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Autore: Adeia Di Elferas    08/01/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina aveva ascoltato per ore i racconti dettagliati fatti da Gian Piero e dal fratello di Naldi. Era preoccupata, quello si vedeva, ma il Landriani aveva già capito pure che oltre alla preoccupazione era un'altra l'ombra che oscurava gli occhi verdi della figliastra.

“Naldi ha intenzione di resistere, comunque?” chiese la donna, abbassando lo sguardo per evitare quello del vedovo di sua madre.

Fu il fratello del castellano a rispondere: “Mio fratello vuole resistere, sì.”

“E vorrebbe che io gli inviassi cosa, di preciso? Uomini? Munizioni? Cibo?” nella domanda della Tigre non c'era né sarcasmo, né tanto meno aggrssività.

L'unica nota che si potesse sentire nella sua voce era quella dell'impotenza più assoluta. I due uomini che le stavano davanti si scambiarono una lunga occhiata, senza dirsi nulla.

Erano nello studiolo di Bernardino da Cremona, seduti attorno alla scrivania, e ormai fuori era calata la notte da un pezzo. Le candele gettavano su di loro il bagliore delle loro fiammelle, ma era il buio a prevalere su tutto. In quella luce quasi spettrale, né Gian Piero né il Naldi si sentivano in grado di essere ottimisti.

“Tutto quello che potete, mia signora.” disse piano il fratello di Dionigi.

La Sforza schiuse le labbra, iniziando a scuotere la testa, ma il Landriani la frenò, posandole paternamente una mano sul braccio: “Caterina, prima di decidere cosa fare, pensate bene a quello che capiterà. Là non ci sono solo soldati. C'è un'intera città in balia dei francesi, e dalla rocca si stanno bombardando le case.”

“Vorreste dirmi – fece la Tigre, ritraendo il braccio – che dovrei dichiarare la resa?”

“Voglio solo dirvi di pensarci bene, prima di invitare Dionigi al sacrificio.” parafrasò Gian Piero.

“Io al momento non posso fornire soldati, sarebbe troppo pericoloso spostarli... Verrebbero uccisi non appena si avvicinassero a Imola.” spiegò la Contessa, non vedendo altra soluzione, a quel punto, se non parlare in modo chiaro: “La rocca di Naldi ha viveri per durare un anno e munizioni per attaccare il nemico per mesi. L'unica cosa che servirebbe loro, come intuibile, sono i soldati, ma, come detto, ormai è tardi per inviargliene. Non doveva lasciarli alla mercé di Tiberti quando era il momento.”

La Leonessa si stava alzando dalla scrivania, sotto gli occhi attoniti del fratello di Naldi, e a quel punto il Landriani sbottò: “Per Dio! Ci sarà pure qualcosa da fare!”

“Certo. Affilate le spade e combattete, come avevamo deciso fin dall'inizio.” decretò la donna: “E voi tornerete a Imola e direte a Dionigi di continuare come sta facendo e di tenermi aggiornata. Che bombardi i francesi il più che può, senza lesinare.”

“E poi? Quando in qualche giorno avrà finito le munizioni di mesi, cosa faremo?” chiese Gian Piero, deglutendo.

“Vi avevo detto di andarvene, di tornare a Milano.” disse a denti stretti la Tigre, voltandosi appena verso l'uomo che, appesantito dai suoi anni, mancava della cieca furia che animava invece buona parte del suo giovane esercito: “La guerra non è fatta per i vecchi.”

Il fratello di Naldi si sentiva di troppo. Aveva capito già da un paio di battute che quel discorso non sarebbe stato per le sue orecchie. Si trattava, probabilmente, di qualche recriminazione che aveva radici nella loro famiglia, qualcosa, insomma, con cui lui non aveva nulla a che fare.

“Invece è fatta per i ragazzi come mio figlio Piero, giusto?” chiese il Landriani, senza alterarsi, ma facendosi più rigido.

“Ho chiesto a Piero molte volte se voleva andarsene. Gli avevo anche detto che l'avrei aiutato, se avesse voluto farlo.” precisò Caterina, voltandosi verso Gian Piero, in modo da poterlo fissare in volto: “È stato lui a non volere.”

