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Autore: Nadine_Rose    22/01/2020    2 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
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Nella foto, come immagino i genitori di Sarah.

 

L’immagine è tratta dalla docufiction “Figli del destino” che racconta la storia di quattro bambini italiani ebrei, vittime delle leggi razziali fasciste del 1938, tra i quali Liliana Segre.

 

Capitolo 20

 

Pane e marmellata

 

“Accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.”

Primo Levi, Se questo è un uomo

 

Campo di Fossoli, 19 febbraio 1944

~ Tre giorni alla partenza per Auschwitz ~

 

Quando si svegliò, Sarah non aprì subito gli occhi. Abbracciata dal calore del letto e dal delicato profumo di lisciva delle lenzuola, lasciò che l’immaginazione la riportasse nella sua cameretta.

Fra qualche minuto, suo fratello si sarebbe alzato per andare al lavoro, blaterando, con voce un po’ rauca per il sonno, di essere in ritardo, mentre sua madre, facendo rumore in cucina con cassetti e stoviglie, avrebbe preparato loro una lauta colazione.

E credette di trovarsi davvero a casa sua, quando il buon profumo della colazione le solleticò realmente le narici, facendole brontolare lo stomaco e intensificare la salivazione.

Escludendo quei pochi cucchiai di minestra che Maria le aveva imboccato, era da ben tre giorni che la ragazza non toccava cibo.

Un senso di amaro le si appiccicò al palato e deglutì più volte la saliva, prima di schiudere definitivamente le labbra e aprire con estrema lentezza gli occhi. Poggiato sul comodino, vide un vassoio di rame con sopra una teiera e una tazza in porcellana; un tovagliolo ricamato sul quale erano adagiati dei biscotti e delle fette di pane; un piccolo vasetto, anch’esso di porcellana, con della marmellata che, a giudicare dal colore e dal profumo, sembrava essere di fragole.

Da quanti mesi non ne assaggiava un po’?

Una volta, in canonica, era stato consegnato un pacco di viveri contenente anche dei vasetti di marmellata, ma Sarah aveva preferito cedere la sua porzione ai bambini.

All’ennesimo brontolio di stomaco, fu quasi sopraffatta dalla tentazione di allungare una mano verso il vassoio e, anche se il braccio le uscì involontariamente fuori dalle coperte, resistette, all’improvviso e spaventoso ricordo della sera precedente. Quella non era la sua cameretta, non era la sua casa e il suo nome era ancora sulla lista dei deportati verso Auschwitz. Mossa dalla paura, si liberò di scatto dalle coperte, trattenendo un verso che assomigliava a un singhiozzo e si mise a sedere, ritrovandosi di fronte il coronamento dei suoi incubi peggiori. Il tenente era già pronto nella sua divisa linda e impeccabilmente stirata e i capelli ben pettinati con la riga laterale e lucidi di brillantina. Fermo sull’uscio del bagno, con la spalla sinistra appoggiata allo stipite della porta e le braccia incrociate, chissà da quanto tempo la stava osservando con quel suo sguardo furbo e allusivo, magari per sorprenderla con la mano nel vassoio. Balzò dal letto caldo e per un soffio non inciampò nel lenzuolo che, nella furia del movimento, le si era attorcigliato attorno alla caviglia.

Le labbra di Hermann si curvarono in un sorriso di tenerezza, per quella scena che gli aveva ricordato il loro primo incontro, ma la ragazza, ovviamente ignara di ciò, lo interpretò come un ghigno derisorio.

Il freddo del pavimento intirizzì i piedi nudi di Sarah, mentre l’aria rigida e umida dell’alba le sferzò le gambe, percorrendo velocemente il resto del suo corpo, coperto soltanto dalla leggerissima sottoveste bianca.

