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Autore: Roscoe24    31/01/2020    10 recensioni
"Magnus si chiese se il fatto che nel giro di nemmeno un’ora, quella fosse la seconda volta che rimanevano incantati a fissarsi, potesse avere un significato. Forse poteva sperare. Ma in cosa?"
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Max aveva sonno.
Un sonno mortale, provocato dalla notte quasi in bianco che aveva alle spalle. Gli esami di dicembre lo tormentavano e il fatto che fossero gli ultimi, prima di Natale, non rendevano il suo umore proprio roseo.
Era nervoso, stanco e non vedeva l’ora di lasciarsi i libri alle spalle per almeno una settimana.
Voleva dormire. E smetterla di stare in ansia.
“Hai un aspetto orribile, amico. Stai bene?” Disse Aron, il suo compagno di stanza al dormitorio, quando lo raggiunse al bar vicino al campus – il Dolly’s, un nome che Max trovava estremamente buffo, ma che tutto sommato gli piaceva. Il proprietario del bar era un fan sfegatato della musica country e di Dolly Parton, per questo aveva chiamato così il suo locale.
“Sto bene, ho solo… sonno.”
Gli occhi grigi di Aron si posarono sul viso stanco dell’amico con comprensione.
“Non hai dormito stanotte?”
Max negò con la testa. “Sono rimasto sveglio a studiare. Ti ho disturbato?”
“No, affatto.” Aron si era già liberato dell’ultimo esame di dicembre, quindi era in uno stato emotivo più rilassato rispetto al compagno di stanza. “Devi prenderti un bel caffè e distrarti un po’.”
Max accennò un sorriso e guardò l’amico. Aron era alto quasi quanto lui, ma aveva una fisicità totalmente diversa. Max era longilineo, come Alec, la sua muscolatura era abbastanza definita – e questo perché Isabelle lo costringeva ad andare in palestra da lei, nel week-end – ma non esageratamente scolpita. Aron era un atleta, un giocatore di rugby nella squadra dell’università, e seguiva degli allenamenti decisamente più sfiancanti che lo portavano ad assomigliare ad una specie di armadio.
Era un vero talento, in campo, tanto che Max si divertiva da morire quando andava a guardarlo giocare.
Erano diventati amici in breve tempo, avendo più cose in comune di quante mai si sarebbero aspettati.
“Ho bisogno di una tanica intera di caffè. O meglio ancora, potrei spararmi la caffeina direttamente in vena.”
Aron, che aveva preso posto al tavolo davanti a lui, rise. “No, perché poi diventeresti super nervoso e a quel punto chi ti sopporterebbe?”
“Tu, ovviamente. Gli amici servono a questo, no?”
Aron scosse la testa. “Idiota.” Affermò, prima di guardare alle sue spalle e alzare un braccio per attirare l’attenzione di qualcuno. Max si voltò a sua volta e notò che dalla porta del bar erano appena entrati i loro amici: Jason, compagno di squadra di Aron; Amber, Judy e Scott.
Frequentavano tutto gli stessi corsi e formavano un gruppo studio abbastanza equilibrato, sotto la guida ferrea di Scott, che non permetteva la minima distrazione se si trattava di preparare un esame.
Se si trattava invece di uscire per far festa, automaticamente la guida del gruppo diventava Jason.
I quattro raggiunsero Max e Aron al tavolo: Amber vicino a Jason, che a sua volta si sedette vicino ad Aron; Scott e Judy, invece, presero posto ai lati di Max.
“Hai una faccia orribile.” Cominciò Judy, scrutando Max con i suoi profondi occhi azzurri. “Sei sicuro che durante la notte non ti sei trasformato in uno zombie?”
“No, altrimenti ti avrei già mangiato il cervello, Miss Gentilezza.”
Judy liquidò quell’affermazione con un gesto della mano incurante. “Parliamo di cose serie: dov’è la tua ragazza?”
Max alzò un sopracciglio con fare volutamente teatrale. “Hai una cotta per la mia ragazza, Jud?”
“Piantala. Ormai dovresti saperlo che ho una cotta per tua sorella. Le mie giornate migliorano quasi, quando pubblichi foto con lei su Instagram. A proposito, vedi di pubblicarne tante a Natale.”
Max rise, una risata che gli riverberò in tutto il corpo e che lo mise subito di buon umore. All’improvviso tutte le sue ansie sembravano divorarlo di meno. “Lo terrò a mente.”
“Bravo, Lightwood. Ora, dov’è Rosa?”
“Credo stia arrivando. Mi ha scritto che tardava perché si fermava a studiare in biblioteca. Perché?”
“Dobbiamo assolutamente discutere di Lucifer. Mi ha detto guardala, ti piacerà, e aveva ragione. Ho finito quattro stagioni in nemmeno una settimana.”
“Tu hai un problema. E serio, anche.” Si inserì Scott.
Judy gli fece una boccaccia. “Anche tu ne hai un sacco, ma mica te lo faccio pesare!”
Max si trattenne dal ridere. Non voleva prendere le parti di nessuno, ma i battibecchi tra Scott e Judy lo divertivano sempre. Erano completamente diversi. Lei era una specie di vulcano, frizzante ed estroversa, con un sarcasmo pungente e un’intelligenza brillante.
In comune con Scott aveva solo l’intelligenza. Lui era più timido, riservato, misurava sempre le parole prima di aprire bocca ed era estremamente introverso.
Loro erano l’esempio lampante di quel detto secondo cui se un introverso ed un estroverso diventano amici è perché l’estroverso ha visto l’introverso e ha deciso di adottarlo.
Erano amici fin da quando erano bambini. Erano stati vicini di casa, compagni di giochi e, crescendo, avevano frequentato sempre la stessa classe, fino a quando non erano riusciti ad entrare nello stesso college.
Facevano persino parte della stessa band – Scott suonava il basso, Judy la batteria – e vista la sua esperienza in campo di fratellanza, Max poteva dire con assoluta certezza che quei due fossero la cosa più vicina a due fratelli che potessero essere.
Si dicevano tutto. O meglio, Judy gli diceva tutto. Scott si limitava semplicemente ad ascoltarla e ad ammonirla di tanto in tanto quando diventava troppo esplicita.
Si fidavano totalmente l’uno dell’altra. Si volevano bene.
E a Max ricordavano davvero un sacco lui e i suoi fratelli.
“Ah sì, e quali problemi avrei, di grazia?”
“Tantissimi. Non ho tempo di elencarteli tutti.”
Scott liquidò il tutto alzando un dito medio, facendo ridacchiare Amber.
“D’accordo bambini,” Affermò Jason, che di solito era quello che veniva rimbeccato e raramente era quello che rimbeccava, “Vogliamo ordinare?”
“Sì, mi sembra una buona idea.” Concordò Aron, segnandosi sul cellulare tutte le cose che i suoi amici volevano, prima di alzarsi e dirigersi al bancone.
Gli altri lo ringraziarono e Max da quel momento in poi decise di spegnere il cervello almeno per un po’. Doveva distrarsi, Aron aveva ragione. E passare del tempo con i suoi amici gli sembrava una buona idea.



Rosa arrivò quando Max era al secondo caffè.
“Ne bevi troppo, Max. Non ti fa bene al cuore.”
Max si alzò dal suo posto e le passò un braccio intorno alla vita. “Tu invece sì. Tu mi fai tanto bene al cuore.” Si chinò per lasciarle un bacio leggero sulle labbra.
“Ruffiano.” Sussurrò lei, le guance che si coloravano di un leggero rosso, prima di andarsi a sedere vicino a Judy.
Max la seguì con lo sguardo fino a che non prese posto. Gli formicolavano le dita ogni volta che l’aveva vicina, quasi le sue mani gli stessero dicendo che erano state troppo tempo senza toccarla e ne avvertivano un viscerale bisogno.
Max non era mai stato innamorato, o almeno non in quel modo. Aveva avuto qualche ragazza, qualche cotta, ma con Rosa… con lei aveva capito la differenza che c’è tra provare qualcosa per qualcuno e amare qualcuno.
Bastava un suo sorriso e il suo stomaco faceva le capriole. Provava costantemente il desiderio di farla felice, di assicurarsi che fosse appagata. Era un qualcosa che non riusciva a spiegarsi, almeno non a parole. Il suo cuore, invece… lui sapeva spiegarlo perfettamente: la amava. Moltissimo. Con lei si sentiva libero di essere se stesso sotto ogni punto di vista. Sapeva che qualsiasi versione di sé le avesse mostrato, lei non l’avrebbe giudicato o deriso. E lui si impegnava ogni giorno per fare in modo che lei provasse lo stesso, in sua compagnia. Voleva che lei si sentisse a proprio agio, con lui, tanto quanto lui si sentiva con lei. E Max sperava davvero di riuscirci. Aveva la sensazione che fosse così – voleva credere che la complicità che li legava nascesse anche dal fatto che non erano solo ragazzo-e-ragazza, ma anche amici.
La guardò ancora un attimo, mentre cominciava ad ascoltare i discorsi di Judy riguardanti la bellezza della serie e di come Lucifer l’avesse conquistata al primo episodio. Rosa sorrideva e Max sentì il cuore che saltò un battito.
Era felice che i suoi amici l’avessero accolta con tanta facilità. Ed era felice che, nonostante fossero una coppia, riuscissero ad avere anche i loro spazi con gli amici. A volte capitava che anche Max stesse con gli amici di Rosa, e altre volte ancora, capitava che ognuno stesse con i propri amici – altre volte ancora, invece, capitava che si vedessero tutti insieme.
Ad entrambi piaceva mescolare le loro vite, senza perdere le abitudini che avevano prima di mettersi insieme. Era bello. A Max piaceva che avessero certe libertà ed era sicuro che anche Rosa la pensasse come lui.
“Max, ieri non ti ho visto alla prima lezione.” Esordì Jason, attirando l’attenzione dell’amico.
“No, eravamo al JFK per salutare un amico.”
Eravamo?” Gli fece eco il ragazzo, “Tu e chi?”
Max annuì. “Io, Rosa e la mia famiglia.”
“C’era anche la mia di famiglia, sai com’è.” Puntualizzò Rosa, estraniandosi un attimo dalla conversazione con Judy, “Raphael è mio fratello e conosco Magnus da più tempo di te.”
“Vero, ma io ho una grande probabilità di averlo come cognato, un giorno!” Le fece una linguaccia a cui Rosa rispose con un’altra.
“Per chi dei due fratelli rimasti?” Si intromise Amber, curiosa. “Isabelle o Alec?”
“Alec,” rispose Max, che sperava davvero che suo fratello decidesse di darsi una mossa. Capiva il perché della sua iniziale cautela, Will l’aveva ferito in un modo profondo e lui davvero detestava quel biondo chilometrico per aver fatto del male a suo fratello, ma… era palese che lui e Magnus provassero qualcosa l’uno per l’altro e di certo non era la semplice amicizia che continuavano a propinare a tutti quanti.
“Per Isabelle ci sono sempre io!”
Max si voltò verso Judy, “Izzy sta con Simon, adesso.”  
Judy fece teatralmente finta che il suo cuore si stesse spezzando, piazzandosi le manu sul petto. “Come farò adesso? Dovrò sfidarlo a duello per conquistare il cuore della donzella!”
“Oppure…” Suggerì Scott, “Puoi trovarti una ragazza della tua età e che almeno sappia che tu esisti!”
Judy si voltò verso l’amico, un’espressione di puro tradimento solcò il suo viso. “Sei cattivo! Cattivissimo!” Si allungò per dargli un colpetto sul braccio. “Max!” Esclamò, poi, “Digli che è cattivo, diglielo!”
Max alzò le mani in segno di resa, mentre tutti gli altri al tavolo ridevano. “Io non mi immischio.”
Keeping up with the Lightwoods, presto su E!” Esordì Aron, imitando la voce di un presentatore televisivo. Quell’uscita fece sì che tutti si concentrassero su di lui, scoppiando a ridere.
Max rise con loro.
Era felice.



