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Autore: Adeia Di Elferas    01/01/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Bianca stava aspettando da almeno dieci minuti di sentire il soldato, con cui si incontrava ogni sera, battere alla sua porta. Anche se fino a poco prima avevano preferito vedersi in qualche angolo tranquillo della rocca, nascosti dagli angoli più bui dei corridoi o dalle spire delle scale, negli ultimi giorni si erano risolti a darsi appuntamento direttamente nelle stanze di lei.

Non che facessero nulla di diverso dal solito, ma di comune accordo avevano preferito sottrarsi agli sguardi indiscreti della variopinta fauna che ormai abitava a Ravaldino.

Anche quella sera, mentre era in attesa, la Riario poteva sentire in corridoio i passi di soldati del Quartiere Militare, preti di San Girolamo, donne dei bordelli della città, cerusici e servi vecchi e nuovi. Si poteva dire che tra quelle quattro mura ormai vivesse una città in minuatura.

Quando finalmente sentì bussare in un modo che conosceva, la ragazza aprì un po' l'uscio e lasciò entrare il suo giovane innamorato. Il soldato le sorrise e poi, prima ancora di essersi lasciato chiudere la porta alle spalle, iniziò subito a baciarla.

Caterina, che stava passando in corridoio proprio in quel momento, aveva visto sì e no quella scena. L'unica cosa che aveva colto in modo netto era stata l'immagine di uno dei suoi soldati più giovani che entrava nella stanza di sua figlia. E Bianca era proprio dietro la porta, sorridente, in sua attesa.

Deglutendo e dicendosi che non erano del tutto affari suoi, quello che la sua terzogenita faceva con quel ragazzo, la Contessa accelerò un po' il passo, confondendosi tra gli armigeri e gli altri abitanti della rocca che, a quell'ora, ancora affollavano il corridoio.

Era stata lei a darle la libertà di scegliere come comportarsi e non poteva e non doveva biasimarla, se usava quella libertà per fare quello che voleva. Fino a pochi mesi addietro, forse, si sarebbe sentita in dovere di metterla in guardia una volta di più, ricordandole che per la legge era ancora sposata ad Astorre Manfredi. Ma siccome nessuno più nemmeno da Faenza sembrava voler ricordare quel legame, ora che il Borja cavalcava alla volta di Forlì, tanto valeva evitare di rovinare alla Riario quegli ultimi giorni che poteva passare a Ravaldino, la rocca che per tanti anni aveva potuto chiamare casa.

Indecisa sul da farsi, la Tigre si sforzò di non pensare più a Bianca e si diresse verso la camera di Giovannino. Ora non era più occupata solo dal suo ultimogenito, ma anche da Sforzino, Galeazzo e Bernardino. Dopo una giornata stancante passata a cavallo a farsi vedere in giro per la città, la Leonessa aveva voglia di vedere un po' i suoi figli. Ottaviano escluso, si intendeva.

Quando arrivò nella loro camera, li trovò da soli, senza balie. In effetti, da quando alla rocca erano arrivate anche le famiglie di molti dei soldati, pure le balie si erano trovate a fare dei lavori che non sarebbero stati di loro competenza. Anche se la Sforza aveva informalmente proibito di portare a Ravaldino bambini molto piccoli o donne incinte, tanti suoi armigeri avevano contravvenuto a quella disposizione, promettendo che avrebbero fatto scappare le mogli e i figli non appena fosse stato necessario.

“Madre.” Galeazzo, che aveva passato buon parte della giornata con lei, era seduto sul suo lettuccio e, quando la vide, scattò subito in piedi, sorridendole.

“Volevo stare un po' con voi.” disse lei, senza aggiungere altro.

Bernardino che giocherellava con Giovannino, stando seduto con lui sul tappeto, sollevò lo sguardo verso di lei, dedicandola una silenziosa stoccata carica di scetticismo, come se non credesse possibile che la loro madre volesse stare con loro al solo scopo di passare del tempo assieme.

Mentre il piccolo Medici, nell'accorgersi dell'arrivo della madre, si tirava in piedi goffamente, facendo qualche passo verso di lei, fino ad aggrapparlesi alle sottane, Sforzino, in poltrona, chiuse il libro di teologia in cui era immerso e disse, a voce bassa, arrossendo un po': “Siamo felici che vogliate stare con noi.”

