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Autore: Taylortot    03/02/2020    2 recensioni
La paura gli si inerpicò in bocca, amara sulla lingua. “Chi sei?” Gli ci volle un momento per registrare il suono della sua stessa voce.
Lei lo fissò e sbatté le palpebre. “Lance, per favore. Non è il momento per una delle tue battute-”
Lui aggrottò le sopracciglia e si mise a sedere a fatica per sfuggire alle braccia di lei. “Non sto- non sto…scherzando.”
*
Dopo essersi sacrificato per salvare Allura, Lance si sveglia in un mondo strano e nuovo dove l’unica cosa che sente è un profondo legame con un ragazzo che non ricorda.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kogane Keith, Krolia, McClain Lance, Takashi Shirogane
Note: Traduzione, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Note dell'autrice: Di solito non sono una grande appassionata di fanfiction sulla perdita di memoria, ma ho avuto un’epifania sulla sesta stagione – sulla sorvolata morte (o perdita di sensi?) di Lance – e ho dovuto assecondarla.

Note della traduttrice: Eccoci qui con un capitolo fresco fresco di betatura. Ringrazio moltissimo CrispyGarden, senza la quale questo progetto di traduzione non sarebbe andato avanti.
La storia originale consta di 13 capitoli, di cui al momento ne sono usciti 12 (il 13esimo è in fase di scrittura). Potete trovare la fic sul profilo di Ao3 dell'autrice.

Non mi resta che augurarvi una buona lettura! Fateci sapere cosa ne pensate della traduzione e della fic nei commenti <3
 


Quando aprì gli occhi, il mondo era strano e nuovo.

La confusione lo ricopriva spessa come una coperta, calda su di lui, costrittiva, inesorabile. Non era facile dare un senso alle forme che nuotavano nel suo campo visivo annebbiato. Una luce rossa, un pannello nero con degli spilli di luce – stelle, il pensiero affiorò dal nulla – il rumore ovattato di qualcosa di astratto, che non era lui, che gli percorreva la testa, sotto la pelle. Per un momento gli sembrò tutto così terribile che ebbe uno scatto, tremando, ma i suoi movimenti erano impediti da qualcosa.

C’era una donna con un casco rosa sopra di lui, dalla pelle scura e i capelli bianchi. I suoi occhi erano pieni di preoccupazione mentre gli teneva la mano ed era così bella. Era talmente bella che per un momento si dimenticò della sua paura e, anche se la sua confusione era profonda e immensa, si fidò della preoccupazione nei suoi occhi.

Un angelo, pensò, anche mentre il panico gli artigliava la gola come un animale impazzito.

“Ehi, ehi, va tutto bene.” Disse lei piano. Gli sosteneva la spalla con l’altra mano e aveva notato facilmente il suo panico. “Va tutto bene. Sei ferito? Come ti senti?” Poi la sua voce divenne ferma e dura, da battaglia, e i suoi occhi saettarono verso un altro punto. La osservò, guardando le sue ciglia fluttuare e il viola-blu penetrante dei suoi occhi concentrati a scrutare attraverso il pannello nero. Sicuramente stava fissando qualcosa, ma lui aveva paura di distogliere lo sguardo. “Sì, è con me. Sta bene, credo, solo stordito.”

Annuì senza chiedere conferma e riportò lo sguardo su di lui.

“Ritorniamo al castello.” Disse, e la sua voce era di nuovo dolce. Alla parola castello la sua mente evocò una miriade di immagini; nessuna aveva senso in quel contesto. Quel contesto? Non sapeva neanche in che contesto si trovava, tanto per cominciare. La paura gli si inerpicò in bocca, amara sulla lingua. “Chi sei?” Gli ci volle un momento per registrare il suono della sua stessa voce.

Lei lo fissò e sbatté le palpebre. “Lance, per favore. Non è il momento per una delle tue battute-”

Lance. Quello era il suo nome? Aggrottò le sopracciglia e si mise a sedere a fatica per sfuggire alle braccia di lei. “Non sto- non sto…scherzando.” Un brivido lo percorse quando si accorse di avere un casco addosso e di indossare un’armatura lucida che gli pesava sul petto e che cazzo stava succedendo? Dov’era? Chi cazzo era lui? “Che cos’è?” Il suo respiro era corto e accelerato e caldo, e appannava il vetro del casco mentre guardava disperato la faccia stupita di lei. “Dove sono? Cosa sta succedendo?”

La donna gli passò una mano dietro la schiena per toccargli la spalla, tenendola stretta; il suo viso era una smorfia di dolore. “Sono la principessa Allura. Non… non ti ricordi di me?”

Scosse la testa e l’elmo era terribile e non lo faceva respirare, quindi se lo strappò di dosso e fece un profondo respiro inalando aria viziata. Era intrappolato in quella che sembrava essere una sorta di sala controllo con qualcosa di accecante che pulsava all’esterno e la cosa non aiutò certo il suo panico. Il cuore gli batteva nel petto come le ali di un colibrì, troppo leggero e veloce perché potesse riuscire a calmarsi. Gli si annebbiò la vista e le orecchie iniziarono a fischiare mentre si aggrappava ai braccioli della sedia dov’era seduto, le nocche bianche per la forza della stretta.

Lei lo guardò e lo afferrò anche per l’altra spalla quando vide che iniziava a boccheggiare. “Lance! Respira!” La sua voce aumentò di un’ottava e poi ebbe la sensazione che non stesse più parlando con lui. “No, non è ferito, Hunk, è- Lo porto subito in infermeria! Coran-”

Riusciva a malapena a dare un senso alle sue parole, non la sentiva più anche se poteva vedere le sue labbra che si muovevano frenetiche, e la sua calma apparente mascherava malamente il suo panico. Era troppo per lui. Veramente troppo. Rovesciò indietro la testa e non vide più nulla. Il suo stomaco divenne di piombo e si sentì boccheggiare da lontano, cercando di respirare aria che non entrava, e poi più nulla.


La seconda volta che si svegliò non era più confuso. La stanza dove si trovava era bianca e grande e i suoi vestiti erano morbidi, quindi la paura iniziale fu più facile da assopire. Il suo braccio era collegato a una strana macchina il cui schermo mostrava linee e colori e numeri che non avevano alcun significato per lui. Distolse lo sguardo ed esaminò i soffitti bassi, le lenzuola sottili come carta che gli coprivano le gambe e infine, girando la tesa, vide una ragazzina accucciata su una sorta di apparecchio che teneva sulle gambe, le dita che picchiettavano i tasti furiosamente.

Lei alzò lo sguardo quando lo vide muoversi e lui sentì il corpo irrigidirsi quando incontrò i suoi occhi; la sua paura minacciò di crescere nuovamente a dismisura e non sapeva chi lei fosse o perché lo stesse guardando stupita e… perché? Era incerta? Impaurita? Non riusciva a capirlo e la cosa lo stava facendo impazzire.