Uscirono dal bar un’ora dopo. Max si sentiva meglio. Lo stress accumulato in quelle ultime settimane era più gestibile e anche le sue preoccupazioni sembravano meno ansiogene adesso.
Aveva salutato i suoi amici all’uscita del bar e adesso lui e Rosa stavano camminando per strada mano nella mano.
“Tra quanto devi tornare a casa?”
A volte a Max pesava il fatto che lei fosse pendolare, mentre lui rimaneva al dormitorio durante la settimana. Avrebbe voluto fare avanti e indietro con lei per passare un po’ più tempo insieme, ma si tratteneva dal dirglielo perché aveva paura di risultare appiccicoso.  
“Un’oretta, più o meno.” Rispose lei, guardando l’ora sul cellulare. “Raphael mi aspetta. Devo aiutarlo alla reception.”
“D’accordo. Vuoi fare qualcosa in questo ora?”
Rosa annuì. “Ti va di andare in libreria?”
“Io amo andare in libreria, mi querida, dovresti saperlo.”
La ragazza si fermò, bloccandosi in mezzo al marciapiede. Max si fermò con lei perché le loro mani erano ancora intrecciate. Lo fissò con curiosità, stupore e una punta di tenerezza.
“Cos’hai detto?”
Max sentì il panico impossessarsi di tutte le sue membra. Ultimamente era venuto a conoscenza del fatto che Alec si fosse messo ad imparare un po’ di indonesiano per fare una sorpresa a Magnus. E Max, che l’aveva trovata una cosa molto dolce e possibilmente romantica, aveva deciso di fare lo stesso per Rosa, imparando un po’ di spagnolo.
Gli era sembrata una buona idea, fino a che, in quel preciso istante, non aveva provato il terrore di aver fatto una figura orrenda.
Max si sentì il più imbranato degli imbranati. Il re degli idioti. Il sovrano degli impacciati. Poteva quasi sentire Jace nelle orecchie che lo insultava per essersela giocata così male.
“Niente,” tentò di riprendersi, ma lei non si lasciò scoraggiare da quell’iniziale tentativo di lasciar perdere.
“Max.” Disse, con un tono così serio che per un attimo ricordò suo fratello Raphael. A quanto pareva, essere capaci di usare dei toni da brivido in certe occasioni era un tratto distintivo dei Santiago.
“Rosa.” Tentò di nuovo lui, ma poi si sentì ancora più idiota e decise quindi di dirle la verità. “Volevo chiamarti mio tesoro in spagnolo. L’ho detto male? Ti ho offesa? Scusami se è così non era mia intenzione! Volevo fare qualcosa di carino per te e non di certo offenderti!”
Rosa gli afferrò il viso tra le mani, costringendolo a tacere e a guardarla negli occhi. “Sta’ un po’ zitto. Era perfetto. È stata una cosa dolcissima e l’hai detto benissimo.”
Adesso Max stava mentalmente ringraziando suo fratello per aver avuto quell’idea. E ringraziò un pochino anche qualsiasi divinità celeste per l’esito positivo del suo tentativo.
Rosa stava sorridendo. Aveva le guance arrossate – ma Max non era in grado di affermare se quel rossore dipendesse dal freddo o da quel momento specifico. I suoi occhi neri erano incastrati in quelli di Max e il ragazzo sentì chiaramente il cuore saltare un battito, prima di cominciare a correre impazzito.
Era così bella, così genuina e rara. Era la persona più spontanea e dolce che avesse mai incontrato. Era gentile e intelligente, divertente.
Stare con lei era stimolante. Stare con lei gli faceva venire voglia di essere una persona migliore – una persona in grado di meritarsela. Perché Max era pienamente consapevole di quanto fosse fortunato ad averla nella sua vita.
Rosa si alzò sulle punte dei piedi per riuscire a baciarlo e Max, come da consuetudine, si chinò leggermente, circondandole la vita con entrambe le braccia. A volte capitava persino che la sollevasse e lei, ogni volta, si trovava sorridere. Quella volta Max non lo fece. Continuò semplicemente a baciarla, approfondendo il loro contatto di labbra. Lasciò che le loro bocche si scontrassero e che la sensazione familiare di pace e serenità si impossessasse di ogni fibra di sé stesso.
Rosa era tutta la luce che esiste al mondo sotto forma umana. E lui la amava da morire.
Te quiero,” Sussurrò, quando si separarono. Perché era vero, perché aveva sentito il bisogno di dirglielo in quel preciso momento. Appoggiò la fronte a quella di Rosa. “E spero di averlo detto bene perché non voglio che tu fraintenda.”
Rosa, con il cuore che aveva preso residenza nella sua gola, sorrise. “L’hai detto bene. Benissimo.” Lo baciò di nuovo. “Ti amo anche io.”
Max riuscì quasi a sentire il suo cuore esplodere, mentre afferrava Rosa per la vita e la sollevava, facendole fare un giro completo in mezzo al marciapiede.
Se qualcuno avesse detto qualcosa, a nessuno dei due importava.




