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Autore: Adeia Di Elferas    04/01/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Dionigi Naldi diede un'ultima pacca sulla spalla al fratello e poi, guardando sia lui sia Gian Piero Landriani, disse loro: “Mi raccomando. Uscite subito dalla città, passate per i boschi...”

“Sì, conosciamo la strada.” assicurò l'altro Naldi, deglutendo.

Il castellano della rocca di Imola aveva scelto proprio lui, tra i fratelli, perché lo riteneva il più abile, ma soprattutto, perché era il più giovane. Sarebbe stato svelto e avrebbe coperto bene le spalle al vecchio milanese che, seppur di buona volontà e di grande esperienza, poteva essere in difficoltà, se mandato da solo in missione.

Si trattava di un viaggio che, in condizioni normali, sarebbe stato stancante, ma non particolarmente difficile. Con i francesi che si stavano concentrando in città, uscendo spesso e volentieri nelle campagne e nei boschi di confine, però, diventava un'impresa per pochi audaci.

“Faremo quel che si potrà.” disse piano Gian Piero, calcandosi il cappuccio sulla fronte: “E ora andiamo, dobbiamo partire quando fuori fa ancora buio.”

Dionigi fu d'accordo con lui e poi, appena prima di lasciarli andare davvero, sospirò e si raccomandò con entrambi: “Non cercate di forzare la Tigre. Lei sa meglio di noi cos'è meglio. Se ci darà dei rinforzi, li accetteremo volentieri, altrimenti...”

I tre uomini si guardarono per un momento. Tutti loro conoscevano il carattere collerico della Sforza e la sapevano capace anche di una certa crudezza, quando si trattava di mettere a punto una strategia: se non avesse ritenuto utile aiutarli, non l'avrebbe fatto. Non era il tipo di comandante avvezzo a mandare rinforzi, se si trattava di uno spreco annunciato.

“Le parlerò io, non vi preoccupate.” ribatté il Landriani, che, in cuor suo, non nutriva molta speranza: “Caterina è una donna giusta, malgrado tutti credano il contrario. Se potrà aiutarci, lo farà.”

Il castellano non aggiunse altro e, alzata la mano in segno di saluto lasciò partire i due uomini, che, nel buio che precedeva l'alba, sotto una fitta pioggerella gelida, uscirono alla chetichella dalla rocca e, in barba alle sentinelle del Borja, lasciarono Imola, diretti a Forlì.

 

Caterina si era svegliata da un po', ma non aveva avuto il coraggio di strappare al sonno il suo amante. Giovanni era steso accanto a lei, sul fianco, coperto fino alle spalle, il viso in parte affondato nel cuscino a una mano appena protesa verso il suo fianco, come se anche da addormentato volesse sentirla vicina.

Quando era tranquillo come in quel momento, le sembrava davvero un ragazzo dell'età che aveva, malgrado la barba scura che stava ricrescendo, rendendogli ispide le guance. Era il momento in cui lo trovava in assoluto più vulnerabile. Pirovano aveva il sonno pesante, pessimo difetto per un soldato, e in un frangente come quello, avrebbe potuto fargli ciò che voleva senza che lui avesse il tempo materiale di accorgersene e ribellarsi.

La Sforza, persa nei suoi pensieri, si trovò a ricordare il momento in cui, in un passato che le sembrava quasi non essere mai esistito davvero, Manfredi doveva aver pensato qualcosa di simile anche di lei, arrivando a provare materialmente a ucciderla, non sapendo, però, che il suo sonno era molto leggero, tanto da farle sentire in anticipo il sibilo dei pugnali.

Giovanni da Casale aprì lentamente un occhio, avvertendo il freddo del mattino entrargli nelle ossa come una piacevole scossa. Quasi si sorprese nel vedere accanto a sé la Tigre, ma non appena riuscì a tornare presente a se stesso, l'unica cosa che gli venne spontaneo fare fu sorridere e stringerla a sé.