Si dimenò per mettersi a sedere sul letto, tirando il cavo attaccato al braccio, e lei sembrò riscuotersi dalla sua trance. Mise da parte la cosa che aveva sulle gambe e si alzò per andare da lui.

“Ragazzi,” disse parlando dentro a qualcosa che aveva al polso; la voce le si spezzava dopo tutto il tempo passato in silenzio, “si è svegliato.” Gli prese il braccio con gentilezza, dandogli la sua piena attenzione. Lo sguardo avvilito che gli rivolse quando lui sussultò al suo tocco rese la situazione cento volte peggio di prima. “Lance, va tutto bene, non ti farò del male.”

Lui la guardò per un momento. “Lance? È questo il mio nome?” Chiese, stupito ancora una volta dal suono della sua stessa voce. Lo riportò indietro all’unico ricordo che aveva, quando si era svegliato tra le braccia di quella donna meravigliosa che l’aveva guardato con profonda preoccupazione. Si concentrò sulla ragazza che era di fronte a lui, però, perché il panico di quel ricordo minacciava di sconvolgerlo.

“Sì.” Disse con una specie di sorriso accarezzandogli il braccio, e si sedette sul lato del letto. “Sei Lance. Ti ricordi di me?”

Il fluire calmo della sua voce e il fatto che in quel luogo non ci fosse una sensazione di pericolo o qualcosa di sbagliato che lo comprimesse da ogni lato gli permisero di mantenere il controllo di sé. La guardò per un momento. Osservò il profilo affilato del suo naso, gli occhiali rotondi, il taglio di capelli arruffato, il color miele dei suoi occhi onesti. Non gli era per niente familiare.

“No.” Disse con tono brusco. Alto. Rimbombò per quella stanza quasi vuota dal bianco straziante, incapace di nasconderlo sotto quelle luci accecanti.

Lei esalò un sospiro tremulo e annuì lentamente. “Okay. Capisco.”

Lui sentì gli occhi caldi e la gola bruciare. C’era qualcosa di intrinsecamente sbagliato lì; qualcosa non andava ed era colpa sua, ne era sicuro. “Mi dispiace.”

Lei, però, sorrise di nuovo. “No, non importa! Non dispiacerti, Lance, andrà… andrà tutto bene. Risolveremo la cosa. Ecco- mi chiamo Katie, ma tutti mi chiamate Pidge. Gli altri stanno arrivando; eravamo davvero preoccupati.” Le sue parole suonavano artificiali, un po’ imbarazzate, come se non avesse saputo cosa fare o cosa dire.

Il nodo di emozioni che aveva in gola gli rese difficile parlare. “Gli altri?”

Lei annuì. “Sì. Ricordi Allura? Lei… era lì quando ti sei svegliato.”

Giusto, gli aveva detto il suo nome. Annuì a sua volta con esitazione. “Sì…”

“Sta venendo qui. E… davvero non ti ricordi nessuno?”

Lui sbatté le palpebre e cercò di ripercorrere a ritroso il muro nero che era la sua mente, ma non trovò nulla. Era vuoto, senza fondo, niente. “No.” Quasi sussurrò, e il calore nei suoi occhi bruciò perché avrebbe dovuto ricordare, no? La donna che aveva visto per prima – Allura – era così preoccupata per lui, l’aveva tenuto vicino a sé con disperazione quando il panico lo aveva assalito. Perché non si ricordava di lei?

E la ragazza di fronte a lui, Pidge, lo scrutava con apprensione e la sua mano sul braccio era gentile, anche se imbarazzata, e sentì il peso schiacciante della depressione perché lei era importante, entrambe lo erano, ed entrambe tenevano a lui. Eppure, non se le ricordava affatto. E ora sapeva che c’erano altre persone e tutto quello che si ricordava era il suo risveglio e una luce rossa e l’impossibilità di respirare.

“Aww, Lance. Dai, non piangere.” Disse Pidge, nervosa. “Va tutto bene, amico. Su…”

Non va tutto bene, pensò lui mentre si sfregava furiosamente con le mani le lacrime che gli si stavano formando agli angoli degli occhi; si ritrasse al suo tocco. Non andava tutto bene per niente.

“Sono… sono così confuso.” Mormorò con la testa tra le mani. Respirare gli raschiava la gola.

“Beh, ti spiegherò tutto, ma aspettiamo gli altri prima.” Disse gentilmente, e lui notò che non aveva cercato di toccarlo di nuovo.

La stanza cadde in uno strano e teso silenzio, e nel momento in cui riprese il controllo delle sue emozioni abbandonò le mani sulle cosce e se le osservò. C’era una lentiggine a forma di stella sulla nocca del suo pollice destro, una piccola cicatrice bianca che correva parallela lungo il lato esterno del suo indice. Si domandò come e quando fosse successo. C’era un ematoma sulla sua mano destra che stava scomparendo, quasi guarito e un po’ giallognolo. Un ricordo recente di un passato di cui non aveva memoria. Si mordicchiò il labbro.

La porta si aprì e un ragazzone con una fascia arancione in testa sfrecciò dentro, gli occhi spalancati che fissavano Lance.

“Oddio… Lance, amico?” Ehi, come stai?” Il ragazzo si affrettò al suo fianco, senza fiato. I suoi occhi erano rossi, come se avesse pianto o dormito troppo poco. I suoi capelli neri erano un cespuglio disastrato.

“Sto bene.” Mormorò Lance, distogliendo lo sguardo prima che il bisogno di piangere sgorgasse in lui di nuovo. Anche quel ragazzo teneva a lui, pensò, e non lo riconosceva per niente. Si chiese quanto avrebbe dovuto sopportare ancora quell’estenuante delusione prima di cadere a pezzi.

“Non ricorda.” Disse Pidge, rompendo il silenzio.

Lance fece una smorfia e abbassò la testa per la vergogna.

“Niente?”

Pidge dovette aver scosso la testa, perché non la sentì rispondere.

Il peso di una mano sulla spalla fece tendere i suoi muscoli. Era calma, però, e rassicurante. Il suo improvviso scatto di insicurezza, di paura, si sciolse immediatamente nella pozzanghera di disprezzo per sé stesso in cui stava sguazzando. “Amico, va… va tutto bene.” Disse il ragazzo, e la sua voce era un brontolio gentile anche se sembrava anche lui sull’orlo delle lacrime. “Sono Hunk. Eravamo compagni di stanza al Galaxy Garrison. Gli inseparabili. Sei il mio migliore amico.”

Migliore amico. Lance rabbrividì e un’ondata di colpevolezza si sollevò nel suo stomaco. Alzò lo sguardo per vedere Hunk che gli rivolgeva uno sguardo rassicurante, come se davvero credesse che fosse tutto okay. Lance gli fece un sorriso slavato. “Ehi.”

Altre tre persone entrarono nella stanza e si avvicinarono velocemente al suo letto. Uno era un uomo alto con dei baffi arancioni e le rughe attorno agli occhi per la preoccupazione. C’era un altro uomo, grande e dall’aspetto forte, con una cicatrice sul volto e un braccio robotico. Il suo sguardo sembrava più controllato e Lance si affrettò a distogliere lo sguardo per incontrare quello della donna che aveva visto quando si era svegliato. Sembrava stanca, i suoi capelli erano spettinati e occhiaie viola le segnavano il volto, visibili anche sulla sua pelle scura.

