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Autore: _Lightning_    29/01/2020    3 recensioni
[INCOMPIUTA]
«Mi sembrava che ne avessi bisogno,» sussurra Natasha, con voce velata, e Tony sorride appena a quello sfoggio di spavalderia che sanno entrambi essere inutile.
«Decisamente,» non la contraddice, ma aumenta un poco la stretta e sente la sua farsi quasi disperata a sottolineare quanto ne avesse bisogno anche lei.
Come se quell’abbraccio potesse alleggerire il dolore di entrambi, o fonderlo in modo da renderlo più comprensibile, meno oscuro.
Non sa se Natasha lo stia trascinando verso il basso per piantare un ormeggio sicuro, o verso l’alto, a fluttuare incerto a mezz’aria. Ma sfiora la terra con la punta dei piedi e rimane lì, in equilibrio, in bilico con lei.

In un universo in cui lo schiocco ha reciso e distrutto legami, chi è rimasto è costretto a ricostruirli, ritrovarli, o crearne di nuovi, con il costante interrogativo di quanto sia giusto andare avanti quando ci si è lasciati così tanto dietro.
[pre-Endgame // Hurt-comfort // IronWidow + Pepperony // PoV Tony]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
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.12.

Equilibrio
  

 

“Rimanemmo così, sulla sommità di quel campo, per quello che ci sembrò un tempo infinito,
abbracciati senza dire una parola, mentre il vento non smetteva di soffiarci contro,
e sembrava strapparci i vestiti di dosso;
per un istante fu come se ci tenessimo stretti l'uno all'altra,
perché quello era l'unico modo per non essere spazzati via dalla notte.”

 K. Ishiguro – Non lasciarmi



 
Febbraio 2019

Il viaggio di ritorno gli sembra l'equivalente di traversata oceanica su un veliero durante un uragano.

Ha la fortuna di essere relegato da solo sui sedili posteriori, perché Rhodey è rimasto a New York per aiutare Happy col trasloco e Natasha ha avuto la buona grazia di occupare il posto del passeggero accanto a Steve. Si preme i palmi sulle orbite e sente gli occhi sul punto di schizzar fuori. Un retrogusto acido gli punge la lingua e gli brucia la bocca dello stomaco. Spera di non vomitare sui tappetini. Spiaccica la fronte contro il finestrino quasi potesse fermare le convulsioni del proprio cervello, e sente solo le dita fredde del gelo che premono con insistenza oltre il vetro.

Scende dall'auto non appena si ferma, rischiando di caracollare a terra nel nevischio, e rivolge un cenno di sbrigativo, disinvolto saluto ai suoi due compagni. È certo di non ingannarli minimamente, ma in qualche modo deve pur salvare le apparenze. Riesce persino a togliersi cappotto e scarpe prima di fiondarsi nel bagno privato e trovare sollievo nel gabinetto, rimettendo solo bile inutile visto che fortunatamente è a digiuno dal pranzo. Si sente come quella volta in cui si è beccato un brutto ceppo d'influenza che l'ha debilitato, triturato e rimescolato a casaccio rendendolo una poltiglia umana informe. All'epoca era ancora al MIT, e Rhodey aveva passato tre notti a fare la spola tra la camera e il bagno per assicurarsi che fosse ancora vivo. Solo che questa non è influenza, e lui non ha alcuna intenzione di chiamare qualcuno al proprio capezzale, tanto meno qualcuno che non sia Rhodey.

Quando si sente di nuovo padrone di se stesso, per quanto possibile, si dà una rinfrescata e si distende a letto con poche speranze di rimanervi, un desiderio inesaudito nelle viscere ritorte contro se stesso. Cerca di soffocarlo, aprendo e chiudendo ossessivamente la scatoletta di velluto che ripesca dal cassetto del comodino. I due piccoli occhi di brillanti incastonati nell'oro che ricambiano il suo sguardo sono freddi, rilucono come ghiaccio gelido nella penombra. Lo accusano, silenzioso – non farlo, Tony – finché non richiude un’ultima volta il coperchio con uno schiocco netto ricacciandoli al loro posto. [1]

Non si accorge del sonno finché non ne cade vittima, e non realizza che è un sogno finché non sbarra di nuovo gli occhi nel buio denso e ondulato. Gli echeggiano voci conosciute in testa e non le sta immaginando, sono vere, reali, quelle parole le ha sentite davvero.