*




 Jace tornò a casa dalla passeggiata con Diana verso le cinque del pomeriggio. Clary non era andata con loro perché, a quanto pareva, doveva lavorare ad un dipinto su commissione che un mezzo riccone le aveva chiesto qualche settimana prima, quando era passato in negozio e aveva notato alcuni dei lavori di Clary appesi alle pareti.
Jace aveva pensato bene di lasciarle i suoi spazi, quel giorno, e di uscire con la bambina per fare in modo che la sua fidanzata potesse concentrarsi al meglio.
Di certo, non si aspettava di sentire delle grida al suo rientro a casa.
“Amore?” la chiamò, entrando in casa. Diana gli teneva ancora la mano, infagottata nel suo piumino giallo. La piccola alzò lo sguardo sul padre e gli strinse la mano per attirare la sua attenzione. Era strano anche per lei sentire la mamma gridare in quel modo.
Jace abbassò lo sguardo sulla bambina e si chinò alla sua altezza, togliendole giubbotto, sciarpa e cappello. “Va tutto bene, principessa. Sicuramente la mamma sta facendo un gioco nuovo.”
Un altro grido – che assomigliava tanto ad un grido di battaglia – e il suono ovattato di qualcosa che si scontra contro qualcos’altro. Jace non sapeva davvero cosa aspettarsi. Clary non perdeva mai la pazienza.
“Tesoro di papà, perché non vai sul divano e guardi un po’ di televisione? Puoi guardare quel cartone che ti piace tanto.”
“Oceania?”
“Sì, quello.”
Insieme si diressero verso il divano e Jace inserì il DVD nel lettore specifico, facendo partire il cartone animato.
“Aspettami lì, va bene?”
Diana annuì. “Poi verrai a cantare le canzoni con me?”
Jace si chinò sulla bambina per lasciarle un bacio sulla fronte. “Ma certo, tesoro. Tu aspettami.”
La bambina annuì di nuovo, seduta sul divano, e osservò il padre che spariva in corridoio e andava verso lo studio della mamma.
Jace non sapeva davvero cosa aspettarsi. Rimase a fissare la porta chiusa dello studio di Clary per qualche istante, prima di aprirla.
Trovò la sua futura moglie piena di pittura dalla testa ai piedi. I suoi capelli rossi erano legati in una coda, ma nemmeno quella mossa era riuscita a salvaguardarli dai vari colori che ricoprivano anche la salopette di jeans che indossava. Davanti a lei c’era una gigantesca tela che era piena zeppa di colori che andavano a soprapporsi gli uni agli altri formando un quadro astratto e senza nessun tipo di senso apparente.
Clary non si era ancora resa conto della sua presenza e continuava a lanciare palloncini pieni di vernice contro quella tela, facendoli esplodere uno ad uno.
“Ehm, amore?” La chiamò Jace con cautela. La donna si voltò. Due ciuffi erano sfuggiti dalla sua coda e adesso le cadevano ai lati del viso.
“Oh, ciao, tesoro. Siete tornati?”
“Sì, proprio adesso, mentre stavi gridando come un’amazzone. Va tutto bene?”
“Ma certo!” Esclamò Clary a denti stretti, prima di afferrare di nuovo un palloncino e scaraventarlo contro la tela. “Va. Tutto. Benissimo.” Scandì, lanciando un nuovo palloncino ad ogni parola che lasciava la sua bocca.
Jace si avvicinò piano e le appoggiò le mani sulle braccia nude. Sotto alla salopette portava una maglietta a maniche corte nera e probabilmente l’unico motivo per cui non aveva freddo era perché era così arrabbiata che il sangue le stava ribollendo nelle vene.
Non appena avvertì quel contatto, comunque, Clary rilasciò un sospiro e si voltò verso di lui, più calma di prima.
“Il mezzo riccone non vuole comprare il mio quadro. Dice che gli ho chiesto troppo e non posso pretendere quella cifra dal momento che sono una dilettante.”
“Non sei una dilettante.” Le assicurò Jace.
“Ma non sono famosa.”
“Questo non significa che tu sia una dilettante, Clary. Quell’idiota non ha diritto di sminuirti. Non vuole comprare il tuo quadro? Che si fotta! Lo comprerà qualcun altro.”
Sul viso di Clary comparve persino un sorriso. “Ho lavorato sodo per quel quadro. Mi sono impegnata.”
“Lo so. Per questo meriti qualcuno che apprezzi la tua arte. Sei determinata, io lo so. Digli che se vuole il quadro il prezzo non è trattabile, altrimenti puoi sempre venderlo a qualcun altro.”
“Domani lo chiamerò.”
“Brava la mia ragazza.” Le lasciò un bacio sulla fronte. “C’è dell’altro? O Mr. Mezzo-Riccone era l’unico motivo del tuo… attacco d’arte?” Indicò con lo sguardo la tela multicolore, la vernice che colava andava a mischiarsi con quella già mezza asciutta.
“Intoppi per il matrimonio. Non riescono a trovarmi i gigli blu. Dicono che possono darmeli bianchi, ma io non li voglio bianchi. Sono banali. Li voglio blu. E so che esistono. Ma vogliono farmi passare come una sposa-zilla pazza.”
“Sei solo stressata,” Disse Jace, rendendosi conto di quanto Clary fosse stressata. Nonostante l’aiuto di Madelaine e sua madre, la maggior parte del lavoro continuava a farlo lei, anche se lui era coinvolto in tutto. Si sentì un po’ in colpa, per questo, promettendosi di aiutarla di più, di cercare di alleggerirle lo stress.
“Cambieremo fioraio, se questo non può darti i fiori che vuoi. Posso andare domani stesso a cercarne uno nuovo con Isabelle, mentre tu tratti con il mezzo riccone.”
“No, Jace, non è necess-” iniziò, ma lui la interruppe, appoggiandole delicatamente l’indice sulle labbra.
“È il nostro matrimonio. Non è giusto che tu faccia tutto da sola. Ti troverò i gigli blu.” Fece un passo verso di lei, riducendo la già poca distanza che c’era tra di loro. Clary dovette alzare lo sguardo per riuscire a guardarlo negli occhi. Jace la circondò con le braccia, appoggiandola al proprio torace, incurante che tutta la tinta che aveva addosso Clary adesso stesse colorando anche il suo maglione. L’avrebbe lavato. Non gli importava di sporcarlo. Gli importava solo confortare la donna che amava, esserci per lei, sostenerla. “Ti cercherei anche un’idra a dodici teste, se tu me lo chiedessi.”
Clary rise, la guancia appoggiata al suo petto. “Non so quanto sarebbe producente per un matrimonio, avere un feroce mostro mitologico mangia-persone.”
Jace le punzecchiò un fianco. “Sei una distruttrice di romanticismo. Io intendevo che farei di tutto per te, anche l’impossibile.”
Clary alzò la testa e gli lasciò un bacio sulle labbra, prima di cercare il suo sguardo. “Lo so, sei il mio eroe, Jace. E non parlo di fiori. Parlo di ogni momento in cui mi stai vicino quando mi sento fragile.”
E Jace sapeva che era riferito a Jocelyn. Al vuoto che le aveva lasciato dentro. Per questo la strinse di più, con tutta la forza e l’amore di cui era capace.
“Se potessi proteggerti dal male, lo farei.”
“Ma lo fai. Vorrei solo essere in grado di darti la stessa sicurezza che mi dai tu.”
“Lo fai. Ogni giorno che mi stai vicino, ogni volta che affrontiamo un problema insieme. Sei tu la mia forza. Se non ci fossi stata tu, quando Max si è ammalato, sarei diventato matto. Ma mi hai sostenuto, sei stata in piedi per entrambi, quando l’unica cosa che io avrei voluto fare era gettarmi a terra.”
Clary per tutta risposta strinse le proprie braccia intorno al suo torace per abbracciarlo. “Ti amo.”
Jace le lasciò un bacio sui capelli. “Anche io. Tanto.”
Clary sorrise, rimanendo abbracciata a lui in quel modo. Si sentiva meglio. La rabbia e lo stress si erano allontanati immediatamente. Jace aveva un effetto terapeutico, molto più di un paio di palloncini lanciati contro una parete.
“Mami?”
Una vocina portò entrambi a voltarsi verso la porta. Diana se ne stava sulla soglia e guardava i suoi genitori abbracciati. La curiosità di sapere cosa succedesse nello studio della mamma era stata più forte della sua voglia di guardare un cartone – aveva persino messo pausa da sola perché mami le aveva insegnato come fare.
“Ehi, piccola mia.” Clary sciolse l’abbraccio in cui era stretta per andare verso la figlia. “Ti sei divertita con papà?”
La bambina annuì. “Ma stai bene? Perché gridavi prima?”
Clary colse la preoccupazione nella voce della figlia e si sentì in colpa. Non voleva in alcun modo che le sue frustrazioni – per quanto potessero essere momentanee – ricadessero su sua figlia.
“Sto bene, D. La mamma stava solo… provando un nuovo gioco. Vuoi giocare anche tu?”
Diana sorrise all’istante, annuendo con vigore – i ricci biondi che si mossero con lei. Tutte le sue preoccupazioni sciamarono nell’istante esatto in cui Clary le diede un palloncino pieno di vernice e le disse di lanciarlo contro la tela. La piccola rise non appena il palloncino scoppiò e guardò sua madre che batté le mani, dicendole che era stata molto brava.
“Vuoi continuare?”
“Sì!”
“Allora andiamo a cambiarci. Questa vernice in particolare va via, lavandola, ma è meglio mettersi una tuta.”
Diana annuì e si lasciò condurre dalla madre nella propria cameretta, dove Clary la cambiò. Quando tornarono nello studio, trovarono Jace che si era cambiato a sua volta, e le guardava tenendo un palloncino in mano.
“Chi lo lancia più forte vince.” Disse, facendo sorridere entrambe.
Passarono il resto del pomeriggio a lanciare palloncini, ridendo insieme e lasciando che ogni pensiero o preoccupazione scivolasse via.
Le cose importanti della sua vita, Clary le aveva con sé proprio in quel momento, sorridenti e sporchi di vernice.


