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Autore: Zomi    20/01/2020    3 recensioni
Scivolò nel ventre del blindato, camminando rasente alle pareti d’acciaio freddo che isolavano il calore interno al mezzo e dei suoi abitanti.
Con passo veloce mirò alla mensa, dove in molti già attendevano in una composta fila il rancio serale.
Si allineò ai colleghi, osservando distratto le guardie notturne marciare verso le vedette.
I fucili luccicavano anche nella luce tenue dell’interno del mezzo, annunciando a tutti l’arrivo del loro risveglio e di chi, nel deserto in cui avanzavano, si destava in cerca di vita.
Era l'ora di cacciare per entrambe le fazioni.
Izou mantenne gli occhi sulla squadra armata, notando appena gli ormai sbiaditi memorandum che chiazzavano le pareti della corazzata.
Erano colorati, di bell’aspetto ma bastava leggerli per temerli.
Per abitudine, più che per ricordarli, gli occhi di Izou tornarono su quelle righe.
Ancora e ancora.
Per non dimenticare.
Per non sbagliare.
[FanFiction partecipante al JanuAngst di Piume d'Ottone ~ Yuri&Yaoi's Week di Fairy Piece Forum~ Blue Monday di Fanwriter.it ]
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Ciurma di Barbabianca, Izou, Marco
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Mantenne gli occhi fissi al tramonto fino al suo ultimo raggio.
Il sole calava rapido oltre il confine, ma Izou non era ancora pronto a lasciarlo andare.
Alzò una mano a catturare i raggi scarlatti che si schiacciavano sotto la gravità della sera incombente, e per un breve, futile attimo, gli sembrò di averne catturato perfino uno.
Chiuse il palmo e serrò gli occhi, portandosi la mano chiusa alla bocca prima di aprirla e annusarne il profumo del tramonto.
Sapeva di caldo, di speranza e cose belle.
Profumava di tesoro prezioso. Di salvezza.
Ma quando riaprì gli occhi vide solamente la sua mano chiazzata di sangue incrostato tra i tagli e le pieghe callose delle dita.
Nessuna speranza.
Nessun calore.
-Ehi!- lo richiamò qualcuno dalla torretta del Blindaggio in compositi, sbucato fuori dal mezzo per l’ultima sigaretta della giornata -Rientra, è pericoloso qua fuori col buio-
Izou annuì e con pochi passi lasciò il sole al suo riposo, tornando nello scafo blindato del mezzo.

I cingoli aravano la terra senza delicatezza, muovendo il mezzo in quel mondo devastato dal caos, dove non era più sicuro viaggiare di notte, dove il calar del sole marchiava il confine tra pace e guerra, tra civiltà e anarchia, tra vita e morte.
Non ricordava più come fosse la vita prima degli Affamati, ma sperava ancora di poterci tornare.
Sebbene per lui la vita ora era racchiusa in quelle quattro mura di acciaio temperato che lo dividevano dalla notte, che lo chiudevano in un soffocante e afoso grembo materno, sognava ancora di poter ballare sotto le stelle, al chiarore della luna e al tiepido vento della notte.
Ma era un sogno: nella notte non si poteva più ballare, se non la coreografia di lutto e distruzione con partner morenti e freddi, bisognosi di calore.
Gli Affamati.

Scivolò nel ventre del blindato, camminando rasente alle pareti d’acciaio freddo che isolavano il calore interno al mezzo e dei suoi abitanti.
Con passo veloce mirò alla mensa, dove in molti già attendevano in una composta fila il rancio serale.
Si allineò ai colleghi, osservando distratto le guardie notturne marciare verso le vedette.
I fucili luccicavano anche nella luce tenue dell’interno del mezzo, annunciando a tutti l’arrivo del loro risveglio e di chi, nel deserto in cui avanzavano, si destava in cerca di vita.
Era l'ora di cacciare per entrambe le fazioni.
Izou mantenne gli occhi sulla squadra armata, notando appena gli ormai sbiaditi memorandum che chiazzavano le pareti della corazzata.
Erano colorati, di bell’aspetto ma bastava leggerli per temerli.
Per abitudine, più che per ricordarli, gli occhi di Izou tornarono su quelle righe.
Ancora e ancora.
Per non dimenticare.
Per non sbagliare.