La donna accettò volentieri il suo abbraccio caldo e per qualche secondo lasciò che il suo amante si concedesse un buon inizio di giornata baciandola e immergendo il viso tra i suoi capelli. Tuttavia, appena ebbe il sospetto che le sue intenzioni fossero più bellicose del previsto, lo allontanò un po', posandogli una mano sul petto.

Anche se avrebbe voluto concedersi un'intera mattina di ozio tra le lenzuola assieme a lui, sapeva di non potere. Già era stata una sciocca a trascorrere l'intera notte lontano da Ravaldino senza lasciar detto praticamente a nessuno dove fosse...

“Dobbiamo andare.” sussurrò, ma senza accennare a lasciare il letto.

Le coperte un po' ruvide di quel letto da locanda facevano quasi il solletico a Pirovano, ma non gli importava né di quello, né dell'odore un po' stantio che si respirava in quella stanza. Per lui esisteva solo Caterina e il suo sapore caldo e pieno, e non voleva privarsene così presto.

“Restiamo ancora un po'.” provò a convincerla lui, afferrandola in modo saldo e puntando gli occhi scuri in quelli verdi di lei, mentre la luce stentata di un'altra giornata uggiosa filtrava dalla finestra dando a entrambi un colorito quasi spettrale.

“Non si può.” tagliò corto la Contessa, rigirandosi nell'abbraccio dell'amante, desiderandolo ancora come la sera prima, ma decisa a imporsi di non cedere a una tentazione che avrebbe finito per distoglierla troppo e per troppo tempo dai suoi doveri.

In un ultimo disperato slancio, Pirovano le prese la mano sinistra: “Quando i francesi arriveranno, non ci vedremo più... Tu sarai alla rocca e io al Paradiso e...”

Mentre parlava, senza accorgersene, il milanese si era messo a passare la punta del pollice sul nodo nuziale che ancora legava la Leonessa a Giovanni Medici. La donna, accorgendosene, ebbe una reazione che non riuscì a dominare. Come se si fosse scottata, ritrasse la mano e si mise a sedere sul letto, dando la schiena al suo amante.

L'uomo, invano, cominciò ad accarezzarle i fianchi, risalendo poi verso le spalle, ma Caterina aveva deciso che non era il momento e nulla le avrebbe fatto cambiare idea.

Senza quasi guardarlo, per impedirsi ogni debolezza, la Tigre si infilò le brache e poi, lanciandogli la fascia che usava per contenere il seno sotto al camicione da uomo, gli disse: “Aiutami a metterla...”

Ci volle ancora quasi un quarto d'ora, prima che uscissero dalla stanza. L'oste, già dietro al bancone, li salutò, stupendosi un po' di vederli andare via assieme, dato che, di norma, facevano in modo di lasciare la locanda con qualche minuto di distacco l'uno dall'altra. Inoltre, molto di rado aspettavano il mattino, per tornare ciascuno ai propri alloggi.

“Comunque sia – fece la Contessa, mentre lei e Giovanni uscivano in strada e venivano avvolti dall'umidità che saliva dal terreno, incatenando Forlì nella nebbia – prima che arrivino i francesi, passeremo insieme ancora del tempo...”

“Me lo auguro...” ribatté Pirovano, per poi cambiare discorso e dire, con l'angolo delle labbra che si sollevava appena: “Questo clima non ti ricorda casa nostra?”

La Sforza ebbe un brivido, nel sentire quella frase. 'Casa nostra' era Milano. Lo era per entrambi e lei spesso se ne scordava. Una delle peculiarità di Giovanni che l'aveva attratta, doveva ammetterlo, era la sua pronuncia, così familiare e amica, la stessa che aveva lei e che aveva animato le voci della sua prima infanzia.

“A Milano la nebbia è più fitta.” chiuse però l'argomento, prima di lasciarsi travolgere dalla nostalgia: “E più fredda.”

L'uomo, non cogliendo il vero motivo della durezza con cui la sua amante aveva parlato, mortificato sollevò un po' le spalle e commentò: “Forse hai ragione...”

 

Naldi deglutì, mentre saliva sui camminamenti. Per fortuna, in quel momento almeno non pioveva, così avrebbe potuto vedere e sentire meglio quello che gli uomini del Borja dovevano dirgli.