Caterina raccolse Giovannino, stringendoselo al petto e poi, mentre andava a sedersi sul letto di Galeazzo, ammise: “Visto che siete qui tutti, vorrei anche parlarvi un momento. Sapete cosa sta succedendo a Imola, e sapete che presto dovremo dirci addio.”

Bernardino, stringendo le labbra, sembrava in procinto di dire qualcosa di spiacevole, se non addirittura andarsene, così la Tigre decise di frenarlo nell'unico modo che le venne in mente. Dando qualche colpetto al materasso proprio accanto a lei gli disse di mettersi al suo fianco.

Preso alla sprovvista e quasi intimidito, il ragazzino guardò per un istante i fratelli e poi, sotto lo sguardo tranquillo, ma intenso, di Giovannino, il Feo si mise accanto alla madre.

La Contessa non voleva spaventarli più del dovuto, e immaginava che solo Galeazzo conoscesse bene la situazione politica e bellica, perciò rimase il più possibile vaga, nel descrivere il momento di crisi che stavano vivendo. Si concentrò molto di più nell'esporre il piano che lei, assieme a Luffo Numai e Michele Marulli avevano messo a punto per farli scappare nel modo più sicuro possibile.

“Quindi nostra sorella non resterà con noi?” Sforzino, che fino a quel momento era stato in silenzio, quando aveva sentito che Bianca sarebbe andata in un convento assieme a Giovannino, non era più riuscito a tacere.

Caterina annuì appena: “Purtroppo a Firenze vostro fratello dovrà guardarsi anche da suo zio, non solo dal papa.”

Bernardino, sporgendo un po' in fuori il mento, disse: “Io sono bravo con il coltello. Difenderò io Giovanni.”

“So che lo faresti.” lo blandì la Leonessa, avvertendo un piccolo brivido nel sentire chiamare il suo ultimo figlio Giovanni e non Giovannino: “Ma voglio che anche tu sia protetto. Facendo così, sarete tutti al sicuro.”

La donna parlò loro ancora per un po' e poi, quando il piccolo Medici cominciò ad assopirsi, Caterina decise che era ora di lasciarli riposare. Sistemò il figlio più piccolo nel suo lettino e diede la buona notte agli altri.

Era stato un momento molto tranquillo, rilassante, perfino, malgrado gli argomenti che avevano toccato. In un certo senso, alla Tigre aveva ricordato le sere di qualche anno addietro, quando sua sorella e sua figlia cantavano per tutti, radunati davanti al fuoco...

Tornata in corridoio, però, la realtà dei fatti tornò a travolgerla. Anche se ormai era scesa la notte, l'andirivieni di gente non si era placato del tutto. Quasi nauseata da quella confusione, non potendo rifugiarsi come avrebbe fatto in altri momenti nella sua Casina in mezzo ai boschi, la Sforza pensò che fosse l'occasione per passare qualche ora con Giovanni da Casale.

Andò nella stanza, si prese un mantello per affrontare quella sera di nebbia, e poi, appena prima di lasciare la rocca, intercettò il Capitano Mongardini, uno dei pochi di cui si fidasse davvero ciecamente, e gli sussurrò in fretta: “Andate alla cittadella e cercate Pirovano. Ditegli che lo aspetto al solito posto, se gli va ancora.”

L'uomo non fece commenti, limitandosi a un sorrisetto sghembo che lasciava intendere che avesse capito benissimo l'antifona, e poi assicurò: “Consideratela cosa fatta, mia signora.”

La Leonessa lo ringraziò e poi, calcandosi il cappuccio sulla fronte, lasciò Ravaldino, passò accanto alla statua di Giacomo Feo e andò senza indugi verso la locanda vicina al Quartiere Militare dove lei e il suo amante, da quando non vivevano più sotto lo stesso tetto, avevano preso l'abitudine di incontrarsi.

 

Cesare arrivò all'osteria Quacquarello con un ritardo che aveva quasi convinto i Bentivoglio ad andarsene senza aspettarlo più.