Usare ambiti termici.
Colorati vestiti erano associati a smile incoraggianti.
Avevano provato a fermarsi, a rimediare, a fermare quel deserto che avanzava sempre più feroce e caldo.
Le giornate di sole aumentavano di numero a ogni stagione, l’inverno era ormai un ricordo volubile come la neve, e le piogge sparivano per mesi prima di riapparire furenti e vendicative per stagioni intere su ogni lembo di terra sabbiosa che affiorava dagli oceani salati e brucianti.
La terra si era piegata al destino imposto dagli uomini, rovesciando le regole e soggiogando chi l’aveva sfruttata.
Non erano stati anni facili.
Non era stato facile sopravvivere a ciò che si era creato.
Se la natura, con la sua flora e fauna, aveva giocato d’anticipo evolvendosi prima ancora che l’uomo si rendesse conto di dove stesse conducendo il suo stesso pianeta, la risorsa umana si era ritrovata davanti al caos mondiale impreparata.
Troppo caldo.
Troppo sole.
Troppa afa.
Non potevano sopravvivere, non potevano vincere contro ciò che avevano creato.
Non poteva aspettare che l’evoluzione facesse il suo decorso.
Ancora una volta, l’uomo era intervenuto.
Izou non ricordava molto, suo parde aveva vissuto quegli anni di prime tormente di sabbia e pioggia bollente. Ma ricordava le foto, i documentari, le pagine di storia studiate in classe.
Ricordava i primi tentativi di modifica dell’uomo, le prime foto di uomini che riuscivano a  vivere nel più vasto paese del mondo, il deserto di Alubarna, senza temere il caldo e non sudando una sola goccia di sudore.
Ora gli uomini non sentivano più l’eccessivo calore, il sole bruciargli la pelle e la morte arrivare strisciando nella sabbia.
Ora l’uomo poteva sopravvivere e ricominciare.
O provarci, perchè il caldo, il calore, non era un problema solo per una parte della popolazione mondiale.
Per il resto di essi era una leccornia.
Avanzò di un passo verso la mensa.

Sottoporsi ai controlli annuali.
Un medico sorrideva a un bambino auscultandone il petto.
Ricordava le periodiche visite mediche e i sporadici bambini che venivano allontanati.
Da piccolo non capiva.
Da grande sì.
Perchè puoi provarci, puoi provare a salvare tutti prima che sia la fine, ma anticipare le mosse non è mai un bene.
Mai.
Si presentava come una violenta influenza che si limitava a febbre fredda e dolore ossei.
Era rara ma accadeva.
Senza logica o regole.
Selezione naturale, la chiamavano gli scienziati.
Scherzi del destino, li chiamava Izou.
La modifica che gli stessi uomini avevano regalato alle generazioni, ora lasciava qualche macchia qua e là, creando una nuova forma di umano.
Un nuovo problema.
Troppo caldo.
Troppo sole.
Troppa afa.
Non bastava mai.
Dopo la febbre arrivava l’apatia, la pigrizia, l’immobilità. Di giorno si crogiolavano al sole in un coma profondo e silente, quasi che il calore non fosse mai sufficiente a scaldarli, con lievi sprazzi di lucidità ma mai abbastanza lunghi per comprenderli.
Caldo, caldo, caldo.
Questo volevano.
Questo cercavano.
Sempre.
Anche quando non c’era.
Anche nei giorni di pioggia, nei giorni bui senza sole, anche di notte.
E quando non c’è il sole dove si va a trovare quel tepore caldo e avvolgente, che inebria e ringivorisce, che aiutava quei poveri inadatti a vivere senza sole a sopravvivere nelle lunghe notti buie?
Lo si cerca e lo si trova laddove si è certi di trovarlo sempre.
Laddove è stato creato un contenitore adatto a raccoglierlo e a non subirne gli effetti nocivi.
Là.
Proprio là.
Nel corpo di un uomo.
Si erano salvati dal caldo assassino che avevano creato, e nello stesso momento avevano creato un nuovo sicario della loro specie: gli Affamati.