Convintissimo che si sarebbe trovato davanti di nuovo una trombetta o, al massimo, un attendente del Valentino, Dionigi sbiancò quando, guardando in basso, riconobbe alcuni suoi parenti.

Vicino a loro c'era Achille Tiberti, inconfondibile con il suo naso adunco e il suo sguardo feroce, che, anche a quella distanza, metteva al castellano una voglia irrefrenabile di dare ordine agli artiglieri di scaricargli addosso tutte le loro munizioni.

“Che volete?” chiese Naldi, facendo del suo meglio per controllarsi, mentre con la coda dell'occhio scorgeva in mezzo ai suoi congiunti anche Vitellozzo Vitelli, messo in fila con gli altri, come se pure lui fosse tra le esche con cui volevano farlo capitolare.

“Ascoltate che hanno da dirvi i vostri parenti, il sangue del vostro sangue!” esclamò Tiberti, prendendo quello a lui più vicino per un braccio e facendogli fare qualche passo avanti.

Achille fissò il cugino, poco più che un ragazzo. Da come fece, quando iniziò a parlare, capì che quelle frasi gli erano state inculcate da qualcun altro e che le aveva dovute imparare a memoria per ripeterle senza sbavature.

Meccanicamente, infatti, con lo sguardo basso e la voce che tremava appena, il giovane gli stava dicendo: “Voi non potete fare a meno di rendere la rocca! Avete fatto miracoli di valore e fede! Né Caterina né altri potranno biasimarvi!”

In quella capacità di lisciargli il pelo, ma di minacciarlo allo stesso tempo, Dionigi riconobbe senza problema lo stile del cesenate.

“Mai!” gridò quindi di rimando, fingendo di non vedere la lama che lambiva la gola di un paio di suoi parenti: “Non la cederò mai! Anche se li ucciderete tutti!”

Nel suo animo si stava aprendo una sicurezza che non credeva possibile, in un momento del genere. Come guidato dall'immagine della Tigre che, undici anni prima, aveva mostrato il medesimo sprezzo davanti ai propri figli minacciati di morte, così ora lui faceva altrettanto, sperando che la sua audacia bastasse, com'era bastata alla sua padrona, per scongiurare il peggio.

Vedendo uno dei soldati di Tiberti muovere appena il braccio, come per vibrare il colpo contro uno dei parenti innocenti di Dionigi, però, Vitellozzo Vitelli fece uno scatto in avanti, deciso a smuovere l'amico, perché anche lui – su quello il Borja era stato abbastanza chiaro, quando l'aveva fatto prelevare dal suo padiglione e disarmare – era a rischio come tutti i Naldi che lo affiancavano.

“Ascoltatemi! Sono anche io vostro amico e son geloso della mia vita!” gridò il condottiero.

Dionigi, che non si era aspettato di sentirlo parlare in quell'occasione, si accigliò e restò in ascolto.

Vitellozzo deglutì, cercando il modo giusto per far capire a quell'integerrimo soldato che a nulla valeva, in quel caso, difendere l'onore, se poi avrebbe portato con sé l'onta di sapersi colpevole della morte di parenti e amici: “Arrendetevi, prima che il Duca proceda a peggior termine, perché se aspetterete la seconda batteria, non sarà per trovare scampo né perdono!”

Naldi rimaneva fermo al suo posto, fissando tanto i parenti, quanto Vitelli, ma sembrava deciso a non ribattere in nessun modo.

Così Vitellozzo insistette: “Non dovete mettere a rischio la vostra vita e far mal capitare tanto del vostro sangue e molti altri uomini dabbene solo per una vana ostentazione di bravura!”

Dionigi sentiva i suoi uomini, accanto a lui sui camminamenti e più in basso, nel cortile, in attesa di una sua risposta. Esattamente come quando era stata la trombetta del Borja a chiedergli la resa, i suoi soldati volevano da lui un messaggio forte, che desse loro il coraggio di combattere fino alla morte.