“Allura,” Ricordò ad alta voce.

Lei gli sorrise e si sedette ai piedi del letto. “Sono io, Lance.”

“Ma ciao, Lance,” Lo salutò l’uomo dai capelli arancioni con voce cadenzata. “Come ti senti, ragazzo mio?”

“Sono stato meglio.” Rispose Lance scrollando una spalla e notando i tatuaggi blu sotto gli occhi dell’uomo. “Credo.”

Pidge sorrise e un certo sollievo le ammorbidì i tratti del volto mentre gesticolava. “Lui è Coran. Sia lui che Allura vengono dal pianeta Altea, ecco perché hanno le orecchie strane.”

Allura sospirò, ma sembrava di buonumore. “Molto divertente, Pidge.”

Shiro – quello con la cicatrice – salutò Lance con il suo braccio meccanico. “Ehi, Lance, è bello vederti sveglio.”

Hunk si schiarì la voce. “Qualcuno è riuscito a mettersi in contatto con Keith?”

A quel punto, accaddero due cose strane. Primo, il modo in cui tutti coloro che si erano affannati intorno al letto di Lance si zittirono per un momento. Un disagio fuori luogo che richiedeva un certo contesto, che a Lance mancava. Il fatto che fosse quasi un tabù la menzione di questo ragazzo di nome Keith, il che lo mise sull’attenti. Sentiva la bocca secca e la gola dolorante, immobile, con emozioni scollegate.

Secondo, il fatto che al suono della parola Keith lo stomaco di Lance affondò diventando di piombo e sentì una fitta al petto. Dovette mordersi il labbro di nuovo per la sorpresa.

Voleva fare delle domande, ma si sentiva così piccolo e ancora troppo confuso e tutti lo stavano guardando con così tanta speranza… non gli si formavano le parole in bocca.

“Non è raggiungibile.” Rispose Shiro, rompendo quella strana tensione. “La Spada dice che gli passeranno il messaggio per noi appena ritornerà dalla sua attuale missione, ma è via da parecchio e non hanno avuto contatti con lui di recente.”

Hunk corrugò la fronte. “È…”

Shiro sospirò e annuì. “Già.”

Lasciarono cadere la conversazione quasi con sollievo e Lance, turbato, rimase bloccato su quella parola. Keith. Non sapeva a chi apparteneva quel nome ed era paralizzato da come aveva reagito. Voleva inseguire quel sentimento, chiedere spiegazioni, ma un’ondata di paura irrazionale lo investì.

Si schiarì la voce. “Qualcuno… qualcuno può spiegarmi cos’è successo?” La sua voce era un po’ rauca e si cinse le spalle, forse sentendosi troppo esposto nonostante la consapevolezza che tutti in quella stanza tenevano a lui. O, per lo meno, a chi era stato. Chiunque lui fosse.

Allura fu la prima a parlare interrompendo quella pausa imbarazzante. “Eravamo in missione per salvare una base Galra da un raggio di radiazioni. Stavo per essere colpita da un’ondata di corrente quando mi hai spinta via.” Spiegò a scatti, come se le fosse difficile far uscire quelle parole. “Quando sono entrata nel tuo leone, eri…”

Lui la fissò. La maggior parte delle cose che diceva erano prive di senso per lui, ma… “Ero cosa?”

“Morto.” Disse Pidge in tono piatto. “Eri morto.”

Lance si ritrovò a respirare a fatica di nuovo. Strabuzzò gli occhi e si strinse nelle braccia così forte da lasciare dei lividi sulla sua pelle, sentendo il sangue lasciargli il volto. L’oscurità. Quel nulla. Ecco perché non riusciva a ricordare; perché non c’era niente a cui attingere. Non avrebbe neanche dovuto essere lì. Tremò violentemente e si morse il labbro a sangue.

Allura lo afferrò per la caviglia come per tenerlo ancorato, ma il suo respiro bruciava e si liberò dalla sua presa con uno scatto per raccogliere le ginocchia al petto, rannicchiandosi su sé stesso. Lei sussultò e si fece indietro, mentre Hunk emise un verso di incredulità. Il resto delle facce intorno a lui erano sformate dalla preoccupazione e dalla pietà e forse anche da qualcos’altro. “Pidge, woah, potevi essere più delicata!” Disse Hunk, la voce tremula.

Lei lo guardò corrucciata, ma la sua espressione era fragile. “Cosa vuoi che faccia, che gli imbocchi gentilmente la verità? Doveva sapere! È importante!”

Shiro intervenne con voce ferma e ragionevole. “Non dobbiamo indorargli la pillola, ma Hunk ha ragione. Dimenticare non è facile e dovremmo tenerlo a mente finché Lance si abitua.”

Ci fu un mormorio di assenso come se Shiro sapesse di cosa stava parlando, ma Lance era unicamente concentrato a riprendere fiato o a non disperdersi nell’aria. Si passò una mano tremante tra i capelli, sentendo di essere sull’orlo di una fottuta crisi di nervi.

“Q-quindi… perché sono vivo?” Chiese in un soffio, passandosi la lingua sulle labbra secche. La sua voce si spezzò come vetro.

“Ti ho salvato.” Rispose Allura, ma anche la sua voce era piena di emozione. “Conosco l’alchimia di Altea, che si occupa di quintessenza. Quando sei stato colpito, io… non so come ho fatto a ritrovare la tua quintessenza, ma sono riuscita a riportarla indietro e poi ti sei svegliato.”

Inspirò. Espirò. Annuì. C’erano così tante parole che gli erano sconosciute. Abbracciò le sue ginocchia strette. “Dove sono?”

Coran si intromise, alzando un dito al cielo. “Sei nel Castello dei Leoni, che è il nostro quartier generale per la nostra battaglia per l’universo – anche se le cose sono relativamente pacifiche ora. Sei un paladino di Voltron e-” Si interruppe, notando l’espressione spiazzata di Lance. “Oh… Temo che siano molte informazioni in una volta sola, vero?”

Lance gli rivolse un sorriso che non era forzato, ma che non gli sembrava giusto comunque. “Sì, uh… forse… forse mi bastano le basi? Sono…” Era stanco. Così tanto stanco. Non voleva più pensare.

Shiro sembrò capire. “Ti lasciamo un po’ di spazio. Hunk, dato che conosci Lance da più tempo, ti dispiace?”

“Per niente.” Rispose subito l’altro.

Il resto di loro lo salutò. Allura indugiò un momento e sembrava che anche Pidge avrebbe preferito restare, ma si morse il labbro e seguì gli altri fuori dalla stanza.

Così, Hunk spostò la sedia dove si era seduta Pidge poco fa vicino al letto e si sedette. “Okay, Lance, che cosa vuoi sapere? Non voglio scaricarti tutto addosso e sembri abbastanza stanco.”