Il Valentino si era convinto che, fosse anche arrivato con un giorno intero di difetto, Annibale e Antongaleazzo sarebbero comunque rimasti fino all'ultimo secondo ad attenderlo, piuttosto che tornare dal padre, a Bologna, senza aver portato a termine quanto era stato loro chiesto di fare. E infatti non si stupì nel trovarli seduti a un tavolo dell'osteria quasi deserta, intenti a bere un bicchiere di vino da due soldi e borbottare tra loro a voce bassa.

Il figlio del papa aveva il viso coperto dal cappuccio, fradicio di pioggia, ed era seguito da due soldati che non indossavano armature visibili, perciò, quando si avvicinò, in un primo momento passò inosservato, potendo origliare in parte quel che i due fratelli si stavano dicendo.

Il tema della discussione non era difficile da intuire: stavano valutando se fosse o meno il caso di aspettarlo ancora. Ci fu una cosa, però, che il Borja trovò molto interessante: se Annibale pareva intenzionato a non schiodarsi da dov'era, Antongaleazzo sembrava invece desideroso di far immediatamente ritorno a Bologna.

Il Duca di Valentinois non conosceva bene nessuno dei due, ma ricordava in modo abbastanza nitido il modo in cui suo padre, papa relativamente da poco, aveva trovato insistenti e fastidiose le pressioni che il Duca di Calabria, Ferdinando d'Aragona, gli aveva fatto per convincerlo a creare Cardinale Antongaleazzo. Il ponteficie si era lamentato per giorni della noiosità del napoletano e, quando aveva capito che a pungolare l'Aragona affinché lo tormentasse era stato Annibale Bentivoglio, per conto del padre Giovanni, immediatamente le sue lamentele si erano rivoltate sul bolognese.

“Non c'è bisogno che discutiate ancora.” disse Cesare, decidendosi a palesarsi: “Sono arrivato.”

I due fratelli smisero immediatamente di parlare e scattarono in piedi, inchinandosi entrambi con fare ossequioso. Anche in quel caso, però, il Borja scorse in loro una sottile, ma fondamentale differenza. Annibale era teso, si notava in modo molto chiaro, ma tuttavia sembrava ben intenzionato a far andar bene quell'incontro. Antongaleazzo, invece, non riusciva – o forse proprio non voleva – nascondere il proprio sprezzo, mentre fissava il figlio del Santo Padre e lo salutava.

“Andiamo in un posto più tranquillo. Non si deve parlare al vento.” disse sbrigativo il Valentino e, richiamando a sé l'attenzione del locandiere, gli domandò una saletta privata in cui lui e i suoi ospiti potessero discorrere in sicurezza.

I due Bentivoglio, passati in fretta dall'essere organizzatori dell'incontro a semplici invitati, lo lasciarono fare e, anche quando si trovarono al tavolo con lui, con davanti una tazza fumante di vino caldo, parevano incapaci di esporre il loro messaggio.

Cesare amava la sensazione di superiorità che provava ogni volta in cui riusciva a mettere a tacere con la propria prontezza qualcuno. Volutamente, riempì il silenzio con qualche chiacchiera, innocua solo all'apparenza. Ricordò con fare casuale l'elezione a Cardinale di Antongaleazzo, concessa dal papa per magnanimità. Poi accennò ai disagi immensi patiti nell'arrivare fino a Imola, dovendo evitare Bologna. Infine si lamentò – sempre con il sorriso sulle labbra – del fatto che nel suo esercito non c'erano soldati bolognesi, che, magari, conoscendo un po' meglio il territorio, li avrebbero potuti aiutare di più negli spostamenti.

Antongaleazzo ascoltava in silenzio, una lieve collera che si inaspriva quando sentiva fare il nome di suo padre o della sua città. Tuttavia non ebbe né la prontezza né il coraggio di ribattere mai.

Annibale, invece, che ribolliva mentre fissava il profilo da serpente del Borja, desiderando con tutto se stesso di poterlo passare al fil di spada lì dov'erano, si sforzava di sorridere e dargli ragione, dolendosi apertamente di tutti i problemi che il Duca e i suoi soldati avevano passato.