Segnalare persone infette dal morbo di Flevance.
Un stilizzato gruppo di uomini stretti tra loro circondati da punti interrogativi, dai volti scarni e piegati verso un sole.
Volevano solo salvarsi da ciò che avevano creato: un mondo troppo caldo.
Erano morti per quel caldo.
In molti, in troppi.
Dovevano salvarsi.
E c’erano riusciti: ora il caldo non faceva più paura.
Riuscivano a conviverci, ad ignorarlo quasi.
Ma non tutti.
C’era a chi, il caldo, il sole, il calore, non bastava, perdeva ogni contatto con la realtà e si tramutava in quei vaganti esseri insenzienti che col calare delle tenebre correvano indemoniati per le città di quel mondo che li aveva cresciuti, in cerca di calore.
Calore umano.
Avevano ben presto preso il nome della caratteristica che li distingueva dai morti e da chi ancora non lo era: Affamati.
Di caldo, di denso calore, che li scaldava e ritemprava.
Avevano iniziato a girare in branchi solo dopo anni dalla loro comparsa.
All’inizio si credeva fossero solo dei casi isolati, delle burle o delle leggende metropolitane.
Poi aumentarono.

Non uscire dal mezzo nelle ore notturne.
Una mezza luna stilizzata era marchiata con il segno del divieto.
Dieci, venti, trenta in un solo quartiere delle cittadine costruire per sopravvivere al surriscaldamento globale.
Aumentarono e al calar del sole, quelli non eliminati dalla gendarmeria di controllo, si riunivano e andavano a caccia.
A caccia di corpi caldi con cui saziarsi, ricoprirsi, a sfamare il bisogno incontrollato di caldo.
A squarciare corpi per ricavarne calore.
Immergere le mani, il volto, intere braccia, nel corpo caldo e rigenerante di chi al caldo riusciva a vivere senza bramarne sempre di più.
Era così nato il piano di pulizia del mondo.
Gli Affamati venivano segnalati e presi in custodia.
Erano casi rari, ma erano anche genitori, amici, fratelli, compagni, che pian piano si assopivano nel crogiolarsi al sole, perdevano coscienza di sè per risvegliarsi al freddo della notte in una disperata ricerca di quell’unico languore temperato in grado di saziarli.
Era un dovere segnalare gli Affamati.
Era un dolore quando accadeva a qualcuno che conoscevi.
Alcuni scappavano, alcuni si salvavano al di fuori delle città e nei nuovi deserti.
Alcuni diventavano cacciatori cacciati da carlinghe di scienziati e militari, con l’obiettivo di trovare una cura al loro morbo.
Alcuni venivano catturati e usati.
Alcuni venivano semplicemente cacciati.
Alcuni.
Ma non tutti.

Lo stomaco guaì, dolorante per quei pensieri, e una smorfia di nausea contrasse il volto pallido di Izou.
Si sfrozò di mangiare, di mettere a tacere la bile che ribolleva nelle sue viscere, non aspettando di cenare col suo intero reparto di meccanici addetti alla sala caldaie.
Anticipando la digestione e quel suo caldo accogliente, stordente, invitante che saliva dalle budella e si diramava in ogni fibra del suo corpo, come acqua rovesciata sulla sabbia.
Come sangue zampillante da un taglio.
Si alzò dal tavolo, il turno di notte tra i roventi forni e le motrici a combustione fredda ad aspettarlo, lui e il suo essere pronto per il lavoro di manutenzione.
Per il suo scopo.
-Anche stasera thè bollente?- ritirò il suo vassoio Thatch, porgendogli il thermos rovente.
Izou sorrise vago.
-Così non mi addormento- si avviò al ventre del Blindaggio.
-Così ti cucini le budella- rise il cuoco, non sapendo quanto avesse ragione.