"Signor Stark..."

Scalcia via le coperte umide di sudore, col cuore a mille che gli sussulta in gola, e diventa ben presto una di quelle notti in cui si trova a vagare senza meta per il Complesso, macinando chilometri su chilometri nel tentativo di sfinirsi. Una di quelle in cui vorrebbe svitarsi la testa dal collo, poggiarla sul comodino e smettere di pensare fino al mattino dopo. In cui vorrebbe mettersi l'armatura e volare a velocità folle oltreoceano, per poi toccare base in un punto remoto del globo, godersi l'alba o il tramonto da qualche eremo solitario e tornare indietro a propulsori spianati facendosi scorrere accanto la notte un fuso orario dopo l'altro.

Nessuna delle alternative è applicabile, al momento, così continua a consumarsi i piedi sui pavimenti lisci, col freddo che trapela attraverso i calzini. Ogni due passi, un respiro, con un'espirazione e un'ispirazione a cadenzare le falcate. L'iperventilazione è dietro l'angolo, il batticuore è fuori controllo da minuti interi, ma si chiude nello stato di trance indotto dalla camminata meccanica, lo sguardo fisso sulle linee regolari delle piastrelle di ceramica e dei listelli del parquet, a seconda delle stanze che attraversa senza vedere, sfocate nella visione periferica.

Ha la cenere appiccicata addosso. Non ce l'ha davvero, ma ne sente la patina farinosa sulla pelle, mista a sabbia rossastra. Il fianco gli brucia, anche se la ferita è chiusa da mesi, e impone alle proprie mani di non toccarsela per non amplificare la sensazione viscida che gli invia.

"Non mi sento molto bene..."
 
È su Titano. Non è su Titano. È nel limbo, privo d'equilibrio, e deve cadere dalla parte giusta, quella reale.

"Non voglio morire, signor Stark.”

Prende un respiro enorme, rumoroso, a soffocare quella voce che gli spacca i timpani nonostante sia così flebile. Così spaventata. Si pizzica il ponte del naso duramente, lasciandosi forse un segno rosso in mezzo alle sopracciglia, e si impone di non aumentare il passo. Di non deviare dalla propria rotta concentrica per ritrovarsi in cucina, attaccato a un armadietto sottochiave. Non può cedere. Non deve cedere, anche se qualche tremito residuo lo scuote e lo implora di concedersi un bicchierino di scotch, di vodka, di tequila, di kerosene, di un qualsiasi liquore gli capiti a portata di mano. Serra la mandibola fin quasi a slogarsela e marcia a testa bassa. Peter non vorrebbe. Pepper non vorrebbe. A dispetto di tutto, sa che gli strapperebbero entrambi la bottiglia di mano.

Gli è capitato già altre volte, di essere ghermito dalla smania dell'astinenza combinata a qualche incubo troppo realistico, e nei casi più gravi ha fatto irruzione da Rhodey senza offrire spiegazioni, lasciandosi poi cadere a dormire sulla poltroncina in camera sua e confidando nel fatto che l’amico chiudesse poi a chiave la porta per difenderlo da se stesso. Ma adesso Rhodey non c'è, e si lascerebbe scivolare in un delirium tremens piuttosto che bussare alla porta di Rogers o Banner. Si sfrega con forza le braccia ad attenuare la pelle d'oca, e si impone di resistere almeno un’altra ora prima di cedere alla sua unica alternativa.

Venti minuti dopo sta bussando con nocche tremanti alla porta di Natasha, che la schiude con sorprendente rapidità. Lo trapassa con occhi troppo svegli per essere stata davvero addormentata, ma decide di non indagare sulla sua probabile insonnia; sarebbe comunque più produttivo interrogare l'intonaco. Lo fissa con fare inquisitorio, ma non troppo, e Tony sa di avere un'espressione abbastanza stravolta da non necessitare di spiegazioni.

«Ti va un drink, Romanov?» chiede senza mezzi termini, e quasi inciampa nelle proprie stesse parole per la smania che lo consuma.

