Nella foto, come immagino i genitori di Sarah.
L’immagine è tratta dalla docufiction “Figli del
destino” che racconta la storia di quattro bambini italiani ebrei, vittime
delle leggi razziali fasciste del 1938, tra i quali Liliana Segre.
Capitolo
20
Pane
e marmellata
“Accade
facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.”
Primo Levi, Se
questo è un uomo
Campo
di Fossoli, 19 febbraio 1944
~ Tre giorni alla
partenza per Auschwitz ~
Quando si svegliò, Sarah
non aprì subito gli occhi. Abbracciata dal calore del letto e dal delicato
profumo di lisciva delle lenzuola, lasciò che l’immaginazione la riportasse
nella sua cameretta.
Fra qualche minuto, suo
fratello si sarebbe alzato per andare al lavoro, blaterando, con voce un po’ rauca
per il sonno, di essere in ritardo, mentre sua madre, facendo rumore in cucina
con cassetti e stoviglie, avrebbe preparato loro una lauta colazione.
E credette di trovarsi
davvero a casa sua, quando il buon profumo della colazione le solleticò realmente
le narici, facendole brontolare lo stomaco e intensificare la salivazione.
Escludendo quei pochi
cucchiai di minestra che Maria le aveva imboccato, era da ben tre giorni che la
ragazza non toccava cibo.
Un senso di amaro le si
appiccicò al palato e deglutì più volte la saliva, prima di schiudere
definitivamente le labbra e aprire con estrema lentezza gli occhi. Poggiato sul
comodino, vide un vassoio di rame con sopra una teiera e una tazza in
porcellana; un tovagliolo ricamato sul quale erano adagiati dei biscotti e
delle fette di pane; un piccolo vasetto, anch’esso di porcellana, con della
marmellata che, a giudicare dal colore e dal profumo, sembrava essere di
fragole.
Da quanti mesi non ne
assaggiava un po’?
Una volta, in canonica,
era stato consegnato un pacco di viveri contenente anche dei vasetti di
marmellata, ma Sarah aveva preferito cedere la sua porzione ai bambini.
All’ennesimo brontolio di
stomaco, fu quasi sopraffatta dalla tentazione di allungare una mano verso il
vassoio e, anche se il braccio le uscì involontariamente fuori dalle coperte,
resistette, all’improvviso e spaventoso ricordo della sera precedente. Quella
non era la sua cameretta, non era la sua casa e il suo nome era ancora sulla
lista dei deportati verso Auschwitz. Mossa dalla paura, si liberò di scatto
dalle coperte, trattenendo un verso che assomigliava a un singhiozzo e si mise
a sedere, ritrovandosi di fronte il coronamento dei suoi incubi peggiori. Il
tenente era già pronto nella sua divisa linda e impeccabilmente stirata e i
capelli ben pettinati con la riga laterale e lucidi di brillantina. Fermo
sull’uscio del bagno, con la spalla sinistra appoggiata allo stipite della porta e
le braccia incrociate, chissà da quanto tempo la stava osservando con quel suo
sguardo furbo e allusivo, magari per sorprenderla con la mano nel vassoio. Balzò
dal letto caldo e per un soffio non inciampò nel lenzuolo che, nella furia del
movimento, le si era attorcigliato attorno alla caviglia.
Le labbra di Hermann si
curvarono in un sorriso di tenerezza, per quella scena che gli aveva ricordato
il loro primo incontro, ma la ragazza, ovviamente ignara di ciò, lo interpretò
come un ghigno derisorio.
Il freddo del pavimento
intirizzì i piedi nudi di Sarah, mentre l’aria rigida e umida dell’alba le
sferzò le gambe, percorrendo velocemente il resto del suo corpo, coperto
soltanto dalla leggerissima sottoveste bianca.