Scivolò nel blindato.
A ogni corridoio abbandonato lo spazio diminuiva, come un soffocante abbraccio.
Scendeva nelle viscere del mezzo che avanzava nella notte.
L’aria era rarefatta, pesante da incanalare nei polmoni, amara da assaporare.
Il calore emesso dalla carlinga e i suoi abitanti, durante la notte, si riversava all’interno per non uscire come inebriante profumo per chi smaniava per un pò di calore ricostituiente.
Era un vulcano che invece espellere calore, lo lasciava ribollire e aumentare al suo interno, crogiolandosi e alimentandosi autonomamente.
Un rivolo di sudore scese dalla tempia di Izo, che salutò cordiale i colleghi del turno precedente, scambiando poche parole e lanciando occhiate ossessive al suo forno di lavoro.
-Tranquillo- lo canzonò Jaws-Nessuno tocca la tua postazione-
-Sarà meglio per voi- sbuffò il moro, con un sorriso audace.
Anticipo di una paura malamente controllata.
-Se scopro che avete anche solo spostato uno dei miei attrezzi, io…-
-Cosa?- ghignò Namyuul, lanciando un braccio attorno alle spalle del fratello gigantesco -Non ci fai più le treccine?!-
-Potrei pensarci- rise Izo, sistemandosi il disordinato chignon che raccoglieva le sue ciocche corvine -Già ti vedo con nidi di rondine tra i capelli Namyuul senza le mie cure-
L’uomo ridacchiò, i crini neri smossi dal collega più alto, altre risate rubate al soffocante calore della sala macchine della carlinga.
Era un furto legalizzato, un tornare alla normalità rincorrendo chi, il quotidiano vivere, l’aveva perduto.
-Non ti manca?- riportò gli occhi su di lui d’un tratto Namyuul -La tua vecchia vita, il tuo lavoro in casa di cura, le domeniche con Halta e con-
-Namyuul!-
Izou sorrise all’ammonimento di Jaws.
-Può anche chiederlo- alzò le spalle, guardando senza rancore il collega più tozzo.
Il meccanico lo studiò con attenzione.
Con lo sguardo di un amico che cerca la prima crepa di un dolore che da troppo tormenta una diga pronta al cedimento.
-Non ti manca Marco?-
Izo sorrise, piegò gli occhi alla sala macchine e non accennò a nemmeno mezzo cedimento.
-Lui è sempre con me- si avviò alla sua postazione.