Dopo la doccia, Clary se ne stava in cucina. Indossava una tuta e i suoi capelli le ricadevano puliti sulle spalle. Stava leggendo da un ricettario come si prepara il pollo alla cacciatora ed era talmente concentrata che non si rese conto dell’arrivo di Jace alle sue spalle. Si accorse di lui solo quando le sue braccia le circondarono la vita da dietro. La sua pelle emanava ancora il calore della doccia e il suo profumo le invase piacevolmente le narici, facendola rabbrividire. Stavano insieme da dieci anni e lui riusciva ancora a farle lo stesso effetto che le faceva quando erano due ragazzini.
“Che prepari?” Le domandò, appoggiando il mento sulla sua spalla e strofinando il naso contro la pelle del suo collo.
Un altro brivido la percorse, e un sorriso comparve istintivo sul suo viso.
“Per ora niente. Sto solo leggendo.” Indicò il libro davanti a lei, appoggiato al piano cottura. “Dov’è nostra figlia?”
“Su un’astronave diretta verso Marte.”
Clary gli diede un buffetto su una delle braccia che ancora circondavano la sua vita. “Idiota.”
“Sta giocando di là. Dice che uno dei suoi peluche ha preso la febbre e lei deve curarlo. Vuole fare come zio Alec, ha detto.”
“Aw, ma quant’è carina?”
“Ha preso tutto da me, ovviamente.”
Clary voltò la testa di tre quarti e lo guardò con la coda dell’occhio. “Ripeto: idiota.”
Jace rise, stringendola a sé, assicurandosi che stesse completamente appoggiato al suo petto. “Ma mi ami.” Le lasciò un bacio sul collo. “Mi ami, mi ami, mi ami.”
Lei abbandonò il ricettario per voltarsi verso di lui. Gli circondò il collo con le braccia e si alzò sulle punte per baciarlo. “Tantissimo. Anche se sei un idiota.”
Jace rise, tra un bacio e l’altro. Le sue mani vagarono sulla schiena di Clary e scesero, lente, fino a che non arrivarono al suo sedere. Lo agguantò e la sollevò, spronandola a circondargli la vita con le gambe. Spostò entrambi dal piano cottura al tavolo, dove appoggiò Clary.
“No, Jace.”
“No, Jace, cosa, mio amore?”
“Non possiamo farlo qui, non con Diana di là.”
Jace le lasciò un bacio sulle labbra e poi una serie sul collo, delicati. “Non ho mai pensato ad una cosa del genere. Credi che sia un padre così degenerato?”
Clary gli sistemò le mani sulle spalle per farlo indietreggiare e riuscire a guardarlo negli occhi. Sciolse l’intreccio delle proprie gambe, ma Jace rimase tra di esse, appoggiandole le mani sulle cosce. Lo guardò con un sopracciglio alzato. “Non credo che tu sia un padre degenerato. Credo solo che il tuo tempismo non sia dei migliori.”
“Volevo solo coccolarti un po’, non posso?”
Clary sorrise. “Sì che puoi.”
Jace si sporse verso di lei per lasciarle un bacio casto. “Vedi?” Sussurrò, “Sei tu la pervertita. Hai subito pensato al sesso. Gesù, Clary, so di essere irresistibile, ma dovresti contenerti.” La guardò dritta nelle iridi verdi. Un lampo di malizia e divertimento, invece, attraversò le sue. Si morse il labbro inferiore per cercare, invano, di trattenere un sorriso ferino e compiaciuto.
Clary gli baciò via quell’espressione impertinente dalla faccia, circondandogli di nuovo il collo, prima di far salire le mani fino ai suoi biondi capelli. Ne afferrò delicatamente una ciocca per fargli tirare la testa indietro, in modo che lui la guardasse negli occhi.
“Sai, inizio a pensare che l’idiota sia io a volerti sposare.” Lasciò la presa sui suoi capelli e cominciò ad accarezzargli distrattamente la pelle della nuca con la punta dei polpastrelli – quasi stesse disegnando qualcosa di astratto.
“Non dire così, piccola, mi ferisci.” Jace si mise entrambe le mani sul cuore, con fare estremamente teatrale, mentre metteva su il broncio. “Vuoi spezzarmi il cuore?”
Sebbene stessero scherzando, l’espressione di Clary si addolcì. “Non potrei mai. Fare del male a te significherebbe fare del male alla parte migliore di me.”
E il suddetto cuore attualmente non spezzato di Jace, cominciò a battere più veloce del necessario. Era quello l’effetto che aveva su di lui. Da sempre.
L’aveva incontrata quando era ancora un ragazzino un po’ idiota, che non sapeva bene come gestire i rapporti con le ragazze. Il Jace di dieci anni prima era consapevole dell’effetto che aveva sulle ragazze e usava questa cosa a suo vantaggio, non sempre comportandosi bene.
Con Clary era stato diverso. Quando l’aveva conosciuta si era reso finalmente conto che razza di cretino era stato con le altre, quante volte, spesso, nonostante non fosse sua intenzione, aveva ferito quelle ragazze con i suoi comportamenti infantili. Un donnaiolo da strapazzo, un affascinante rubacuori.
Jace voleva migliorare. E doveva farlo da solo. Voleva prima essere in grado di meritarsi Clary, prima di chiederle ufficialmente di uscire insieme.
Sua madre gli aveva sempre insegnato che i cambiamenti vengono da noi stessi. Non dobbiamo cercare qualcun altro che faccia questo lavoro per noi. Clary non doveva essere un tramite, un mezzo, non era compito suo migliorare Jace, era compito di Jace migliorare sé stesso.
E l’aveva fatto. Aveva messo la testa a posto, aveva fatto in modo di rendersi più rispettoso e più empatico. Era sempre Jace, solo meno… stronzo.
E solo quando quel cambiamento era arrivato, allora le aveva chiesto ufficialmente di uscire. Voleva impegnarsi con lei. Essere la cosa più vicina all’uomo che lei si meritava, perché Clary era speciale e si meritava solo cose belle nella vita.
“Sei così dolce. Amo la tua dolcezza, lo sai?” Le sfiorò il naso con il proprio. “Amo così tante cose di te, Clary.” Le afferrò il viso con le mani, accarezzandole gli zigomi con i pollici, e la guardò.
La guardò con tutto l’amore di cui era capace, come se fosse la manifestazione fisica di tutti i suoi desideri. Jace era fermamente convinto che Dio l’avesse creato con lo scopo di amarla. Gli era entrata dentro in modo radicale, irreversibile. Il suo cuore le apparteneva. Da sempre e per sempre.  
“Ti amo e ti amerò fino alla morte, e se c’è una vita dopo la morte, ti amerò anche allora.” (1) Cassandra Clare, Città di Vetro.
Gli occhi di Clary, pieni d’amore, si velarono di lacrime di emozione. “Lo sai, sembra una di quelle promesse che vengono dette all’altare,” Sorrise, sfiorando il naso di Jace con il proprio. “Ti amo anche io,” Gli sussurrò, poi, prima di sporgersi per baciarlo. Si abbracciarono, quasi come se avessero voluto fondersi, come se avessero voluto diventare un tutt’uno – e, in un certo senso, già lo erano. Erano consapevoli di non poter vivere l’uno senza l’altra. E avevano la certezza, forse un po’ presuntuosa, che il loro amore avrebbe potuto affrontare qualsiasi cosa. Era qualcosa di puro, profondo, come se fosse nato da un nucleo pulsante di luce e fosse stato mandato sulla Terra da un’entità celeste per far capire agli esseri umani cos’è davvero l’amore.
“Che cosa state facendo?”
La voce di Diana li fece sussultare. Dopo aver interrotto il bacio, si guardarono un secondo. Jace era ancora sistemato tra le gambe di Clary, le sue braccia la circondavano completamente e la stringevano a sé, mentre Clary gli aveva circondato il collo. I loro corpi erano così vicini che tra di loro non sarebbe passato nemmeno uno spillo.
Si scambiarono un’occhiata, cercando di concordarsi silenziosamente su cosa dire alla loro figlioletta.
“Ehm, noi…” cominciò Jace, guardando la fidanzata.
“Noi ci stavamo abbracciando, tesoro.” Concluse Clary, optando per dirle la verità. Spinse con delicatezza Jace lontano da sé e scese dal tavolo, dirigendosi verso la figlia. “È una cosa che fanno i genitori quando si vogliono tanto bene. Tipo darsi i baci speciali.”
La bambina arricciò la bocca, come se stesse pensando. “Oh,” Decise che quella spiegazione aveva senso e alzò le spallucce. “D’accordo.” Sollevò le braccia, chiedendo silenziosamente alla madre di essere presa in braccio. La ragazza l’accontentò, ovviamente.
“Zia Izzy e zio Simon si vogliono tanto bene?” domandò ad un tratto la bambina.
“Sì, tesoro.”
“Credevo anche io. Gli ho visti darsi un bacio speciale, quando abbiamo salutato Mangus.”
Clary guardò Jace, che annuì come a volerla spronare a fare la domanda che lui aveva intuito volesse fare alla bambina. “Non ti piace che zia Izzy e zio Simon si bacino?”
“No, mi piace.” Si affrettò a dire Diana. “Voglio bene a zia Izzy e zio Simon.”
“Lo so, bambolina,” Disse Clary, lasciandole un bacio sulla guancia. “Anche loro te ne vogliono.”
Jace si avvicinò a loro. Baciò Clary sulla fronte e Diana su una guancia. Le abbracciò entrambe. Erano radicate entrambe così in profondità che a volte aveva l’impressione fossero diventate necessarie per farlo continuare a vivere. Erano la ragione per cui respirava, l’ossigeno necessario alla sua sopravvivenza. Erano tutto ciò che di buono la vita gli aveva regalato, insieme a tutto ciò che aveva ricevuto da quando Maryse l’aveva adottato.
Jace non avrebbe mai smesso di essere grato per tutta la sua famiglia.
“E, a proposito, domani dormirai da zia Izzy. Sei contenta, principessa?” Le domandò, lasciandole un altro bacetto sulla guancia. Diana ridacchiò e annuì, i riccioli biondi le ballarono intorno al visetto paffuto.
“Sì!” Batté le manine e sorrise, facendo sorridere anche i suoi genitori di rimando. Jace e Clary si scambiarono un’occhiata. Lessero l’uno negli occhi dell’altra tutto l’amore che li legava, tutta la felicità che provavano per essere una famiglia, per aver fatto insieme qualcosa di bello come la bambina che Clary teneva in braccio.
Era tutto perfetto e, a volte, ne erano terrorizzati – perché la perfezione non esiste e avevano sempre paura che qualcosa avrebbe rotto quella magia che sembrava caratterizzare la loro vita.
Accantonarono entrambi quel pensiero e Clary decise piuttosto di rompere il silenzio, chiedendo: “Chi ha fame?”
Diana alzò immediatamente una manina. “Io! Io!”
“Allora prepariamo la cena. Papà, mi aiuti?” Chiese Clary. Jace le sfiorò delicatamente le labbra con le proprie.
“Ma certo.”
Diana sorrise. Era felice che mamma e papà si volessero bene, e che ne volessero a lei.