Si pianta pollice e indice sulle palpebre sudate, a stropicciarle e farsi esplodere puntini luminosi davanti agli occhi. Sente addosso lo sguardo della donna, conscio che sta valutando le sue condizioni; gli sfrecciano immagini cruente davanti, nel buio, e trema. Non si sente se stesso. L’alcol è tangibile, informe: lo afferra e lo appende per i piedi, lo spancia con un coltellaccio e lo eviscera per soppiantare tutto ciò che ha dentro. Ghigna con denti di fuoco mentre gli strappa il cuore. Non è più se stesso. È un'ombra, un burattino vuoto, di quelli in cui si ficcano dentro le mani per far ridere i bambini. Li sente in sottofondo, mentre lo additano e si bisbigliano perfidie – verità – all'orecchio.

«Offri tu?» lo richiama la voce di Natasha, canzonatoria, più vicina.

«Non stasera,» ribatte lui, e spera che capisca l'antifona, corroborata da uno sguardo sfuggente che sfiora soltanto le sue iridi verdi oltre la barriera del proprio palmo.

È vuoto. È vuoto, orbita a casaccio attorno a centri di gravità che si trasformano in buchi neri liquidi incapaci di riempirsi. Non è in grado di controllarsi, non adesso; non vuole neanche toccarlo direttamente, l'alcol, solo averne un assaggio effimero per svuotarsi la mente. Nulla di più; non può concedersi di più. Cerca di comunicarlo a Natasha con lo sguardo, lo stesso che sembra ondeggiare fuori controllo.

«Va bene,» gli accorda lentamente lei dopo un breve silenzio, per poi scostargli con uno strano misto di brusca delicatezza la mano dal volto. «Passi, ma solo per questa volta,» mette in chiaro, a un palmo da lui e con sguardo ferino da Vedova.

«Contaci: detesto chiedere favori,» ribatte con un po' meno prontezza del solito, tallonandola poi lungo il corridoio.

Pochi minuti dopo è intento a frenare i tremiti scomposti delle proprie dita intrecciandole tra loro sopra il bancone, oltre che a seguire ogni movimento di Natasha intenta a trafficare nel cucinino tra sportelli e bicchieri. Gli versa due dita esatte di bourbon, centellinate e con molto ghiaccio a smorzarlo, poi prende per sé un bicchierino di vodka colmo fino all'orlo. Lo fa cozzare contro il suo tumbler, inneggiando a chissà cosa nel silenzio, e lo scola d'un sol sorso senza fare una piega. Tony fissa il liquido ambrato con la sensazione di avere uno spillo piantato nella lingua per ogni papilla gustativa. Gli si contrae lo stomaco e quando deglutisce gli sembra di avere un blocco di segatura in gola. Serra le dita fra loro in una morsa ferrea a impedirsi di prendere il bicchiere, poi vi poggia contro la fronte, premendo con forza contro le proprie nocche fino a farsi male.

«Stark, non mi hai fatta alzare nel cuore della notte per rimanere astemio, vero?» lo pungola senza inflessione Natasha, e sa che lo sta mettendo alla prova.

«Come se tu stessi davvero dormendo,» bofonchia in risposta lui, pungente.

Natasha non nega, e anche senza vederla può immaginarla gettar via il proprio sguardo per mascherarlo. Tony si decide a rialzare il capo, riprendendo a studiare il bicchiere e il suo contenuto. Lo berrà, non c'è dubbio. Si chiede solo se sia meglio dosare ogni piccolo sorso per assaporarlo al meglio, o se non sia più saggio mandarlo giù d'un fiato per poi tornare a soffocarsi testa e pensieri sotto al cuscino. Opta per la seconda via, senza però percorrerla fino in fondo: beve e rimane lì, col calore che gli avvolge bocca e stomaco, la lingua inebriata dal sapore deciso e stemperato da una punta di miele che adesso riesce di nuovo a riconoscere e a non considerare semplice fuoco liquido. Rimane , stremato, col suo ghiaccio alcolico in mano e senza aver risolto nemmeno uno dei problemi che lo tengono sveglio. Con un demone che lo riempie e poi lo svuota, soppiantando ciò che è per far ridere il suo pubblico invisibile.

Natasha gli toglie il bicchiere dalle dita e lui non oppone resistenza. Si sente stordito, ma non per l'alcol, di certo non per così poco. Gli rimbalzano mille frasi in testa. Sentite, immaginate, dette e non dette. È su Titano, è in Afghanistan, è poggiato al bancone di un bar, è sulla soglia di una villa con due figure che si allontanano, è sospeso tra terra e cosmo con una linea telefonica interrotta a far da àncora, è in una stanza buia con un flaconcino tra le mani e una porta che si chiude. Parla troppo quando non dovrebbe, e poi rimane sempre in silenzio, muto, con parole inutili che gli grattano in gola e pensieri sconclusionati a far da rumore di fondo.