Tutti se l’erano chiesto quando Izo si era proposto come meccanico per il carlingo della missione medica guidata dal dottor Trafalgar: perchè?
Cosa cercava Izo in quel lavoro di fatica e dolore, inadatto a lui e al suo mondo?
Marco era stato infettato ed eliminato dalla gendarmeria di controllo.
Marco non c’era più.
Perchè quindi imbarcarsi in un blindato in cerca di una cura, quando chi volevi curare non aveva più alcuna speranza?
Chi altri doveva salvare Izo?
Non aveva amici o parenti infetti, non aveva nessuno per cui abbandonare la propria vita e buttarsi in una spedizione sanitaria e suicida, a caccia di mostri.
Izo non aveva nessuno.
Ma continuava a ripeterlo.
Lui è sempre con me.
Suonava come un ultimo romantico pensiero al proprio amato, in ricordo dei giorni in cui Marco non si incantava sotto il sole, non agognava il calore estremo del mondo e non graffiava le pareti di casa in disperata astinenza del suo ineluttabile bisogno di calore vivo.
Izo pronunciava quelle parole ogni volta che gli veniva chiedo del suo amante.
E, ogni volta, le pronunciava con sorriso sulle labbra che si manteneva per ore su di lui.
Anche mentre avanzava tra gli ingranaggi sbuffanti e roventi del carro armato in movimento.
Anche quando doveva piegarsi su se stesso per oltrepassare le caldaie eruttanti di vapore.
Anche quando, sudante e scottato dai fumi, si accostava al suo forno e al suo lavoro di manutentore meccanico, pronto a lavorare.
Lui è sempre con me.
Sembrava un poetico addio.
Ma era la semplice verità.
Allentò la zip della tuta da lavoro, allacciandosi le maniche attorno alla vita mentre si preparava ad avviare il forno notturno.
-È ora di lavorare amore mio- si armò di guanti, aprendo la pesante bocca di fuoco dell’autoclave, allentando i bulloni e preparandosi al suo avvio.
Aprì il battente della caldaia che lo superava in altezza di un metro e lo corpia ad occhi esterni come una bocca pronta a mordere.
Izo posò a terra la sua cassetta degli attrezzi, nascondendosi dietro ad esso, e sorridendo al cumulo fumante di braciere della notte precedente si preparò a lavorare.
-Come stai?- parlò al ventre oscuro del forno -Hai avuto freddo? Oh no, vero? Ci saranno… settanta? Ottanta gradi qui dentro?- si voltò a picchiettare col dito il termometro interno del braciere, sorridendo.
-Su forza- affondò le mani nelle braci bollenti, insensibile al calore eccessivo, arpionando il suo tesoro e strattonandolo sulla bocca della caldaia -È ora di svegl-
-Ehi, vuoi una mano?-
Izo non accennò a lasciare la presa sulle spalle che reggeva, affacciandosi appena oltre l’oblò metallico della sua caldaia.
-Rakuyou- alzò un sopracciglio, schioccando la lingua contro il collega di reparto -Mi stai chiedendo se voglio che tu tocchi la mia caldaia? La mia Marco?-
-Andiamo amico- rise l’uomo, muovendo i dreadlocks e un passo verso di lui -Tirare fuori tutta quella cenere non è facile, senza lo scarico automatico poi! Perchè non ti fai cambiare di forno? O almneo fatti dare una mano a scaricare i resti del combustibile, evitandoti così-
-Fa un altro passo verso Marco e ti ammazzo- ordinò lapidario il moro -Lo faccio Rakuyou-
L’uomo ridacchiò sotto i baffi alzando le mani.
-Tu e la gelosia per questa vecchia ciminiera grassa: a fine missione chiederai di portartela a casa?!-
Si allontanò canzonandolo, ignorando come Izo aveva ripreso ad occuparsi di Marco.
Affondò i guanti sotto la cenere e le braci, non una smorfia contro la pelle scottata dai fumi mentre stringeva le dita guantate attorno al corpo.
Sorrise nel trovarlo e, puntati i talloni a terra e contor la bocca del forno, inizò a trascinarlo fuori dal suo giaciglio di tizzoni. Nè uscì fuori sporco di fuliggine, ma vivo.
-Nessuno ti toccherà Marco- spostò il corpo dal calore materno del forno, affrettando il passo quando notò i primi scossoni di freddo.
Adagiò la figura tra il bacino di calore della caldaia e la parete di ferro isolante del carro armato, incastrando con gesti esperti il tronco tra le lamiere, in modo che non scivolasse a terra.
-Ecco, ora ti pulisco- prese il thermos bollente, lavando il volto dalla fuliggine, spazzolando la zazzera bionda.
Fece un passo indietro per ammirarlo: anche mentre dormiva era bellissimo.
Il suo Marco.
Dalla zazzera bionda nonostante la cenere, la pelle sporca di un grigio intenso, i soli pantaloni a vestirlo seppur bruciacchiati qua e là, le mani immobili laddove prima vi erano state carezze.
-Ora va meglio vero?- accarezzo l’ovale dell’uomo, i cui occhi tentarono di aprirsi.
Un leggero gemito sfuggì alle labbra cenerine, che Izo tamponò con un bacio.
Aveva freddo, la fame si stava risvegliando con lui.
-Ora l’accendo- assicurò il moro, armeggiando con la caldaia che con lievi colpi di tosse iniziò la sua attività calorifera.
In breve il nero ventre del forno prese colore, avvampando delle sfumature accese e roventi del magna, emanando vapore e fumi arroventati, scottando la pelle delicata di Izou su spalle e braccia ma scaldando e saziando quella del ragazzo stretto tra il forno e il berlingo.
-Va meglio?- chiese Izou voltandosi verso di lui, rilassandosi nel vederlo sereno.
-Oh si va meglio- si armò di badile, avvicinandosi al cumulo di materia pronta per la combustione.
-Riposa pure- sbuffò lanciando il primo carico nel forno, pronto per ripetere il gesto fino all’alba e allo spegnimento della caldaia -Penso io a te-
Si voltò a guardarlo, allungando un’ultima carezza.
-Ti voglio sempre con me- gli sfiorò il petto che respirava piano -Ok, Marco?-









Angolo dell'Autore:
La presente storia, divisa in due capitoli, partecipa rispettivamente al:
-JanuAngst di Piume d'Ottone
-Yuri&Yaoi's Week di Fairy Piece Forum
-Blue Monday di Fanwriter.it
È alla sua seconda ripubblicazione e... niente, speriamo vada meglio della precedente.
Inoltre la fanfiction è a favore dell'iniziativa
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