*


“Ta-daaan!” Esclamò Simon, fiero di sé.
Isabelle alzò lo sguardo dai giocattoli che stava sistemando sul tappeto morbido per Diana e lo portò sul suo ragazzo.
Il suo ragazzo, era strano associare quelle parole a Simon, ma ogni volta che lo faceva, sentiva il suo cuore agitarsi.
Era fermamente convinta che quella sensazione fosse ciò che viene descritto come farfalle nello stomaco e le piaceva tantissimo.
Chiamare Simon in quel modo le sembrava giusto. E, cosa più importante, non le faceva paura. Stare con lui le veniva naturale. Sentiva il bisogno di averlo vicino, di sfiorarlo, di lasciarsi abbracciare. Stare con lui era come sentirsi in una casa che conosceva e che le era familiare, ma che le aveva fatto riscoprire un nuovo senso di appartenenza, di sicurezza.
Era tutto nuovo, ma allo stesso tempo, non lo era affatto.
Simon e Izzy non erano cambiati. Erano sempre loro, soltanto che adesso avevano aggiunto baci e coccole al loro rapporto.
“Che cosa hai fatto?” Sorrise, avvicinandosi a Simon.
“Pensavo fosse evidente, mia cara. È un fortino di coperte, o una tenda. Stasera, dopo cena, ci rifugeremo tutti e tre li dentro e leggeremo una bellissima favola!”
Isabelle guardò quella fortezza e sorrise. Simon aveva legato insieme le coperte e aveva fatto in modo che stessero su, come una tenda. Isabelle sospettava che avesse comprato una specie di scheletro per tende in qualche negozio per l’occasione – non sapeva se esistesse una cosa simile, ma non si sarebbe stupita se Simon si fosse adoperato tanto per far felice Diana. Gli veniva naturale occuparsi di lei, inventarsi le cose più fantasiose per vederla felice.
L’interno della tenda era illuminato da una abat-jour che rifletteva ombre a forma di fiore ed era tappezzato di cuscini su cui potersi sedere, evitando così il contatto con il pavimento.
“È bellissima, Simon.”
“Pensi le piacerà?”
“Credo che l’adorerà.” Isabelle si avvicinò a lui e appoggiò le mani su suoi fianchi, prima di alzarsi leggermente sulle punte e baciarlo. Senza i tacchi, Isabelle risultava molto più bassa di lui e, doveva ammettere, che la cosa le piaceva. 
Simon sorrise sulle sue labbra, prima di baciarla di nuovo. “Sei bellissima, lo sai?” Le sfiorò il naso con il proprio.
C’era così tanta sincerità nella sua voce, così tanto affetto, che Izzy non riuscì a non arrossire. Le faceva complimenti casuali, senza nessun tipo di secondo fine. Glieli faceva e basta, solo perché voleva farglieli. E ad Izzy piaceva, la faceva sentire speciale.
“Anche tu, soprattutto quando fai cose virili tipo costruire tende.” Scherzò e notò una scintilla di divertimento anche negli occhi nocciola di Simon. La ragazza avvertì le sue mani sui propri fianchi, le sentì risalire piano, in una carezza gentile e devota, e più le mani di Simon salivano, più il respiro di Isabelle accelerava. Fino a quando quella carezza non si trasformò in solletico. Fu un cambiamento così repentino che Isabelle sussultò per la sorpresa, prima di scoppiare a ridere.
“Basta, basta!” Esclamò, tra una risata e l’altra, indietreggiando fino al divano, dove si sedette, armandosi di cuscino.
“Quello non ti salverà dalla mia solletico-vendetta, signorina!”
Isabelle si sollevò sulle ginocchia. “Vediamo, Lewis. Fatti sotto!”
Simon si avvicinò di scatto, ma Isabelle fu più veloce e gli diede una cuscinata su una gamba. Lui incassò il colpo, ma afferrò il cuscino e lo lanciò proprio vicino alla tenda. Non ne rimanevano più perché tutti quelli che Isabelle aveva, adesso stavano fungendo da pavimento per il rifugio. Le rivolse un sorriso vittorioso, mentre si metteva in ginocchio sul divano a sua volta. Erano uno di fronte all’altra.
“Ammetti la sconfitta e dichiarami vincitore.”
“Mai!” Esclamò lei, gettandosi verso di lui, cercando le sue costole per fargli il solletico. Simon, colto di sorpresa, si gettò all’indietro cercando di schivare quell’attacco, ma finì sdraiato, intrappolato tra il divano ed Isabelle.
Avrebbe potuto liberarsi facilmente, sollevarla di peso e far alzare entrambi dal divano, ma la verità era che non voleva. Sarebbe stato un pazzo, se avesse interrotto quel contatto.
Il corpo di Izzy aderiva perfettamente al suo, come se fossero stati due pezzi di puzzle complementari.
“Se la metti così,” le sussurrò, sistemandole una ciocca di capelli dietro all’orecchio, “Mi arrendo.” Si sporse leggermente per lasciarle un bacio. “Sei la vincitrice.”
Isabelle sorrise e appoggiò la fronte a quella di Simon. Rimasero in silenzio, una sopra all’altro. Simon le accarezzò di nuovo i fianchi, disegnando dei cerchi concentrici, muovendo le dita con delicatezza, fino a che non superarono la stoffa della maglietta di Isabelle per andare a cercare la sua pelle.
Izzy cambiò posizione, si mise seduta su di lui, con le ginocchia ai lati dei fianchi di Simon e si chinò su di lui per baciarlo – i suoi capelli neri crearono una specie di tenda che coprì entrambi, mentre si baciavano.
“Scusa,” gli disse, quando si staccarono e i capelli finirono sul viso di Simon.
“Non ti preoccupare,” sussurrò, mettendosi seduto. Rimasero incastrati così, guardandosi negli occhi. Simon non riusciva ancora a credere alla sua fortuna. Gli sembrava tutto un sogno dal quale preso si sarebbe svegliato, ma poi si ricordava che Isabelle era reale, che le sue labbra sulle proprie erano una sensazione troppo forte e inebriante per non essere vera.
La baciò di nuovo, appoggiando una mano sulla sua schiena per tirarla a sé, mentre l’altra vagava tra i suoi capelli, neri e setosi. Isabelle aveva un profumo buonissimo, un odore fresco e dolce che gli rimaneva addosso ogni volta che facevano l’amore.
“Quanto tempo abbiamo?” Domandò la ragazza, allacciando le braccia al collo di Simon, quando si separarono.
“Credo un’oretta, più o meno?”
“Abbiamo tempo, allora.” Izzy sorrise con malizia e sciolse l’abbraccio con Simon per sfilarsi la maglietta. Rimase seduta su di lui, in leggins neri e reggiseno di pizzo. Era un colore tenue, tipo rosa antico, ma non che a Simon importasse. Vederla senza maglietta gli toglieva sempre il fiato. Isabelle era perfetta. La sua pelle era liscia e candida, morbida. Sembrava vellutata.
“Che c’è?” gli domandò, notando la sua espressione.
“Ti guardo.” Le rispose, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Le accarezzò un fianco, con dolcezza, tracciò il perimetro della runa che aveva tatuata sul costato, e salì lentamente fino a che non si spostò sulla sua schiena. Percorse con il polpastrello la linea della colonna vertebrale più di una volta, prima di slacciare il reggiseno. La guardò negli occhi, in attesa che fosse lei a decidere quando toglierselo. Non voleva metterla in imbarazzo, perciò ogni volta, incatenava sempre i suoi occhi a quelli di Izzy. La cosa che, apparentemente, Simon non aveva ancora capito era che Isabelle non si sentiva mai in imbarazzo con lui, ma adorava che la rispettasse tanto da avere queste piccole, silenziose, accortezze nei suoi confronti.
Izzy sfilò il reggiseno e lo lasciò cadere a terra. Sentì chiaramente Simon trattenere il respiro quando la vide mezza nuda in quel modo. E sorrise. Gli piaceva avere quell’effetto su di lui, la faceva sentire desiderata.
“Adesso tocca a te,” gli sussurrò, baciandolo, “Voglio guardare qualcosa anche io.”
Simon ridacchiò e si sfilò la maglietta, accontentandola. Le mani di Izzy cominciarono istintivamente a tracciare i contorni dei suoi muscoli. Cominciò con i pettorali e scese, facendo passare il dito tra la riga che divide gli addominali e poi fece aderire i loro corpi, allacciando di nuovo le braccia intorno al collo di Simon. La pelle del ragazzo era calda e liscia. Isabelle fu percorsa da un brivido quando i suoi seni nudi si appoggiarono ai pettorali di Simon. Erano definiti e saldi.
Simon era saldo. Le dava un senso di sicurezza che non aveva mai cercato in nessuno, ma che in lui aveva trovato. Era certa di poter contare su di lui, di potersi fidare di lui. Sapeva che, in qualsiasi occasione, Simon sarebbe stato lì per lei.
Come sapeva, con assoluta certezza, che lei ci sarebbe sempre stata per lui.
E fu in quel momento che realizzò una cosa. Fu colta da una consapevolezza improvvisa, che le fece battere il cuore all’impazzata. Si tirò leggermente indietro, senza sciogliere la presa su Simon, e lo guardò negli occhi.
Aveva sempre avuto la verità sotto al naso.
Erano dieci anni che ce l’aveva davanti, ma lei l’aveva capito solo ora. Stando tra le sue braccia, non sentendosi vulnerabile in alcun modo, nonostante la sua nudità. Non sentendosi mai in imbarazzo, quando era con lui, e provando desideri che con altri non aveva mai provato – come passare ogni singolo momento libero della sua giornata con lui.
Simon era il suo primo pensiero appena sveglia e l’ultimo prima di addormentarsi. E adorava quando si fermava a dormire da lei perché significava averlo con sé sia a fine giornata che all’inizio della giornata successiva. E quando il sole sorgeva e Simon era nello stesso letto con lei, Isabelle sapeva che la giornata sarebbe iniziata nel migliore dei modi.
E se si sentiva così, forse c’era un unico modo per riassumere tutti i suoi sentimenti.
“Io ti amo.” Lo disse quasi come se fosse una piacevole scoperta. “Ti amo, Simon.”
Simon per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. Quelle parole, agognate da anni, avevano appena lasciato la bocca di Isabelle, non una ma ben due volte, e lui non riusciva a crederci. Il suo cuore gli martellava talmente forte nel petto che aveva l’impressione di sentirlo premere contro le costole, quasi come se avesse voluto uscire e raggiungere il posto a cui apparteneva davvero: Isabelle.
Lei lo amava.
Lo amava.
Era la sensazione più bella del mondo.
“Ti amo anche io, Iz. Non sai quanto.” L’abbracciò, stringendola a sé il più possibile, prima di baciarla. Lei ricambiò il bacio e lo approfondì, socchiudendo la bocca e spronando Simon a fare lo stesso.
La assecondò, perché baciarla gli veniva naturale.
Come gli venne naturale farla sdraiare sotto di sé, sfilarle leggins e mutandine, e coprire tutto il suo corpo di baci, prima di fare l’amore.
La amava da morire. E le avrebbe sempre donato tutto sé stesso. Anima e cuore.