Hermann si trattenne a
guardare la cascata di capelli neri che, liberati dallo chignon, si dividevano
a metà: una parte ricadeva sul petto e l’altra dietro la schiena, lasciando
scoperto il sensuale incavo di una clavicola perfetta. La vide inclinare le
spalle all’indietro, in un atteggiamento difensivo; poi fece risalire lo
sguardo sul suo viso livido e corrucciato, incrociando i suoi occhi velati di
sonno e paura. Si staccò dallo stipite della porta e, tenendo le braccia
conserte, si ricompose nella sua postura dritta e fiera.
“Ieri sera sei svenuta e
il tuo stomaco ha brontolato tutta la notte”, le disse, deciso a nascondere la
sua insolita apprensione in un tono asettico piuttosto che parlarle con
ostentata durezza. “Devi mangiare, se vuoi sopravvivere. Ti ho fatto portare la
colazione.” Con un cenno della testa, le indicò il vassoio sul comodino e,
intanto, gli occhi immensi e lucidi della ragazza si sbarrarono, esprimendo dapprima
sospetto, poi meraviglia e, di nuovo, timore. “Mangia, poi rimetti in ordine la
stanza e vai a riposarti nella tua baracca”, concluse e, nonostante l’accento
grave, quelle parole risuonarono più come un invito che come un ordine, anche
alle proprie orecchie.
Sarah restò confusa dal
gesto premuroso del tenente e dal suo tono vagamente gentile, che cozzavano con
l’aggressività e le minacce di qualche ora prima.
Ma, nel giro di pochi
secondi, Hermann, temendo di sembrare debole, assunse di nuovo un’espressione
cupa e riprese severo: “I tuoi genitori non ti hanno insegnato a dire «grazie»,
quando ti viene offerto qualcosa?” Fece una pausa e la vide sussultare di
paura. “Non vorrei essere io a dovertelo insegnare adesso.”
La ragazza schiuse
lievemente le labbra e biascicò quel «grazie» con voce strozzata.
“Bene”, concluse
lapidario e andò via, chiudendo la porta e lasciandosi alle spalle il ricordo
di una notte trascorsa quasi del tutto insonne mano nella mano con lei ad
ascoltarne i gemiti di tristezza e i brontolii della fame.
Era stata Sarah a
ricercare involontariamente, durante il sonno, quel contatto, scambiando la
presenza del tenente per quella dei suoi genitori. “No, non mi lasciate, vi
prego”, aveva, infatti, sussurrato in un lamento, portando con decisione la
mano sulla sua ed Hermann aveva risposto stringendogliela.
Rimasta da sola, Sarah
emise un sospiro di liberazione e, a peso morto, sedette sul letto, iniziando a
fissare il vassoio con la colazione. Strinse forte le braccia attorno allo
stomaco e, nonostante fosse in preda ai dolorosi crampi della fame, dovette farsi
ugualmente coraggio prima di toccare quel cibo acquistato a caro prezzo. Prese
un biscotto e iniziò a mangiarlo, prendendo piccoli morsi e masticando
lentamente, ma senza assaporarne il gusto, mentre si chiedeva se il suo corpo e
la sua vita valessero così poco e, allo stesso tempo, così tanto. Era confusa,
stanca, impaurita e affamata. Si apprestò a spalmare la marmellata su una fetta
di pane e pensò che, se non voleva soccombere e finire su quel treno diretto
verso Auschwitz, avrebbe dovuto adattarsi a quella situazione, dimenticando la
Sarah di una volta e prestandosi al gioco meschino del tenente. Portò la fetta
di pane alle labbra e, al primo piccolo morso, le papille gustative danzarono
al sapore dolce della marmellata e quasi si commosse. Avrebbe compiaciuto
l’ufficiale tedesco, semmai, assecondando i movimenti frenetici del suo corpo e
imitandone i sospiri affannosi. Ma, subito, un singhiozzo strozzato le esplose
nella gola, assieme al boccone che aveva ingoiato, per poi sfociare in un
pianto sommesso. Sarah ebbe vergogna e paura della donna che sarebbe diventata.
“Sono consapevole che tutto più non
torna.
La felicità volava, come vola via una
bolla.”
Ermal Meta & Fabrizio Moro, Non mi avete fatto niente