Lance appoggiò il mento sulle braccia, guardando Hunk con fare cauto. Voleva chiedergli cosa intendeva Coran con la cosa del salvare l’universo, o che cosa significasse la parola Altea, o forse perfino che cosa fosse un castello dei leoni. Forse voleva chiedergli come mai tutti loro fossero finiti lì insieme, dovunque si trovasse questo “lì”, ma Lance si ritrovò ben altre parole sulla lingua che gli sfuggirono dalle labbra prima che potesse fermarle.

“Chi è Keith?”

Hunk sembrò sorpreso dalla domanda, come se fosse l’ultima cosa che si sarebbe aspettato di sentire. “Keith?” Ripeté come per assicurarsene, e Lance esitò prima di annuire. Hunk si appoggiò allo schienale della sedia e studiò Lance con attenzione. “Lui fa, uh, ha fatto parte del nostro team per un bel po’ di tempo, ma si è unito a un gruppo chiamato La Spada di Marmora circa un anno fa. Sono nostri alleati.”

Lance sbirciò il materasso su cui era seduto, arricciando le dita dei piedi sotto le coperte e abbracciando le ginocchia ancora più strette.

 “Tu e Keith litigavate un sacco, ma penso che steste imparando a lavorare insieme quando se n’è andato.” Dopo un momento, aggiunse con voce lenta e bassa. “Per caso… ti ricordi di lui?”

La parola Keith gli era del tutto sconosciuta. Del tutto. Quando Hunk l’aveva pronunciata la prima volta, era stato come sentire quel nome per la prima volta, pronunciarlo in quella sua nuova esistenza dove niente aveva un senso. Per un attimo, Lance ci pensò, ma non trovò neanche un’ombra, nemmeno il più piccolo indizio. Non riusciva a immaginarsi che aspetto avesse Keith o che suono avesse la sua voce o quello su cui a quanto pare litigavano spesso. Non c’era niente prima di quell’improvviso lampo di luce rossa che l’aveva accolto al suo risveglio.

Eppure, a sentirlo in quel momento, quel nome gli aveva fatto sentire un peso nello stomaco che prima non c’era. Pesante, denso e in qualche modo vuoto al tempo stesso, come se il vuoto stesso stesse cercando di schiacciarlo. Qualcosa a cui non riusciva a dare un nome, che gli faceva male, gli ostruiva la gola e gli faceva bruciare gli occhi. Sarebbe stato allarmante se non si fosse trattato dell’unico legame con la persona che lui era dall’altra parte di quel buio, buissimo muro che c’era nella sua mente.

“No.” Mormorò Lance, fissando intensamente le lenzuola bianche e domandandosi se avesse mai mentito su Keith prima. Si domandò perché stava mentendo in quel momento. “No, per niente. È solo che voi… sembravate preoccupati per lui.”

Hunk annuì. “Sì, non volevamo che se ne andasse, ma Keith fa quello che vuole e non siamo riusciti a fermarlo.” Ridacchiò, ma non era un suono felice.

Lance aggrottò la fronte. Voleva chiedergli di più su Keith, rincorrere l’unica pista che aveva su una vita che non ricordava, ma c’erano così tante cose più importanti che non sapeva, quindi mise quel sentimento senza nome da parte e si impose di non piangere. Keith. Si tenne quel nome vicino.

“Hunk?” Lance saggiò quel nome sulla lingua.

“Sì, amico?”

“Puoi raccontarmi di me?”

Lance apprese che veniva da una famiglia numerosa: aveva dei genitori affettuosi, due fratelli maggiori, una sorellina e due nipoti. Che veniva da un’isola di nome Cuba sul pianeta Terra e che l’oceano era stato il suo primo amore. Hunk gli raccontò tutte le storie divertenti che si ricordava sulla sua famiglia e Lance lo ascoltò rapito, quasi sollevato di sentire che veniva da una famiglia così piena di amore, ma anche nauseato perché si era dimenticato tutto.

Non riusciva a ricordare che aspetto avesse sua madre né come suo padre sorrideva, e faceva male. Non ricordava che cosa aveva provato quando aveva tenuto la sua nipotina tra le braccia per la prima volta o che suono avesse la risata della sua sorellina o quanto fosse bello essere lo zio preferito del suo nipotino. Fece del suo meglio per trattenersi mentre Hunk gli raccontava tutto – perché per quanto fosse brutto non ricordare, il non sapere era peggio –, e finalmente il discorso scemò verso argomenti meno delicati.

Hunk prese a parargli del Garrison mentre si concedevano uno spuntino e poi gli fece fare un breve tour delle stanze più importanti del castello (che Lance comprese essere una nave spaziale – ah già, era nel bel mezzo del fottuto spazio). Dopo un ulteriore incontro imbarazzante con il resto del gruppo (Coran e Allura erano alieni, a quanto pareva; Lance non capì perché si fosse stupito), Hunk lo condusse verso i dormitori, che si trovavano in un lungo e freddo corridoio.

“…ed ecco perché sono conosciuto come Hunk.” Hunk sorrise, fermandosi. “Okay, amico, questa è la tua fermata.” Diede un colpetto alle porte e gli indicò un pannello da toccare. “Se ha bisogno di qualcosa, sono due porte più in là.”

Lance appoggiò la mano sul pannello e la porta si aprì. “Di chi è quella stanza?” Chiese, indicando la stanza di fianco alla sua. Non era una domanda così importante, ma gli sfuggì senza pensarci. Era comunque bene sapere vicino a chi avrebbe dormito.

“Oh, è la vecchia stanza di Keith, quindi è vuota.”

Keith. Quel nome gli si attaccò addosso nuovamente. Doloroso. Insistente.

Annuì lentamente riprendendosi da quell’improvvisa imboscata da parte dei suoi sentimenti perché ma che cazzo e rivolse a Hunk un sorriso esitante. “Grazie per tutto.”

Hunk sogghignò e poi sospirò. “Di niente! Uh… So che non mi conosci davvero, o meglio, che non ti ricordi più di me, credo, ma non è che… posso abbracciarti?”

“Ci abbracciavamo spesso prima?”

Hunk sembrava imbarazzato. “Circa? Immagino di sì.”

Lance non era ancora sicuro di niente, ma Hunk era stato così gentile e disponibile da quando si era risvegliato che si trovava quasi a suo agio con lui. Esitò solo per un attimo prima di allargare a malapena le braccia. Le labbra di Hunk si allargarono in un sorriso e il ragazzo fece un passo avanti, avvolgendolo in un abbraccio che sapeva di familiarità. Lance cacciò un urletto di sorpresa, irrigidito.

“Oh amico, Lance, mi hai davvero fatto preoccupare ieri.” La voce di Hunk era morbida e bassa, quasi incrinata. “Sono così felice che tu stia bene. Non so cos’avrei fatto senza di te.”

Lance ricambiò l’abbraccio lentamente avvolgendo le braccia intorno alla vita di Hunk e appoggiò il viso sulla sua spalla. E non si sentiva bene, per niente, ma era decisamente meglio che non sentire niente. “Già… mi dispiace.”