“E comunque – concluse Cesare, stanco di ubriacarsi delle sue stesse parole – se sono qui è perché voi mi avete scritto.”

Estrasse dal giubbone la lettera autografa di Annibale che l'aveva convinto ad andare fino a lì e attese qualche istante.

Siccome nessuno dei due Bentivoglio parlava, li incoraggiò dicendo: “Dai toni con cui mi avete scritto, immagino siate qui per dirmi che tutti i disagi cui ho dovuto far fronte da solo ora potrò affrontarli con al fianco degli alleati validi e volenterosi.”

Annibale cominciò a sudare freddo. L'aveva detto subito a suo padre che trovava l'invito al Borja troppo vago: dava adito a speranze e promesse che loro non potevano onorare.

Deglutendo, il trentaduenne scambiò una breve occhiata con il fratello, di cinque anni più giovane, e poi passò a ripetere al Valentino ciò che il loro padre aveva ordinato di dirgli.

Il figlio del papa ascoltò sempre più perplesso la sfilza infinita di frasi fatte e vuote che uscivano dalle labbra del bolognese, trovando sempre più ridicola e irritante quella situazione. Aveva cavalcato per ore, correndo un rischio personale elevatissimo, nella sola speranza di tornare al campo con l'esercito di Giovanni Bentivoglio al seguito. E invece che cosa stava ottenendo? Sentite dichiarazioni di fedeltà e ipocriti propositi di aiuto.

“Perché mi avete fatto venire qui?” chiese, il tono freddo come una lastra di ghiaccio, gli occhi scuri che indugiavano ora sull'uno ora sull'altro fratello.

Antongaleazzo era pallido, stretto nel suo abito talare, le mani giunte in grembo e la fronte inumidita da un sottile e ben visibile strato di sudore gelato.

Annibale, invece, cercava di mantenere di più la calma, anche se pure nella sua voce, quando parlò, si avvertiva tutta la tensione del momento: “Bologna non vi ha aiutato attivamente, questo è vero, ma non vi siamo nemmeno ostili – più andava avanti, più le mani gli sudavano e la gola si seccava, ma non voleva fermarsi, non finché fosse giunto al punto che gli premeva di più – tenete ben in conto che, senza la nostra benevolenza, non sareste passati dal bolognese senza danno. I vostri, passando nelle nostre campagne, hanno portato scompiglio e paura, eppure non abbiamo sporto alcuna lamentela.”

“E ci sarebbe anche mancato quello.” commentò a denti stretti il Borja, sollevando un sopracciglio, apparendo quasi annoiato dalla farraginosa trattazione del suo interlocutore.

“Mio padre ha voluto mandarci qui per omaggiarvi, ma io trovo siano solo parole senza significato.” disse piano Annibale.

“Su questo mi trovate d'accordo.” convenne il Duca, accavallando le gambe e restando in attesa.

“Io voglio chiedervi di avere pietà delle mie sorelle, Violante, che è la moglie del Malatesta di Rimini, e Francesca, che è la madre del Manfredi di Faenza.” soffiò il Bentivoglio, abbassando lo sguardo, più per sfuggire a quello del fratello, che lo fissava basito, dinnanzi alla sua sfacciataggine che l'aveva portato ad avanzare una richiesta che il loro padre non aveva nemmeno pensato di fare.

“Perché dovrei farlo?” chiese, strascicato, il Borja, incrociando le braccia sul petto e scivolando un po' contro lo schienale, assumendo una posa più adatta a un convivio informale tra amici, che non a una trattativa tanto seria: “Le vostre sorelle non comandano i loro Stati. Che ci guadagnerei, a lasciarle in vita e addirittura in salute?”

Annibale deglutì: “Mio fratello Ercole combatte per voi...”

“Il vostro fratellastro – puntualizzò il Duca – e combatte per noi perché mio padre l'ha ingaggiato personalmente, non certo perché glielo abbiate chiesto voi.”

Il Bentivoglio non ribatté, e tanto meno fece Antongaleazzo. Citare Ercole, inutile dirlo, era stato un grosso errore, e un uomo come il Valentino non poteva lasciarsi scappare l'occasione di approfittarne.