Clary e Jace arrivarono intorno alle 19.30.
Simon e Izzy si erano dati una sistemata, facendosi una doccia e rimettendosi i vestiti.
Quando suonarono alla porta, Isabelle stava ancora finendo di asciugarsi i capelli, così fu Simon ad andare ad aprire.
“Ciao, ragazzi!”
“Ciao!” Ricambiò Clary, lasciandogli un bacio sulla guancia.
“Ehi, Lewis. Perché sei qui?”
Simon guardò Jace con le sopracciglia aggrottate. “Cosa vuol dire perché sono qui? Sapevi che Diana dormiva da Izzy, stasera.”
“Hai detto bene. Da Izzy, tu cosa c’entri?”
Simon era ancora confuso e guardò Jace come se gli fosse appena spuntato un terzo occhio in mezzo alla fronte.
“Mi stai prendendo in giro, vero?”
“Sono contento tu ci sia arrivato,” Jace rise e gli riservò una pacca sulla spalla. “Izzy! Il tuo ragazzo è un po’ lento, lo sai?” gridò poi, rivolgendosi ad un punto non specifico della casa, consapevole che comunque Isabelle l’avrebbe sentito. E infatti fu così. La ragazza sbucò dal corridoio che dava al bagno con i capelli freschi di asciugatura. Era priva di trucco e indossava una tuta celeste. Fulminò suo fratello in men che non si dica.
“Il mio ragazzo non è lento, sei tu che sei molesto!” Isabelle liquidò la faccenda con un gesto della mano, dirigendosi verso Clary per abbracciarla.
“Ciao, Izzy.” Esordì la rossa.
“Avanti, Iz, saluta il tuo fratellone!” Esclamò Jace, allargando solo un braccio dal momento che con uno stava reggendo Diana.
“No, prima saluto mia nipote! Ciao, amore della zia!” Si sporse verso la bambina, prendendola in braccio. La piccola le gettò le braccia al collo e ridacchiò quando Isabelle le riempì le guance di baci.
“Ehi, smettila di monopolizzarla! Tocca a me!” Si intromise Simon, allungandosi per prendere in braccio la bambina. Isabelle glielo lasciò fare e Diana fu felice di essere al centro dell’attenzione dei suoi zii.  
“Lo zio Simon ti ha preparato una cosa.” Le disse, attirando la sua attenzione. Gli occhi verdi della bimba luccicarono di curiosità. “Vuoi andare a vedere?”
“Sì!” Esclamò euforica la piccola e così Simon la portò in salotto.
Isabelle si voltò verso Jace e Clary. “Potete andare a vedere anche voi, se volete. Simon ci ha lavorato parecchio oggi pomeriggio.”
Il tono della sua voce cambiò, ammorbidendosi. Se ne accorsero tutti, persino Isabelle, ma nessuno commentò. Invece, Clary seguì Simon in salotto, mentre Jace passò un braccio intorno alle spalle della sorella e le baciò una tempia.
“Sei più felice, quando sei con lui. Ti si legge in faccia.”
Isabelle gli passò un braccio dietro la schiena e sorrise, senza aggiungere niente. Sapeva che suo fratello aveva ragione. Lo sentiva ogni giorno: era più felice, con Simon.
“Sono contento per te, Izzy, te lo meriti.”
“Grazie,” Sorrise ancora, mentre entrambi si avviarono in salotto.



Clary e Jace erano andati via poco dopo aver ammirato il lavoro di Simon.
La tradizione di famiglia prevedeva che, a ruota, Diana passasse almeno una notte a settimana dai suoi zii. Era stata un’idea di Isabelle e di Alec per permettere a Clary e Jace di avere almeno una serata libera – che di solito passavano come se fossero ad un appuntamento. Quando Maryse e Luke erano venuti a conoscenza della cosa avevano preteso di essere inseriti nella rotazione – più che altro per avere una scusa in più per passare del tempo con la loro adorata nipotina.
Inutile dire che anche Maia aveva voluto partecipare a quella tradizione. Così, da due anni a questa parte, almeno una volta a settimana Diana passava la notte a casa di un suo parente a rotazione.
Prima da Maia, poi da Maryse (e di solito Max cercava di essere a casa, quando sapeva che sua nipote sarebbe stata dalla madre), quindi Alec, Isabelle e infine Luke. Da quando stavano insieme, Simon e Isabelle avevano deciso di unire il loro turno, in modo da passare la serata tutti e tre insieme. E quella sera, nello specifico, era la prima volta che testavano il nuovo metodo.
Simon era un po’ nervoso, se doveva essere onesto, ma sembrava che tutto procedesse per il verso giusto.
Aveva cucinato lui, perché Izzy per quanto si impegnasse era davvero negata, e aveva fatto in modo di preparare ciò che piaceva alla bambina.
Aveva preparato degli involtini di carne e delle verdure grigliate. Quest’ultime non erano state la sua prima scelta, ma quando aveva parlato di patatine fritte Clary gli aveva categoricamente vietato di riempire sua figlia di roba fritta. È troppo piccola! Aveva detto e Simon non se l’era sentita di ribattere – più che altro perché Clary in modalità mamma-orsa-iperprotettiva gli faceva un sacco paura.
Era abbastanza fiero di dire, comunque, che Diana aveva mangiato tutto volentieri. E adesso se ne stavano tutti e tre nella tenda, già pronti per la notte con tanto di denti lavati e pigiami indossati, intenti a leggere una favola. O meglio, Isabelle leggeva, Simon e Diana la stavano ad ascoltare. I due adulti seduti a gambe incrociate uno davanti all’altra, la bambina, invece, aveva voluto sdraiarsi sui cuscini stando in mezzo agli zii.
“…E fu così che il lupo cominciò a soffiare, e soffiare, e soffiare!” Intonava Izzy, facendo la voce grossa e imitando un soffio sempre più forte mano a mano che andava avanti a leggere. Diana ridacchiò e imitò un soffio a sua volta, non riuscendoci totalmente e finendo per sputacchiare involontariamente.
“E la casetta di paglia del primo porcellino volò via. Allora il nostro piccolo maialino, cominciò a correre veloce, fino a che non raggiunse la casa del suo fratellino. Di cosa era fatta, D, te lo ricordi?”
La bambina guardò in alto, verso la zia. “Sì! Di legno!”
Isabelle le lasciò una carezza sulla guancia, “Bravissima! Vuoi vedere la figura?”
Diana annuì e Isabelle girò il libro di favole nella sua direzione. Nella pagina che aveva appena letto era raffigurato il lupo che soffiava, il porcellino che correva e poi i due porcellini nascosti nella casetta di legno.
“Andiamo avanti?” Chiese Isabelle e, quando la bambina annuì, voltò pagina. Riprese a leggere: “Il lupo arrivò alla casetta di legno… ‹‹Uscite porcellini! O butterò giù la vostra casa!›› gridò il lupo, ma i maialini erano sicuri che non sarebbe riuscito ad abbattere la casa di legno! Così rimasero al suo interno. Ma il lupo perse la pazienza e cominciò a soffiare fortissimo! E soffiava, soffiava, soffiava, fino a quando la casetta di legno non venne spazzata via. Allora i due porcellini cominciarono a correre più veloci del vento per sfuggire al lupo e si rifugiarono nella casa del terzo porcellino.”
“Quella di mattoni.” Disse Diana, per far vedere che era attenta. Sia Simon che Isabelle sorrisero per quell’intervento.
“Brava!” Si complimentò Simon e Diana gli rivolse un sorriso soddisfatto.
“Arrivati alla casa di mattoni,” Isabelle voltò il libro verso la nipote per farle vedere la figura. I tre porcellini erano dentro alla terza casa, mentre il lupo era raffigurato davanti ad essa con un’espressione accigliata. “I due porcellini più piccoli cominciarono a raccontare l’accaduto al maggiore dei fratelli… ‹‹Vi avevo detto di impegnarvi, ma voi avete preferito tirare via per poter passare più tempo a giocare e ora il lupo ha abbattuto le vostre case! Ma non disperate, fratellini miei, non riuscirà a buttare giù la mia casa! Ma, attenzione, che questa esperienza vi sia di lezione!›› Disse il terzo porcellino e aveva ragione! Il lupo soffiava e soffiava e soffiava, ma la casa di mattoni non si mosse nemmeno di un centimetro! Era il rifugio più sicuro e presto anche il lupo si stancò di provare e se ne tornò nel bosco da dove era venuto.” Isabelle voltò pagina, arrivando alla fine della storia. “Dopo quell’esperienza, i tre porcellini continuarono a vivere nella casa di mattoni, e i primi due divennero più responsabili e si impegnarono ad ascoltare di più il loro fratello maggiore.” Izzy chiuse il libro e lo posizionò accanto a lei, su uno dei cuscini che rivestiva il pavimento. “Fine.”
“Mi piace la storia dei porcellini,” cominciò Diana, lasciandosi andare ad uno sbadiglio. “Mi ricordano tanto te, papà e zio Alec.” Un altro sbadiglio. “Vorrei che fossero anzi quattro, così anche zio Max potrebbe essere un porcellino.”
Isabelle rise e si sdraiò accanto alla bambina. Simon fece lo stesso, con un sorriso stampato sulle labbra.
“Possiamo sempre fare finta che ci sia un quarto porcellino, se ti fa piacere.”
La bambina annuì. “Ha costruito una casa anche lui?”
“Certo,” intervenne Simon, “Una casa di bastoncini di zucchero. Sembra una cosa che farebbe Max.”
Diana ridacchiò, immaginando tanti bastoncini di zucchero, mentre Isabelle annuiva. Simon aveva ragione: era una possibilità, quella, che si addiceva al suo fratellino.
“Allora dalla prossima volta, modifichiamo la storia e ci mettiamo anche un quarto porcellino.”
“Sì!” Esclamò la bambina, sorridendo, prima di sbadigliare di nuovo. Le sue palpebre si fecero pesanti per un attimo.
“È ora di andare a letto, paperella.” Sussurrò Izzy, lasciandole un bacio sulla fronte.
“Possiamo dormire qui? È comodo e mi piace stare nella tenda.”
Isabelle guardò Simon, per cercare consiglio, ma anche per capire se eventualmente quella possibilità gli andasse bene. Lui fece spallucce. “Ho portato delle coperte in più. Sono pesanti, non dovremmo avere freddo, stanotte.”
“D’accordo, allora, dormiamo nella tenda.”
Diana lanciò un gridolino euforico, e si voltò prima verso Isabelle e poi verso Simon, lasciando un bacetto impacciato sulla guancia di entrambi.
Le sorrisero e poi Simon uscì dalla tenda per andare a recuperare le coperte. Quando rientrò, Diana stava lottando con tutta sé stessa per combattere il sonno, dal momento che non voleva addormentarsi senza aver dato la buonanotte ad entrambi gli zii. Quando Simon la coprì per bene, la bambina salutò entrambi e si addormentò quasi immediatamente.
Isabelle le stava ancora accarezzando i riccioli biondi, quando parlò. “È dolcissima.”
“Ed è gentile e affettuosa. È una bambina speciale.” Concordò Simon, sdraiato in costa, guardando la nipote che dormiva rilassata.
“Sei bravo con lei.”
Simon alzò lo sguardo sulla sua ragazza. Erano entrambi messi nella stessa posizione: su un fianco, ai lati della bambina. “Anche tu.” Le sorrise e non riuscì a bloccare il pensiero che si era appena formato nella sua mente: avere un figlio tutto loro. Era strano perché stavano insieme da poco, ma si conoscevano da così tanto e Simon era fermamente certo che non avrebbe voluto passare con nessun altro il resto della sua vita, se non con Isabelle. Avrebbe voluto costruire un futuro con lei. E in questo futuro lui ci vedeva anche un bambino, o una bambina. Non aveva davvero una preferenza.
“Che c’è?” gli domandò, notando che si era assentato.
“Niente,” si affrettò a dire lui, spaventato dall’idea che un pensiero simile potesse far credere ad Isabelle che voleva affrettare le cose.
Non voleva affrettarle. Voleva fare tutto con calma, passo dopo passo.
“Simon.” Insistette lei, “Ti conosco. Avanti, parla.”
Il ragazzo si agitò sul posto, sdraiandosi a pancia in su. “Pensavo al futuro, al fatto che un giorno… sai… vorrei un figlio anche io.”
Isabelle rimase per qualche istante in silenzio e Simon si chiese se con quella semplice frase non avesse rovinato qualcosa nel loro rapporto. Ma poi Izzy parlò e tutti i suoi dubbi svanirono con la stessa velocità con cui erano arrivati. “Anche io. Penso che l’unica volta in cui io sia stata invidiosa di Clary e Jace sia stata quando hanno messo al mondo Diana. Li guardavo e invidiavo la loro assoluta certezza di aver fatto un figlio con la persona di cui si fidavano di più al mondo, la persona che erano certi avrebbero amato per il resto della loro vita.” Izzy face una pausa e allora Simon si rimise in costa per guardarla. “Con gli altri non avevo questa certezza e quindi non ho mai nemmeno sfiorato l’idea di pensare a costruirmi una famiglia, ma con te…” Izzy deglutì, un po’ nervosa. “Con te è diverso, Simon. Io mi fido ciecamente di te e sono certa che ti amerò per sempre.”
Simon per poco non si mise a piangere. Sentiva gli occhi lucidi e il cuore che correva impazzito, tanto da rimbombargli nelle orecchie e in gola. “È la cosa più bella che potessi dirmi, lo sai?”
Isabelle sorrise e si sporse per dargli un bacio, facendo attenzione a non schiacciare Diana.
“Ti amo anche io,” Le disse, perché ora che poteva farlo apertamente non avrebbe sprecato nessuna occasione per ricordarglielo. “E potremmo cominciare a piccoli passi. Potrei liberarti una parte di armadio nel mio appartamento e tu potresti lasciare dei vestiti a casa mia. Portarti dei trucchi o tutti quei prodotti per la pelle e i capelli che ti piacciono tanto, che per me invece sono tutti uguali.”
Isabelle lo guardò male, ma un sorriso tirò le sue labbra. “Un giorno ti farò una lezione dettagliata in modo che tu possa smettere di dire simili eresie. Ma mi piace l’idea dello spazio nell’armadio. Lo farò anche io, così potrai portare anche tu qualcosa qui.”
“Perfetto.”
“Mi piacciono i piccoli passi.” Confessò Izzy, il sorriso che non voleva abbandonare il suo viso.
“Anche a me, tanto.”
Si scambiarono un altro bacio, sempre facendo attenzione a Diana, e poi con il cuore che traboccava di una felicità mai provata prima, si misero a dormire.