Hermann si trattenne a guardare la cascata di capelli neri che, liberati dallo chignon, si dividevano a metà: una parte ricadeva sul petto e l’altra dietro la schiena, lasciando scoperto il sensuale incavo di una clavicola perfetta. La vide inclinare le spalle all’indietro, in un atteggiamento difensivo; poi fece risalire lo sguardo sul suo viso livido e corrucciato, incrociando i suoi occhi velati di sonno e paura. Si staccò dallo stipite della porta e, tenendo le braccia conserte, si ricompose nella sua postura dritta e fiera.

“Ieri sera sei svenuta e il tuo stomaco ha brontolato tutta la notte”, le disse, deciso a nascondere la sua insolita apprensione in un tono asettico piuttosto che parlarle con ostentata durezza. “Devi mangiare, se vuoi sopravvivere. Ti ho fatto portare la colazione.” Con un cenno della testa, le indicò il vassoio sul comodino e, intanto, gli occhi immensi e lucidi della ragazza si sbarrarono, esprimendo dapprima sospetto, poi meraviglia e, di nuovo, timore. “Mangia, poi rimetti in ordine la stanza e vai a riposarti nella tua baracca”, concluse e, nonostante l’accento grave, quelle parole risuonarono più come un invito che come un ordine, anche alle proprie orecchie.

Sarah restò confusa dal gesto premuroso del tenente e dal suo tono vagamente gentile, che cozzavano con l’aggressività e le minacce di qualche ora prima.

Ma, nel giro di pochi secondi, Hermann, temendo di sembrare debole, assunse di nuovo un’espressione cupa e riprese severo: “I tuoi genitori non ti hanno insegnato a dire «grazie», quando ti viene offerto qualcosa?” Fece una pausa e la vide sussultare di paura. “Non vorrei essere io a dovertelo insegnare adesso.”

La ragazza schiuse lievemente le labbra e biascicò quel «grazie» con voce strozzata.

“Bene”, concluse lapidario e andò via, chiudendo la porta e lasciandosi alle spalle il ricordo di una notte trascorsa quasi del tutto insonne mano nella mano con lei ad ascoltarne i gemiti di tristezza e i brontolii della fame.

Era stata Sarah a ricercare involontariamente, durante il sonno, quel contatto, scambiando la presenza del tenente per quella dei suoi genitori. “No, non mi lasciate, vi prego”, aveva, infatti, sussurrato in un lamento, portando con decisione la mano sulla sua ed Hermann aveva risposto stringendogliela.

Rimasta da sola, Sarah emise un sospiro di liberazione e, a peso morto, sedette sul letto, iniziando a fissare il vassoio con la colazione. Strinse forte le braccia attorno allo stomaco e, nonostante fosse in preda ai dolorosi crampi della fame, dovette farsi ugualmente coraggio prima di toccare quel cibo acquistato a caro prezzo. Prese un biscotto e iniziò a mangiarlo, prendendo piccoli morsi e masticando lentamente, ma senza assaporarne il gusto, mentre si chiedeva se il suo corpo e la sua vita valessero così poco e, allo stesso tempo, così tanto. Era confusa, stanca, impaurita e affamata. Si apprestò a spalmare la marmellata su una fetta di pane e pensò che, se non voleva soccombere e finire su quel treno diretto verso Auschwitz, avrebbe dovuto adattarsi a quella situazione, dimenticando la Sarah di una volta e prestandosi al gioco meschino del tenente. Portò la fetta di pane alle labbra e, al primo piccolo morso, le papille gustative danzarono al sapore dolce della marmellata e quasi si commosse. Avrebbe compiaciuto l’ufficiale tedesco, semmai, assecondando i movimenti frenetici del suo corpo e imitandone i sospiri affannosi. Ma, subito, un singhiozzo strozzato le esplose nella gola, assieme al boccone che aveva ingoiato, per poi sfociare in un pianto sommesso. Sarah ebbe vergogna e paura della donna che sarebbe diventata.

 

“Sono consapevole che tutto più non torna.

La felicità volava, come vola via una bolla.”

 

Ermal Meta & Fabrizio Moro, Non mi avete fatto niente

   
 
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