Si accorge solo ora che Natasha si è poggiata al bancone lì accanto, e che lui ha di nuovo serrato tra loro le dita, col principio di un crampo a solleticargli spiacevolmente i palmi. Lei gli sfiora le nocche ancora escoriate, forse in un invito ad allentare la stretta, e lui fa l'esatto contrario, facendo slittare avanti e indietro la mandibola in un tic nervoso.

«Penso a Thanos, ogni volta,» sbotta poi, indicandole con un impercettibile cenno del mento quei segni lividi che sta sfiorando e che a quelle parole lambisce con più decisione, spostandosi poi sul rilievo sensibile della cicatrice sul polso.

Sente la faglia che ha nel petto allargarsi, vittima del terremoto che lo scuote internamente, e non riesce più a frenarsi, non riesce a rimanere ancora muto:

«Peter mi è sparito tra le braccia,» esala in un respiro con voce non sua, quel nome che gli si sfalda a metà strada tra cuore e bocca. «E non ho fatto niente,» aggiunge con un nodo in gola e quelle parole si formano spigolose come ciò che raccontano.

Lei rimane in silenzio, una mano ancora sulle sue; un invito a tacere, o forse a continuare.

«L'ho guardato, e basta. Gli ho detto che stava bene. Gli ho detto che stava bene... e non era vero

Ogni frase risuona come un'esplosione muta: enormi onde d'urto che si propagano nello spazio facendolo tremare. Sono confessioni che si sono addensate dentro di lui per mesi, comprimendosi sempre più, diventando testate atomiche pronte a liberare il loro potere distruttivo. May è stato l’innesco, la scissione fatale, l’ennesimo silenzio che avrebbe dovuto rompere lui. Risucchia un respiro tremante e scuote il capo, per poi alzarsi quasi di scatto, le mani che vanno a stringersi i gomiti fino a conficcarsi le unghie nella pelle. Si blocca davanti alla vetrata, cogliendo il proprio riflesso pallido contro il buio innevato.

«Quindi... tutto qui, penso a Thanos,» conclude vacuamente, stirando una mano di fronte a sé e fissando con una stilla d'odio vivo i segni rossi che la marchiano. «E non risolvo nulla.»

Natasha non risponde, né lui si aspetta che lo faccia. Si rende d'un tratto conto di quanto suonino fuori luogo quelle sue derive dettate dal poco sonno, dai farmaci e dall'astinenza che lo corrode un centimetro alla volta, pronta a gettarlo nel baratro del delirio.

«Non... credo di essere lucido,» conclude, con la voce che si arrochisce per le lacrime che sta reprimendo, conscio di quanto siano inutili. «Era... un drink pessimo, Romanov,» dichiara girandosi verso di lei, cercando a tentoni una sponda sicura e ritrovandosi solo in alto mare.

Lei gli rivolge un'occhiata indecifrabile. Spenta, come l'espressione che le incurva i lineamenti verso il basso. I suoi occhi diventano dischi opachi: verderame stinto e privo di riflessi.

«James mi è sparito davanti, e non ho nemmeno fatto in tempo a guardarlo in faccia,» mormora poi in un sol fiato, così piano che Tony trattiene il respiro per timore di coprire le sue parole. «Non che mi avrebbe riconosciuta, ma...» alza le spalle quasi con noncuranza, poi china il capo, rimane in sospeso e non completa la frase, senza alzare gli occhi.

Tony sente il vuoto che si espande attorno a loro, strisciante. Assorbe in silenzio quell'informazione, combattuto. Sa chi è Barnes; o almeno, conosce una parte di lui. Quella sbagliata. Quella che di tanto in tanto fa ancora capolino nei suoi incubi, nei grani sfocati di un filmato di sorveglianza. Ma ora cerca di immaginarsi James, l'uomo tormentato che Natasha si è portata nel cuore per decenni, e quel fotogramma di cenere si sovrappone a Pepper, all'istante di cui lui non è stato testimone. L'ha solo potuto ipotizzare, in mille modi diversi e sempre uguali. Ogni volta, è un punteruolo incandescente gli recide le arterie, che lo fa tornare ai respiri rantolanti e umidi di sangue che gli smuovevano le schegge nel petto, prima del reattore, prima di avere un cuore. Non sa come starebbe adesso, se avesse visto davvero quel momento. Se fosse stato lì e non l'avesse guardata negli occhi in quegli ultimi istanti. Ricorda la luce fioca in quelli castani di Peter, un attimo prima che diventassero grigi di cenere, e per quanto straziante la preferisce a uno sguardo sfuggito, a una connessione voluta e mancata.