“Nemmeno vostra madre Ginevra lo ama, benché sia nato dal suo ventre – attaccò subito il Borja, compiaciuto nell'aver ricevuto un appiglio simile per infierire – in fondo, quando suo marito Sante l'ha messa incinta, lei già non lo voleva più, non è così? Ditemi un po', però... A quei tempi vostra madre, Ginevra, insaziabile come tutti gli Sforza, era già l'amante di vostro padre, oppure..?”

“Non vi permetto di..!” sbottò Antongaleazzo, saltando in piedi.

Anche Annibale si alzò di scatto, ma solo per trattenere il fratello e, mentre cercava di contenere il più giovane, si rivolse al Borja: “Mio fratello Ercole è stimatissimo, in famiglia, tanto che era anche presente al mio matrimonio!”

“Bello sforzo!” ribatté, ridendo, il figlio del papa: “C'era mezza Italia, al vostro matrimonio! E sono comunque passati più di dieci anni!”

“Andiamocene.” Annibale prese per una manica il fratello e, avviandosi verso la porta, si congedò dal Borja con un rabbioso, seppur, almeno nei suoi intenti, diplomatico: “Bologna vi resta amica e serva, Duca, che vostro padre tenga sempre presente questo fatto e ci tenga nella giusta considerazione.”

 

“Come vanno le cose qui?” chiese Caterina, andando al bancone dell'oste.

“Come potete vedere – fece lui, sollevando il labbro, mostrando involontariamente qualche dente che mancava – mezzo deserto. Da che avete fatto spostare i soldati, qui è una morte...”

La donna fece una smorfia. Sapeva benissimo che accentrare le truppe avrebbe gettato in crisi molte attività di Forlì, ma, d'altronde, che altro avrebbe potuto fare? L'economia non era il suo primo problema, in quel momento.

Si prese dalla scarsella qualche moneta e la posò sul tavolo di legno scuro: “Ecco qui – gli disse, facendo anche finta di contarle – dovrebbero bastare per qualcosa da bere.”

“Sono troppi, mia signora...” fece il locandiere, iniziando però già a mettere via il denaro.

Non era costume di quell'oste accettare da lei soldi, tuttavia la Contessa, quella volta, lo aveva pagato molto volentieri. Le dispiaceva avergli causato un danno nei suoi affari e, se poteva ripagarlo almeno in parte per tutta la discrezione e la gentilezza che le aveva dimostrato in quegli ultimi mesi, doveva farlo e basta.

“Allora diciamo che potremmo farci saltar fuori anche una stanza...” buttò lì lei, mentre l'uomo iniziava a versarle da bere.

“Aspettate qualcuno..?” chiese lui, mentre le metteva davanti al naso un boccale di birra colmo fino all'orlo.

“Lo spero.” rispose lei, stringendo poi le labbra e rabbuiandosi un po'.

Solo quando aveva varcato la soglia della locanda si era lasciata prendere dai dubbi. Era vero che Pirovano le aveva sempre dimostrato di saper passare un po' sopra a tutto – le bastava ricordare di quando l'accettava comunque, pur sapendola l'amante anche di Manfredi – ma quella volta iniziava a temere che non si sarebbe presentato per pura ripicca.

A quel punto, il locandiere non le chiese più nulla, mettendosi a riordinare un po' le cose della cucina, mentre la Leonessa sorseggiava assorta dal suo boccale, chiedendosi se e quando Giovanni sarebbe arrivato.

Passò quasi un'ora e Caterina, che per ingannare il tempo si era fatta versare da bere altre due volte e aveva assaggiato la zuppa che quel giorno era l'unico piatto proposto dall'oste, stava per desistere.

Era sul punto di alzarsi dalla sedia, ringraziare e andare via, quando dalla porta vide entrare proprio l'uomo che aspettava. Con gli occhi spalancati, come se temesse di non trovarla più, Pirovano tirò un sospiro di sollievo, nel vederla.

“Ho fatto tardi perché stavo sistemando le munizioni e Mongardini non mi trovava e...” cominciò a farfugliare, quando le fu davanti.