Ricordando ancora una volta l'aneddoto quasi leggendario che voleva la Tigre di Forlì sfidare gli Orsi che tenevano la lama della spada puntata contro il collo dei suoi due figli maggiori, Naldi prese fiato e urlò di rimando: “Son pronto a difendermi! Ma non per vanità di bravuta, ma per servar la fede a chi ha commesso e confidato in me la difesa di questa fortezza!”

Mentre i suoi esultavano, Dionigi voltò sdegnosamente le spalle a Tiberti e ai prigionieri, tornando nelle viscere della rocca. Sapeva che quello che aveva fatto avrebbe potuto condannare il sangue del suo sangue, ma non gli importava più. La Sforza aveva fatto in modo che quella fortificazione potesse essere autosufficiente per quasi un anno e lui non doveva arrendersi prima di quel termine.

Sua moglie e le sue figlie erano a Forlì, alla mercé della Leonessa, una donna forte e capace, ma anche crudele. Forse avrebbe potuto perdonarlo, ma era più semplice pensare che, nel caso in cui lui si fosse arreso, Dianora e le bambine avrebbero trovato la loro fine nelle segrete di Ravaldino.

Non l'avrebbe permesso. Avrebbe lavato con il proprio sangue il disonore di aver cagionato forse la morte dei suoi parenti catturati dal Valentino, e avrebbe pagato con la proprio vita la libertà di sua moglie e delle sue figlie. Se ne sarebbe andato senza lasciarsi debiti alle spalle.

Tornato al suo studiolo, mandò il suo attendente a cercare il responsabile dell'artiglieria. Era vero che suo fratello e Gian Piero Landriani erano partiti da poche ore per Forlì e che, magari, avrebbero portato con loro dei rinforzi, quando fossero tornati, ma per il momento era più sensato ragionare come se dalla Tigre non si stesse aspettando neppure una mezza lancia.

“Aspettate qualche ora.” disse all'artigliere, non appena arrivò al suo cospetto: “Quando i francesi penseranno che stiamo per cambiare idea, bombardate la città.”

Il soldato raddrizzò le spalle: “Come comandate.”

Naldi sospirò: “Fino a nuovo ordine, questo è quanto va fatto. Se succederà qualcosa di nuovo, vi comunicherò le mie decisioni...”

 

“Il castellano di Dozza resisterà.” spiegò Luffo Numai, leggendo il dispaccio che era appena arrivato da quella rocca.

“Gabriele di Pica d'Oriolo è un uomo onesto e leale, questo lo sanno tutti.” commentò piano Lazzero Albanese, mentre Giuliano Rossetti, al suo fianco, annuiva.

Caterina ascoltava in silenzio, mentre gli uomini che aveva radunato per quel breve Consiglio esponevano di volta in volta le novità e le criticità che erano emerse nel corso di quella strana giornata. Era sera, ormai, e da Imola non erano giunte notizie. La Sforza cominciava a essere preoccupata, temendo quasi di veder spuntare i vessilli papali all'orizzonte da un momento all'altro.

Solo l'Oliva era riuscito a tranquillizzarla un po', facendole notare che a volta non avere novità era una buona nuova di per sé. Così, pensando che Naldi avesse trovato il modo di opporsi e rallentare in modo sensibile l'avanzata francese, la Tigre si stava sforzando di seguire i discorsi dei suoi uomini.

Stavno arrivando notizie un po' da tutte le rocche minori del territorio della Contessa, e non solo sotto forma di missiva.

Quel pomeriggio, a Ravaldino, era arrivato, scortato da un soldato giovanissimo, un bambino piccolo che era stato presentato come il figlio di Bianetto Bonoli, il castellano di Tossignano che aveva rimpiazzato il parente di Naldi il cui figlio era stato accusato di tradimento. Quello che l'accompagnava, aveva detto che il padre, immaginando che presto i francesi sarebbero arrivati e li avrebbero uccisi tutti, aveva voluto salvare il suo sangue mandandolo dalla sua signora, l'unica, pensava, capace di difenderlo in un momento del genere.