“Temo sia inutile, litigare, a questo punto...” sbuffò l'uomo, alzandosi a sua volta dalla scrivania e sospirando: “Mi basta sapere che dire al castellano Naldi: che dovrà fare, una volta che le munizioni saranno finite?”

“Quando i cannoni non potranno più sparare, avrete ancora le spade.” fu la risposta un po' frettolosa con cui la Tigre parve voler chiudere una volta per tutte il discorso: “E ora andate a mangiare qualcosa e poi ripartite.”

I due uomini, un po' risentiti per il modo sbrigativo in cui si vedevano messi alla porta, balbettarono una sorta di saluto e fecero subito per andarsene. La Contessa li seguì e solo quando furono in corridoio, trattenne con discrezione Gian Piero.

Mentre il fratello di Naldi si allontanava, tanto immerso nei suoi pensieri da non accorgersi nemmeno di aver lasciato indietro l'altro, il Landriani squadrò la figlia della defunta moglie con un misto di diffidenza e ostilità: “Che volete?” le chiese, non cercando di nascondere il proprio stato d'animo.

“Quando a Imola la situazione peggiorerà ancora, abbastanza da rendere davvero inutile continuare, mandatemelo a dire.” gli sussurrò lei, senza badare al tono ruvido con cui le si era rivolto: “A quel punto vedrò se potrò o meno fare qualcosa. Se entro tre giorni non avrete risposta, allora arrendetevi e basta.”

“Come?” la voce di Gian Piero si era trasformata in un soffio, mentre gli occhi dell'uomo cercavano quelli della Sforza, come se avesse capito male.

“Avete sentito che ho detto. Se non vi manderò alcun rinforzo, allora cercate un accordo di resa con il figlio del papa.” ripeté, con calma, la Tigre.

Il Landriani si grattò un attimo il mento e poi chiese: “E perché non avete parlato così anche prima?”

“Davanti al fratello di Naldi?” domandò lei, sollevando un sopracciglio: “Perché è solo un ragazzo... Quanti anni avrà? Sedici, diciassette? Reso cieco dalla sua età com'è, se gli avessi parlato in questi termini, già domani la rocca sarebbe in mano al Valentino...”

“Non avete detto che la guerra è fatta per i ragazzi?” commentò Gian Piero, cercando di fare ironia solo per alleggerire la pesantezza delle questioni che stavano trattando.

“L'avete detto voi.” gli ricordò Caterina: “Io ho solo detto che non è una cosa per vecchi.”

Il milanese non aveva capito a fondo le parole della figliastra, ma non volle contraddirla, né dar inizio a un confronto verbale, non avendo alcuna voglia di stare ancora in piedi in mezzo al corridoio a lungo. Voleva tornare a sedersi, mettere qualcosa sotto i denti e liberare per un po' la mente.

“Un'ultima cosa...” fece il Landriani, ragionando ancora un po' su quanto la donna gli avesse appena detto: “Che dovrò dire a Naldi?”

“Per ora nulla.” disse la Sforza: “Nulla, finché non sarà il momento giusto. Per ora ditegli solo che dovrà resistere più che può e che per il momento non posso mandargli nessuno.”

Gian Piero annuì, cercando di immaginare come avrebbe reagito il castellano della rocca di Imola a quello scenario. In realtà un po' se l'erano aspettati, che da Forlì non arrivasse alcun aiuto, ma aver la conferma dei propri sospetti avrebbe buttato giù di morale tutti quanti...

“E poi – concluse la Contessa, con un sospiro, mentre ricominciava a camminare – quando sarà il momento, fategli sapere che, se si arrenderà, non dovrà temere nulla per sua moglie e le sue figlie.”

Il Landriani chinò appena il capo, a mo' di ringraziamento per parte di Dionigi. Quella era una rassicurazione che di certo sarebbe risultata gradita e che non era per nulla scontata. In fondo, Dianora e le bambine erano state lasciate a Forlì proprio come assicurazione della fedeltà del castellano, come garanzia del fatto che non si sarebbe arreso per nessun motivo.

