
Quella sera quando andò a letto si sentiva stanco e svuotato, nonostante non avesse fatto di diverso dal solito. Né Giulia né sua madre potevano aiutarlo in alcun modo. In più Giulia ce l’aveva con lui e una parte di sé avrebbe voluto veramente farsi perdonare.
Quando il padre rincasò stava ancora rimuginando su quelle cose e a malapena ci fece caso. Sobbalzò, però, quando i passi questa volta si fermarono sulla soglia della sua camera. La sua prima reazione fu voltarsi: il padre si stagliava in uniforme sulla porta, gli mancava solo il cappello che appendeva sempre all’ingresso. Non passava mai dalla sua stanza quando tornava, si affacciava solo a quella di Marco. Alle volte, anni prima, aveva sperato che lo facesse. Ora non se l’aspettava. Allora si mise seduto con il cuore che batteva forte, mentre suo padre si avvicinava.
 
«Che cos’hai combinato?». Una domanda chiara e netta. Nemmeno l’ombra di un sorriso.
Di che parlava? Forse delle decorazioni? Cristiano lo fissò perplesso senza capire.
«Cristiano, che cosa hai combinato a scuola? E non me lo fare ripetere un’altra volta!» ringhiò suo padre severamente, ma mantenendo il tono basso probabilmente per non svegliare Marco.
«I-io…» non aveva idea di che cosa rispondere. La Marchetti non gli aveva fatto la nota sul diario e gli aveva assicurato di averlo perdonato.
«Tu?».
«Ho preso dei brutti voti in questi giorni» buttò fuori tutto d’un fiato. Era assurdo: erano anni che non avevano una conversazione così lunga! Alla fine aveva avuto ragione Giulia.
«Perché non hai studiato?» gli chiese allora. «Rispondi!» ordinò vedendo che rimaneva in silenzio.
Cristiano non avrebbe mai potuto raccontargli la verità. Era impensabile! «Non avevo voglia» bisbigliò quasi sperando che lui non lo sentisse.
Suo padre tirò un pugno sul materasso e Cristiano per lo spavento sobbalzò all’indietro appiattendosi alla spalliera del letto.
«Scusa. Studierò, te lo prometto» si affrettò a dire.
Suo padre serrò la mascella e lo fissò furioso per qualche secondo, poi si alzò. «Lo spero bene. Ho dovuto chiedere una mattinata di permesso per andare a parlare con i tuoi insegnanti domani. Non voglio ricevere più telefonate di questo genere».
Cristiano annuì, mentre suo padre lasciava la stanza: aveva ottenuto l’attenzione desiderata, ma non ne era per nulla felice.
La mattina dopo arrivò perfettamente in orario a scuola visto che lo accompagnò suo padre e Marco con lui era raro che facesse capricci per alzarsi o per vestirsi.
Avrebbe voluto chiedere a suo padre consiglio su come comportarsi con Giulia, ma non era proprio il caso. All’ingresso si mosse subito verso di lei dopo averla salutata con la mano, ma suo padre lo trattenne per il giubbotto. «Fila in classe e non perdere tempo in giro! Non prendere brutte abitudini!».
Cristiano non ebbe altra scelta che obbedire, ma fortunatamente Giulia lo seguì. «E quindi quello è tuo padre, dico bene?».
«Sì. Non ce l’hai più con me?».
Lei si strinse nelle spalle. «Forse un pochino. Ho parlato con la mamma. Mi ha detto che hai bisogno di un’amica adesso».
«Grazie. Mi dispiace di non essere venuto a pattinare».
«Non sai che ti sei perso» convenne Giulia. «Comunque» soggiunse abbassando la voce. «Tuo padre mi è sembrato arrabbiato».
«È stato convocato a scuola, certo che lo è» sospirò il ragazzino.
«Ma mia madre non è arrabbiata con te, è solo preoccupata. Non credo che gli dirà cose cattive».
«Ho preso due quattro con lei. Uno con Bianchi e due con la Aletti. E ne prenderò uno in pagella con Ferrari. Un disastro. Certo che dirà cose cattive. Sono stato cattivo».
«Non sono d’accordo, comunque per Ferrari ho trovato una soluzione».
«Quale?» chiese sorpreso Cristiano.
«Canteremo insieme, così non dovrai farlo da solo».
«Non accetterà. Ha detto che devo essere io solo».
«Ha detto che devi essere un solista, non per forza l’unico. Comunque ha già accettato, non gli ho dato pace ieri sera finché non mi ha ascoltato e l’ho convinto… non ci ho messo molto in realtà… anche la mamma è d’accordo… sai, Ferrari non è poi così male…».
Cristiano le sorrise e l’abbracciò stretta. «Grazie mille! Grazie! Grazie!».
«Va bene, va bene, sono un mito lo so. Ora andiamo in classe però. Gli adulti rompono anche se manca a malapena una settimana a Natale».
 