*



Magnus ricevette una telefonata di giovedì sera.
Si trovava nella sua stanza d’albergo ed era parecchio stanco. Fare il giudice comportava anche allenarsi con i ragazzi che avrebbe successivamente giudicato in diretta alla fine della settimana, seguendoli nelle coreografie e migliorando ciò che c’era da migliorare.
In più doveva lavorare ad una coreografia tutta sua per esibirsi come singolo. Lui non sarebbe stato giudicato, ma in quanto ospite speciale doveva inventarsi qualcosa per fare spettacolo, per intrattenere il pubblico.
Magnus era davvero stanco. Ed era a Los Angeles da soli quattro giorni. Non riusciva davvero a pensare quale sarebbe stato il suo livello di stanchezza raggiunte le tre settimane.
Non pensarci, goditi solo il tempo qui.
Giusto. Lo spirito doveva essere quello. Godersi il tempo lì e guardare solo il lato positivo di quell’esperienza. Non creava coreografia da anni, se si escludono quelle per le sue piccole ballerine della scuola. Ma sebbene adorasse quell’aspetto del suo lavoro, sapeva che c’era un’abissale differenza tra creare coreografie per delle bambine e crearle per dei quasi-professionisti. Ed era elettrizzato dall’idea di poterlo rifare, di riscoprire quella parte di sé che aveva assopito da tanto tempo. Magnus il coreografo dormiva da un pezzo ed era felice di essere stato risvegliato.
Il suo flusso di pensieri, comunque, venne interrotto dallo squillo del suo cellulare e lui si precipitò sul letto dove l’aveva lasciato prima di farsi la doccia perché era convinto che fosse Alexander. Lo chiamava sempre, a fine giornata, per sapere come stava e come procedevano le cose. Passavano quasi un’ora al telefono tutte le sere e nonostante questo, a Magnus non bastava mai.
Quel giovedì sera, tuttavia, dall’altro capo del telefono non trovò Alec, bensì Ragnor.
“Ehi, uomo che ha abbandonato il suo migliore amico all’aeroporto, come stai?” Esordì Magnus, sedendosi sul bordo del letto.
Dal cellulare arrivò un sonoro sbuffo da parte di Ragnor. “Mi perdonerai mai per non avercela fatta? Stavo per uscire di casa e mi hanno bloccato in una video conferenza d’emergenza. Era il mio palazzo, Magnus, non potevo semplicemente ignorare la cosa. E ti ho già chiesto scusa.”
Magnus tirò le labbra all’interno della bocca per trattenere un sorriso. “Lo so. In realtà ti ho anche già perdonato, ma mi piace rinfacciartelo.”
“Ti odio.”
“Lo so, ti sei persino dimenticato di me.” Scherzò l’altro.
“Dio, dammi la forza…” mormorò Ragnor dall’altro capo del telefono.
“Smettila di essere melodrammatico. Allora, cosa volevi dirmi?”
“Niente di particolare, volevo solo sapere come stavi.”
“Bene, caro, e tu? Sei pronto per la partenza?”
Ragnor domenica sera sarebbe ripartito per l’Irlanda. Avrebbe passato lì le due settimane successive e poi, concluso definitivamente il palazzo, sarebbe tornato definitivamente in America.
“Sì, ho quasi finito di sistemare le ultime cose. Non vedo l’ora di tornare a casa, sai? L’Irlanda mi piace, il mio lavoro pure, ma ho sentito la mancanza della mia vita qui.”
“E noi abbiamo sentito la tua. Due settimane passano in fretta, sarai a casa prima che tu riesca davvero ad accorgertene.”
Ragnor fece una piccola pausa e quando parlò, Magnus riuscì chiaramente a percepire un sorriso nella sua voce. “Lo stai dicendo a me, o lo stai ricordando a te?”
“Possibile che mi credi così egocentrico? È ovvio che stavo parlando di te. Principalmente. Poi, forse, in piccola parte, su un piano del tutto secondario, anche di me.”
Ragnor rise. “Sei sempre il solito.” E Magnus riuscì quasi ad immaginarselo mentre scuoteva la testa. “Devo andare, ci sentiamo presto, Magnus. Buonanotte.”
“A presto. Salutami gli altri.”
“Sicuro.”
“Buonanotte, Ragnor.”
Conclusero la chiamata e Magnus si sdraiò sul suo letto a pancia in su, fissando il soffitto. Il silenzio della sua camera lo avvolse lentamente, quasi cullandolo. La stanchezza stava già prendendo il sopravvento, le sue membra rilassate stavano per cedere al sonno, ma un pensiero lo tenne sveglio, aiutandolo a non gettarsi tra le braccia di Morfeo. Non aveva ancora sentito né Alec, né Erin. E quello era il momento più importante della giornata: chiamare casa e sentire come stessero i due pezzi di cuore che aveva lasciato a NY.
Si rimise a sedere e cercò sul cellulare l’app di Skype. Per prima cosa cercò il contatto di sua madre, convinto che di lì a poco Erin sarebbe andata a letto. Non voleva rischiare di non salutarla.
Dopo qualche squillo a vuoto, Magnus vide comparire sul suo schermo l’orecchio di sua madre. “Ciao tesoro!” Esordì la donna e Magnus non riuscì a trattenere una risata.
“Ciao, ibu. È una videochiamata, non devi tenere il cellulare all’orecchio.”
“Oh, questi dannati cosi! Non li sopporto! E non li capirò mai!” Sbottò Madelaine, prima di sistemare il telefono davanti al suo viso. “Eccomi!”
“Eccoti,” ripeté Magnus. “Erin?”
La donna uscì dalla cucina di casa propria e si incamminò verso il salotto, dove Erin era seduta sul divano, rigorosamente avvolta nella sua coperta a coda di sirena, e stava guardando un cartone animato. “Tesoro, è papà.” Le comunicò Madelaine e il viso di Erin si illuminò all’istante. Sgusciò agilmente fuori dalla coperta e saltò giù dal divano per correre verso la nonna.
Madelaine la prese in braccio e sistemò entrambe dentro lo schermo del cellulare, in modo che Magnus le vedesse.
“Papà! Papà!” Gridò Erin, agitando una manina davanti allo schermo per salutare il padre.
Magnus sorrise d’istinto. “Ciao, bintang, come stai?”
“Bene. Oggi all’asilo abbiamo imparato a disegnare un rombo. È molto difficile perché deve essere dritto e io l’ho fatto storto.”
“Sono sicuro che con la pratica lo migliorerai. E sono anche certo che, anche se è storto, è bellissimo lo stesso.”
“Te ne faccio uno, quando torni.”
“Non vedo l’ora di vederlo, tesoro mio.”
Era strano non poterla abbracciare. Non erano mai stati così lontani e Magnus aveva davvero l’impressione che gli mancasse un arto, o una parte importante del suo corpo. Era una mancanza quasi fisica, quella che percepiva, troppo abituato ad avere sua figlia sempre con sé.
“Magnus?” Domandò sua madre, notando la sua espressione, “Stai bene?”
“Sì, sì. Tutto bene.” Liquidò la faccenda con un gesto della mano, non volendo far preoccupare Madelaine senza motivo. “Avete già mangiato?”
“Sì, stavo finendo di lavare i piatti, prima di portare questa signorinella a letto.”
“Possiamo leggere una favola, papà?”
“Ma certo!”
“E puoi rimanere al telefono, mentre leggiamo la favola?”
Magnus in quel momento sentì un profondo desiderio di abbracciarla. “Sì, bintang, posso.”
Erin emise un gridolino felice, mentre abbracciava forte la nonna. Madelaine sorrise, intenerita da quella reazione.
“Allora ti richiamo tra dieci minuti. Finisco di lavare i piatti e le metto il pigiama.”
“Vi aspetterò con immensa gioie, mie donzelle!”
Madelaine chiuse la chiamata e Magnus rimase di nuovo avvolto nel silenzio della sua camera. Si era già preparato per la notte: dopo la doccia, si era lavato i denti e aveva indossato il suo pigiama di seta, così si sistemò sotto le coperte in attesa della chiamata.
Nell’attesa, mandò un messaggio ad Alexander, scusandosi e sperando che lui capisse.