Hunk si ritrasse, ridacchiando. “No, non ti scusare. Va tutto bene. Sei qui ora e ti aiuteremo tutti.” Lance sorrise di nuovo ma non se lo sentiva; incrociò le braccia al petto e guardò di sottecchi la stanza buia che doveva essere la sua. Hunk dovette notarlo perché fece un paio di passi indietro e lo salutò con la mano. “Ti lascio riposare ora. Fammi sapere se hai bisogno di qualcosa.”

Lance si prese del tempo per acclimatarsi alla sua stanza. Spulciò tra i vestiti appesi nell’armadio e si mise qualcosa di più comodo per dormire. C’erano delle foto alle pareti, foto di paesaggi che gli erano, prevedibilmente, per nulla familiari. Dall’altra parte della stanza c’erano uno specchio, un paio di bottigliette di lozione e qualcosa di cremoso che emanò un profumo dolce quando lo aprì.

Oltre a quello, non c’era molto che potesse fornirgli indizi su chi era e… era deludente oltre ogni dire. Era come se Lance non fosse mai vissuto lì per davvero. Accigliato, iniziò ad aprire i cassetti della madia appoggiata al muro più lontano cercando qualcosa, qualunque cosa, che avrebbe potuto fornirgli un indizio e trattenne il fiato quando trovò nell’ultimo cassetto un quaderno e una manciata di penne ficcate malamente sopra a delle lenzuola pulite.

A un primo sguardo, il quaderno sembrava vuoto. Il che era una buona cosa perché Lance avrebbe potuto usarlo per scrivere quello che aveva imparato. Per categorizzare le informazioni e assicurarsi che non avrebbe perso più niente. Ma mentre sfogliava velocemente le pagine una seconda volta – non si poteva mai sapere – trovò una pagina vicino alla fine del quaderno che era stata strappata e ripiegata, come se non dovesse essere trovata.

Il suo cuore batteva velocemente quando lasciò cadere il quaderno nel letto dietro di lui e aprì la carta spiegazzata. Il respiro gli si fermò per una seconda volta in quei pochi minuti quando capì di cosa si trattava.

Era una lettera.

O meglio, avrebbe dovuto esserlo. Era completamente bianca, fatta eccezione per…

Nell’angolo in alto del foglio c’era un nome con una piccola virgola dopo, indice del fatto che c’era altro da aggiungere, al tempo. Però non c’era niente se non una distesa di bianca, pulita e intonsa carta. Un silenzio scritto. Lance sentì la stessa fitta di prima agitarsi dentro di lui, appesantendo il suo cuore e il suo respiro e perfino le sue ossa, sprofondando sempre più. Le sue mani tremarono mentre accarezzava teneramente con il pollice le curve precise di quel nome, e non riuscì più a trattenersi.

Le lacrime che aveva trattenuto tutto il giorno tornarono prepotentemente tutte in una volta sola e Lance strinse le dita sulla carta e scoppiò a piangere. Era un pianto orribile, pesante, gutturale anche se cercava di soffocarlo contro il palmo della mano. Gli grattava la gola e i suoi occhi erano doloranti e pieni di sale e acqua. Pianse per la sua famiglia, che lo amava così tanto e che non riusciva nemmeno a ricordare. Si sentiva così in colpa per averla dimenticata perché che razza di persona era? Dimenticarsi della propria famiglia così facilmente…

Pianse per il gruppo di persone su quella nave, che si erano preoccupate così tanto per lui e che non riusciva neanche a guardare da quanta era la vergogna che lo tormentava per la sua memoria vuota. Pianse per Allura, che sembrava sentirsi colpevole tanto quanto lui, per Hunk, che era stato così buono e gentile anche se non doveva essere stato facile parlare con un migliore amico che non si ricorda più d te.

Pianse per sé stesso, perché non era forte abbastanza per ricordare. Pianse perché non sarebbe più stato lo stesso e perché non sapeva che tipo di persona era e pianse perché quella era la parte peggiore di tutte: non sapere neanche che cosa stesse piangendo.

Pianse per quella lettera mai scritta, che diceva troppo e niente allo stesso tempo.

Pianse e pianse fino a quando non gli rimase più niente, fino a quando fu sicuro che non avrebbe più pianto per quello. Una volta che il suo respiro fu tornato regolare e che il sale sulle sue guance si fu seccato andò in bagno e si lavò le lacrime dal viso con uno dei saponi che erano nella sua madia. C’era qualcosa che lo calmava in quel profumo; non era certo la memoria, per niente, ma forse era quello il punto.

Dopodiché, si accoccolò nel letto e passò circa un’ora a scrivere nel quaderno tutto quello che Hunk gli aveva detto. Quando non riuscì più a scrivere, esausto, spense la luce. Non sapeva perché avesse piegato nuovamente quella lettera bianca né perché la stesse lisciando tra il pollice e l’indice. Pensò che forse era strano che ci si aggrappasse nel buio prima di andare a dormire. Ma era l’unica prova tangibile del suo passato. Era rassicurante in qualche modo dopo quella marea di lacrime.

Mentre era steso a letto e il sonno lo stava per prendere, pensò a come non si era ricordato il suo nome quando si era svegliato, nemmeno la sua stessa voce. E in quel momento stava guardando il soffitto della sua stanza buia con gli occhi stanchi e una lettera piegata tra le mani, pensando alla parola che era scritta così meticolosamente all’inizio del foglio.

Una parola. Keith.

Doveva significare qualcosa. Per lui, sentirsi così quando tutto il resto non gli faceva sentire niente, doveva significare qualcosa.


Il mattino seguente, Pidge attirò l’attenzione di Lance dopo la colazione; la ragazza sembrava molto più in forma del giorno prima. “Ho un’idea.” Disse a mo’ di saluto, trascinandolo in una stanza con divanetti e luci calde. C’erano delle finestre ampie che mostravano il vasto vuoto dello spazio e Lance distolse lo sguardo, nervoso. Stava ancora cercando di abituarsi all’idea del viaggio nello spazio.

“Okay?” Rispose Lance, perché cos’altro avrebbe dovuto dire? Si sentiva ancora vulnerabile dopo aver pianto per quasi un’ora la notte prima, ma il fatto che quasi tutti gli avessero parlato, cercando di farlo rilassare e senza metterlo sotto pressione, aveva aiutato.

Pidge si spaparanzò sul divano e posò sulle gambe un dispositivo che era sul tavolo. Lance la assecondò con esitazione e diede un’occhiata a Hunk, che era entrato di corsa nella stanza dopo averli seguiti lungo il corridoio. “Okay, so che sei ancora in modalità storia o che altro per capire cosa sta succedendo, ma sono rimasta sveglia tutta la notte pensando a un modo per ripristinare la tua memoria.”

Lance si fece subito sospettoso, ma Hunk rispose entusiasta. “Oh, davvero?”