Gian Piero stava già per chiedere se ci fosse altro che dovesse riferire una volta di ritorno a Imola, quando la Sforza deglutì e incrinò le labbra: “Non dovrà temere nulla da parte mia, perlomeno.

 

“Ho detto di no.” la voce di Cesare era ferma, ma molto bassa.

Achille Tiberti avrebbe tanto voluto prenderlo per la collottola e costringerlo a lasciare lo sgabello su cui si era mollemente accomodato e dirgli che erano in guerra, che non stavano giocando, che non doveva dare ordini solo per il gusto di farlo.

“Ma se non attacchiamo la rocca – fece il cesenate, tentando di controllarsi il più possibile, ma non riuscendo a impedire a un forte tremito di prendergli le mani – questi butteranno giù l'intera città!”

“Non è un mio problema.” ribatté, mellifluo, il Borja.

Era vero, fin dal primo mattino di quel 27 novembre dalla rocca di Imola erano partiti a ripetizione i colpi dei cannoni. Sembrava quasi che non ci fosse un piano preciso, ma solo la testarda volontà di radere completamente al suolo Imola.

Il Valentino, che aveva posto il suo campo personale fuori dalla portata delle bocche da fuoco, non aveva alcuna intenzione di sprecare uomini e munizioni nel tentativo di contrastare quel folle attacco. Gli erano bastate le parole di Vitellozzo Vitelli e poi quelle di un paio di talpe che era riuscito a far entrare nottetempo nel perimetro più stretto della rocca, per capire che colpirla non sarebbe servito a molto.

Il suo progetto era diverso, più ampio e lungimirante, lontano da quello stantio e attaccato al vecchio modo di fare la guerra che aveva ancora Achille Tiberti.

“E allora che contate di fare?” il cesenate pareva esasperato.

Il figlio del papa fece uno sbuffo, raddrizzando un po' la schiena e poi, indicando a Michelotto, che era sempre con lui, il tavolino su cui aveva lasciato la caraffa e il calice, rispose: “Questa mattina non avete visto partire l'Aubigny?”

Achille fissava il Duca, che si stava facendo versare da bere da Miguel de Corella, che, per servire il suo signore, sembrava un ridicolo incrocio tra un titano e un paggetto.

“Il Duca della Val Tellina – spiegò Cesare, usando volutamente il titolo che l'Aubigny aveva da poco più di un mese, al solo scopo di far sentire il misero Tiberti ancor più misero e privo di cariche importanti – sta andando a portare un attacco decisivo a Mordano.”

“E credete che attaccare una città ancora non del tutto ricostruita serva a qualcosa?” la domanda risuonò ridicola anche allo stesso Tiberti.

Era vero, Mordano, dopo la discesa in Italia di Carlo VIII, non si era ancora ripresa del tutto. La Sforza aveva ricostruito la chiesa, qualche fortificazione e un po' di case, ma quel paesello dava ancora l'impressione di essere stato saccheggiato da poco e le persone che vi abitavano erano poche e con poche sostanze. Sprecare uomini e tempo nel mettere a sacco quel piccolo centro sarebbe sembrato assurdo, ma solo per chi non conosceva tutta la storia.

“E si che avete servito quella donna per anni...” commentò, ridendo, il Borja, dopo aver sorseggiato per un po' il suo vino: “Io che non l'ho nemmeno mai vista, sembro capirla più di quanto non facciate voi...”

Achille strinse i denti e poi, allargando appena le braccia, ammise: “Attaccare Mordano era la cosa giusta, avete ragione.”

“Avreste dovuto pensarci prima di me.” annuì il Duca, compiaciuto: “Ma non l'avete fatto.”

“Però finché non si prende la rocca..!” Tiberti non voleva per nessun motivo mollare la questione.

Era vero che prendere Mordano avrebbe potuto avere una grossa risonanza, sulla Sforza, specie pensando che l'azione sarebbe stata guidata dall'Aubigny, lo stesso comandante che aveva fatto scempio del paese la prima volta, ma era altrettanto vero che finché Naldi teneva la rocca, Imola non poteva dirsi presa.

“Tempo al tempo.” borbottò il Valentino, perdendo la pazienza: “A quello sto già pensando io.”