Suo padre non rientrò a casa per pranzo come al solito, ma alla sera, nonostante fosse andato a letto presto, Cristiano si aspettava che il padre andasse da lui per rimproverarlo ancora, dopotutto i professori gli avranno detto quanto era stato scostante e distratto in quei giorni. Effettivamente sentì i suoi passi bloccarsi sulla soglia, ma suo padre non entrò. Impiegò diverso tempo per calmare i battiti del cuore e tranquillizzarsi.
I giorni seguenti non furono differenti: mai una parola su quanto accaduto fu pronunciata dal padre. Cristiano s’impegnò sia a scuola sia nelle prove per lo spettacolo. Con Giulia accanto era tutto più semplice.
L’unica canzone su cui ancora si bloccava era Tu scendi dalle stelle. Fortunatamente Ferrari non gli diceva più nulla.
 

 
A Natale puoi
Dire ciò che non riesci a dire mai:
che bello è stare insieme,
che sembra di volare,
che voglia di gridare
quanto ti voglio bene.
 

Nonostante i guai che aveva combinato aveva iniziato ad apprezzare quella canzone e alla fine della lezione quella strofa gli era rimasta impressa più che mai, tanto da domandarsi se l’autrice l’avesse scritta per lui: anche lui avrebbe voluto gridare al padre che gli voleva bene e di perdonarlo per aver fatto andare via la madre.
Un paio di volte in quelle sere, Cristiano andò in punta di piedi nella stanza del padre con la speranza di trovare il coraggio di parlargli, ma non accadde. Non gli aveva neanche detto dello spettacolo eppure avrebbe tanto voluto che andasse a vederlo.
Il venerdì sera mise via i libri visto che il giorno dopo non avrebbero fatto nulla per via delle prove generali e della festa organizzata in virtù che fosse l’ultimo giorno prima delle vacanze. In più aveva recuperato il brutto voto in matematica, Bianchi, che non voleva volontari “perché i volontari vanno solo in guerra”, stranamente aveva accettato di interrogarlo. Unica nota dolente era il francese, ma per quello non aveva molte soluzioni.
Spinto dalla canzone decise che, se non aveva il coraggio di parlare con il padre, allora gli avrebbe scritto. Non aveva idea di che cosa gli avessero comunicato i professori, ma Cristiano era abbastanza sicuro che la Marchetti gli avesse raccontato del suo sfogo. Nella lettera gli avrebbe raccontato tutta la storia da principio: da come avesse provato a odiare il Natale, a come avesse provato ad andare bene a scuola per compiacerlo e di come aveva deciso con l’aiuto di Giulia di attirare la sua attenzione, gli confessò del libro preso dal ripostiglio e che nascondeva gelosamente nel suo zaino. Tutto. Soprattutto quanto gli mancasse la mamma e quanto fosse dispiaciuto per averla fatta andare via. Quella sera portò la lettera a letto con sé.
La mattina dopo il padre, rientrato probabilmente da poco dal turno notturno, dormiva profondamente nel suo letto e, prima di uscire con Marco, Cristiano gli appoggiò la lettera sul cuscino.
Quel pomeriggio vi erano le ultime prove e quindi non tornò a casa a mangiare, ma si limitò a prendere Marco all’asilo e portarlo a scuola con sé.
 
«Stai benissimo» trillò Giulia.
Cristiano arrossì e si schermì: aveva indossato una vecchia camicia bianca e un paio di jeans, nulla di eccezionale. Le sorrise mentre la ragazzina gli raddrizzava la cravatta con il simbolo della scuola.
«Ci vediamo dopo» gli disse correndo via con il suo flauto traverso. Al momento della canzone l’avrebbe raggiunto sul palco, su cui era posizionato il coro.
Fin troppo presto il teatro, perfettamente decorato, si riempì di insegnanti e genitori e Cristiano prese a cercare il padre con lo sguardo, ma non vi era ancora riuscito quando Ferrari lo chiamò per salire sul palco insieme ai tutti gli altri ragazzini di prima. 
Come aveva promesso al professore cantò Bianco Natale e Jingle Bells, ma non fiatò quando fu il turno di Tu scendi dalle stelle. Anche mentre cantava i suoi occhi schizzavano per la sala alla ricerca del volto paterno, ma Marco stazionava sempre in fondo alla sala con altri bimbi piccoli.
 
Quasi non si accorse quando fu il momento di A Natale puoi, ma Giulia lo prese per mano e lo condusse davanti agli altri. Cristiano cantò perché con lei accanto non poteva fare altrimenti, ma si concentrò a fatica. Almeno finché lei, mentre il coro li copriva, non gli sussurrò: «Guarda in fondo». Alzò gli occhi che aveva tenuto sul pavimento e individuò quasi subito la figura massiccia del padre. Marco doveva averlo visto prima perché gli si era già arrampicato sulle spalle. Era in borghese. Era lì per lui.
 
 
«Luce blu,
c'è qualcosa dentro l'anima che brilla di più:
è la voglia che hai d'amore,
che non c'è solo a Natale,
che ogni giorno crescerà,
se lo vuoi».
 
Cantò felice di averlo lì e non si preoccupò che la sua voce per un momento superasse quella dell’amica. Voleva assicurarsi che arrivasse a lui. Voleva assicurarsi che capisse quanto bene gli volesse.
   
 
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