Caterina avrebbe tanto voluto poter essere la risposta alle accorate preghiere di Bonoli, ma, quando guardò per qualche istante il piccolo, spaventato, sporco e ammutolito dalla stanchezza di un viaggio rocambolesco e lunghissimo, per le sue corte gambe, l'unica cosa che aveva saputo dire era stata: “Che vada dalle balie che curano i miei figli... Almeno finché i francesi non attaccheranno anche noi, sarà al sicuro, forse.”

Si era chiesta come potesse Bianetto credere Forlì un posto più sicuro di Tossignano, ma poi aveva rinunciato a cercare una logica in quel gesto. Anche lei, forse, avrebbe fatto qualcosa del genere al suo posto, pur di provare a salvare i suoi figli. Quindi poteva solo accettare l'onere di sfamare un bambino in più e sperare che riuscisse a scamparla.

“Avete già deciso quali soldati inserire nel gruppo dei guastatori?” la domanda di Battista Capoferri ridestò la Sforza dai suoi pensieri.

In effetti, tra le altre cose che la donna aveva fatto quel giorno, c'era anche stata la compilazione delle lista dei guastatori. Si trattava di figure che sarebbero potute risultare fondamentali, se si prospettava un periodo di assedio. A volte faceva più danno sabotare l'artiglieria nemica che non utilizzare la propria.

Così la Leonessa, assieme a suo figlio Galeazzo e al Capitano Mongardini, era stata tra i soldati che si stavano addestrando a quello scopo e aveva scelto i migliori, in modo che gli addestratori si concentrassero solo su di loro, affinandone la tecnica e incentivandone l'apprendimento.

“Sì, il Capitano Mongardini ha la lista con sé.” spiegò la donna, ma il soldato, ben lungi dal voler mettere in mostra le sue scarse capacità di lettore, gliela porse subito affinché fosse lei e renderla pubblica.

Caterina spiegò il foglio e poi, pensando che un'incombenza del genere avrebbe potuto piacere a suo figlio Galeazzo, girò la pagina a lui.

Il ragazzino, in effetti, apparve molto onorato da quell'incarico e cominciò subito a leggere con voce ferma e abbastanza alta da farsi sentire da tutti i presenti: “Cristoforo Ambrosio, Roso da Valdenosa, Giovanni Rezzani, il Fosco Berlise, Giacomo dal Maestraccio, Filippo Girardino, Ciriole figlio di Berlo, Michele Sibone e Rolando della Niccolosa.”

L'ultimo nome parve suscitare la perplessità di qualcuno dei presenti. Il primo a esprimere il proprio pensiero in modo chiaro fu Giovanni Testadoro, il Capitano delle Murate.

Schiarendosi la voce, l'uomo guardò la Contessa e chiese: “Mia signora... Siete sicura di quel nome?”

“Sì, perché?” chiese lei, irritandosi subito.

“Perché Rolando...” fece Testadoro, guardando poi il Capitano Rossetti, che gli era accanto, in cerca di un sostegno.

“Mia signora – fece quest'ultimo, meno sensibile ai pudori dell'amico – si può dire che la Niccolosa l'hanno conosciuta tutti, in questa rocca.”

“Costa poco e non fa storie...” commentò piano Mongardini, alzando una spalla, vedendo la Sforza accigliarsi, come se non capisse.

Caterina conosceva bene la storia della donna di cui si stava discutendo. Lei stessa aveva cercato un paio di volte di toglierla dalla strada, dandole del denaro, chiedendole di lavorare a Ravaldino come serva. Quando questa aveva rifiutato sistematicamente ogni tipo di aiuto, la Contessa aveva almeno tentato di convincerla a lavorare per un bordello, dove sarebbe stata meno in pericolo. Però, sentendosi dire di no anche quella volta, aveva almeno cercato di aiutarla dando un lavoro al suo giovane figlio, facendo sì che venisse arruolato nel suo esercito e ottenesse una buona istruzione militare.

“Quale che sia il mestiere di sua madre – ribatté a quel punto la Sforza, indurendo il viso e assumendo un'espressione che non ammetteva repliche – Rolando è un ottimo guastatore e ci farà un ottimo servizio.”