“Ma se non colpiamo la rocca con i cannoni...” Achille aveva notato il lampo che aveva attraversato gli occhi del Borja, ma, pur avendone paura, aveva provato una volta di più a farsi valere.

“Smettetela, con questi cannoni!” sbottò il giovane, alzandosi in piedi e sollevando le braccia, in un gesto di stizza: “Non sprecherò uomini e armi per prendere una rocca che sembra imprendibile! Ho le mie informazioni, e so che quella rocca o la prendiamo con la frode, o dovremo prenderla con la fame!”

Il cesenate trovava poco praticabili entrambe le strade, ma vedendo anche Michelotto farsi scuro in volto e incrociare le forti braccia sul petto, preferì annuire e fare un mezzo inchino, pigolando, appena udibile: “Come dite voi, mio signore.”

 

“Mia signora...” Caterina si voltò nel sentire la voce di Bernardino da Cremona.

La donna stava controllando dei disegni che Angelo Laziosi le stava mostrando. Riguardavano la disposizione delle truppe nel caso in cui Forlì avesse deciso di difendersi, e, quindi, ci fosse stato bisogno di schierare i soldati in tutto il territorio cittadino.

Il castellano, dato che la Contessa si era voltata verso di lui, in attesa, riprese: “Mia signora, c'è una questione che avrebbe bisogno la vostra attenzione.”

“E sarebbe?” chiese la Sforza, chiedendo con un gesto a Laziosi di aspettare.

Era stanca. Aveva passato la notte in parte a parlare con Gian Piero e con il fratello di Dionigi Naldi e in parte a ragionare su come e quando far scappare i suoi figli. Si rendeva conto che la sua resistenza sarebbe stata vana, ma aveva egoisticamente ancora viva la voglia di mettere in salvo il sangue del suo sangue e per farlo doveva votarsi al sacrificio. Gli uomini che dicevano di volerla seguire avevano ciascuno il suo scopo – chi la gloria, chi la morte onorevole in battaglia, chi ancora il ripagarla della sua generosità, altri nella folle speranza di preservare la libertà di Forlì – e a lei spettava conciliare tutti quei desideri creando una forza unica che andasse a contrastare nel migliore dei modi un nemico con possibilità ben oltre le loro.

Ad aggiungersi a tutto ciò andava la quotidiana amministrazione della città, che ricadeva ormai da tempo quasi interamente sulle sue sole spalle. Aveva delegato qualche incarico ad Antonio Baldraccani, ma cominciava a credere di aver bisogno di un altro segretario. Le questue si susseguivano senza tregua, anzi, aumentavano per colpa dello stato di confusione che regnava in città. I rapporti con i Consigli del Anziani e dei Cittadini erano delicati e lei sapeva di avere il sangue troppo caldo per potersene occupare in prima persona senza combinare disastri.

Cominciava quindi a credere che fosse necessario trovare almeno un altro Segretario, in modo da lasciare gli incarichi prettamente amministrativi a Cardella, che era abbastanza ligio al dovere, quelli diplomatici a Baldraccani, che sapeva muoversi benissimo, e tutte le altre seccature a un altro, che andava scelto tra gli uomini colti della corte. Così lei avrebbe potuto concentrarsi solo ed esclusivamente sull'esercito.

“Vedete, mia signora, uno dei frati che è arrivato alla rocca, su insistenze dei soldati, vorrebbe celebrare una Messa, stasera.” spiegò il castellano, mordendosi le labbra.

“La celebri dove vuole... Scelga una chiesa e...” stava già dicendo la Tigre, ma Bernardino la interruppe.

“La vuole celebrare qui, a Ravaldino.” specificò: “Possibilmente in cortile, in modo che possano assistervi il maggior numero di persone possibile.”

Caterina si accigliò: “I soldati possono andare a Messa dove par loro. Perché farne una qui? E poi non credo nemmeno si possa... Questa è una rocca militare, non una chiesa.”

“Il frate dice che non ci sarebbe problema per quello. Il papa ci sta attaccando, non riconosciamo più la sacralità data da Roma.” spiegò il cremonese, cercando di riportare il più fedelmente possibile quanto detto dal francescano: “I soldati hanno ordine di restare a Ravaldino e non creare disordini in città. Una Messa qui alzerebbe l'umore generale e darebbe l'idea che... Insomma, che anche se il papa ci sta muovendo guerra, Dio è ancora con noi.”