“Non importa.” sorrise lei, non riuscendo a evitare di sorridere, e poi, rivolgendosi al locandiere aggiunse: “Per la stanza...”

“Ecco qui, sempre la solita.” l'anticipò prontamente l'oste, porgendole la chiave e salutando anche Giovanni da Casale con un cenno del capo.

Senza dirsi più nulla, i due amanti si presero per mano, in un gesto che a entrambi sembrava una novità, e andarono verso la scaletta che portava al piano di sopra, mentre il proprietario della locanda recuperò il boccale e il piatto usati dalla Tigre per pulirli e rimetterli a posto.

Indaffarato nel sistemare il tutto, l'uomo sospirò, dicendosi che, almeno, dopo giorni in cui non aveva avuto nemmeno mezzo cliente, quella sera aveva affittato una stanza e servito una cena.

 

Lorenzo si era appena seduto, sconcertato nel sapere che era appena arrivata una lettera da Roma indirizzata al Gonfaloniere di Giustizia, firmata dal papa e con soggetto principale la Sforza di Forlì.

Aveva saputo dai suoi, in più, che oltre allo scritto, era giunto dall'Urbe un oratore che aveva discusso lungamente con Soderini, apparentemente per dare maggior delucidazioni al fiorentino su cosa intendesse realmente dire il Santo Padre con le parole che aveva scelto per vergare il suo messaggio.

Quale che fosse il motivo di tutto quel trambusto, il Gonfaloniere aveva subito fatto chiamare – in via del tutto informale – il Medici, per discutere proprio delle novità. Il Popolano immaginava che il motivo di quella convocazione fosse legato solo ed esclusivamente alla sua scomoda parentela acquisita con la Leonessa di Romagna, tuttavia non voleva escludere l'ipotesi che Soderini, preso alla sprovvista dai tempi difficili che stavamo vivendo, volesse per qualche motivo chiedergli di accettare un ruolo più centrale nel governo di Firenze.

Era passato poco più di un quarto d'ora, quando, finalmente, il Gonfaloniere si palesò al suo ospite.

Erano, informalmente così come richiedeva quel tipo di incontro, a casa di Soderini e Lorenzo si era sentito quasi a disagio, nell'attenderlo in quella saletta ben arredata, ma a lui abbastanza estranea.

Se, da un lato, il fatto che l'altro l'avesse lasciato solo in un punto tanto privato della propria casa, gli lasciava intendere il rispetto e la fiducia che provava nei suoi confronti, dall'altro si era sentito sminuito dall'aver non solo dovuto attendere, ma di averlo dovuto fare in un ambiente tutt'altro che consono all'importanza che sapeva di avere.

“Allora?” chiese subito il Medici, dopo aver stretto la mano al padrone di casa: “Che mi ha fatto uscire dal mio palazzo con questo freddo? Che ci si deve dire?”

Pier Soderini, un po' incerto, guardò di traverso gli occhi tondi del Popolano, e poi, esitante, mormorò: “Non ne sapete ancora nulla? Credevo che i vostri informatori...”

Trovando inutile, anzi, quasi offensivo, mentire al Gonfaloniere su quel dettaglio, Lorenzo sollevò appena una spalla e ammise: “So che vi è arrivato un messaggio dal papa, e che in questo messaggio si parla anche della Sforza di Forlì, ma nulla di più.”

Il Gonfaloniere annuì piano tra sé e poi estrasse dalla tasca interna del suo giubbone la missiva incriminata, porgendola al suo ospite: “Leggete.” gli disse solo.

Quello che Alessandro VI aveva scritto non lasciava adito a dubbi: il Santo Padre non si fidava di Firenze. O, per lo meno, voleva da Firenze una prova più tangibile della sua fedeltà. In quella pagina sosteneva che Caterina Sforza avesse cercato di avvelenarlo tramite due emissari travestiti incaricati di cospargere di una pozione mortale alcuni suoi vestiti. E, implicitamente, il pontefice suggeriva che la Repubblica potesse avere avuto un ruolo in tutto ciò, dato anche che, per il momento, da Firenze non erano arrivati aiuti tangibili a suo figlio, intento alla gloriosa conquista della bellicosa Romagna.