Pidge annuì. “Sì. Possiamo farlo alla buona vecchia maniera e stimolarla con qualcosa di familiare, per intenderci, ma se non dovesse funzionare penso di poter collegare il mio computer al leone rosso e vedere se i tuoi ricordi sono rimasti bloccati lì.”

“Ohhh, sì, ha senso.” Disse Hunk entusiasta. “Con la connessione mentale, gusto?”

Pidge gli rivolse un sorriso luminoso. “Esatto! Se dovesse essere così, se la sua memoria fosse lì dentro, potremmo estrarla e creare un ologramma come quello di Re Alfor. In questo modo avrebbe almeno accesso a pensieri a ricordi che nessun’altro potrebbe raccontargli.”

Lance non riuscì a trovare un solo motivo per cui non avrebbero dovuto provarci… Ecco, avrebbe dovuto sentirsi emozionato al pensiero di riottenere la sua memoria, no? Non si sarebbe più sentito confuso e tutto avrebbe avuto un senso di nuovo e avrebbe ricordato la sua famiglia e i suoi amici e avrebbe saputo. Li avrebbe voluti indietro i suoi ricordi se ce ne fosse stata la possibilità; ne sarebbe stato felice in un modo quasi ansioso, ma… ma c’era qualcosa di così definitivo in quel muro nella sua mente. Non era qualcosa di elastico, non c’era luce intorno ai bordi e non voleva… non voleva avere troppe aspettative, okay?

Già.

Ma non sapeva come dirglielo. Non voleva spegnere(?) l’entusiasmo che illuminava il volto di Pidge, quindi non disse nulla. Fece un bel respiro. Si concentrò nuovamente.

Lance inarcò un sopracciglio. “Il leone rosso?” L’immagine che aveva nella sua mente non corrispondeva per niente a quello di cui stavano parlando, anche se l’argomento leoni era stato menzionato nelle precedenti 24 ore.

La cosa innescò una conversazione su cosa fosse esattamente quel Voltron che Coran aveva menzionato la notte precedente, soprattutto dopo che Pidge si domandò, incredula, perché Hunk non gliene avesse parlato la notte prima. Quando finirono di spiegargli il minimo indispensabile sui paladini, i leoni e il difendere l’universo – inclusi gli ultimi avvenimenti con il principe Lotor a capo dell’Impero Galra – Lance si sentiva il cervello fritto.

“Vuoi vedere il tuo leone?”

Lance guardò Hunk con degli occhi grandi come piattini da tè e si tirò su a sedere con interesse. “Posso?”

“Uh, ma certo, amico. Abbiamo bisogno di te per formare Voltron, quindi dovrebbe essere una buona idea farti tornare lì dentro per legare con Rosso. Sempre che dobbiate legare di nuovo, immagino.”

Pidge sorrise. “Forse aiuterà a farti ricordare qualcosa? Tu ami volare, Lance.”

Lance decise che gli suonava… giusto. L’idea di sfrecciare per aria, completamente sotto controllo… sì. Fece un piccolo rumore di assenso.


Okay, dunque… Lance non era sicuro di cosa aspettarsi quando gli avevano raccontato di robot leoni volanti magici nello spazio, ma porca vacca, amico, non si immaginava di certo quello. Hunk lo condusse al suo hangar e lo lasciò solo poco dopo avergli spiegato che la connessione con il proprio leone era qualcosa che si faceva da soli.

Lance alzò lo sguardo rapito e ammirò il robot alieno per un bel po’. Lui pilotava quella cosa? Doveva essere bravo a volare; il suo amore per il volo doveva venire dal suo talento. Pidge gli aveva detto che i leoni erano senzienti, in qualche modo, quindi Lance strinse le labbra, sollevato dal fatto di essere solo, e si diresse verso una di quelle zampe giganti per posare la mano su un artiglio.

“Ehi, uh… Rosso? È così che ti chiamano?”

Sentì qualcosa scorrergli sottopelle e riconobbe quella sensazione: l’aveva sentita quando si era svegliato per la prima volta. Una punta di terrore gli fece quasi staccare la mano, ma quella sensazione era rassicurante e si lasciò andare al sollievo di quel qualcosa di così caldo, quasi protettivo.

“Oddio, sei… sei tu?” Si sforzò di guardare più in alto che poteva, allungando il collo. Non riusciva a dare un nome alle emozioni che zampillavano in lui, sapeva solo che lo facevano sentire bene, che era felice di trovarsi lì. Relegava i pensieri della sua perdita di memoria e di cocente delusione lontano dalla sua mente. “Grazie. Io…”

Non sobbalzò quando il leone si mosse, la testa che toccava il suolo mentre le fauci si spalancavano per attirarlo al suo interno. Non c’era esitazione in lui ed entrò con facilità, con fervore, domandandosi se ci fosse qualcosa lì dentro che potesse parlargli del suo passato. Rallentò quando raggiunse la cabina di pilotaggio e la riconobbe immediatamente.

Allura chinata sopra di lui, le sopracciglia aggrottate. La luce rossa.

Prima che il panico potesse paralizzarlo, una sensazione di calore lo avvolse di nuovo, come delle fusa. Calmò i suoi nervi a pezzi e rese ferme le mani che gli tremavano. Gli vibrò fin nelle ossa, oltre la superficie della pelle. Lance non si era mai sentito così al sicuro da quando aveva memoria.

Emise una risata tremula. “Grazie di nuovo… ah, immagino che anche tu sia rimasto colpito duramente come me, vero? Mi dispiace, colpa mia. Prometto che mi farò perdonare.” Si fece strada verso la poltrona del pilota e si sedette, appoggiando la testa al poggiatesta e sentendo un’altra ondata di struggente sollievo. Poteva sentire l’ansia scorrere sotto la superfice – pensieri sul non essere forte abbastanza, la sua colpevolezza che ribolliva lenta – ma era completamente eclissata dalla presenza di Rosso.

“E quindi hai scelto me.” Mormorò, ricordando che Hunk gli aveva descritto il processo per diventare un paladino. “Perché?”

Il suo stomaco affondò quando sentì la risposta nella sua testa come un susseguirsi di pensieri e spiegazioni, messe lì dal leone. Lance strinse i braccioli quando il nome di Keith gli attraverso la mente, facendolo sentire elettrico. Non riuscì a concentrarsi su nient’altro e lo sentì di nuovo nelle viscere, l’effetto che quel nome aveva sul di lui. Sussultò per la sorpresa e il dolore, colto alla sprovvista.

“Keith era tuo?” Rispose Lance senza fiato, la voce tinta di dolore.

. Lance pensò un pensiero che non gli apparteneva. Sì, era così. Keith apparteneva a Rosso. C’era tenerezza in quell’affermazione. Nostalgia.

Tirò fuori la lettera dalla tasca dove l’aveva ficcata quando si era svegliato e vestito quella mattina. La aprì. Fissò il nome di Keith scritto con sicurezza nell’angolo del foglio. “Perché hai scelto me?” Si domandò Lance con voce fievole. Perfino la presenza rassicurante di Rosso non riuscì a calmare la disperazione che provava nel cercare di capire perché tutto sembrava condurre a Keith.