La Sforza valutò attentamente quanto detto dal castellano. In linea teorica era un'idea vincente. Dal lato pratico aveva una grossa pecca: facendo così, se la notizia si fosse sparsa, avrebbero acuito l'odio dei pontifici nei loro confronti. Già sapeva che dal Vaticano veniva vista come una blasfemia la sua abitudine di indossare abiti maschili, se si fosse saputo che faceva anche celebrare funzioni nella sua rocca su terreno non consacrato...

“Ma è mercoledì...” provò a tergiversare lei: “Fosse domenica, potrei capire... Ma se per un giorno non vanno a Messa non...”

“Dategli retta.” suggerì Laziosi, che aveva sentito tutto: “I soldati che militano nel vostro esercito non sono nati come armigeri di professione. Sono contadini e artigiani. Per loro è importante avere il sostegno dei preti e dei frati.”

La Contessa sospirò e poi, lanciando uno sguardo alla finestra che aggettava sul cielo cupo e carico di pioggia, cedette: “Va bene, che la facciano. Ma se pioverà a dirotto e gli uomini la vedranno come un brutto presagio, non venite a lamentarvi con me.”

 

“E invece dovevi tenerti queste cose per te!” stava dicendo Alfonso.

Lucrecia, che si era appena cambiata per andare a cena, e aveva pensato di passare dalla camera del marito per raggiungere poi il salone assieme, rimase un momento immobile, l'orecchio teso a quello che succedeva al di là della porta.

Sentì la voce di Jaun Cervillon rispondere in modo burbero in spagnolo, dicendo che tutti avevano capito che Cesare avrebbe continuato la sua cavalcata dalla Romagna fino a Napoli, una volta caduta la Sforza di Forlì e che quindi lui poteva dire quel che più gli pareva, sul figlio del papa.

“E va bene, ma che c'entra questo con l'andare a dire in giro che mio cognato di portava a letto mia sorella!” gridò l'Aragona.

Il silenzio che seguì non lasciò altri dubbi alla Borja, che, ben decisa a tenere le acque il più calme possibili, in casa sua, entrò nella stanza del marito senza nemmeno annunciarsi. Alfonso, ancora provato dalla mezza sfuriata, puntò su di lei gli occhi azzurri e poi, deglutendo, fece un passo indietro.

Cervillon, splendido come sempre nei suoi abiti spagnoleggianti, chinò appena il capo verso la moglie del napoletano e borbottò un: “Perdonatemi, mia signora, me ne vado subito...”

Detto fatto, Juan le passò accanto e uscì dalla stanza, lasciando soli marito e moglie. L'Aragona, le guance ancora rosse, cominciò a scusarsi per parte dell'altro, ma la ragazza lo zittì subito.

“Perché è andato a parlare in giro della tresca tra mio fratello e Sancha?” chiese, cercando di capire meglio la situazione.

“Ha capito che tira una brutta aria e si è convinto che screditando Cesare, possa convincere qualche Stato a prendere le parti di Napoli, quando sarà il momento.” spiegò Alfonso, senza nemmeno provare a negare l'evidenza.

“Ma è impazzito?” anche il volto di Lucrecia si era imporporato, per rabbia, più che per altro: “Ma non capisce che facendo così si sta votando alla morte?”

“Non vuole capirlo.” allargò le braccia il napoletano: “Io gli ho detto di andarsene da Roma il prima possibile, di tornare a Napoli da sua moglie e dai suoi figli, ma fa finta di non capire...”

“L'unico uomo furbo che vivesse qui in Vaticano è il Cardinale Sansoni Riario!” esclamò Lucrecia, preda dell'irritazione: “E infatti lui se n'è andato da giorni e senza fare tanto fracasso!”

Alfonso le dava tacitamente ragione. Raffaele era partito tanto in sordina e inaspettatamente che il papa, quando aveva capito cos'era successo, era rimasto tanto basito da non mandarlo nemmeno a cercare. Aveva imputato quella fuga alla sua proverbiale codardia e non aveva nemmeno pensato per un istante che, invece, potesse essere in qualche modo un'ammissione di colpa per qualcosa.