“Ma si sa che i figli di quelle – fece Rossetti, istigato da Testadoro che gli aveva appena lanciato un'occhiata d'intesa – sono tutti traditori e mentitori...”

“Avete detto che la Niccolosa ha conosciuto praticamente ogni uomo di questa rocca, no?” chiese retorica la Tigre, inclinando la testa di lato: “E dunque pensateci sopra: potrebbe essere il figlio di uno qualunque tra voi. Siete forse i padri di un traditore e di un mentitore? Perché se è così allora devo iniziare a dubitare anche di voi tutti.”

Quella battuta, così diretta e inattesa, zittì all'istante tutti.

La Contessa stava per chiedere di procedere con la riunione, quando dalla porta arrivò, un po' trafelata, come se si vergognasse a entrare in una sala con così tanti uomini, Argentina. La Sforza pensò subito che fosse capitato qualcosa a uno dei suoi figli, o che ci fosse qualche problema tra i servi, perciò rimase attonita, quando, invece, dalle labbra della sua cameriera personale uscì un messaggio di tutt'altro tipo.

“Mia signora, non volevo disturbarvi, ma tutti erano occupati e hanno mandato me a dirvi che alla porta della rocca di sono Gian Piero Landriani e un fratello di Dionigi Naldi che devono parlarvi subito.”

“Della Niccolosa non voglio più sentir dire nulla, chiaro?” concluse allora la Leonessa, rivolgendosi ai suoi uomini, e poi, ringraziando Argentina, si congedò: “Perdonatemi, ma devo andare.”

Galeazzo avrebbe tanto voluto seguirla e sentire subito che notizie portassero i due arrivati da Imola. Però la Leonessa non si era nemmeno voltata verso di lui, non aveva avuto neppure la tentazione di portarlo con sé. Così, capendo che non era cosa per lui, il ragazzino si mise il cuore in pace, e restituì la lista dei guastatori a Mongardini, dicendosi che, per quella sera, poteva solo andare a mettere qualcosa nella pancia e poi coricarsi presto, in modo da essere già operativo prima dell'alba.

 

“Mi hanno già controllato i vostri soldati...” sussurrò Vitellozzo Vitelli, sollevando le braccia, mentre Dionigi Naldi lo frugava da capo a piedi.

“Lo so, ma è sempre meglio non fidarsi. Certe cose van fatte di persona.” ribatté il castellano, controllando minuziosamente perfino gli stivali del suo inatteso ospite.

Quando, poco prima, sotto la pioggia fitta di quella sera, l'aveva visto sventolare un segno di pace appena fuori dalla rocca, non aveva capito subito le sue intenzioni. Era stato Vitelli stesso a dire quel che voleva, ovvero entrare nella fortezza in modo da poter discorrere da amici e valutare meglio la situazione.

Dionigi aveva accettato, dicendo apertamente che lo lasciava fare solo perché lo conosceva e se lo ricordava come un uomo corretto e degno di stima. Vitellozzo aveva ringraziato ed era passato a mani in vista dal portone, lasciandosi poi condurre fino alla spoglia stanza in cui l'attendeva Naldi.

“Perché siete qui?” chiese quest'ultimo, quando ebbe finito di controllarlo: “Voglio il motivo vero.”

“Sapete già chi mi manda...” iniziò il Vitelli, con un sospiro: “Il figlio del papa vuole sapere solo una cosa, da voi.”

Dionigi aveva volutamente scelto uno degli ambienti più inospitali della rocca. Era una saletta in cui avevano ammassato, fino a pochi giorni prima, le munizioni in eccesso. Ora, liberato da tutte le palle di cannone e dai sacchi di polvere da sparo, quello spazio era rimasto freddo, vuoto e desolante.

“Cosa vuole sapere?” chiese il castellano, incrociando le braccia sul petto.

“Non possiamo sederci e discuterne in pace..?” provò a domandare Vitellozzo, che non stava gradendo affatto quel tipo di accoglienza.

“No.” rispose laconico il padrone di casa.