Deglutisce in silenzio e non si espone, torna semplicemente ad affiancarla mentre la portata di quella confidenza gli si posa sulle spalle, a inspessire il sudario che sembra trascinarsi sempre addosso come il mantello di un re detronizzato e senza regno. Si pente di aver parlato, o forse no, e percepisce Natasha bloccata nello stesso limbo, ancora a capo chino, col peso di confessioni comuni eppure scomode tra loro. Si accosta a lei con titubanza, sfiorandole una spalla, e i suoi occhi felini scattano subito nella sua direzione, sospettosi, ritraendosi impercettibilmente da lui. Tony realizza quanto poco opportuno sia quel gesto e incrocia di nuovo strettamente le braccia porgendole il fianco, lo sguardo puntato oltre la vetrata come pochi istanti fa.

Natasha sospira appena, preme con decisione sul suo gomito e lo costringe a fronteggiarla di nuovo, per poi avvolgergli saldamente le braccia al collo, tesa sulle punte per arrivargli alla spalla e poggiarvi il mento. Tony scioglie le mani dal petto e la cinge ricambiando esitante la stretta, per poi rilassarsi del tutto e premere il volto contro la sua spalla. Inspira il suo odore ed è nuovo, sconosciuto, arduo da identificare; cerca di incanalarlo in corrispondenze note e trova solo tracce evanescenti che lo eludono.

Lei rompe il silenzio a un soffio dal suo orecchio:

«Mi sembrava che ne avessi bisogno,» sussurra, con voce velata, e Tony sorride appena contro di lei a quello sfoggio di spavalderia che sanno entrambi essere inutile.

«Decisamente,» non la contraddice, ma aumenta un poco la stretta e sente la sua farsi quasi disperata, a sottolineare quanto ne avesse bisogno anche lei, come se quell'abbraccio potesse alleggerire il dolore di entrambi, o fonderlo in modo da renderlo più comprensibile, meno oscuro.

Non sa se Natasha lo stia trascinando verso il basso per piantare un ormeggio sicuro, o verso l'alto, a fluttuare incerto a mezz'aria. Ma sfiora la terra con la punta dei piedi e rimane lì, in equilibrio, in bilico con lei.



 

Note:

[1] Per quanto io stessa trovi pacchiana una fede nuziale con un diamante incastonato, non dimentichiamoci che parliamo di Tony Stark, ovvero l'uomo più pacchiano del pianeta. Quindi, ecco qui spiegati gli "occhi di brillanti".



Note dell'Autrice:

Cari Lettori!
No, non mi sono dimenticata di questa long... è solo che questo è, in un certo senso, uno dei capitoli centrali e più importanti di tutta la storia: non a caso un suo stralcio fa da introduzione. Ho voluto rimuginarci un po' su prima di pubblicarlo, per essere certa che tutto tornasse.
Spero abbiate apprezzato questo nuovo sviluppo, ovviamente "telefonato" sin dal primo capitolo, ma che mi auguro sia stato egualmente godibile <3

Edit: Devo smetterla di pubblicare alle tre di notte, ché mi perdo i pezzi, ovvero la splendida fanart opera di
T612 (grazie, cara 
) che accompagna questo capitolo e che trovate a piè di pagina <3 E vi lascio qui il suo account Instagram [tilde_stuff] , pieno di belle cosine <3

Ringrazio infinitamente
Miryel, T612, shilyss e _Atlas_ per aver recensito gli scorsi capitoli e per supportare questa storia/esperimento un po' bislacco, e tutti voi che seguite in silenzio e/o aggiungete la storia alle liste <3
A prestissimo,

-Light-

P.S. Per la rubrica "Light consiglia libri", quello citato in apertura, Non Lasciarmi, è in assoluto uno dei più belli (e strazianti) che abbia mai letto. In fase di revisione mi sono resa conto che la scena finale tra Tony e Nat ricalca in un certo senso quella del libro, e ho quindi deciso di citarlo.
 
 ©T612
   
 
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