“E poi toccare ancora la questione di Sancha!” continuò la Borja, senza riuscire a trattenersi: “Mio fratello avrà le sue colpe, così come le aveva Juan, ma se lei non fosse com'è...”

“Che intendi dire?” Alfonso, accigliandosi, guardò la moglie in un modo strano.

Era forse la prima volta in cui la sentiva parlare in modo apertamente critico nei confronti di Sancha. Fino a quel momento, per essere sinceri, entrambi avevano cercato di parlare il meno possibile dei rispettivi parenti, salvo quando era stato strettamente necessario.

“Intendo dire – rispose pronta la ragazza – che tua sorella, appena vede un paio di brache, non è capace di tenere a posto le mani.”

“Devo ricordarti che le suore stanno crescendo il tuo piccolo Giovanni al posto tuo?” l'attacco dell'Aragona, scivolatogli fuori dalle labbra prima che fosse in grado di frenarlo, zittì Lucrecia.

La diciannovenne guardò per un momento gli occhi chiari del marito e poi, scorgendo sul suo viso una ruga di preoccupazione nel centro della fronte. Alfonso, che aveva un anno meno di lei, in quel momento, malgrado quel segno profondo di tensione, le sembrava solo un bambino da rassicurare.

“Non dobbiamo litigare.” gli disse, con un filo di voce: “Non noi due. Ti prego.”

Il napoletano si morse il labbro. Sapeva di aver sferrato un colpo molto più basso di quello che gli aveva rifilato sua moglie. Un conto era commentare in modo sprezzante di Sancha, che, effettivamente, non aveva mai fatto nulla per allontanare da sé certe voci, anzi, le aveva sempre alimentate, e un altro era ricordare a Lucrecia del figlio che aveva avuto per errore, mentre era sotto processo d'annullamento del primo matrimonio, e che era costato la vita al povero Pedro Calderon.

“Non litighiamo.” accettò lui, stringendo la mano che la Borja le stava offrendo.

“In ogni caso...” Lucrecia apprezzò il calore delle dita del marito che, aggrappate alle sue, le davano un po' più di sicurezza: “Come mai Cervillon ha cominciato a screditare mio fratello? Posso capire la paura di vedere Napoli attaccata, ma...”

“Temo sia colpa di tuo padre...” disse piano l'Aragona, una ciocca di capelli biondi che gli scivolava sulla fronte, mentre guardava altrove: “Continua a vantarsi con tutti dei successi di Cesare, dice che presto sarà a Forlì e che metterà in ginocchio la Tigre... Francamente, non dice proprio così, ma non mi piace essere volgare.”

La Borja deglutì. Anche lei aveva sentito suo padre ridere come un pazzo, mentre elencava tutti i successi – veri o presunti che fossero non l'aveva ancora capito – di Cesare al fronte. E quello che diceva che il duca di Valentinois avrebbe fatto alla Sforza, una volta che avesse preso Forlì, era in effetti molto più volgare di quanto avesse appena riferito Alfonso.

“Mio padre non sa contenersi.” disse piano la ragazza, capendo, in un certo senso, la reazione di Cervillon, un uomo anch'egli dal temperamento abbastanza sanguigno.

Siccome l'Aragona aveva appena sollevato un sopracciglio e schiuso le labbra, probabilmente per dire qualcosa che alla moglie non sarebbe piaciuto molto, Lucrecia decise di chiudere una volta per tutte il discorso dandogli un bacio.

“Tu stai attento – gli disse solo, mentre, stringendosi al suo braccio, lo faceva avanzare verso la porta – Napoli è in pericolo, questo è vero, e mio fratello... Tu stai attento. Non dargli motivi di odiarti.”

Il ragazzo annuì, felice, in fondo, che sua moglie avesse voluto chiudere la questione a quel modo.

Tuttavia, mentre camminavano lenti verso il salone, per cenare, Alfonso si trovò a pensare tra sé che esaudire la richiesta della sua amata consorte sarebbe stato molto difficile. Gli aveva chiesto di non dare motivi a Cesare per odiarlo, ma aveva capito già da tempo che essere il marito di Lucrecia, per suo cognato, era già un motivo più che sufficiente per volerlo morto.