> To: Alexander, 21.30
Ciao tesoro, credo che dovremmo rimandare la nostra telefonata. Erin mi ha chiesto se posso stare al telefono con lei, mentre mia madre le legge la favola della buonanotte. Mi dispiace.

La risposta di Alec arrivò immediatamente.

> From: Alexander, 21.30
Non preoccuparti. Stai con lei. Ci sentiamo domani. Salutami entrambe e manda loro un grosso bacio da parte mia.

> To: Alexander, 21.30
Sei un tesoro, grazie. Riferirò saluti e baci. Per me, invece? Non ci sono baci, per me?

> From: Alexander, 21.31
Ci sono. Tantissimi, in realtà. Ma preferisco darteli, piuttosto che mandarteli.

Magnus sorrise allo schermo del cellulare, il cuore che saltava un battito, colmo di un’euforia elettrica.

> To: Alexander, 21.31
Non vedo l’ora di riceverli tutti. Buonanotte, tesoro <3

> From: Alexander, 21.31
Buonanotte, Magnus.
<3


Quando, qualche minuto dopo, sua madre lo chiamò di nuovo, Magnus aveva ancora il sorriso sulle labbra.





*



Fiori.
Jace stava impazzendo per dei dannatissimi fiori.
Adesso capiva davvero la frustrazione di Clary. Nessun fioraio con il quale aveva parlato era stato in grado di trovargli i gigli blu – e la cosa peggiore era che tutti lo trattavano come se fosse un pazzo invasato che stava pretendendo la luna.
“Basta, ci rinuncio! Potrei fare come la Regina di Cuori, comprare un’infinità di gigli bianchi e colorarli di azzurro.”
Si accasciò sul tavolo del bar in cui lui e Izzy erano entrati per fare una pausa. Era un venerdì mattina. Lui aveva la prima lezione nel pomeriggio, mentre Isabelle aveva cambiato il proprio turno con Aline per poter aiutare il fratello.  
“Le ho promesso i gigli blu. È la prima promessa che non mantengo. E se non mantengo una promessa così semplice, come farò a mantenere quelle più importanti? Che razza di marito sarò?”
Isabelle allungò la mano sul tavolo, posandola su quella del fratello. “Adesso stai esagerando, Jace. Sarai un ottimo marito, perché negli ultimi dieci anni sei stato un ottimo fidanzato. Dei fiori non cambieranno ciò che sei.”
“Lo stress da matrimonio ha contagiato anche me.”
Isabelle sorrise. “Credo che sia normale. Entrambi volete che il vostro giorno sia perfetto.”
Jace annuì. “Grazie, Iz.”
“Prego.” La ragazza gli sorrise e bevve un sorso del suo caffè. I due rimasero in silenzio, fino a quando il cellulare di Jace non cominciò a squillare. Alec.
“Ehi, Alec.”
“Indovinello. Chi è disperato per il proprio matrimonio?”
“Che fai, infierisci? Da quando sei così sadico?”
Alec dall’altro capo del telefono rise. “Dai, Jace, assecondami.”
Jace sbuffò, “Io.”
“E chi è che ha trovato la soluzione al tuo dilemma dei fiori?”
“Di certo non io.”
“Ma io sì,” Alec sorrise trionfante e Jace riuscì a percepire quel sorriso attraverso il telefono.
“Davvero?”
“Sì. Ho parlato con Lydia e lei mi ha detto che John ha una cugina che coltiva fiori e crea delle specie ricercate che i fiorai non vendono. Hai un appuntamento con lei domani mattina. Ti mando l’indirizzo.”
“Oh, Alec, ti adoro. Tantissimo. Ti devo un favore.”
“Mi aspetto un enorme regalo di Natale.”
“Materialista.” Lo accusò bonariamente, prima di salutarlo e riattaccare la chiamata.  Jace ebbe la sensazione che gli avessero tolto un peso di dieci tonnellate dalle spalle. Non vedeva l’ora di informare Clary della novità, ma sapeva che era ancora impegnata con Mezzo Riccone per concludere la faccenda del quadro. Decise di aspettare e di informarla anzi di persona per vedere che faccia avrebbe fatto a quella notizia.
“Allora?” Attirò la sua attenzione Isabelle. “Non mi aggiorni?”
“Alec ha trovato i fiori. Una cugina di John sa creare delle specie particolari e domani abbiamo un appuntamento.” Mentre finì la frase, il suo cellulare vibrò: Alec gli aveva scritto l’indirizzo e l’ora dell’incontro.
“Ma è fantastico!” Esclamò Isabelle con più entusiasmo del necessario, tanto che altri clienti del bar si voltarono verso di loro.
A nessuno dei due importò. Erano felici. Avevano raggiunto un piccolo traguardo e Jace, quella mattina, ebbe l’ulteriore conferma di quanto funzionasse bene la squadra Lightwood.
Adorava i suoi fratelli.
Con tutto il suo cuore.




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Ciao a tutti! Sono tornata, un po’ prima del previsto – e meno male, aggiungerei.
Comunque, questo è il capitolo dei ti amo e me ne sono accorta solo rileggendolo – spero che non ci siano troppi errori, che magari mi sono sfuggiti.
Partiamo dal principio: la parte iniziale del capitolo con Max come protagonista nasce da un’idea di LilyScorpius che ha proposto di porre l’attenzione sulla vita al college di Max e il possibile rapporto con i suoi amici. Ho intenzione di riprendere questa idea, di scrivere altre scene lungo la storia, perché mi è piaciuto tanto immaginarmi Max sotto quel punto di vista e spero che sia piaciuto anche a te!
Per quanto riguarda le scene Clace e Sizzy l’idea, invece, è stata di Feroniche, che ha proposto qualcosa che riguardasse il matrimonio dei Clace – come un po’ di isterismo e non so perché ma ce la vedevo Clary che lancia palloncini di vernice per la frustrazione. Spero che le scene descritte ti siano piaciute. Ho cercato di inserirle nel contesto della storia. Scriverò qualcosa anche dal punto di vista di Diana, come avevi suggerito, ma un po’ più in là, probabilmente. Come idea mi piace e pensavo di inserirla in un altro contesto, se per te va bene!
Non vorrei aver affrettato troppo le cose per quanto riguarda i Sizzy, ma fremevo dalla voglia di scrivere una scena dove si dichiarassero il loro amore e pensassero al loro futuro. Fatemi sapere se vi è piaciuto, o se ho affrettato troppo! Siate sinceri!
Per quanto riguarda Magnus, ha una piccola parentesi, ma nel prossimo capitolo avrà più spazio, promesso. Così come Alec.
La parte che ho scritto riguardante Ragnor è nata soprattutto perché nel capitolo precedente mi sono dimenticata di inserirlo tra le varie persone che vanno a salutare Magnus. Shame on me. Perdonatemi.
Detto questo, vi saluto e ringrazio chiunque legga, segua e abbia messo tra le preferite/ricordate la storia. Lo apprezzo davvero tantissimo e mi fa un piacere immenso!
Vale sempre la stessa cosa del capitolo precedente: se avete in mente qualcosa di particolare per i personaggi, ditemelo! Vi darò i crediti per le idee.
Un abbraccio, alla prossima! <3 
   
 
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