Rosso gli rispose di nuovo altri pensieri che Lance non aveva pensato. Io ho scelto Keith. Sbatté le palpebre guardando la lettera bianca. Era una risposta stupendamente semplice che significava più di quello che poteva comprendere. Rosso aveva scelto lui perché lui aveva scelto Keith. Come leader. L’ho accettato come paladino nero.

Rosso riversò altri pensieri e idee nella sua testa: come Lance era appartenuto a Blu e come tutto era cambiato quando Shiro era scomparso. Tutto questo in pochi attimi e Lance si ritrovò a lottare per riprendere il respiro, le mani che stringevano la lettera in una presa così salda da doverci impiegare un momento per scioglierla. Era troppo. Non c’era niente della sua vita dietro a quella lavagna bianca che non fosse strana e grande, ed era spaventoso.

“Mi dispiace.” Sussurrò Lance. “Ti manca.” Keith.

Sì. Il pensiero era sicuro e pesante. Poteva sentire il legame che Rosso condivideva con Keith, quanto forte fosse, quanto Rosso avesse reagito con violenza quando Keith era in pericolo e quando Keith aveva amato Rosso per quello. Poi si sentì rassicurato, una sorta di blocco a quella nostalgia. Lance sentì l’impeto di voler essere desiderato ed esalò un lungo e lento sospiro. Abbandonò le mani sulle cosce, tenendo ancora stretta la lettera, e chiuse gli occhi con sollievo.

“Grazie.” Disse piano “Grazie.”

Sentì un ronzio fievole sottopelle in risposta. Rimise via la lettera con cura e si sistemò per prendere i controlli pilota. Li sentiva caldi sotto i palmi delle mani, quasi vibranti di energia, e si sentiva bene.

“Ci proviamo di nuovo?”

Questa volta Rosso ringhiò di felicità, facendolo scoppiare a ridere dalla sorpresa.

Pidge aveva ragione. Lance amava volare.


Passò i giorni successivi ad adattarsi.

Era così che lo definiva Shiro. Adattarsi. Forse valeva per il resto del team, ma per Lance era tutto nuovo. Per quanto gli altri fossero stati gentili e accoglienti, non si sentiva ancora a suo agio dopo che la confusione iniziale lo aveva abbandonato e preferiva rimanere solo. C’era una certa distanza tra lui e il gruppo, e sapeva che lui non era la stessa persona di prima, anche se nessuno gliel’aveva detto. Pensò che forse avrebbe potuto esserlo, con il tempo, e questo lo fece sentire ancora più distante. Si sentiva solo.

Hunk era la persona con cui si sentiva più a suo agio, con quella sua aura di gentilezza e il modo in cui non lo forzava. Invece, riusciva a malapena a parlare con Shiro senza sentirsi a disagio. Shiro la prendeva bene, ma questo non rendeva certo la situazione meno strana.

Pidge e Allura non si facevano vedere spesso per svariati motivi. Pidge stava cercando di estrarre le memorie di Lance da Rosso, il che la teneva occupata nei momenti liberi in cui non saltava da un aggeggio tecnologico all’altro.

Allura stava lavorando con il principe Lotor a un progetto che Lance non aveva ben capito, ma aveva la sensazione che lo stesse anche evitando. Si chiese se avesse fatto qualcosa che l’aveva offesa prima di morire o se avesse visto qualcosa nella sua morte di cui non voleva parlare. Aveva paura di scoprirlo, quindi non si mise certo a correrle dietro.

Lance se la filava ogni volta che Coran entrava in una stanza dove si trovava anche lui, ma solo perché non capiva una singola fottuta parola di quello che usciva dalla bocca di quell’uomo. Lo rendeva irritabile. Hunk menzionò en passant che in realtà nessuno sapeva quello che Coran diceva, il che fece sentire Lance un pochino meglio, ma solo un po’. Almeno gli altri riuscivano a decifrare quello che diceva aiutandosi con quello che sapevano e Lance non sapeva niente.

I momenti in cui Lance si sentiva meglio, però, erano quando poteva muoversi e non essere bloccato in qualche strana conversazione. Passava molto tempo a volare con Rosso, il che gli veniva naturale, quindi la parte più difficile veniva nella stanza di allenamento. La sua arma cambiava forma, il che gli dava il doppio delle distrazioni per affinare le sue tecniche di tiro e per praticare il combattimento corpo a corpo con i droni. La memoria del corpo faceva meraviglie: era veloce e flessibile e il suo tempo di reazione era così impressionante che non capiva cos’aveva fatto se non quando l’allenamento era terminato.

Una settimana più tardi, Shiro e La Spada di Marmora organizzarono una breve chiamata per scambiarsi i progressi fatti da entrambe le parti, e tutto cambiò. Lance e il resto dei paladini si erano riuniti per ascoltare il rapporto e Lance aveva la mano infilata in tasca per tenere stretta quella stupida lettera come se avesse potuto estrarne qualcosa.

In tutta onestà, c’erano solo due cose che lo confortavano: la lettera e Rosso. Iniziava a pensare che non fosse una coincidenza il fatto che erano entrambi legati a Keith. Non sapeva niente della Spada o di quello che Keith faceva con loro, ma quando venne a sapere di quella chiamata sentì una speranza feroce bruciare in lui. La sola intensità del suo desiderio di vedere Keith lo spiazzava, lo terrorizzava. Era troppo impegnato a pensare a quell’intensità per prestare attenzione allo scambio di informazioni.

“Novità su Keith?” Chiese Shiro quasi alla fine della chiamata, richiamando violentemente l’attenzione di Lance. La stanza si fece silenziosa e tutti trattennero il fiato. Lance si aggrappò alla lettera così forte da sentirla accartocciarsi sotto le dita.

L’espressione di Kolivan non cambiò. “Nessuna. Abbiamo perso tutti i contatti.”

Lance sbatté le palpebre perché… che cosa?

Un fragore scoppiò nella stanza quando i membri del team iniziarono a chiedere risposte, ma non riusciva a sentirli, nascosti dal suono del suo stesso cuore. Riusciva a malapena a respirare. Abbiamo perso tutti i contatti. Quelle parole erano grevi di inappellabilità, come se Kolivan non si aspettasse di ricevere notizie di Keith. Mai più.

Quel peso lo opprimeva.

Era schiacciante.

E Lance non riusciva a respirare.

Gli si annebbiò la mente e sentì calore pizzicargli gli occhi, ed era un’agonia. Nessuno lo notò quando alzò i tacchi e se ne andò a testa alta, come se scappare avesse potuto distanziarlo fisicamente da quello che stava provando. I suoi passi rimbombavano e la sua camminata si trasformò in corsa. Non stava funzionando. Non riusciva ancora a respirare. L’idea che Keith fosse disperso, la possibilità che fosse morto da qualche parte, gli lacerò il cuore come un coltello. Non poteva sopportarlo.