 

La rocca di Ravaldino aveva risposto alla notizia della celebrazione della Messa in cortile con un entusiasmo che Caterina non riusciva a capire. Molti soldati l'avevano ringraziata, incontrandola, altri ancora, addirittura, le avevano assicurato che avrebbero pregato anche per lei.

Per quanto le riguardava, continuava a trovare quell'idea azzardata e potenzialmente pericolosa, tuttavia non era pentita di aver dato il proprio permesso. Anche il morale aiutava in guerra, e i suoi uomini avevano un disperato bisogno di animarsi prima dell'affondo francese.

“Voi non andate a sentire il francescano che dice Messa?” le chiese Luffo Numai, quando la incontrò sulle scale.

L'uomo stava scendendo al piano terra, nella speranza di farsi largo tra i tanti presenti e poter assistere alla funzione da una posizione privilegiata. La donna, invece, stava salendo al piano di sopra, per attendere alla corrispondenza.

“Lascio lo spettacolo ai miei soldati.” rispose lei, con un'alzata di spalle.

Il forlivese fece un suono sordo e poi, scuotendo appena il capo, le disse: “Se accettate un consiglio da un amico, voi dovete farvi vedere. Dovete mettervi a una delle finestre e richiamare l'attenzione su di voi. Che si veda che appoggiate questa cosa.”

Caterina ci ragionò un istante. Luffo non le aveva mai dato cattivi consigli, anzi. Probabilmente aveva ragione anche quella volta.

“Starete al mio fianco, allora.” gli disse, facendogli segno di seguirla al piano superiore.

L'uomo, che pur avrebbe voluto accettare, perché per lui poterle stare accanto a quel modo era un riconoscimento più prezioso di tanti altri, si trovò invece costretto a rifiutare: “No, no, mia signora...”

La Sforza si accigliò, mentre sentiva dal cortile arrivare la prima risposta corale alle benedizioni del frate: “Perché no, Numai?”

“Perché lo sapete...” fece lui, con un sospiro: “Se vogliamo far quel che vogliamo, nessuno deve pensare che siamo tanto in confidenza, né che voi vi fidiate troppo di me. I vostri figli saranno al sicuro a casa mia, solo se tutti crederanno davvero che voi e io non siamo più amici.”

La Tigre fece uno sbuffo. Sapeva che era così, ma avere accanto il Consigliere le avrebbe dato sicurezza. Rinunciando a quell'appiglio, gli diede ragione.

“Se solo i miei figli non fossero già in cortile, chiederei a loro di affiancarmi.” commentò.

“Vostro figlio Ottaviano vagava al piano di sopra...” le fece presente Luffo: “Fate che sia lui ad affacciarsi al vostro fianco.”

La Leonessa non disse nulla, fece solo un cenno con il capo e poi, smossa dalle preghiere che rimbombavano perfino nella tromba delle scale, ricominciò a salire i gradini, lasciando Numai al suo destino.

In effetti, quando arrivò di sopra, vide subito il suo primogenito. Ottaviano era distratto: stava fissando le donne, voltate di schiena, che si erano messe alle finestre per seguire dall'alto la Messa.

Il modo in cui le passava in rassegna, fece venire i brividi alla Contessa che, anche per impedirgli di combinare disastri tenendoselo vicino, si decise a fare quanto suggerito da Numai.

“Tu, vieni con me.” gli disse, passandogli accanto.

Il giovane, che non l'aveva notata, fece un piccolo scatto, ma alla madre bastò uno sguardo per frenarlo. Docile, perfino mesto, il ventenne la seguì fino alla finestra centrale, e quando lei aprì i vetri, lasciando entrare l'aria fredda di quella sera, anche lui si sporse un po' in fuori come lei, guardando in basso.

Il francescano che diceva Messa davanti a un crocifisso di legno non si accorse di loro, ma tutti gli altri sì. Come una testa sola, i soldati e gli altri abitanti della rocca radunati in preghiera, sollevarono lo sguardo verso la loro signora e, altrettanto simultaneamente, le porsero omaggio con brevi inchini o cenni di rispetto.