“Quella che muove è un'accusa molto grave...” fece il Medici, pensieroso, cominciando a sudare freddo: “E davvero non capisco come possa pensare...”

“Siete stato voi ad avvisarlo, vero?” chiese il Gonfaloniere, senza lasciarlo finire: “Siete stato voi a fargli credere che volessero avvelenarlo. Volete che abbia più motivi per odiare vostra cognata in modo che la distrugga una volta per tutte.”

Il Popolano, sentendosi scoperto, non disse nulla. Il suo viso scavato non lasciava trasparire alcuna emozione particolare. Solo le sue mani tozze, che ancora stringevano la missiva, tradivano la sua agitazione, tremando appena.

“Non avete calcolato, però, che il papa avrebbe capito, dopo aver preso due poveracci dalla pronuncia romagnola, che era tutta una montatura...” Soderini, che pure non aveva colto appieno il piano del Medici, stava cercando di mettere il più possibile le carte in tavola per indurre il suo ospite a sputare il rospo.

Lorenzo, invece, cercando di non scomporsi, deglutì e poi ammise: “Sì, l'ho messo in guardia più volte riguardo il rischio di essere avvelenato. In fondo tutti sanno che la Sforza è un'alchimista a cui piace giocare con nettari letali. Nella sua famiglia ci sono stati anche casi di morti sospette... Suo fratello, il compianto Duca Gian Galeazzo, per esempio. O anche sua nonna, Bianca Maria Visconti... Chi ci dice che non stia pensando di eliminare il suo nemico standogli a debita distanza?”

“Le vostre sono solo illazioni.” fece il Gonfaloniere, cominciando a chiedersi che razza di uomo avesse davanti e, soprattutto, fin dove fosse pronto a spingersi pur di annientare la cognata: “Vi rendete conto che con i vostri maldestri tentativi state mettendo in pericolo Firenze?”

Il Medici inclinò la testa di lato, si passò i guanti di pelle da una mano all'altra e poi, come se nulla fosse, disse: “Ebbene, troveremo il modo di girare le cose a nostro favore. Convocate una riunione per domani. Anzi, meglio per dopodomani. Non è il caso di mostrare troppa fretta, che passi come un ordine del giorno qualsiasi, in fondo la Leonessa di Romagna non è certo il primo pensiero dei fiorentini. Esporremo i fatti come ci conviene e manderemo a Roma una risposta che tolga ogni dubbio al papa circa la nostra buonafede.”

“Mi state dando degli ordini?” chiese Soderini, gonfiando il petto e fissando il Popolano, che, in quel momento, ostentava una calma e una padronanza di sé che poco si addicevano alla sua espressione imbronciata.

“Vi sto dando dei buoni consigli.” rispose il Medici, senza sorridere, restituendogli la missiva con un gesto secco: “Conviene anche a voi, a questo punto, fare quello che dico io.”

Il Gonfaloniere avrebbe tanto voluto ribattere a tono, ma non sapeva cosa dire. Si limitò a fare una cenno con il capo, in risposta a quello del Popolano, quando l'altro parve voler chiudere l'incontro.

Guardando quello che, a suo modo di vedere, poteva dirsi il degno erede dei più scaltri tra i Medici, ma anche il più grande degli egoisti accecati dal desiderio di vendetta – vendetta per cosa, di preciso, poi, Soderini ancora non l'aveva capito – l'uomo si rimise la lettera nella tasca e, allacciate le mani dietro la schiena, andò alla finestra.

La città si spandeva sotto i suoi occhi in un mare di gente e case. Il cielo era grigio e l'aria sembrava immobile. Nelle zone d'ombra, si poteva vedere un sottile strato di ghiaccio.

Il Gonfaloniere attese finché non vide spuntare Lorenzo. Lo seguì con lo sguardo, vedendo come il suo passo si faceva via via più veloce, incurante tanto degli altri passanti, quanto del pericolo di scivolare sulla via resa lucida dal gelo. A modo suo, però, malgrado tutto, aveva un che di goffo.

“Un gatto che vuole aver ragione di una Tigre – borbottò tra sé Soderini – e cerca di mandare uno sciacallo a ucciderla al suo posto...”

 

 
 
   
 
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