Ritrovò la lucidità nel dolore con rapidità e gli fece male; riuscì a raggiungere il corridoio dove si trovavano le loro stanze e si accasciò contro il muro, le lacrime che gli sgorgavano dagli occhi, per poi sedersi a terra. Affondò la faccia nelle mani, facendo dei respiri strozzati, il freddo del pavimento e della parete che lo comprimevano senza pietà. Sentiva la gola bruciare.

Come… Com’era possibile sentire la mancanza di qualcuno che non conosceva? Com’era fottutamente possibile?

Chi era Keith per essere così presente dentro di lui da poterne sentire l’eco anche dopo la morte? E, se erano così vicini, perché l’aveva lasciato solo? Chiunque fosse Keith, Lance voleva odiarlo. Desiderò di poterlo fare. Non voleva sentirsi così senza saperne il perché. Lance si morse il labbro e si asciugò le lacrime che gli correvano lungo le guance, cercando di cancellarle, ma altre lacrime presero il loro posto.

“Lance?”

Fece una smorfia e guardò in fondo al corridoio. Vide Allura in piedi, scossa dallo stato in cui l’aveva trovato, se poteva dedurne i sentimenti dal tono della voce di lei. Sentì l’imbarazzo arroventargli il corpo e la disperazione con cui voleva nascondere le lacrime aumentò, ma non poteva scappare da nessuna parte e, in ogni caso, le sue gambe erano troppo molli per sostenerlo.

“S-scusami.” Disse. La sua voce era spezzata; singhiozzò e si voltò, nascondendo il volto. “Scusami. I-io sarei dovuto rimanere, è stato scortese. Lo so. Lo so, mi dispiace. È solo che… è solo che i-io-”

Allura gli si avvicinò lentamente. “Stai bene?”

Un singhiozzo minacciò di farsi strada a forza, e Lance si morse forte il labbro scuotendo la testa. La vulnerabilità lo spaventava, ma lei era lì quando si era svegliato e, nonostante non sapesse perché Allura non gli avesse rivolto che brevi occhiate durante quella settimana, non era forte abbastanza per nasconderlo. Una parte di lui continuò a sperare di aver potuto raggiungere la sua camera prima di collassare al suolo, però.

“Cosa c’è che non va?” Mormorò lei in piedi di fronte a lui, accucciandosi.

Lance rise, ma era una risata dura e sarcastica. “Da dove comincio?” Tirò su col naso ed espirò tremante, cercando di riprendere il controllo. Si passò una mano pregna di sale tra i capelli.

Lei corrugò la fronte, ma era difficile leggere la sua espressione con gli occhi pieni di lacrime. “Si tratta di Keith? È un guerriero. Tornerà. Non è la prima volta che rimane in silenzio radio.”

Non gli importava di quello che era successo prima, il punto era che lo stesso leader della Spada credeva che Keith non fosse vivo. L’ultima persona con cui Keith aveva parlato non credeva che fosse vivo. Allura l’aveva seguito per consolarlo o cosa? Non le rispose. Non voleva che sapesse.

Lei lo prese come un no. “Allora… è a proposito della tua memoria?” Chiese gentilmente, posando una mano sul suo ginocchio. “Vuoi parlarne con qualcuno? Potrei chiamare Hunk.”

“Non voglio parlarne con Hunk.” Disse Lance, tagliente. La vide fare una smorfia e allontanarsi da lui, e sentì subito la colpevolezza colpirlo. “Scusami,” disse frettolosamente “È solo che… sono spossato ora.”

Lei annuì, ritraendo la mano, e si sedette. “Non c’è problema.” Fece un respiro profondo. “Lo capisco se non vuoi parlarne con me. So che è colpa mia se sei così ora.”

La confusione che lo assalì fu abbastanza da annullare il dolore. “Di che stai parlando?” Le chiese, guardandola direttamente. C’erano ancora lacrime agli angoli dei suoi occhi, ma scorrevano molto più lentamente.

Il volto di lei si contrasse in una smorfia di dolore e… e stava forse per mettersi a piangere? “Sono riuscita a salvarti la vita, ma non i tuoi ricordi.” Articolò e, a dispetto del suo volto, la sua voce era ferma. “Dovresti dare la colpa a me.”

Fu come ricevere uno schiaffo. “No, Allura. Io non- io non ti sto dando la colpa; mi hai salvato la vita. Tu mi hai salvato la vita. Non potrei mai fartene una colpa.”

“Davvero?” Chiese lei piano.

Scosse la testa e sfregò via un’altra lacrima. “Per niente al mondo.”

Le spalle di lei si rilassarono per il sollievo e quasi sorrise. “Sei così gentile, Lance. Quella parte di te non è cambiata affatto.”

Lance si pulì il naso con il collo della sua maglia, grato per quel complimento. “Grazie.” Mormorò. “Ma non ne voglio proprio parare.” Indicò la sua faccia incrostata di sale e le rivolse un sorriso fievole. “Scusami.”

Lei annuì dopo un attimo. “Non ti preoccupare, finché sai che ne puoi parlare con noi va bene. Io… mi dispiace che tu stia soffrendo. Odio doverti chiedere così tanto in circostanze come queste, ma dobbiamo pensare a Voltron. Abbiamo bisogno che tu sia forte.”

Nonostante le sue parole fossero quasi dure, fu l’unica cosa che lo fece stare meglio in quella settimana. Era quello di cui aveva bisogno: una spinta per andare avanti. “Non vi deluderò.” Promise.

Lei sorrise. “So che non lo farai.” Fece una pausa. “È quasi ora di cena. Vuoi venire con me?”

Il pensiero di mangiare lo repelleva così tanto che il suo stomaco si aggrovigliò. “Non ho fame. Penso che rimarrò qui per un po’.”

Allura passò i due minuti successivi a cercare di convincerlo ad andare con lei, ma Lance aveva solo bisogno di stare da solo e alla fine lei cedette. Aspettò che se ne fosse andata, si riprese, e si rimise lentamente in piedi per ritirarsi nella sua stanza. Quando la porta si richiuse dietro di lui, aveva terminato le lacrime. Si raggomitolò in un angolo del letto, la schiena poggiata alla parete, e prese a scrivere nel suo quaderno.

Perlomeno pensava di aver smesso di piangere. Sentì i suoi occhi bruciare al ricordo di quello che La Spada aveva detto su Keith, ogni parola tagliente e dolorosa. Pensò che Allura aveva fiducia nel fatto che Keith fosse ancora lì fuori da qualche parte e ci si aggrappò con tutto sé stesso. Scrisse tutto; anche di quando aveva pianto.

Quando ebbe finito posò la penna e accarezzò col dito l’ultima frase. C’era di più, pensò, c’era molto di più dietro a quello che era successo quel giorno e lui non voleva dimenticarsene.

Fece un respiro profondo, inspirò ed espirò; riprese in mano la penna e, con mano ferma, premette la punta sul foglio.

Penso di aver amato Keith, scrisse lentamente.

Penso di amarlo ancora.

 
   
 
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