Ancora una volta, Caterina si rese conto che Numai l'aveva consigliata per il meglio.

“Ho visto come guardavi prima quelle donne – disse piano la Leonessa, all'orecchio del figlio, mentre dal cortile si sollevava una sequele di preghiere che copriva tutto il resto – e non mi è piaciuto per niente.”

Il Riario sporse un po' il mento in fuori e, i capelli lunghi e inanellati a coprirgli un po' il viso, ribatté secco: “Nemmeno a me piace come guardate i soldati che vivono qui.”

“Di' ancora una parola e ti butto giù.” lo minacciò la donna, indicandogli con un cenno del capo la corte che stava sotto di loro.

Senza che nessuno dei due lo dicesse apertamente, in quel momento avevano entrambi in mente l'immagine del corpo senza vita di Girolamo Riario che veniva lanciato da una delle finestre del palazzo che avevano in città. Nessuno dei due l'aveva scordato, ma ciascuno dava a quel ricordo una valenza diversa.

Per Caterina era stato un momento di profonda paura, ma anche di incosciente libertà. Sapere morto suo marito le aveva tolto un macigno dall'anima. Subito dopo aveva dovuto combattere per la propria vita e per quella dei suoi figli, ma gli Orsi, con la loro confusa congiura, le avevano solo fatto un favore.

Per Ottaviano, invece, quello era stato il momento esatto in cui il suo mondo si era ribaltato. La morte di suo padre aveva decretato la fine dell'unica vita che aveva conosciuto fino a quel momento. Da quel momento in poi c'era stata solo sua madre, una donna che non l'aveva mai accettato, che non era mai stata capace di vederlo in altro modo se non come un figlio indesiderato e troppo, troppo simile a un marito che aveva odiato.

“Dove stanno..?” la voce era uscita in un sussurro dalle labbra della Tigre, che aveva appena visto suo figlio Sforzino e suo fratello Galeazzo andare verso una fila di religiosi seduti vicino alle colonne del porticato.

“Credo siano padri confessori.” rispose Ottaviano, in automatico, notando come quelli che si avvicinavano loro si facessero il segno della croce e poi, inginocchiatisi, iniziavano a parlare a testa bassa.

“Credi che dovrei andare anche io e far vedere che mi confesso a uno di loro?” quella domanda, sorta così spontanea, fece voltare di scatto la testa del Riario.

Da che aveva memoria, forse era la primissima volta in cui sua madre gli chiedeva la sua opinione, e lo stava facendo senza sarcasmo né cattiveria. Era sinceramente in cerca di un consiglio.

Parimenti, anche il giovane provò a non trasformare tutto in un contrasto e, dicendo quel che pensava, sussurrò: “Credo di sì.”

“Tu resta qui e non muoverti.” intimò lei, sollevando l'indice e tornando ai suoi consueti modi bruschi: “Voglio che ti vedano tutti. Anche tu fai parte di questo teatro, che ti piaccia o no.”

Ottaviano annuì, non avendo il coraggio di ribellarsi, benché avrebbe preferito di gran lunga occuparsi dei suoi affari, piuttosto che starsene lì come una statua a farsi guardare dai sudditi di sua madre.

Attese per qualche minuto, poi, finalmente, proprio mentre Sforzino lasciava il confessore accanto a cui si era inginocchiato, vide sua madre arrivare in cortile. Notò come tutti la stessero seguendo con lo sguardo e poi, vedendola sistemarsi accanto a uno dei frati, come molti dei soldati stessero perdendo interesse nella Messa, per commentare quel che stava accadendo.

Il Riario strinse un po' gli occhi, messo alla prova dal buio di quell'ora tarda e dalle luci tremule delle torce, cercando di vedere meglio.

La Tigre teneva la testa china e, forse, non aveva nemmeno visto il volto del frate che aveva scelto a caso. O, perlomeno, Ottaviano voleva credere che fosse così. In caso contrario, non avrebbe sopportato di vedere sua madre scegliere, tra tutti i religiosi presenti, l'unico di bell'aspetto e che sembrasse avere poco più di vent'anni.

 
   
 
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