Il tifernate stiracchiò un sorriso e poi, decidendo che venire al dunque fosse l'unica cosa sensata da fare a quel punto, spiegò: “Il Valentino vuole sapere se vi ostinate a non dargli questa rocca per arroganza o a ragion veduta.”

Naldi rimase in silenzio per un po', fissandolo. I suoi occhi erano immobili, ma era chiaro che nella sua mente vi fosse un lavorio non indifferente. Dalla risposta che avrebbe dato, lo sapeva, poteva dipendere l'esito dell'intera questione.

“Voi mi siete stato amico per tanto tempo – disse infine Dionigi – e vi ringrazio per avermi fatto questo onore. Stimavo anche vostro fratello Paolo e mi spiace che se ne sia dovuto andare con onta sua e di tutta la vostra famiglia...”

“Mio fratello è stato vittima di un enorme raggiro a suo danno e la sua morte...” cominciò a dire il Vitelli, già alterato.

“Non voglio parlare di quello che è stato. L'hanno arrestato e l'hanno condannato. Quale che fosse il motivo, se n'è andato da traditore.” tagliò corto Dionigi: “E io non voglio fare la stessa fine.”

Vitellozzo strinse la labbra e poi, facendo vibrare il lungo naso, ribatté: “Quindi terrete questa rocca fino alla morte solo per aver salvo l'onore? Non pensate a cosa potrà darvi il re di Francia, se...”

“Se tradirò la signora che ho giurato di servire fino alla fine dei miei giorni?” lo incalzò l'altro: “Se anche il re mi ricoprisse d'oro per quanto sono alto e mi desse tanti diamanti per quanto peso, non sopporterei di sentirmi un traditore.”

“Allora andate con Dio, Naldi.” tagliò corto il Vitelli: “Io ho provato a farvela capire, ma sappiate che quello che vi trovate davanti non è il figlio viziato del padrone di Roma. È un diavolo, e in un modo o nell'altro ve la farà pagare.”

“Non aspetto altro.” annuì Dionigi, battendo le mani, richiamando così due guardie che attendevano appena fuori dalla camera: “Dite questo al vostro padrone: potrà anche vincere questa guerra, ma quando ne parleranno, nei secoli a venire, lo ricorderanno solo come l'uomo che ha piegato una Tigre al suo volere con l'inganno e la corruzione, schierando quindicimila uomini contro un esercito che ne è nemmeno la quinta parte, usando catene d'oro impugnate da altri.”

“L'importante è che alla fine la sottometta. Non importa come. La Storia ricorderà solo quello: che la Tigre ha perso denti e zanne, sconfitta nella sua stessa tana, con nessuno, nessuno disposto a difenderla.” precisò Vitellozzo.

“Non ho altro di cui parlare, con voi.” decretò in fine Naldi, mentre le due guardie già scortavano via il condottiero.

Vitelli si lasciò accompagnare fuori e oltre la soglia della rocca. Si sistemò un po' il giubbone e poi camminò rapido fino al manipolo di soldati francesi che l'aspettavano.

Incurante della pioggia, raggiunse il padiglione del Duca di Valentinois, che lo stava aspettando seduto su uno sgabello da campo, le gambe accavallate e una mano posata mollemente sul ginocchio.

“Allora?” chiese Cesare, quasi annoiato, già intuendo dall'espressione furente del suo emissario come fosse andato l'incontro.

“Non cederà. Non lascerà la rocca finché non la prenderemo noi con la forza.” rispose Vitellozzo.

Il Borja fece un suono gutturale, spostandosi un po' sullo sgabello e poi soffiò: “Ebbene, non avrei voluto sprecare tempo e uomini a questo modo, ma se non vuole capirla, saremo costretti a farlo...”

“La rocca è quasi imprendibile, però, mio signore...” lo mise in guardia Vitelli che, anche se vi era entrato per poco tempo, aveva avuto modo di ammirare la meraviglia difensiva che la Sforza aveva saputo mettere a punto.

“Quasi.” fece eco il Valentino, le labbra che si sollevavano in uno dei sorrisi che tanto inquietavano il tifernate: “Una parola meravigliosa, non trovate? Quasi...”

 
   
 
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